Liturgia delle Ore - Letture
Venerdi della 4° settimana del tempo di Avvento e Natale
Vangelo secondo Marco 1
1Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio.2Come è scritto nel profeta Isaia:
'Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te,
egli ti preparerà la strada.'
3'Voce di uno che grida nel deserto:
preparate la strada del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri',
4si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.5Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.6Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, si cibava di locuste e miele selvatico7e predicava: "Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non son degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoi sandali.8Io vi ho battezzati con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo".
9In quei giorni Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni.10E, uscendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba.11E si sentì una voce dal cielo: "Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto".
12Subito dopo lo Spirito lo sospinse nel deserto13e vi rimase quaranta giorni, tentato da satana; stava con le fiere e gli angeli lo servivano.
14Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva:15"Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo".
16Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori.17Gesù disse loro: "Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini".18E subito, lasciate le reti, lo seguirono.19Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti.20Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono.
21Andarono a Cafàrnao e, entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù si mise ad insegnare.22Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi.23Allora un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mise a gridare:24"Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio".25E Gesù lo sgridò: "Taci! Esci da quell'uomo".26E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.27Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: "Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono!".28La sua fama si diffuse subito dovunque nei dintorni della Galilea.
29E, usciti dalla sinagoga, si recarono subito in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e di Giovanni.30La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei.31Egli, accostatosi, la sollevò prendendola per mano; la febbre la lasciò ed essa si mise a servirli.
32Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati.33Tutta la città era riunita davanti alla porta.34Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano.
35Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava.36Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce37e, trovatolo, gli dissero: "Tutti ti cercano!".38Egli disse loro: "Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!".39E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
40Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: "Se vuoi, puoi guarirmi!".41Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: "Lo voglio, guarisci!".42Subito la lebbra scomparve ed egli guarì.43E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse:44"Guarda di non dir niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato, a testimonianza per loro".45Ma quegli, allontanatosi, cominciò a proclamare e a divulgare il fatto, al punto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma se ne stava fuori, in luoghi deserti, e venivano a lui da ogni parte.
Secondo libro delle Cronache 32
1Dopo questi fatti e queste prove di fedeltà, ci fu l'invasione di Sennàcherib re d'Assiria. Penetrato in Giuda, assediò le città fortificate per forzarne le mura.2Ezechia vide l'avanzata di Sennàcherib, che si dirigeva verso Gerusalemme per assediarla.3Egli decise con i suoi ufficiali e con i suoi prodi di ostruire le acque sorgive, che erano fuori della città. Essi l'aiutarono.4Si radunò un popolo numeroso per ostruire tutte le sorgenti e il torrente che attraversava il centro del paese, dicendo: "Perché dovrebbero venire i re d'Assiria e trovare acqua in abbondanza?".5Ezechia si rafforzò; ricostruì tutta la parte diroccata delle mura, vi innalzò torri, costruì un secondo muro, fortificò il Millo della città di Davide e preparò armi in abbondanza e scudi.6Designò capi militari sopra il popolo; li radunò presso di sé nella piazza della porta della città e così parlò al loro cuore:7"Siate forti e coraggiosi! Non temete e non abbattetevi davanti al re d'Assiria e davanti a tutta la moltitudine che l'accompagna, perché con noi c'è uno più grande di chi è con lui.8Con lui c'è un braccio di carne, con noi c'è il Signore nostro Dio per aiutarci e per combattere le nostre battaglie". Il popolo rimase rassicurato dalle parole di Ezechia, re di Giuda.
9In seguito Sennàcherib, re d'Assiria, mandò i suoi ministri a Gerusalemme, mentre egli con tutte le forze assaliva Lachis, per dire a Ezechia re di Giuda e a tutti quelli di Giuda che erano in Gerusalemme:10"Dice Sennàcherib re d'Assiria: Di chi avete fiducia voi per restare in Gerusalemme assediata?11Ezechia non vi inganna forse per farvi morire di fame e di sete quando asserisce: Il Signore nostro Dio ci libererà dalle mani del re di Assiria?12Egli non è forse lo stesso Ezechia che ha eliminato le sue alture e i suoi altari dicendo a Giuda e a Gerusalemme: Vi prostrerete davanti a un solo altare e su di esso soltanto offrirete incenso?13Non sapete che cosa abbiamo fatto io e i miei padri a tutti i popoli di tutti i paesi? Forse gli dèi dei popoli di quei paesi hanno potuto liberare i loro paesi dalla mia mano?14Quale, fra tutti gli dèi dei popoli di quei paesi che i miei padri avevano votato allo sterminio, ha potuto liberare il suo popolo dalla mia mano? Potrà il vostro Dio liberarvi dalla mia mano?15Ora, non vi inganni Ezechia e non vi seduca in questa maniera! Non credetegli, perché nessun dio di qualsiasi popolo o regno ha potuto liberare il suo popolo dalla mia mano e dalle mani dei miei padri. Nemmeno i vostri dèi vi libereranno dalla mia mano!".
16Parlarono ancora i suoi ministri contro il Signore Dio e contro Ezechia suo servo.17Sennàcherib aveva scritto anche lettere insultando il Signore Dio di Israele e sparlando di lui in questi termini: "Come gli dèi dei popoli di quei paesi non hanno potuto liberare i loro popoli dalla mia mano, così il Dio di Ezechia non libererà dalla mia mano il suo popolo".
18Gli inviati gridarono a gran voce in ebraico al popolo di Gerusalemme che stava sulle mura, per spaventarlo e atterrirlo al fine di occuparne la città.19Essi parlarono del Dio di Gerusalemme come di uno degli dèi degli altri popoli della terra, opera di mani d'uomo.
20Allora il re Ezechia e il profeta Isaia figlio di Amoz, pregarono a questo fine e gridarono al Cielo.21Il Signore mandò un angelo, che sterminò tutti i guerrieri valorosi, ogni capo e ogni ufficiale, nel campo del re d'Assiria. Questi se ne tornò, con la vergogna sul volto, nel suo paese. Entrò nel tempio del suo dio, dove alcuni suoi figli, nati dalle sue viscere, l'uccisero di spada.22Così il Signore liberò Ezechia e gli abitanti di Gerusalemme dalla mano di Sennàcherib re d'Assiria e dalla mano di tutti gli altri e concesse loro la pace alle frontiere.23Allora molti portarono offerte al Signore in Gerusalemme e oggetti preziosi a Ezechia re di Giuda, che, dopo simili cose, aumentò in prestigio agli occhi di tutti i popoli.
24In quei giorni Ezechia si ammalò di malattia mortale. Egli pregò il Signore, che l'esaudì e operò un prodigio per lui.25Ma la riconoscenza di Ezechia non fu proporzionata al beneficio, perché il suo cuore si era insuperbito; per questo su di lui, su Giuda e su Gerusalemme si riversò l'ira divina.26Tuttavia Ezechia si umiliò della superbia del suo cuore e a lui si associarono gli abitanti di Gerusalemme; per questo l'ira del Signore non si abbatté su di essi finché Ezechia restò in vita.
27Ezechia ebbe ricchezze e gloria in abbondanza. Egli si costruì depositi per l'argento, l'oro, le pietre preziose, gli aromi, gli scudi e per qualsiasi cosa pregevole,28magazzini per i prodotti del grano, del mosto e dell'olio, stalle per ogni genere di bestiame, ovili per le pecore.29Si edificò città; ebbe molto bestiame minuto e grosso, perché Dio gli aveva concesso beni molto grandi.
30Ezechia chiuse l'apertura superiore delle acque del Ghicon, convogliandole in basso attraverso il lato occidentale nella città di Davide. Ezechia riuscì in ogni sua impresa.31Ma quando i capi di Babilonia gli inviarono messaggeri per informarsi sul prodigio avvenuto nel paese, Dio l'abbandonò per metterlo alla prova e conoscerne completamente il cuore.
32Le altre gesta di Ezechia e le sue opere di pietà ecco sono descritte nella visione del profeta Isaia, figlio di Amoz, e nel libro dei re di Giuda e di Israele.33Ezechia si addormentò con i suoi padri e lo seppellirono nella salita dei sepolcri dei figli di Davide. Alla sua morte gli resero omaggio tutto Giuda e gli abitanti di Gerusalemme. Al suo posto divenne re suo figlio Manàsse.
Giobbe 5
1Chiama, dunque! Ti risponderà forse qualcuno?
E a chi fra i santi ti rivolgerai?
2Poiché allo stolto dà morte lo sdegno
e la collera fa morire lo sciocco.
3Io ho visto lo stolto metter radici,
ma imputridire la sua dimora all'istante.
4I suoi figli sono lungi dal prosperare,
sono oppressi alla porta, senza difensore;
5l'affamato ne divora la messe
e gente assetata ne succhia gli averi.
6Non esce certo dalla polvere la sventura
né germoglia dalla terra il dolore,
7ma è l'uomo che genera pene,
come le scintille volano in alto.
8Io, invece, mi rivolgerei a Dio
e a Dio esporrei la mia causa:
9a lui, che fa cose grandi e incomprensibili,
meraviglie senza numero,
10che dà la pioggia alla terra
e manda le acque sulle campagne.
11Colloca gli umili in alto
e gli afflitti solleva a prosperità;
12rende vani i pensieri degli scaltri
e le loro mani non ne compiono i disegni;
13coglie di sorpresa i saggi nella loro astuzia
e manda in rovina il consiglio degli scaltri.
14Di giorno incappano nel buio
e brancolano in pieno sole come di notte,
15mentre egli salva dalla loro spada l'oppresso,
e il meschino dalla mano del prepotente.
16C'è speranza per il misero
e l'ingiustizia chiude la bocca.
17Felice l'uomo, che è corretto da Dio:
perciò tu non sdegnare la correzione
dell'Onnipotente,
18perché egli fa la piaga e la fascia,
ferisce e la sua mano risana.
19Da sei tribolazioni ti libererà
e alla settima non ti toccherà il male;
20nella carestia ti scamperà dalla morte
e in guerra dal colpo della spada;
21sarai al riparo dal flagello della lingua,
né temerai quando giunge la rovina.
22Della rovina e della fame ti riderai
né temerai le bestie selvatiche;
23con le pietre del campo avrai un patto
e le bestie selvatiche saranno in pace con te.
24Conoscerai la prosperità della tua tenda,
visiterai la tua proprietà e non sarai deluso.
25Vedrai, numerosa, la prole,
i tuoi rampolli come l'erba dei prati.
26Te ne andrai alla tomba in piena maturità,
come si ammucchia il grano a suo tempo.
27Ecco, questo abbiamo osservato: è così.
Ascoltalo e sappilo per tuo bene.
Salmi 89
1'Maskil. Di Etan l'Ezraita.'
2Canterò senza fine le grazie del Signore,
con la mia bocca annunzierò la tua fedeltà nei secoli,
3perché hai detto: "La mia grazia rimane per sempre";
la tua fedeltà è fondata nei cieli.
4"Ho stretto un'alleanza con il mio eletto,
ho giurato a Davide mio servo:
5stabilirò per sempre la tua discendenza,
ti darò un trono che duri nei secoli".
6I cieli cantano le tue meraviglie, Signore,
la tua fedeltà nell'assemblea dei santi.
7Chi sulle nubi è uguale al Signore,
chi è simile al Signore tra gli angeli di Dio?
8Dio è tremendo nell'assemblea dei santi,
grande e terribile tra quanti lo circondano.
9Chi è uguale a te, Signore, Dio degli eserciti?
Sei potente, Signore, e la tua fedeltà ti fa corona.
10Tu domini l'orgoglio del mare,
tu plachi il tumulto dei suoi flutti.
11Tu hai calpestato Raab come un vinto,
con braccio potente hai disperso i tuoi nemici.
12Tuoi sono i cieli, tua è la terra,
tu hai fondato il mondo e quanto contiene;
13il settentrione e il mezzogiorno tu li hai creati,
il Tabor e l'Ermon cantano il tuo nome.
14È potente il tuo braccio,
forte la tua mano, alta la tua destra.
15Giustizia e diritto sono la base del tuo trono,
grazia e fedeltà precedono il tuo volto.
16Beato il popolo che ti sa acclamare
e cammina, o Signore, alla luce del tuo volto:
17esulta tutto il giorno nel tuo nome,
nella tua giustizia trova la sua gloria.
18Perché tu sei il vanto della sua forza
e con il tuo favore innalzi la nostra potenza.
19Perché del Signore è il nostro scudo,
il nostro re, del Santo d'Israele.
20Un tempo parlasti in visione ai tuoi santi dicendo:
"Ho portato aiuto a un prode,
ho innalzato un eletto tra il mio popolo.
21Ho trovato Davide, mio servo,
con il mio santo olio l'ho consacrato;
22la mia mano è il suo sostegno,
il mio braccio è la sua forza.
23Su di lui non trionferà il nemico,
né l'opprimerà l'iniquo.
24Annienterò davanti a lui i suoi nemici
e colpirò quelli che lo odiano.
25La mia fedeltà e la mia grazia saranno con lui
e nel mio nome si innalzerà la sua potenza.
26Stenderò sul mare la sua mano
e sui fiumi la sua destra.
27Egli mi invocherà: Tu sei mio padre,
mio Dio e roccia della mia salvezza.
28Io lo costituirò mio primogenito,
il più alto tra i re della terra.
29Gli conserverò sempre la mia grazia,
la mia alleanza gli sarà fedele.
30Stabilirò per sempre la sua discendenza,
il suo trono come i giorni del cielo.
31Se i suoi figli abbandoneranno la mia legge
e non seguiranno i miei decreti,
32se violeranno i miei statuti
e non osserveranno i miei comandi,
33punirò con la verga il loro peccato
e con flagelli la loro colpa.
34Ma non gli toglierò la mia grazia
e alla mia fedeltà non verrò mai meno.
35Non violerò la mia alleanza,
non muterò la mia promessa.
36Sulla mia santità ho giurato una volta per sempre:
certo non mentirò a Davide.
37In eterno durerà la sua discendenza,
il suo trono davanti a me quanto il sole,
38sempre saldo come la luna,
testimone fedele nel cielo".
39Ma tu lo hai respinto e ripudiato,
ti sei adirato contro il tuo consacrato;
40hai rotto l'alleanza con il tuo servo,
hai profanato nel fango la sua corona.
41Hai abbattuto tutte le sue mura
e diroccato le sue fortezze;
42tutti i passanti lo hanno depredato,
è divenuto lo scherno dei suoi vicini.
43Hai fatto trionfare la destra dei suoi rivali,
hai fatto gioire tutti i suoi nemici.
44Hai smussato il filo della sua spada
e non l'hai sostenuto nella battaglia.
45Hai posto fine al suo splendore,
hai rovesciato a terra il suo trono.
46Hai abbreviato i giorni della sua giovinezza
e lo hai coperto di vergogna.
47Fino a quando, Signore,
continuerai a tenerti nascosto,
arderà come fuoco la tua ira?
48Ricorda quant'è breve la mia vita.
Perché quasi un nulla hai creato ogni uomo?
49Quale vivente non vedrà la morte,
sfuggirà al potere degli inferi?
50Dove sono, Signore, le tue grazie di un tempo,
che per la tua fedeltà hai giurato a Davide?
51Ricorda, Signore, l'oltraggio dei tuoi servi:
porto nel cuore le ingiurie di molti popoli,
52con le quali, Signore, i tuoi nemici insultano,
insultano i passi del tuo consacrato.
53Benedetto il Signore in eterno.
Amen, amen.
Daniele 7
1Nel primo anno di Baldassàr re di Babilonia, Daniele, mentre era a letto, ebbe un sogno e visioni nella sua mente. Egli scrisse il sogno e ne fece la relazione che dice:
2Io, Daniele, guardavo nella mia visione notturna ed ecco, i quattro venti del cielo si abbattevano impetuosamente sul Mar Mediterraneo3e quattro grandi bestie, differenti l'una dall'altra, salivano dal mare.4La prima era simile ad un leone e aveva ali di aquila. Mentre io stavo guardando, le furono tolte le ali e fu sollevata da terra e fatta stare su due piedi come un uomo e le fu dato un cuore d'uomo.
5Poi ecco una seconda bestia, simile ad un orso, la quale stava alzata da un lato e aveva tre costole in bocca, fra i denti, e le fu detto: "Su, divora molta carne".
6Mentre stavo guardando, eccone un'altra simile a un leopardo, la quale aveva quattro ali d'uccello sul dorso; quella bestia aveva quattro teste e le fu dato il dominio.
7Stavo ancora guardando nelle visioni notturne ed ecco una quarta bestia, spaventosa, terribile, d'una forza eccezionale, con denti di ferro; divorava, stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava: era diversa da tutte le altre bestie precedenti e aveva dieci corna.
8Stavo osservando queste corna, quand'ecco spuntare in mezzo a quelle un altro corno più piccolo, davanti al quale tre delle prime corna furono divelte: vidi che quel corno aveva occhi simili a quelli di un uomo e una bocca che parlava con alterigia.
9Io continuavo a guardare,
quand'ecco furono collocati troni
e un vegliardo si assise.
La sua veste era candida come la neve
e i capelli del suo capo erano candidi come la lana;
il suo trono era come vampe di fuoco
con le ruote come fuoco ardente.
10Un fiume di fuoco scendeva dinanzi a lui,
mille migliaia lo servivano
e diecimila miriadi lo assistevano.
La corte sedette e i libri furono aperti.
11Continuai a guardare a causa delle parole superbe che quel corno proferiva, e vidi che la bestia fu uccisa e il suo corpo distrutto e gettato a bruciare sul fuoco.
12Alle altre bestie fu tolto il potere e fu loro concesso di prolungare la vita fino a un termine stabilito di tempo.
13Guardando ancora nelle visioni notturne,
ecco apparire, sulle nubi del cielo,
uno, simile ad un figlio di uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui,
14che gli diede potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano;
il suo potere è un potere eterno,
che non tramonta mai, e il suo regno è tale
che non sarà mai distrutto.
15Io, Daniele, mi sentii venir meno le forze, tanto le visioni della mia mente mi avevano turbato;16 mi accostai ad uno dei vicini e gli domandai il vero significato di tutte queste cose ed egli me ne diede questa spiegazione:17"Le quattro grandi bestie rappresentano quattro re, che sorgeranno dalla terra;18ma i santi dell'Altissimo riceveranno il regno e lo possederanno per secoli e secoli".
19Volli poi sapere la verità intorno alla quarta bestia, che era diversa da tutte le altre e molto terribile, che aveva denti di ferro e artigli di bronzo e che mangiava e stritolava e il rimanente se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava;20intorno alle dieci corna che aveva sulla testa e intorno a quell'ultimo corno che era spuntato e davanti al quale erano cadute tre corna e del perché quel corno aveva occhi e una bocca che parlava con alterigia e appariva maggiore delle altre corna.21Io intanto stavo guardando e quel corno muoveva guerra ai santi e li vinceva,22finché venne il vegliardo e fu resa giustizia ai santi dell'Altissimo e giunse il tempo in cui i santi dovevano possedere il regno.
23Egli dunque mi disse: "La quarta bestia significa che ci sarà sulla terra un quarto regno diverso da tutti gli altri e divorerà tutta la terra, la stritolerà e la calpesterà.
24Le dieci corna significano che dieci re sorgeranno da quel regno e dopo di loro ne seguirà un altro, diverso dai precedenti: abbatterà tre re25e proferirà insulti contro l'Altissimo e distruggerà i santi dell'Altissimo; penserà di mutare i tempi e la legge; i santi gli saranno dati in mano per un tempo, più tempi e la metà di un tempo.26Si terrà poi il giudizio e gli sarà tolto il potere, quindi verrà sterminato e distrutto completamente.27Allora il regno, il potere e la grandezza di tutti i regni che sono sotto il cielo saranno dati al popolo dei santi dell'Altissimo, il cui regno sarà eterno e tutti gli imperi lo serviranno e obbediranno".
28Qui finisce la relazione. Io, Daniele, rimasi molto turbato nei pensieri, il colore del mio volto si cambiò e conservai tutto questo nel cuore.
Prima lettera ai Corinzi 4
1Ognuno ci consideri come ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio.2Ora, quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele.3A me però, poco importa di venir giudicato da voi o da un consesso umano; anzi, io neppure giudico me stesso,4perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato. Il mio giudice è il Signore!5Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio.
6Queste cose, fratelli, le ho applicate a modo di esempio a me e ad Apollo per vostro profitto perché impariate nelle nostre persone a stare a ciò che è scritto e non vi gonfiate d'orgoglio a favore di uno contro un altro.7Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne vanti come non l'avessi ricevuto?
8Già siete sazi, già siete diventati ricchi; senza di noi già siete diventati re. Magari foste diventati re! Così anche noi potremmo regnare con voi.9Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all'ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini.10Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati.11Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo,12ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo;13calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi.
14Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi.15Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo.16Vi esorto dunque, fatevi miei imitatori!17Per questo appunto vi ho mandato Timòteo, mio figlio diletto e fedele nel Signore: egli vi richiamerà alla memoria le vie che vi ho indicato in Cristo, come insegno dappertutto in ogni Chiesa.
18Come se io non dovessi più venire da voi, alcuni hanno preso a gonfiarsi d'orgoglio.19Ma verrò presto, se piacerà al Signore, e mi renderò conto allora non già delle parole di quelli, gonfi di orgoglio, ma di ciò che veramente sanno fare,20perché il regno di Dio non consiste in parole, ma in potenza.21Che volete? Debbo venire a voi con il bastone, o con amore e con spirito di dolcezza?
Capitolo XVI: Sopportare i difetti degli altri
Leggilo nella Biblioteca1. Quei difetti, nostro od altrui, che non riusciamo a correggere, li dobbiamo sopportare con pazienza, fino a che Dio non disponga altrimenti. Rifletti che, per avventura, questa sopportazione è la cosa più utile per te, come prova di quella pazienza, senza della quale ben poco contano i nostri meriti. Tuttavia, di fronte a tali difficoltà, devi chiedere insistentemente che Dio si degni di venirti in aiuto e che tu riesca a sopportarle lietamente. Se uno, ammonito una volta e un'altra ancora, non si acquieta, cessa di litigare con lui; rimetti invece ogni cosa in Dio, affinché in tutti noi, suoi servi, si faccia la volontà e la gloria di Lui, che ben sa trasformare il male in bene. Sforzati di essere paziente nel tollerare i difetti e le debolezze altrui, qualunque essi siano, giacché anche tu presenti molte cose che altri debbono sopportare.
2. Se non riesci a trasformare te stesso secondo quella che pure è la tua volontà, come potrai pretendere che gli altri si conformino al tuo desiderio? Vogliamo che gli altri siano perfetti; mentre noi non correggiamo le nostre manchevolezze. Vogliamo che gli altri si correggano rigorosamente; mentre noi non sappiamo correggere noi stessi. Ci disturba una ampia libertà degli altri; mentre non sappiamo negare a noi stessi ciò che desideriamo. Vogliamo che gli altri siano stretti entro certe regole; mentre noi non ammettiamo di essere un po' più frenati. In tal modo, dunque, è chiaro che raramente misuriamo il prossimo come noi stessi. Se fossimo tutti perfetti, che cosa avremmo da patire dagli altri, per amore di Dio? Ora, Dio così dispone, affinché apprendessimo a portare l'uno i pesi dell'altro (Gal 6,2). Infatti non c'è alcuno che non presenti difetti o molestie; non c'è alcuno che basti a se stesso e che, di per sé, sia sufficientemente saggio. Occorre, dunque, che ci sopportiamo a vicenda, che a vicenda ci consoliamo, che egualmente ci aiutiamo e ci ammoniamo. Quanta virtù ciascuno di noi abbia, ciò appare al momento delle avversità: non sono le occasioni che fanno fragile l'uomo, ma esse mostrano quale esso è.
DISCORSO 51 CONCORDANZA DEGLI EVANGELISTI MATTEO E LUCA RIGUARDO ALLA GENEALOGIA DEL SIGNORE
Discorsi - Sant'Agostino
Leggilo nella BibliotecaSi deve trattare la questione proposta il giorno di Natale.
1. 1. L'aspettativa della vostra Carità possa essere appagata da Colui che ve l'ha suscitata. Siamo convinti che ciò che dobbiamo dirvi non è cosa nostra, ma di Dio; tuttavia affermiamo con maggiore umiltà ciò che umilmente afferma l'Apostolo: Questo tesoro lo abbiamo in vasi di creta, affinché appaia che questa sublime potenza viene da Dio e non da noi 1. Non dubitiamo pertanto che vi ricordiate della nostra promessa fatta grazie a Colui, in virtù del quale adesso l'adempiamo. Poiché non solo quando facevamo quella promessa gli chiedevamo questa grazia, ma anche adesso che la soddisfaciamo la riceviamo da lui. La Carità vostra ricorda che la mattina del Natale del Signore ci eravamo proposti di risolvere una questione ma la rimandammo ad un altro giorno, poiché molti, anche quelli ai quali suole riuscire gravosa la parola di Dio, celebravano con noi la doverosa solennità di quel giorno. Adesso, al contrario, credo che non vi sia nella nostra adunanza se non chi desidera ascoltarci. Per questo motivo noi non parliamo a cuori insensibili, ad animi che si annoiano. Questa vostra aspettativa poi è una preghiera per me. Si è aggiunto il fatto che molti non sono venuti in chiesa perché è giorno dello spettacolo di gladiatori. Vi esortiamo, fratelli, ad adoperarvi per la loro salvezza nella stessa misura in cui mi preoccupo io; per quanti ancora non rivolgono la loro attenzione agli spettacoli della verità, ma si abbandonano solo agli spettacoli carnali, rivolgete ardenti preghiere a Dio. Credo infatti, anzi sono sicuro, che alcuni di quelli che ora sono nel numero dei fedeli come voi, oggi non si sono curati di venire; ma essi strappano in tal modo l'abito che hanno cucito. Poiché gli uomini cambiano, diventano migliori o peggiori. Noi proviamo ogni giorno alternamente gioia e tristezza per questi cambiamenti: gioia quando si correggono, tristezza quando si pervertono. Ecco perché il Signore non dice: "Si salverà chi comincerà", ma: Si salverà chi avrà perseverato sino alla fine 2.
Frivoli gli spettacoli carnali dei pagani; edificanti ed elevati quelli spirituali dei cristiani.
1. 2. Ma che cosa di più meraviglioso poteva concederci nostro Signore Gesù Cristo, il Figlio di Dio, ch'è anche figlio dell'uomo - poiché s'è degnato d'essere anche uomo - che cosa di più magnifico poteva concederci, che riunire nell'ovile del suo gregge non solo gli spettatori di tali spettacoli, ma anche alcuni che nel circo sogliono essere guardati con ammirazione? Egli infatti, per condurli a salvezza, ha dato la caccia non solo ai tifosi dei cacciatori, ma anche agli stessi cacciatori; poiché anch'egli si espose allo sguardo della gente. Ascolta in che modo. Lo aveva detto lui stesso, l'aveva predetto lui stesso prima di esporsi allo sguardo della gente; il fatto che si sarebbe avverato lo preannunciò come se fosse già avvenuto, dicendo nel salmo con linguaggio profetico: Hanno trafitto le mie mani e i miei piedi, hanno contato tutte le mie ossa 3. Ecco in qual modo si offrì allo sguardo in modo che furono contate le sue ossa. Egli inoltre esprime più chiaramente il fatto stesso d'essere esposto alla vista di tutti. Essi invero mi hanno guardato ed osservato 4. Veniva guardato per essere deriso; veniva guardato da coloro che non solo non avrebbero avuto per lui alcuna simpatia in quello spettacolo, ma si sarebbero anche mostrati suoi nemici feroci; allo stesso modo fece sì che da principio fossero guardati i suoi martiri, secondo quanto afferma l'Apostolo: Siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini 5. Ma due sono le specie degli uomini che guardano siffatti spettacoli: l'una dei carnali, l'altra degli spirituali. I carnali li guardano stimando infelici i martiri che furono esposti alle belve, furono decapitati, arsi dalle fiamme, detestandoli e provandone orrore. Gli spirituali al contrario li guardano come fanno anche gli angeli santi, non badando allo strazio fatto ai corpi, ma guardando meravigliati l'integrità della fede. Un grande spettacolo offre agli occhi del cuore un'anima rimasta integra, anche se il corpo va in rovina. Sono gli spettacoli che voi contemplate volentieri con gli occhi del cuore quando vengono letti in Chiesa gli Atti dei martiri. Se infatti questi Atti non avessero per voi nessuna attrattiva, non li ascoltereste per nulla. Vedete dunque che oggi non avete trascurato i nostri spettacoli, ma li avete preferiti. Vi assista perciò Dio e vi conceda di riferire in modo piacevole i vostri spettacoli ai vostri amici, per i quali provate dispiacere, perché oggi sono accorsi nell'anfiteatro e non sono voluti venire in chiesa; fatelo affinché comincino anch'essi a considerare prive di valore le cose per il cui amore si sono degradati essi stessi, e amino con voi Dio, del quale nessuno che lo ami può arrossire, poiché si ama Colui che non può essere vinto. Possano amare insieme con voi il Cristo, il quale ha vinto tutto il mondo proprio col supplizio con cui sembrava essere stato vinto. Come voi vedete, fratelli, egli ha vinto tutto il mondo; ha sottomesso tutte le potenze, ha soggiogato i re non con soldati tracotanti ma con la croce fatta oggetto di scherno; ha vinto non con la violenza della spada ma rimanendo appeso sull'albero della croce, soffrendo nel corpo ma vincendo nello spirito. Il suo corpo era innalzato sulla croce, ma sottometteva le anime alla croce. Infine, quale gemma su di un diadema è più preziosa della croce di Cristo sulla fronte dei regnanti? Amando il Cristo non arrossirete mai. Quanti invece tornano vinti dall'anfiteatro quando sono vinti coloro per i quali impazziscono! Ma costoro sarebbero vinti ancor più se i loro campioni vincessero. Perché allora si abbandonerebbero a una vana gioia, s'immergerebbero nell'esultanza d'una perversa passione; essi sono vinti per il fatto stesso che accorrono nell'anfiteatro. Quanti infatti, o fratelli, sono stati oggi forse indecisi se venire in chiesa o andare al teatro? Ma coloro i quali proprio mentre erano indecisi considerando Cristo sono accorsi in chiesa, hanno vinto non un uomo qualunque ma lo stesso diavolo, il più malvagio cacciatore di tutto il mondo. Coloro invece che nella loro esaltazione hanno preferito accorrere all'anfiteatro, sono stati vinti proprio da colui che questi altri hanno vinto. Lo hanno vinto però in virtù di Colui che dice: Godete, poiché ho vinto il mondo 6. Il nostro supremo generale ha voluto infatti esser messo alla prova con le sofferenze per insegnare ai suoi soldati come combattere.
Perché Cristo volle nascere dalla Vergine. A causa della donna la rovina, tramite la donna, la salvezza.
2. 3. Orbene, per compiere questo suo disegno nostro Signore Gesù Cristo divenne figlio dell'uomo nascendo appunto da una donna. Se però non fosse nato dalla vergine Maria, che cosa gli sarebbe mancato? "Volle essere uomo - dirà qualcuno - d'accordo, ma avrebbe potuto esserlo senza dover nascere da una donna, poiché neppure per creare il primo uomo ebbe bisogno d'una donna". Guarda come si risponde a questa obiezione. Tu dici: "Perché scelse una donna per nascere?". Ti si risponde: "Al contrario, perché avrebbe dovuto evitare una donna? Supposto ch'io non possa dimostrarti perché decise di nascere da una donna, tu dimostrami che cosa avrebbe dovuto evitare in una donna". Ma è stato già affermato che, se fosse rifuggito dal seno d'una donna, avrebbe mostrato che c'era stata la possibilità di essere in un certo senso contaminato da lei. D'altronde quanto più era per sua natura inattaccabile da qualsiasi macchia, tanto meno avrebbe dovuto aver paura di un seno materno di carne, come se potesse esserne macchiato. Nascendo invece da una donna doveva mostrarci qualche grande mistero. In realtà, fratelli, anche noi ammettiamo che, se il Signore avesse voluto diventare uomo senza nascere da una donna, ciò era certamente facile alla sua sovrana maestà. Ma allo stesso modo che poteva nascere da una donna senza il concorso di un uomo, così sarebbe potuto nascere anche senza il concorso d'una donna. Ma egli volle mostrarci questo; che cioè la creatura umana non avrebbe dovuto perdere la speranza di salvarsi riguardo a nessuno dei due sessi. Il sesso umano infatti risulta di maschi e di femmine. Se dunque diventando uomo - come per l'appunto sarebbe dovuto essere - non fosse nato da una donna, avrebbero perduto la speranza di salvarsi le donne, ricordandosi del loro primo peccato, poiché il primo uomo fu ingannato dalla donna, e avrebbero creduto di non poter avere assolutamente alcuna speranza nel Cristo. Venne dunque il Cristo nel mondo come uomo per scegliere di preferenza il sesso maschile e, nascendo da una donna, venne a consolare il sesso femminile, come se, rivolgendo loro la sua parola, avesse detto: "Perché sappiate che nessuna creatura di Dio è cattiva, ma è stata pervertita da un piacere colpevole, quando nel principio feci l'uomo, io lo feci maschio e femmina. Non condanno la creatura che io ho creato. Ecco, sono nato uomo, sono nato da una donna. Non condanno dunque la creatura che io ho fatto, ma i peccati che io non ho fatto". Ambedue i sessi vedano la propria dignità ma confessino il proprio peccato, e ambedue sperino di salvarsi. Per ingannarlo fu propinato all'uomo il veleno dalla donna; da una donna venga propinata all'uomo la salvezza per rigenerarlo con la grazia. La donna, diventando madre di Cristo, riparerà il peccato da lei commesso ingannando l'uomo. Così furono delle donne ad annunciare per prime agli Apostoli la risurrezione di Dio. Fu una donna ad annunciare al proprio marito la morte nel paradiso; furono anche delle donne ad annunciare la salvezza agli uomini nella Chiesa. Sarebbero stati gli Apostoli ad annunciare la risurrezione del Cristo ai pagani, ma furono le donne ad annunciarla agli Apostoli. Nessuno deve dunque incolpare Cristo d'essere nato da una donna; sesso dal quale il Liberatore non poteva esser macchiato, sesso che il Creatore avrebbe esaltato.
La fede del Vangelo accolta in tutto il mondo.
3. 4. "Ma - si obietta - come potremo credere che il Cristo è nato da una donna?". Potrei rispondere: "Sull'autorità del Vangelo, ch'è stato ed è predicato in tutto il mondo". Ma individui accecati nello spirito si sforzano di rimettere in questione un avvenimento già oggetto di fede in tutto il mondo cercando di accecare altri individui e non vedendo quel che si dovrebbe vedere, mentre si sforzano d'estirpare la verità che si deve credere. Ecco infatti che cosa ci rispondono e dicono: "Non opprimerci con l'argomento basato sull'autorità di tutto il mondo; ma esaminiamo la Scrittura in se stessa. Non appellarti al popolo. La folla ti è favorevole perché è stata sedotta". Rispondiamo anzitutto: "Mi è favorevole la folla perché è stata sedotta da me? Questa folla era un piccolo numero di persone. In qual modo s'è formata questa moltitudine, la cui continua crescita era stata predetta tanto prima? Non ha potuto essere vista crescere senza essere stata prevista". Non dico: "Era un piccolo numero". Abramo era una sola persona. Riflettete, fratelli; al suo tempo in tutto il mondo Abramo era il solo, l'unico fra tutti gli uomini in tutto il mondo. A lui fu detto: Nella tua discendenza saranno benedette tutte le nazioni 7. Orbene, ciò che credette egli solo riguardo al suo unico discendente, si è realizzato agli occhi di un gran numero di persone nella moltitudine dei suoi discendenti. Allora non si vedeva, eppure lo si credeva; ora invece lo si ha sotto gli occhi, eppure viene contestato. La predizione, ch'era stata fatta allora ad una sola persona ed era creduta da un solo individuo, viene ora impugnata da pochi, benché sia palese in una gran moltitudine. Colui che volle fare pescatori di uomini i propri discepoli, ha raccolto nelle sue reti persone autorevoli d'ogni specie. Se si deve prestar fede al gran numero di persone, che cosa c'è che abbia un più gran numero di persone della Chiesa diffusa in tutto il mondo? Se deve prestarsi fede ai ricchi, si consideri quanti ricchi sono stati presi in quelle reti; se invece si deve prestar fede ai poveri, si osservino le migliaia di poveri; se si deve prestar fede ai nobili, vi sono dentro quasi tutti i nobili; se si deve prestar fede ai re, si veda che sono tutti sudditi di Cristo; se deve credersi a persone segnalate per l'eloquenza, per la dottrina, per la sapienza, si osservi quanti oratori, quanti scienziati, quanti filosofi di questo mondo sono stati presi in quelle reti da quei pescatori perché fossero tirati su dal fondo del mare verso la salvezza. Essi consideravano Colui, il quale per guarire con l'esempio della sua umiltà la grande malattia dell'anima umana, cioè la superbia, si abbassò e scelse ciò ch'è la debolezza di questo mondo per confondere i forti, e ciò ch'è stoltezza di questo mondo per confondere i sapienti - non quelli ch'erano tali davvero, ma quelli che sembrava solo che lo fossero - e scelse ciò ch'è ignobile di questo mondo e ciò ch'è un nulla per annientare le cose che sono 8.
Si può credere con sicurezza che non v'è discordanza tra i Vangeli finché non la si comprende.
4. 5. "Di' pure quello che vuoi - ribattono essi -, nel passo dove voi leggete la nascita del Cristo, noi troviamo che i Vangeli sono in contrasto tra loro; ora due asserzioni in contrasto tra loro non possono essere vere ambedue. Quando infatti - si dice - dimostrerò la discordanza, avrò il diritto di rifiutare di credere, oppure tocca a te che accetti questa fede di dimostrarmi la loro concordanza". Ma quale discordanza - ti domando - potrai dimostrare? "Una discordanza palese - si risponde - che nessuno potrà negare". Voi potete ascoltarlo tranquillamente, poiché avete fede. Fate attenzione, carissimi, e vedete quanto salutarmente l'Apostolo ci ammonisca dicendo: Come dunque avete ricevuto Gesù Cristo nostro Signore, camminate uniti a lui, radicati e sopraelevati su di lui e confermati nella fede 9. Proprio mediante la fede semplice e sicura dobbiamo rimanere saldi in lui, affinché sveli egli stesso ai suoi fedeli le verità che sono nascoste in lui, poiché, come afferma il medesimo Apostolo: In lui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza 10. Li tiene nascosti non per negarceli, ma per eccitarcene il desiderio tenendoceli nascosti. Ecco l'utilità del segreto. Onora in lui ciò che non comprendi ancora, e tanto più devi stimarlo quanti più sono i veli che tu vedi. Infatti quanto più uno è onorato, tanto più numerosi sono i veli appesi nella sua casa. Le tende servono ad ispirare rispetto per ciò ch'è nascosto; ma per coloro che ne hanno stima i veli vengono sollevati. Coloro invece che disprezzano questi veli vengono allontanati anche dalla loro vicinanza. Poiché dunque ci siamo convertiti al Signore, ci viene tolto il velo 11.
Alla S. Scrittura ci si deve accostare con spirito di fede: esperienza personale del giovane Ag. a tale riguardo.
5. 6. Certi individui vanno spargendo le loro calunnie col dire: "È forse Matteo un evangelista?". "Sicuro", rispondiamo noi con la voce della fede, con sentimenti religiosi, senza il minimo dubbio; rispondiamo chiaramente: "Matteo è un evangelista". "Gli credi?", domandano. Chi non risponderebbe; "Gli credo", come si è sentito risuonare nelle vostre acclamazioni dettate dalla fede? Così è, o fratelli; se crederete fermamente non avrete alcun motivo di vergognarvi. Vi parlo io che un tempo m'ingannai, quando la prima volta da giovane volli applicare alle Sacre Scritture l'acume della discussione prima della ricerca in spirito di fede; fui proprio io che, per la mia cattiva condotta, mi chiusi in faccia la porta del mio Signore; mentre avrei dovuto bussare perché mi fosse aperta, aggiungevo un motivo maggiore perché mi fosse chiusa. Osavo infatti cercare da superbo ciò che può trovare solo chi è umile. Quanto più felici siete voi adesso, con quanta serenità, con quanta sicurezza imparate, voi tutti che siete ancora piccoli nel nido della fede e ricevete il cibo spirituale! Io invece, infelice, credendomi capace di volare, lasciai il nido e caddi prima che potessi volare. Il Signore però, nella sua misericordia, perché non fossi calpestato dai passanti e morissi, mi raccolse e mi ripose nel nido. Mi avevano turbato infatti le obiezioni che adesso propongo ed espongo con sicurezza nel nome del Signore.
In qual senso Cristo è figlio di Abramo e di Davide.
5. 7. Come dunque avevo cominciato a dire, ecco le calunnie che In qual senso quegl'individui diffondono. "Matteo - dicono - è un evangelista e voi gli credete?". Noi ammettiamo senz'altro che è evangelista e per conseguenza logica necessariamente gli crediamo. Fate attenzione alla genealogia del Cristo esposta da Matteo: Libro della genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo 12. Come mai è figlio di Davide, e come mai è figlio di Abramo? Ciò si può dimostrare solo tracciando la successione genealogica. È certo infatti che quando il Signore nacque dalla vergine Maria né Abramo né Davide erano più in questo mondo. E tuttavia tu affermi ch'egli è figlio di Davide e insieme figlio di Abramo? È come se dicessimo a Matteo: "Prova dunque ciò che affermi, io aspetto la successione genealogica del Cristo". Abramo - dice - generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar. Fares generò Esrom, Esrom generò Aram, Aram generò Aminadab, Aminadab generò Naasson, Naasson generò Salmon, Salmon generò Booz da Raab. Booz generò Obed da Rut. Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide 13. A partire da questo punto fate attenzione come da Davide si arrivi al Cristo, chiamato figlio di Abramo e di Davide. Davide poi - dice - generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria. Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abia, Abia generò Asa, Asa generò Iosafat, Iosafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Achaz, Achaz generò Ezechia, Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amon, Amon generò Iosia, Iosia generò Ieconia e i suoi fratelli al tempo della deportazione in Babilonia. Dopo la deportazione in Babilonia Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabel, Zorobabel generò Abiud, Abiud generò Eliacim, Eliacim generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliud, Eliud generò Eleazaro, Eleazaro generò Matan, Matan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, sposo di Maria, dalla quale nacque Gesù, detto il Cristo 14. In tal modo, dunque, attraverso l'ordinata successione dei genitori e dei loro discendenti, Cristo risulta figlio di Davide e figlio di Abramo.
Le generazioni da Abramo fino a Cristo.
5. 8. A questa genealogia esposta fedelmente viene mossa questa prima critica, che cioè il medesimo Matteo prosegue dicendo: Da Abramo fino a Davide sono in tutto quattordici generazioni; da Davide fino alla deportazione in Babilonia sono altre quattordici; dalla deportazione in Babilonia fino al Cristo altre quattordici 15. Seguita poi narrando in qual modo il Cristo nacque dalla vergine Maria e soggiunge: La nascita del Cristo avvenne in questo modo 16. Enumerando ordinatamente gli ascendenti del Cristo ci ha mostrato perché egli è chiamato figlio di Davide, figlio di Abramo.
Cristo concepito per opera dello Spirito Santo.
6. 8. Ora ci deve narrare come nacque e apparve tra gli uomini, ed è logica la stessa narrazione per cui crediamo che nostro Signore Gesù Cristo non è solo nato da Dio eterno, coeterno a Colui che lo generò prima di tutti i tempi, prima d'ogni creatura, poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, ma crediamo anche infine ch'è nato per opera dello Spirito Santo dalla vergine Maria 17, cosa che ugualmente confessiamo. Voi infatti ricordate e sapete (sto infatti parlando ai miei fratelli cattolici) che questa è la nostra fede che noi professiamo e confessiamo. Per questa fede si fecero uccidere migliaia di martiri in tutto il mondo.
Sincera, non finta, la " giustizia " di Giuseppe.
6. 9. Ora per togliere ogni credibilità ai Libri evangelici essi cercano di volgere al ridicolo ciò che segue, al fine di mostrare che noi crediamo avventatamente ciò che è detto, e cioè: Essendo Maria, sua madre, fidanzata a Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe, suo sposo, poiché era giusto e non voleva esporla al disprezzo, decise di ripudiarla in segreto 18. Poiché egli sapeva d'essere estraneo a quella gravidanza, per conseguenza la riteneva adultera. Poiché era giusto - come dice la Scrittura - e non voleva esporla al disprezzo, cioè diffamarla - infatti così portano anche molti codici - decise di ripudiarla in segreto. Come marito egli, è vero, si turba, ma come giusto non incrudelisce. Tanto grande è la giustizia di quest'uomo che non volle tenersi un'adultera né osò punirla esponendola al pubblico discredito. Decise di ripudiarla in segreto - dice la Scrittura - poiché non solo non volle punirla, ma nemmeno denunciarla. Considerate com'era autentica la sua giustizia! Non voleva infatti risparmiarla perché desiderava tenerla con sé. Molti perdonano le mogli adultere spinti dall'amore carnale, volendo tenerle, benché adultere, allo scopo di goderle per soddisfare la propria passione carnale. Questo marito giusto invece non vuole tenerla; il suo affetto dunque non ha nulla di carnale; eppure non la vuole nemmeno punire; il suo perdono, dunque, è solo ispirato dalla misericordia. Quanto è ammirevole questo giusto! Non la tiene come adultera per non dare a vedere di perdonarla perché l'avrebbe amata sensualmente, eppure non la punisce, né la denuncia. Ben a ragione fu scelto come testimone della verginità della sposa. Egli dunque si turba a causa della debolezza umana, ma è rassicurato dall'autorità divina.
Che cosa vuol dire Gesù.
7. 10. L'Evangelista infatti prosegue dicendo: Mentre egli pensava a queste cose, ecco che un angelo del Signore gli apparve in sogno e gli disse: Giuseppe, non temere di prendere con te la tua sposa Maria, poiché quel che in lei è stato concepito è opera dello Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù 19. Perché Gesù? Perché - dice la Scrittura - egli salverà il suo popolo dai suoi peccati 20. Si deve dunque intendere che il nome ebraico di Gesù, tradotto in latino, significa "Salvatore", come ci dice la stessa spiegazione del nome che ci dà l'Evangelista. Poiché, come se gli fosse stato chiesto: "Perché Gesù?" l'Evangelista, spiegando il motivo del nome, subito aggiunse: Poiché egli - dice - salverà il suo popolo dai suoi peccati. Ecco la verità che crediamo con rispetto religioso e riteniamo con assoluta fermezza, che cioè il Cristo nacque per opera dello Spirito Santo dalla Vergine Maria 21.
L'utilità del tradimento di Giuda e quella degli eretici.
7. 11. Che cosa obiettano dunque i nostri avversari? "Se troverò una menzogna nel racconto, non potrai certo ammetterlo nella sua interezza. E l'ho trovata". Vediamo. "Io conto le generazioni". A questo calcolo infatti essi c'invitano e ci trascinano con le loro false accuse. Ma se noi vivremo piamente, se crederemo nel Cristo, se non desidereremo volar via dal nido prima del tempo, i loro sforzi ci condurranno a conoscere meglio i misteri. Consideri pertanto la Santità vostra l'utilità degli eretici, ma quella conforme ai disegni di Dio, che si serve per il bene anche dei cattivi. Quanto invece a loro, essi riceveranno ciò che merita la loro volontà e non il bene che Dio sa trarre da loro. Allo stesso modo, quanto bene fece scaturire da Giuda! Grazie alla passione del Signore sono stati salvati i popoli, ma fu Giuda a consegnare il Signore perché patisse. Dio dunque redime i popoli mediante la passione del proprio Figlio, ma punisce Giuda per il suo peccato. Nessuno di coloro che si accontentano semplicemente di credere, esaminerebbe accuratamente i misteri che si nascondono nella Scrittura e perciò nessuno li scoprirebbe, perché nessuno li esaminerebbe accuratamente, se non fosse turbato dai denigratori. Poiché quando gli eretici lanciano calunnie, i semplici sono turbati e quando sono turbati indagano; e cercando rassomigliano ai bambini che battono la testa contro le mammelle della madre perché facciano sgorgare tanto latte quanto loro basta. Quelli ricercano perché turbati; coloro invece che sanno e hanno appreso perché hanno scrutato e perché Dio ha loro aperto la porta quando bussavano, aprono la porta a quanti sono turbati. Così avviene che gli eretici, i quali con false accuse cercano di condurre nell'errore, servono per far trovare la verità. La verità sarebbe ricercata con troppa negligenza se non avesse avversari mendaci. Poiché è necessario - dice la Scrittura - che ci siano anche le eresie. E come se gli avessimo chiesto il motivo aggiunge subito: perché appaiano chiaramente quelli che tra voi sono di fede comprovata 22.
Matteo enumera quarantadue generazioni contando due volte Ieconia.
8. 12. Che cosa dicono essi? "Ecco, Matteo conta le generazioni e afferma che sono quattordici da Abramo fino a Davide, e da Davide fino alla deportazione in Babilonia quattordici, e quattordici dalla deportazione in Babilonia fino al Cristo. Moltiplicando quattordici per tre si ottiene quarantadue". Invece costoro contano e trovano quarantuno generazioni e muovono una critica e insultano con i loro scherni: "Che cosa vuol dire se nel Vangelo si afferma che le generazioni sono quattordici per tre, eppure si trova che in totale sono quarantuno e non quarantadue?". Senza dubbio è un gran mistero! Ma noi ci rallegriamo e ringraziamo Dio che anche coloro che ci lanciano false accuse ci danno l'occasione di scoprire qualche verità, la cui scoperta è tanto più gradita quanto più densa era l'oscurità da cui era coperta. Come infatti dicevamo all'inizio, noi diamo con ciò uno spettacolo tutto spirituale. Da Abramo fino a Davide ci sono dunque quattordici generazioni. L'altra serie comincia da Salomone, poiché fu Davide a generare Salomone. Ora, questa seconda serie comincia da Salomone e giunge fino a Ieconia, durante la cui vita avvenne la deportazione a Babilonia; vi sono inoltre quattordici altre generazioni calcolando Salomone che inizia la seconda serie e calcolando anche Ieconia che la termina, in modo che si hanno in tutto quattordici generazioni. La terza serie invece comincia dallo stesso Ieconia.
Perché Ieconia è contato due volte.
8. 13. La Santità vostra cerchi di comprendere una realtà simbolica e dolce; vi confesso che il mio cuore vi trova una grande gioia. Credo che quando ve l'avrò fatta capire e l'avrete provata voi stessi, direte lo stesso anche voi. Fate dunque attenzione. A cominciare da Ieconia, il primo della terza serie, fino al Signore Gesù Cristo, ci sono quattordici generazioni, poiché questo Ieconia, l'ultimo della serie precedente e il primo della seguente, viene contato due volte. Qualcuno però potrebbe dire: "Ma perché Ieconia è contato due volte?". Tutto ciò che in precedenza s'era compiuto nel popolo d'Israele non era altro che un simbolo delle realtà future. Ora Ieconia non senza ragione viene contato due volte. Se, per esempio, si traccia il confine tra due campi con pietre oppure si mette a divisione un muro a secco, non solo il campo che si trova da una parte si misura fino allo stesso muro, ma anche quello che si trova dall'altra parte comincia a misurarsi ugualmente a partire dallo stesso muretto. Ma perché questo sistema non è stato osservato nel primo collegamento della serie, quando da Abramo contiamo quattordici generazioni fino a Davide ma ne contiamo altre quattordici a cominciare da Salomone senza ripetere Davide? Di ciò si deve indicare il motivo che ha in sé un grande mistero. La Santità vostra faccia attenzione. La deportazione a Babilonia avvenne quando fu elevato al trono Ieconia al posto del defunto suo padre. A lui fu tolto il regno e al suo posto fu stabilito un altro re. Tuttavia la deportazione tra i pagani avvenne durante la vita di Ieconia. Non è riferita alcuna colpa di Ieconia, per causa della quale fu privato del regno, ma sono piuttosto denunciati i peccati dei suoi successori. Segue dunque la cattività e c'è la deportazione a Babilonia. Non ci sono condotti solo i cattivi ma con essi ci vanno anche i servi fedeli di Dio. Di questi deportati faceva parte il profeta Ezechiele, ne facevano parte anche Daniele e i tre giovani resi famosi dalle fiamme. Vi andarono conforme alla predizione del profeta Geremia.
La trasmigrazione a Babilonia figura del passaggio del Vangelo ai pagani.
9. 14. Ricordatevi che Ieconia fu riprovato senza alcuna colpa e quindi cessò di regnare e passò tra i pagani, quando avvenne la deportazione a Babilonia; e osservate bene in ciò la prefigurazione profetica degli eventi che si sarebbero avverati riguardo a nostro Signore Gesù Cristo. I giudei infatti non vollero che regnasse su di loro nostro Signore Gesù Cristo, nel quale non trovarono alcuna colpa. Fu riprovato non solo nella sua persona ma anche nei suoi servi e questi si recarono tra i pagani come a Babilonia. Ciò aveva predetto anche Geremia, che cioè il Signore aveva stabilito che andassero a Babilonia. Geremia inoltre accusava come falsi profeti tutti gli altri profeti i quali dicevano al popolo che non sarebbero andati a Babilonia. Coloro che leggono le Scritture rammentino ciò insieme con noi; quelli che non le leggono prestino fede a noi. Geremia dunque, sostenendo la parte del Signore, minacciava coloro che non volevano andare a Babilonia; a coloro invece, che vi sarebbero andati, prometteva in quel luogo riposo e una certa felicità nel piantare vigne nuove, nel coltivare orti e nell'abbondanza dei frutti 23. In qual modo dunque ormai non simbolicamente ma realmente il popolo d'Israele passa a Babilonia? Di dove erano gli Apostoli? Non provenivano forse dal popolo d'Israele? D'onde proveniva lo stesso Paolo? Anch'io infatti - dice - sono israelita della stirpe di Abramo, della tribù di Beniamino 24. Credettero dunque nel Signore molti dei giudei, tra essi furono scelti gli Apostoli; di loro erano più di cinquecento fratelli che dopo la risurrezione meritarono di vedere il Signore 25; di essi erano centoventi persone adunate nel cenacolo quando arrivò lo Spirito Santo 26. Che cosa dice inoltre l'Apostolo negli Atti degli Apostoli quando i giudei rifiutarono la parola della verità? A voi - dice - eravamo stati inviati ma poiché voi avete respinto la parola di Dio, ecco che noi ci rivolgiamo ai pagani 27. La deportazione a Babilonia avvenne dunque conforme al piano della salvezza dell'anima relativo al tempo dell'Incarnazione del Signore, che fu prefigurata allora, al tempo di Geremia. Ebbene, che cosa dice Geremia agli esuli tra quei babilonesi? Dalla loro pace - dice dipenderà la pace vostra 28. Quando dunque Israele fu deportato a Babilonia anche nella persona del Cristo e degli Apostoli, cioè quando il Vangelo fu annunciato ai pagani, che cosa dice l'Apostolo come se parlasse per bocca dello stesso Geremia? Vi scongiuro anzitutto che si facciano suppliche, preghiere, intercessioni, ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, affinché possiamo trascorrere una vita serena e tranquilla in pieno spirito di fede e integrità di vita 29. I re non erano ancora cristiani, eppure pregava per essi. Le preghiere d'Israele a Babilonia furono dunque esaudite. Furono esaudite le preghiere della Chiesa e i re sono diventati cristiani. Voi quindi vedete l'adempimento di ciò che fu detto dalla Scrittura come una prefigurazione: Dalla loro pace dipenderà la vostra pace 30. Hanno ricevuto in realtà la pace di Cristo e hanno smesso di perseguitare i cristiani; in tal modo, grazie alla tranquillità della pace, si sono potute edificare le chiese, si sono potuti piantare altri popoli nel campo di Dio e tutte le nazioni hanno prodotto frutti mediante la fede, la speranza e la carità ch'è in Cristo.
Ieconia era figura di Cristo, pietra angolare tra i giudei e i pagani.
9. 15. La deportazione a Babilonia ebbe dunque luogo allora sotto Ieconia, al quale non fu permesso di regnare sul popolo dei giudei; era una prefigurazione del Cristo che i giudei non vollero regnasse su di loro 31. Israele trasmigrò tra i pagani; ciò vuol dire che i predicatori del Vangelo penetrarono tra i popoli pagani. Perché dunque meravigliarsi che Ieconia è contato due volte? Se infatti era figura del Cristo che passava dai giudei ai pagani, rifletti che cos'è il Cristo tra i giudei e i pagani. Non è forse lui la pietra angolare? Osserva nella pietra angolare il termine d'una parete e l'inizio di un'altra. Fino alla stessa pietra si misura una parete, e a partire da essa un'altra parete. Due volte dunque viene contata la pietra angolare che congiunge l'una e l'altra parete. Poiché dunque Ieconia era figura del Signore, lo rappresentava in certo modo simbolicamente come pietra angolare. Inoltre allo stesso modo che a Ieconia non fu permesso di regnare sui giudei ma fu trasferito a Babilonia, così Cristo, la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d'angolo 32, affinché il Vangelo giungesse fino ai pagani. Non esitare dunque a contare due volte la pietra angolare e troverai il numero ch'è nella Scrittura! In tal modo le generazioni sono quattordici, più quattordici, più altre quattordici, eppure non fanno quarantadue ma quarantuna. Facciamo un esempio: se una fila di pietre si allinea su una linea retta, vengono contate una per una; se invece la fila si piega in modo da formare un angolo, bisogna contare due volte la pietra dove la fila si piega, poiché appartiene non solo alla serie che fa capo alla stessa pietra, ma anche alla serie che comincia da essa; allo stesso modo fintantoché la serie delle generazioni rimase in quel popolo, si contano in linea retta quattordici generazioni; ma quando la serie fu piegata all'epoca della trasmigrazione a Babilonia, a partire da Ieconia si formò una specie d'angolo, sicché è necessario contarlo due volte come prefigurazione della sacra pietra angolare.
Perché la genealogia di Cristo è tracciata per il tramite di Giuseppe.
10. 16. Ecco un'altra calunnia di quegl'individui. "Le generazioni di Cristo - essi obiettano - vengono contate per il tramite di Giuseppe e non di Maria". La Santità vostra presti attenzione. "Non doveva farsi il computo per la linea di Giuseppe", essi dicono. Ma perché mai non doveva farsi seguendo la linea genealogica di Giuseppe? Giuseppe non era forse lo sposo di Maria? "No", rispondono. Chi lo dice? Lo dice senza dubbio la Scrittura; questa con l'autorità dell'angelo afferma che Giuseppe era lo sposo di Maria. Non temere - disse - di prendere con te Maria, tua sposa, poiché quel ch'è nato da lei è opera dello Spirito Santo 33. L'angelo gli dà anche l'ordine d'imporre il nome al bambino benché non fosse nato da lui per discendenza carnale. Partorirà un figlio - disse - e tu gli porrai nome Gesù 34. La Scrittura dunque vuol dimostrare che Gesù non nacque per discendenza carnale da Giuseppe; siccome era angustiato perché non sapeva come mai la sposa fosse gravida, gli vien detto: È opera dello Spirito Santo; con tutto ciò non gli vien tolta l'autorità di padre, dal momento che gli viene comandato d'imporre il nome al bambino. Infine la stessa vergine Maria, sebbene fosse perfettamente consapevole d'aver concepito il Cristo senza aver avuto alcun rapporto o amplesso coniugale con lo sposo, lo chiama tuttavia padre di Cristo.
In che senso Maria chiama Giuseppe padre del Cristo.
10. 17. State attenti a come ciò avvenne. Il Signore Gesù Cristo essendo, in quanto uomo, nell'età di dodici anni, egli che, in quanto Dio, esiste prima del tempo ed è fuori del tempo, rimase separato dai genitori nel tempio a disputare con gli anziani, che rimanevano stupiti della sua scienza. I genitori, invece, ripartiti da Gerusalemme, si misero a cercarlo nella loro comitiva, cioè tra coloro che facevano il viaggio con loro ma, non avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme angosciati e lo trovarono che disputava con gli anziani, avendo egli - come ho detto - solo dodici anni 35. Ma che c'è da stupirsi? Il Verbo di Dio non tace mai, sebbene la sua voce non sempre si senta. Viene dunque trovato nel tempio, e sua madre gli dice: Perché ci hai fatto una simile cosa? Tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo. Ed egli: Non sapevate che io debbo occuparmi delle cose del Padre mio? 36. Egli rispose così, poiché il Figlio di Dio era nel tempio di Dio. Quel tempio infatti non era di Giuseppe, ma di Dio. "Ecco - dice qualcuno - non ammise d'essere figlio di Giuseppe ". Fate un po' d'attenzione, fratelli, affinché la strettezza del tempo ci basti per il discorso. Poiché Maria aveva detto: Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo, egli rispose: Non sapevate che io debbo occuparmi delle cose del Padre mio? In realtà egli non voleva far credere d'essere loro figlio senza essere nello stesso tempo Figlio di Dio. Difatti, in quanto Figlio di Dio, egli è sempre tale ed è creatore dei suoi stessi genitori; in quanto invece figlio dell'uomo a partire da un dato tempo, nato dalla Vergine senza il concorso d'uomo, aveva un padre e una madre. In qual modo proviamo quest'asserzione? L'ha già detto Maria: Tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo.
Le donne devono imitare la modestia e l'umiltà di Maria.
11. 18. In primo luogo, fratelli, non è da passar sotto silenzio la modestia tanto santa della Vergine Maria, perché sia norma di vita per le donne, nostre sorelle. Aveva partorito il Cristo, era andato da lei l'angelo e le aveva detto: Ecco, concepirai nel seno e darai alla luce un figlio che chiamerai Gesù. Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo 37. Aveva meritato di dare alla luce il Figlio dell'Altissimo, eppure era umilissima; nemmeno parlando di se stessa prende il primo posto anteponendosi al marito, col dire: "Io e tuo padre", ma: Tuo padre - dice - e io. Non tiene conto della propria dignità di madre, ma bada a rispettare il diverso grado proprio dei coniugi. Il Cristo umile non avrebbe certo insegnato alla propria madre a insuperbirsi. Tuo padre e io, addolorati, andavamo in cerca di te 38. Essa dice: Tuo padre e io, poiché capo della donna è il marito 39. Quanto meno devono insuperbire tutte le altre donne! Poiché, se alla stessa Maria è stato dato il nome di "donna", ciò non è perché avesse perduto la verginità, ma perché quello era un appellativo proprio usato dal suo popolo. Anche l'Apostolo infatti, parlando del Signore Gesù Cristo, dice: nato da una donna 40, ma senza con ciò pregiudicare la regola e il tenore della nostra fede con cui professiamo ch'egli è nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria 41. Questa infatti lo concepì essendo vergine, lo partorì continuando ad esser vergine e rimase sempre vergine. Gli ebrei però chiamavano "donne", secondo l'uso proprio della lingua ebraica, tutte le persone di sesso femminile. Ascolta un esempio quanto mai evidente. La prima donna che Dio creò prendendola dal fianco dell'uomo, prima ancora che s'unisse al marito - cosa che la Scrittura dice avvenuta dopo la loro espulsione dal paradiso - era tuttavia già chiamata "donna", poiché la Scrittura dice: Dio ne formò la donna 42.
Cristo non disconosce Giuseppe come suo padre.
11. 19. Quanto dunque alla risposta data dal Signore Gesù Cristo: Occorreva che mi occupassi delle cose del Padre mio 43, essa sta ad indicare che Dio è suo Padre in modo da non riconoscere come padre Giuseppe. In qual modo lo dimostriamo? Attenendoci alla Scrittura, che dice così: E rispose loro: Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? Ma essi non compresero che cosa aveva detto loro. Essendo poi sceso con loro, si recò a Nazaret ed era loro sottomesso 44. La Scrittura non dice: "Era sottomesso alla madre", oppure: "Era sottomesso a lei", ma: Era sottomesso loro. Chi sono questi, ai quali era sottomesso? Non erano forse i suoi genitori? Erano entrambi i suoi genitori coloro ai quali Cristo era sottomesso per la degnazione per cui era figlio dell'uomo.
I ragazzi devono imitare l'ubbidienza di Gesù fanciullo.
12. 19. Finora hanno sentito le norme loro proprie le donne; sentano adesso le loro i ragazzi, perché ubbidiscano ai genitori e siano loro sottomessi. Il mondo è sottomesso a Cristo, Cristo è sottomesso ai genitori.
Cristo è figlio ma anche Signore di Davide.
12. 20. Vedete dunque, fratelli, che Cristo, dicendo: "Occorre che mi occupi delle cose del Padre mio", non voleva che noi intendessimo le sue parole presso a poco in questo senso: "Voi non siete miei genitori", ma nel senso ch'essi erano genitori nel tempo, il Padre invece da tutta l'eternità. Quelli erano genitori del Figlio dell'uomo, il Padre invece lo era del proprio Verbo e Sapienza, era Padre della sua Potenza, grazie alla quale ha creato tutte le cose. Se tutte le cose sono create dalla Potenza che si estende da un'estremità all'altra del mondo con forza e regge l'universo con bontà 45, per mezzo del Figlio di Dio furono creati anche coloro, ai quali egli medesimo si sarebbe sottomesso come figlio dell'uomo. L'Apostolo inoltre lo chiama figlio di Davide: Il quale - dice - gli è nato dalla stirpe di Davide secondo la carne 46. Tuttavia lo stesso Signore propone ai giudei la questione che l'Apostolo risolve con queste stesse parole. Infatti, avendo detto: Nato dalla stirpe di Davide, aggiunge: secondo la carne, appunto per far intendere che, per quanto riguarda la divinità, non è figlio di Davide ma Figlio di Dio e Signore di Davide. Difatti, in un altro passo l'Apostolo, mettendo in risalto la stirpe dei giudei, dice: Ad essi appartengono i patriarchi, dai quali discende il Cristo secondo la carne, egli ch'è al di sopra d'ogni cosa, Dio benedetto per i secoli 47. In quanto nato secondo la carne, era "figlio di Davide"; in quanto esistente al di sopra d'ogni cosa, Dio benedetto per i secoli, era il "Signore di Davide". Il Signore dunque chiese ai giudei: Di chi voi dite sia figlio il Cristo? Gli risposero: Di Davide 48. Questo in realtà essi lo sapevano, perché facilmente lo capivano da quanto avevano preannunciato i Profeti. Effettivamente egli era figlio di Davide, ma solo secondo la carne 49, tramite la Vergine Maria, promessa sposa di Giuseppe. Poiché dunque i giudei avevano risposto che il Cristo era discendente di Davide, Gesù chiese loro: Come mai allora Davide, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, lo chiama Signore, dicendo: "Ha detto il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra finché io non porrò i tuoi nemici sotto i tuoi piedi"? Se dunque Davide per ispirazione divina lo chiama Signore, come mai può essere suo figlio? 50. Ma i giudei non furono in grado di rispondergli. Così troviamo nel Vangelo. Egli non negò d'essere figlio di Davide, ma non volle che ignorassero ch'era il Signore di Davide. I giudei infatti riguardo al Cristo pensavano ch'era un uomo nato in un dato tempo, ma non capivano ch'egli esiste dall'eternità. Ecco perché, volendoli istruire sulla propria natura divina, pose loro il quesito sulla propria natura umana, come se dicesse loro: "Voi sapete che il Cristo è discendente di Davide; rispondetemi come mai è anche il Signore di Davide". Ma perché non rispondessero: "Non è il Signore di Davide", addusse come testimone lo stesso Davide. E che cosa dice Davide? Dice appunto la verità. Nei salmi infatti si trova che Dio fa a Davide anche la promessa: Porrò sul tuo trono uno dei tuoi figli 51. Ecco il figlio di Davide. In qual modo è anche "Signore di Davide" colui ch'è figlio di Davide? Il Signore - è detto - dice al mio Signore: "Siedi alla mia destra" 52. Vi stupite che Davide abbia come proprio discendente il Signore, quando vedete che Maria diede alla luce il proprio Signore? È Signore di Davide perché Dio, lo è perché è il Signore di tutti; è invece figlio di Davide, perché figlio dell'uomo. Egli è allo stesso tempo Signore e figlio: è Signore di Davide egli che, pur essendo Dio per natura, non reputò un tesoro geloso essere uguale a Dio 53; è invece figlio di Davide, perché spogliò se stesso prendendo la natura di servo 54.
Il matrimonio è costituito dalla carità coniugale, non dell'unione carnale.
13. 21. Non è quindi vero che Giuseppe non fosse padre per il fatto che non si unì nell'amplesso carnale con la Madre del Signore, come se a costituire moglie una donna fosse la passione carnale e non la carità coniugale. La Santità vostra ascolti attentamente. Di lì a pochi anni l'Apostolo di Cristo nella Chiesa avrebbe detto: Bisogna ormai che perfino coloro che hanno moglie vivano come se non l'avessero 55. Sappiamo inoltre che molti nostri fratelli, i quali producono frutti in virtù della grazia, per seguire Cristo si astengono di mutuo consenso dai rapporti carnali senza venir meno alla vicendevole carità coniugale. Quanto più vien repressa la concupiscenza, tanto più si rafforza la carità. I coniugi che vivono in questo modo, non cercando a vicenda il frutto della carne, non esigendo l'uno dall'altro il debito della concupiscenza corporale, cessano forse d'essere coniugi? Purtuttavia la moglie è sottomessa al marito, poiché così è giusto, ed è tanto più sottomessa quanto più è casta; il marito a sua volta ama veramente la moglie con onore e santità 56, come sta scritto, considerandola coerede della grazia, come il Cristo - è detto ha amato la Chiesa 57. Se dunque v'è l'unione matrimoniale, se c'è il matrimonio, se non è vero che non c'è il matrimonio per il fatto che non si compie ciò che si può fare, sebbene in modo illecito, con una persona che non è il proprio coniuge, volesse il cielo che tutti fossero in grado di vivere così; molti non ci riescono. Non separino quindi coloro che ci riescono, così da negare che o l'uno sia marito o l'altra sia moglie perché non si uniscono nella carne, mentre invece sono congiunti nel cuore.
Il limite dell'unione carnale è " il fine della procreazione " stabilito dalle tavole matrimoniali; quando è veniale la sua trasgressione.
13. 22. Dovete dunque, fratelli miei, comprendere da quanto detto quale giudizio la Scrittura formuli di quei nostri padri, i quali erano uniti in matrimonio solo allo scopo d'aver prole dalle loro mogli. Difatti essi che, in ragione dei tempi e dell'usanza del loro popolo, avevano anche più mogli, le tenevano in modo talmente casto, che non consentivano alla concupiscenza carnale se non per procreare, tenendole davvero in onore. Chi d'altronde brama la carne della propria moglie più di quanto prescriva il limite (ossia il fine di mettere al mondo dei figli), agisce in contrasto con le tavole in base alle quali ha preso in moglie la donna. Le tavole vengono lette, e lette al cospetto di tutti quelli presenti al rito; iniziano: Allo scopo di procreare figli e si chiamano Tavole matrimoniali. Supponiamo che le donne fossero date e ricevute in mogli per uno scopo diverso; chi darebbe, senza vergogna, la propria figlia in preda alla sensualità d'un individuo? Vengono dunque lette le tavole matrimoniali perché i genitori non debbano arrossire quando danno una figlia in matrimonio, perché siano suoceri e non mezzani. Che si legge dunque nelle tavole? Allo scopo di procreare figli. A sentire le parole delle tavole la faccia del padre si rischiara e si rasserena. Osserviamo la faccia del marito che prende la donna in moglie. Anche il marito dovrebbe arrossire di prenderla con altro scopo, se arrossisce il padre di darla per uno scopo diverso. Se però non riescono a contenersi, esigano il debito (l'abbiamo già detto una volta); ma non si spingano più in là del proprio debitore. Sia la moglie che il marito aiutino a vicenda la propria debolezza. Egli non vada con un'altra né lei con un altro (cosa questa da cui deriva il termine "adulterio", come per dire: "con un altro"). Anche se si oltrepassano i limiti del contratto matrimoniale, non si oltrepassino i limiti del letto coniugale. Non è forse peccato esigere dal coniuge il debito in misura superiore all'esigenza di procreare figli? È certo un peccato, ma un peccato veniale. L'Apostolo afferma: Questo però ve lo dico per condiscendenza 58. Parlando poi di questo problema, dice: Non rifiutatevi l'un l'altro se non di mutuo accordo e per un certo tempo al fine di dedicarvi alla preghiera, e poi tornate a stare insieme, affinché Satana non vi tenti a causa della vostra incontinenza 59. Che vuol dire ciò? "Non imponetevi nessun vincolo che superi le vostre forze, per evitare che, astenendovi tra voi, precipitiate nei lacci dell'adulterio. Perché Satana non vi tenti a causa della vostra incontinenza". Paolo inoltre, perché non avesse l'aria di comandare ciò che diceva solo per condiscendenza (una cosa è infatti comandare alla virtù e un'altra condiscendere alla debolezza), soggiunge subito: Questo però lo dico per condiscendenza, non per comando. Poiché vorrei che tutti fossero come sono io 60. Come se dicesse: "Non vi comando di farlo, ma sarò indulgente verso di voi se lo farete".
I due sostegni con cui si mantiene il genere umano.
14. 23. Riflettete, dunque, fratelli miei. Alcuni grandi personaggi hanno la moglie all'unico scopo di procreare figli, quali si legge fossero i Patriarchi e come troviamo in molte testimonianze, e proclamano espressamente e con assoluta certezza i libri della Sacra Scrittura; se dunque ci sono tali personaggi, che hanno moglie al solo scopo di procreare figli, se si potesse offrire loro il mezzo d'aver figli senza l'amplesso coniugale, non accoglierebbero forse un sì gran beneficio con ineffabile gioia? Non lo adotterebbero con immensa allegrezza? Due infatti sono le azioni fisiche, in virtù delle quali sussiste il genere umano; azioni alle quali le persone sagge e sante si abbassano spinte dal dovere, mentre gli stolti vi si gettano spinti dalla concupiscenza. Una cosa è infatti abbassarsi a un'azione per dovere, un'altra cosa è cadervi per passione. Quali sono queste due azioni, grazie alle quali sussiste il genere umano? Riguardo a noi stessi la prima azione è quella relativa al prendere il cibo (che non può prendersi senza un certo piacere carnale), cioè il mangiare e il bere; se quest'azione non la si facesse si morirebbe. Con questo solo sostegno del mangiare e del bere si conserva il genere umano secondo le leggi della propria natura; ma con esso gli uomini si sostentano solo per quanto riguarda la loro persona; alla loro discendenza invece non provvedono col mangiare e col bere, ma col prendere moglie. Perché infatti sussista il genere umano è necessario anzitutto che gli uomini vivano, ma poiché non possono certamente vivere sempre nonostante tutte le cure che si vogliano avere per il corpo, è logico avere la precauzione che, a coloro che muoiono, succedano altri che nascono. Di fatto, al dire della Scrittura, il genere umano è simile alle foglie che rivestono un albero, ma un albero sempreverde come l'ulivo o l'alloro o un altro di tal genere; siffatti alberi non sono mai privi della loro chioma, eppure non hanno sempre le medesime foglie. In effetti, come dice ancora la Scrittura, il sempreverde ne fa spuntare alcune ma ne fa cadere altre 61, poiché quelle che nascono man mano succedono a quelle che cadono; l'albero infatti fa sempre cadere le foglie, ma ne rimane tuttavia sempre rivestito. Allo stesso modo anche il genere umano ogni giorno, per il sopraggiungere di coloro che nascono, non avverte la diminuzione derivante da coloro che muoiono e in tal modo, nella misura che gli è consentita, il genere umano sussiste in tutte le sue specie; e come sugli alberi si vedono sempre le foglie, così la terra si vede sempre piena d'uomini. Se invece gli uomini morissero soltanto, e non ne succedessero altri, come alcuni alberi perdono tutte le loro foglie, così la terra rimarrebbe spopolata del tutto.
Alle azioni necessarie per la vita alcuni sono condotti dalla passione, altri dalla ragione.
14. 24. Poiché dunque questi due sostegni, di cui abbiamo parlato a sufficienza, son necessari alla conservazione del genere umano, l'uomo sapiente, prudente e fedele si abbassa ad entrambi spinto dal dovere, non vi cade spinto dalla sensualità. Quanti si precipitano con voracità a mangiare e a bere, riponendo in ciò tutta la loro vita, come fosse la ragione stessa per cui si vive! Essi infatti, pur mangiando per vivere, credono di vivere per mangiare. Costoro sono biasimati da ogni persona sapiente e soprattutto dalla divina Scrittura come mangioni, ubriaconi, ghiottoni, poiché il loro Dio è il ventre 62. Ciò che li spinge a mettersi a tavola è solo l'appetito carnale e non il bisogno di rifocillarsi. Costoro perciò si precipitano sui cibi e sulle bevande. Coloro invece che vi si abbassano solo per il dovere di vivere, non vivono per mangiare ma mangiano per vivere. Se pertanto a tali persone prudenti e temperanti fosse data la possibilità di vivere senza mangiare e bere, con quanta gioia accoglierebbero questo beneficio, per non essere costretti neppure ad abbassarsi a cose a cui non hanno mai avuto l'abitudine di precipitarsi! In tal modo sarebbero sempre elevati verso il Signore e le loro elevazioni non sarebbero abbassate dalla necessità di ristorare il deperimento del corpo. In qual modo pensate che il santo Elia ricevesse un piccolo orcio d'acqua e una focaccia di pane, che doveva bastargli come alimento per quaranta giorni 63? Lo prese certo con gran gioia, perché mangiava e beveva solo per il dovere di conservarsi in vita e non perché schiavo dell'ingordigia. Prova, se ti è possibile, a offrire un tal beneficio a un individuo che, simile ad un animale nella stalla, pone tutta la sua delizia e la sua felicità nella buona tavola! Egli avrà in orrore il tuo beneficio, lo respingerà lontano da sé, lo reputerà un castigo. Così pure avverrà per quanto riguarda l'amplesso coniugale; i sensuali cercano le proprie mogli solo per questo e perciò a mala pena si accontentano delle proprie. Volesse poi il cielo che, se non son capaci o non vogliono sopprimere la sensualità, non la lasciassero progredire oltre i limiti prescritti dal debito coniugale e oltre i limiti concessi alla debolezza umana! Se a un tale individuo tu chiedessi davvero: "Perché prendi moglie?", forse, spinto dalla vergogna, ti risponderebbe: "Per aver figli". Se però uno, al quale egli fosse disposto a prestar fede senza alcuna esitazione, gli dicesse: "Dio è in grado di darti dei figli e te li darà anche se non ti unirai nella carne a tua moglie", allora verrebbe messo per davvero alle strette e ammetterebbe che non è per aver figli che cerca la moglie. Confessi dunque la propria debolezza; prenda pure ciò che, come pretesto, diceva di prendere per dovere.
Ai padri dell'A.T. fu concesso di avere più mogli solo al fine di procreare figli.
15. 25. Così i santi Patriarchi, uomini di Dio, cercavano d'aver figli e desideravano di ottenerli. A quest'unico scopo si univano in matrimonio con le donne e si accoppiavano con esse, per l'unico fine di procreare figli. Fu questo il motivo per cui fu permesso loro d'aver più mogli. Se a Dio piacesse una libidine senza freni, a quel tempo avrebbe anche permesso che una sola donna avesse più mariti, come a un sol uomo era permesso d'aver più mogli. Perché dunque tutte le donne caste non avevano più di un marito, mentre un sol uomo poteva avere più mogli? Solo perché un solo uomo abbia più mogli per avere un gran numero di figli, mentre una sola donna non potrà dare alla luce un numero tanto maggiore di figli quanto maggiore sarà il numero dei suoi mariti. Ecco perché, fratelli, se i nostri Patriarchi si univano in matrimonio e si accoppiavano con le donne al solo scopo di procreare dei figli, avrebbero provato una gran gioia se avessero potuto averli senza l'atto carnale poiché per averli non vi si gettavano spinti dalla sensualità, ma vi si abbassavano spinti dal dovere. Giuseppe dunque non era forse padre perché aveva avuto il figlio senza la concupiscenza carnale? Tutt'altro! La castità cristiana non pensi affatto ciò che non pensava neppure quella giudaica! Amate le vostre mogli, ma amatele castamente. Desiderate l'atto carnale solo nei limiti necessari per procreare figli. E poiché non potete averne in altra maniera, abbassatevi a quell'atto con dolore. La concupiscenza è un castigo meritato da Adamo, dal quale noi abbiamo origine. Non dobbiamo vantarci d'un nostro castigo. È un castigo inflitto a colui che meritò di generare per la morte, poiché a causa del peccato divenne mortale. Dio non eliminò tale castigo perché l'uomo si ricordasse da dove è richiamato e dove è chiamato e cercasse l'amplesso ove non è alcuna corruzione.
15. 26. Quella nazione doveva dunque moltiplicarsi in modo straordinario fino alla venuta del Cristo, affinché, mediante il gran numero di persone, fossero prefigurati tutti i modelli della Chiesa che si dovevano prefigurare; ecco il motivo per cui i Patriarchi avevano il dovere di prendere mogli, mediante le quali aumentasse il popolo, in cui fosse prefigurata la Chiesa.
La dignità verginale cominciò dalla Madre del Signore. In qual senso Giuseppe fu padre di Cristo.
16. 26. Ma la dignità verginale ebbe origine dalla Madre del Signore, quando cioè nacque il re di tutti i popoli; fu lei a meritare non solo d'avere il figlio ma anche di non soggiacere alla corruzione. Come dunque quello era vero matrimonio e matrimonio senza corruzione, così quel che la moglie partorì castamente, perché il marito non avrebbe dovuto accoglierlo castamente? Come infatti era casta la moglie, così era casto il marito; e come era casta la madre, così era casto il padre. Colui dunque che dice: "Giuseppe non doveva essere chiamato padre, perché non aveva generato il figlio", nel procreare i figli cerca la libidine, non l'affetto ispirato dalla carità. Giuseppe con l'animo compiva meglio ciò che altri desidera compiere con la carne. Così, per esempio, anche coloro che adottano dei figli, non li generano forse col cuore più castamente, non potendoli generare carnalmente? Vedete, fratelli, i diritti dell'adozione, per cui un uomo diventa figlio di uno dal quale non è nato, in modo che ha maggior diritto nei suoi riguardi la volontà dell'adottante che non la natura del generante. In tal modo dunque Giuseppe non solo doveva essere padre, ma doveva esserlo in sommo grado. D'altronde gli uomini generano figli anche da donne che non sono le loro mogli, e questi son chiamati "figli naturali", ma a questi son preferiti i figli legittimi. Per quanto riguarda l'atto della carne sono nati allo stesso modo; perché allora sono preferiti questi ultimi, se non perché più casta è la carità della moglie, dalla quale i figli sono procreati? In tal caso non si considera l'unione carnale, ch'è uguale nell'una e nell'altra donna. Per qual ragione la moglie è superiore, se non per l'affetto della fedeltà, per l'affetto verso il marito, per l'affetto d'una carità più sincera e più casta? Se dunque uno potesse aver figli dalla moglie senza l'amplesso coniugale non dovrebbe essere tanto più contento, quanto più è casta colei che egli ama più ardentemente?.
Per accordare Matteo e Luca si ammette giustamente che Giuseppe avesse un padre naturale e uno legale.
17. 27. A questo proposito considerate anche quest'altra eventualità: può cioè accadere che un solo uomo non soltanto abbia due figli, ma anche due padri. Se ci riflettete, ciò potrebbe accadere nel caso della summenzionata adozione. Poiché si dice: "Uno può avere due figli, ma non due padri". Non è vero; si trova anzi che uno può avere anche due padri, se uno lo ha generato con il suo seme, l'altro l'ha adottato per amore. Se dunque un uomo può aver due padri, poté averne due anche Giuseppe: da uno poté essere generato, dall'altro essere adottato. Se ciò fu possibile, che cosa hanno da criticare coloro i quali dicono che Matteo ha seguito generazioni diverse da quelle seguite da Luca? In realtà troviamo che il primo ha seguito generazioni diverse da quelle del secondo. Matteo infatti chiama Giacobbe il padre di Giuseppe, Luca invece lo chiama Eli. Potrebbe in verità sembrare che un unico uomo, del quale era figlio Giuseppe, avesse due nomi. Ma per il fatto che i due enumerano differenti avoli e bisavoli e altri progenitori antecedenti e nello stesso numero l'uno ne conta di più, l'altro di meno si dimostra chiaramente che Giuseppe ebbe due padri. Messo dunque da parte il sofisma della questione, poiché una ragione evidente ha dimostrato ch'è possibile che uno sia il padre che lo generò, un altro quello che lo adottò; stabilita l'esistenza di due padri, non è da meravigliarsi se gli avi e i bisavoli e tutti gli altri progenitori vengano enumerati a partire da antenati diversi in linea ascendente.
L'adozione nella S. Scrittura. L'unione dei Patriarchi con le serve in qual modo non era adulterio.
18. 28. Non dovete pensare che il diritto dell'adozione sia ignoto alle nostre Scritture e che, osservato, per così dire, solo nella consuetudine delle leggi umane, non possa conciliarsi con l'autorità della Sacra Scrittura. In realtà è un fatto antico e ricordato spesso nelle medesime Scritture della Chiesa che un figlio è generato non solo dal seme umano ma anche dalla volontà del bene. Infatti anche le donne, se non avevano avuto la capacità di generare, adottavano figli nati dall'unione dei loro mariti con le schiave e ordinavano perfino ai mariti di generargliene, come Sara 64 come Rachele 65 e Lia 66. Nell'adempiere questo doveroso servizio i mariti non commettevano adulterio, poiché ubbidivano alle mogli rispetto a un'azione concernente il debito coniugale, conforme a quanto dice l'Apostolo: La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito. E così neppure il marito è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie 67. Anche Mosè, nato da madre ebrea ed esposto, fu adottato dalla figlia del faraone 68. Veramente non esistevano le stesse formule di legge che esistono ora, ma la libera decisione della volontà era reputata come norma di legge; come in un altro passo dice l'Apostolo: I pagani non hanno la legge, ma per natura agiscono secondo la legge 69. Se poi alle donne era lecito considerare come figli quelli ch'esse non avevano partorito, perché non sarebbe stato lecito anche ai loro mariti d'avere per figli quelli generati da essi non in virtù dell'atto coniugale, ma dell'amore di adottarli? Leggiamo infatti che il patriarca Giacobbe, pur essendo padre di tanti figli, tuttavia adottò come figli i propri nipoti, i figli di Giuseppe, dicendo così: Questi due saranno miei figli e riceveranno in eredità la terra con i loro fratelli; gli altri figli, che tu genererai, saranno figli tuoi 70. Uno potrebbe obiettare che nelle sante Scritture non si trova la parola "adozione". Ma non ha alcuna importanza il termine col quale si deve chiamare il fatto - essendo esso un fatto reale - che una donna abbia un figlio non generato dal suo sangue. (Questo tale si rifiuti pure - né io mi oppongo - di chiamare "adottato" Giuseppe, purché ammetta ch'egli poté esser figlio anche di uno, di cui non era figlio per generazione carnale. D'altra parte l'apostolo Paolo ricorda continuamente anche il nome di "adozione", perfino a proposito del gran sacramento. Egli infatti, poiché la Scrittura attesta che nostro Signore Gesù Cristo è l'unico figlio di Dio, afferma che coloro, ch'egli si è degnato d'avere come fratelli e coeredi, lo diventano in virtù d'una certa adozione della grazia di Dio. Quando venne - dice - la pienezza del tempo, Dio inviò il proprio Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli 71. Ancora in un altro passo dice: Gemiamo in noi stessi in attesa dell'adozione, della redenzione del nostro corpo 72. Un'altra volta, parlando dei giudei, dice: Vorrei essere maledetto io stesso da Dio, separato da Cristo, se ciò potesse giovare ai miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono israeliti e posseggono - dice - l'adozione a figli la gloria, l'alleanza, la legislazione; sono discendenti dei Patriarchi, da essi proviene Cristo secondo la carne, egli ch'è sopra tutte le cose, Dio benedetto nei secoli 73. In questo passo dimostra che presso i giudei era antico non solo il nome di"adozione ", ma anche la stessa realtà, come l'alleanza e la legislazione, ricordate insieme.
Le generazioni del Signore sono contate dagli Evangelisti senza menzogna, tenuto conto dell'adozione o della filiazione naturale.
19. 29. A ciò si aggiunge che c'era un modo proprio dei giudei, per cui un bambino diventava figlio d'un uomo, dal quale non era nato carnalmente. I parenti di coloro ch'erano morti senza figli, prendevano la moglie del defunto, per procurargli la discendenza 74. In tal modo colui che nasceva, non solo era figlio di colui dal quale nasceva, ma anche di colui del quale, nascendo, diveniva successore. Ciò è stato ricordato perché nessuno, pensando che non possa essere esatto che siano ricordati due padri d'un solo individuo, creda si possa denigrare, accusandolo sacrilegamente di menzogna, uno qualsiasi degli Evangelisti, che narrano le generazioni del Signore, soprattutto quando vediamo che siamo messi sull'avviso dalle loro stesse parole. Matteo, che chiaramente ricorda il padre da cui fu generato Giuseppe, così enumera le generazioni: "Il tale generò il tal altro", per poter arrivare a ciò che dice alla fine: Giacobbe generò Giuseppe 75. Luca al contrario, poiché non propriamente generato si chiama colui che è figlio o per adozione o per successione di morte, in quanto è nato da colei che era stata moglie del morto, non dice: "Eli generò Giuseppe", oppure: "Giuseppe generato da Eli", ma che era - dice - Figlio di Eli 76, sia perché adottato, sia perché generato da un parente per succedere nascendo al morto.
Perché le generazioni sono contate secondo la linea di Giuseppe e non di Maria.
20. 30. Abbiamo dunque esposto a sufficienza il motivo per cui non deve turbarci il fatto che le generazioni sono enumerate seguendo la linea genealogica di Giuseppe e non quella di Maria; come infatti essa è madre senza la concupiscenza carnale, così egli è padre senza l'unione carnale. Quindi le generazioni discendono e ascendono tramite lui. Non dobbiamo quindi metterlo da parte perché mancò la concupiscenza carnale. La maggiore sua purezza confermi la paternità, perché non ci rivolga un rimprovero la stessa Santa Maria. Essa infatti non volle porre il proprio nome innanzi a quello del marito, ma disse: Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo 77. Non facciano dunque i maligni detrattori ciò che non fece la casta sposa. Enumeriamo perciò le generazioni lungo la linea di Giuseppe, poiché allo stesso modo che è casto marito, così è pure casto padre. Dobbiamo invece mettere l'uomo al di sopra della donna secondo l'ordine della natura e della legge di Dio. Se infatti metteremo da parte lui e al suo posto metteremo lei, egli ci dirà giustamente: "Perché mi avete messo da parte? Perché le generazioni non ascendono o discendono per la mia linea genealogica?". Gli si risponderà forse: "Perché tu non hai generato mediante la tua carne"? Ma egli ci risponderà: "Partorì forse anche Maria mediante la sua carne?". Ciò che lo Spirito Santo effettuò, lo effettuò per ambedue. È detto: Essendo un uomo giusto 78. Giusto dunque l'uomo, giusta la donna. Lo Spirito Santo, che riposava nella giustizia di ambedue, diede un figlio ad entrambi. Ma, affinché fosse figlio anche per il marito, lo fece per mezzo del sesso che doveva partorirlo. Ecco perché l'angelo dice ad ambedue di mettere il nome al bambino; cosa questa con cui viene proclamata l'autorità dei genitori. Così, per esempio, essendo Zaccaria ancora muto, la madre di Giovanni voleva mettere il nome al figlio che l'era nato. Ma i presenti fecero cenno al padre chiedendogli come voleva chiamarlo, ed egli, presa una tavoletta, vi scrisse il nome che lei aveva già detto 79. Anche a Maria è detto: Ecco, concepirai un figlio e lo chiamerai Gesù 80. Ma anche a Giuseppe è detto: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria per tua sposa; il bambino ch'è nato in lei è opera detto Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu gli metterai nome Gesù; egli salverà il suo popolo dai suoi peccati 81. L'Evangelista dice anche: E gli partorì un figlio 82, parole con cui senza dubbio si afferma che Giuseppe è padre non per virtù della carne, ma della carità. Così dunque egli è padre e lo è realmente. Con molta precauzione e con molta prudenza gli Evangelisti contano le generazioni attraverso la linea di Giuseppe; sia Matteo discendendo da Abramo fino a Cristo, sia Luca ascendendo da Cristo attraverso Abramo fino a Dio. L'uno enumera per la linea discendente, l'altro per la linea ascendente, ma entrambi attraverso Giuseppe. E perché? Perché egli è il padre. E perché è padre? Perché tanto più sicuramente padre, quanto più castamente padre. In realtà si credeva ch'egli fosse padre di nostro Signore Gesù Cristo in modo diverso; lo fosse cioè come tutti gli altri padri che generano carnalmente, non come quelli che accolgono i figli con il solo affetto spirituale. Difatti anche Luca dice: Era opinione comune che Giuseppe fosse il padre di Gesù 83. Perché era opinione comune? Perché l'opinione e il giudizio della gente era portato verso ciò che di solito fanno gli uomini. Il Signore dunque non è discendente di Giuseppe per via carnale, sebbene fosse ritenuto tale. Tuttavia alla pietà e alla carità di Giuseppe nacque dalla vergine Maria un figlio, e proprio il Figlio di Dio.
Perché Matteo conta le generazioni per linea discendente, Luca invece per linea ascendente.
21. 31. Ma perché l'uno enumera le generazioni in linea discendente, l'altro invece per linea ascendente? Cercate di ascoltarlo, vi prego, attentamente, per quanto Dio vi aiuterà, ormai con animo sgombro di dubbi e libero da ogni molestia di sofismi intricati. Matteo enumera le generazioni in linea discendente per simboleggiare la discesa di nostro Signore Gesù Cristo, venuto per addossarsi i nostri peccati, affinché nel seme di Abramo venissero benedetti tutti i popoli. Ecco perché Matteo non comincia da Adamo: poiché tutto il genere umano deriva da lui; e non comincia neppure da Noè, poiché anche dalla stessa sua famiglia ebbe origine tutto il genere umano dopo il diluvio. Per il compimento della profezia bisognava mostrare che l'uomo Gesù Cristo discendeva non da Adamo, da cui provengono tutti gli uomini, o da Noè, da cui tutti gli uomini ebbero di nuovo origine, ma da Abramo che, quando tutta la terra era popolata, fu scelto da Dio affinché tutte le nazioni fossero benedette mediante il suo Discendente 84. Luca, al contrario, enumera le generazioni nella linea ascendente, non cominciando dalla stessa nascita del Signore ma dal punto ove narra che fu battezzato da Giovanni. Ora, allo stesso modo che nell'incarnazione il Signore si addossa i peccati del genere umano, così li prende su di sé per assolverli con la consacrazione del battesimo. Il primo perciò enumera le generazioni in linea discendente, per indicare simbolicamente il Cristo che discende per addossarsi i peccati, il secondo invece enumera le generazioni nella linea ascendente per indicare simbolicamente l'espiazione dei peccati, naturalmente non suoi ma nostri. Ma il primo discende attraverso Salomone, con la madre del quale aveva peccato Davide, il secondo ascende attraverso Natan, altro figlio del medesimo Davide, dal quale gli fu assolto il peccato. Leggiamo infatti che Natan fu inviato a lui per rimproverarlo e perché grazie al pentimento fosse sanato 85. Ambedue si sono incontrati quando sono arrivati a Davide, il primo lungo la linea discendente, l'altro lungo quella ascendente, e da Davide fino ad Abramo, o da Abramo fino a Davide non differiscono riguardo a nessuna generazione. In tal modo Cristo, figlio di Davide e figlio di Abramo, arriva fino a Dio. È necessario infatti che noi, rinnovati dal battesimo, dall'abolizione dei peccati siamo ricondotti a Dio.
Il numero quaranta nelle generazioni del Signore.
22. 32. Tuttavia nelle generazioni contate da Matteo ha un particolare risalto il numero quaranta. Le divine Scritture infatti hanno l'abitudine di non computare le cifre che oltrepassano l'intero di determinati numeri. Così parlano di quattrocento anni dopo l'uscita del popolo israelitico dall'Egitto 86, pur essendo essi quattrocentotrenta. Così anche qui una sola generazione che supera il numero quaranta non toglie a questo numero il suo carattere del tutto particolare. Orbene, questo numero simboleggia la vita, durante la quale si soffre su questa terra finché siamo come pellegrini lontani dal Signore 87, e nella quale è necessario assumere l'impegno temporale di annunciare la verità. Ora il numero dieci, per cui è simboleggiata la perfezione della felicità, moltiplicato per quattro in rapporto alle quattro età del mondo e alle quattro parti del mondo, fa quaranta. Ecco perché per quaranta giorni digiunarono non solo Mosè 88, ma anche Elia 89 e lo stesso Mediatore, nostro Signore Gesù Cristo 90. Poiché nel tempo presente è necessario astenersi dalle attrattive dei sensi. Anche per quarant'anni il popolo fu pellegrino nel deserto 91, il diluvio durò quaranta giorni 92. Per quaranta giorni dopo la risurrezione il Signore si trattenne con i discepoli convincendoli della realtà del corpo risorto 93. Con ciò volle indicare che in questa vita, in cui siamo pellegrini lontani da Dio 94, il numero quaranta - com'è stato già detto - ci mostra allegoricamente che ci è necessario il memoriale del corpo del Signore, che celebriamo nella Chiesa finché egli non tornerà 95. Poiché dunque nostro Signore discese in questa vita e il Verbo si fece carne 96 per essere immolato a causa dei nostri peccati e risuscitare per la nostra giustificazione 97, Matteo si attenne al numero quaranta; in tal modo quella sola generazione che supera il numero quaranta non lo pregiudica, allo stesso modo che i trent'anni non pregiudicano la completezza dei quattrocento, oppure essa simboleggia che lo stesso Signore, con l'aggiunta del quale si hanno quarantuno generazioni, discese nella nostra vita per addossarsi i nostri peccati in modo tuttavia che risulti distinto da questa vita, grazie alla sua personale e singolare superiorità per cui è uomo ed è nello stesso tempo anche Dio. Di lui solo è detto ciò che non si è mai potuto né si potrà dire mai di alcun altro uomo santo, per quanto si voglia perfetto in sapienza e in giustizia: il Verbo si è fatto carne 98.
Perché Luca enumera settantasette generazioni.
23. 33. Luca invece, il quale ci dà l'albero genealogico per la linea ascendente a partire dal battesimo del Signore, conta in tutto settantasette generazioni cominciando dallo stesso nostro Signore Gesù Cristo per risalire attraverso Giuseppe e arrivare a Dio attraverso Adamo; vale a dire che con questo numero si vuol simboleggiare la remissione di tutti i peccati, che avviene nel battesimo, non perché il Signore stesso avesse colpe da essergli perdonate col battesimo, ma perché con la sua umiltà volle insegnarci che cos'era utile a noi. Sebbene inoltre quello fosse il battesimo di Giovanni, in esso tuttavia apparve sensibilmente la Trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, per virtù della quale fu consacrato il battesimo dello stesso Cristo, col quale dovevano essere battezzati i futuri cristiani; il Padre apparve nella voce venuta dal cielo, il Figlio nello stesso uomo-mediatore, lo Spirito Santo nella colomba 99.
Significato simbolico del numero settantasette.
23. 34. Ma perché il numero settantasette contiene tutti i peccati che vengono rimessi nel battesimo? Il motivo probabile sembra essere che il numero dieci contiene la perfezione della giustizia e della felicità, quando la creatura settenaria rimane unita alla Trinità del Creatore, perciò anche il Decalogo della legge fu dichiarato sacro con i dieci Comandamenti. Per questo motivo anche la trasgressione del numero dieci è simboleggiata dal numero undici; è chiaro che il peccato è una trasgressione quando l'uomo, bramando qualcosa di più, oltrepassa la norma della giustizia. Ecco perché l'Apostolo afferma che l'avarizia è la radice di tutti i mali 100. Ancora: all'anima che si allontana da Dio, in nome dello stesso Signore viene detto: "Speravi d'avere qualcosa di più, se ti fossi allontanata da me". Colui dunque che pecca riferisce a se stesso la trasgressione, cioè il peccato, poiché vuole rallegrarsi di un suo bene, per così dire, privato. Ecco perché vengono rimproverati anche coloro che cercano i propri interessi e non quelli di Gesù Cristo 101, e viene lodata la carità che non cerca i propri interessi 102. Per questo fatto lo stesso numero undici, ch'è simbolo della trasgressione, non viene moltiplicato per dieci, ma per sette e fa settantasette. La trasgressione infatti non è della Trinità del Creatore, ma è propria della stessa creatura, cioè dell'uomo stesso, creatura quale è dimostrata dal numero sette; essa infatti contiene il tre a causa dell'anima, in cui è una certa immagine della Trinità del Creatore, poiché per essa l'uomo è stato fatto a immagine di Dio; contiene poi il quattro a causa del corpo. Notissimi sono infatti i quattro elementi di cui risulta il corpo. Chi però non li conosce, può facilmente considerare che lo stesso corpo del mondo, in cui si muove il nostro corpo attraverso lo spazio, ha, per così dire, quattro parti principali, ricordate continuamente anche dalla Sacra Scrittura: l'Oriente, l'Occidente, il Mezzogiorno e il Settentrione.
24. 34. E poiché i peccati si commettono o con l'anima, mediante la sola volontà, o anche con le azioni del corpo e perciò in modo visibile, il profeta Amos ripetutamente ricorda le minacce di Dio che dice: Per tre o quattro peccati non mi volgerò indietro 103, cioè: "non dissimulerò". I tre peccati sono quelli dovuti alla natura dell'anima; i quattro invece sono causati dalla natura del corpo, le due sostanze di cui risulta l'uomo.
Come si devono leggere le S. Scritture.
24. 35. Pertanto undici per sette o, come già detto, la trasgressione della giustizia riferita all'uomo peccatore, forma il numero settantasette, nel quale è simboleggiato l'insieme di tutti i peccati che vengono rimessi col battesimo. Ecco perché Luca ascende fino a Dio attraverso le settantasette generazioni per dimostrare che l'uomo si riconcilia con Dio mediante la cancellazione di tutti i peccati. Ecco perché a Pietro, che gli chiedeva quante volte doveva perdonare a un fratello, lo stesso Signore disse: Ti dico: non sette volte, ma settantasette volte 104. Se poi in questi arcani tesori dei misteri di Dio vi è qualche altra cosa, potrà essere tratta fuori da altri più diligenti e più degni. Noi tuttavia abbiamo detto ciò che siamo stati in grado di dire secondo la nostra capacità in misura dell'aiuto datoci dal Signore e tenuto conto anche dello spazio limitato del tempo. Se qualcuno di voi è in grado di capire di più, bussi alla porta di colui dal quale riceviamo anche noi quanto possiamo capire e dire. Anzitutto però dovete ritenere come norma di non lasciarvi turbare quando non comprendete ancora le Sacre Scritture e, se le comprendete, di non insuperbirvi; quello che non comprendete rimandate con rispetto ad altro tempo, e quello che comprendete ritenetelo con sentimenti di carità.
1 - 2 Cor 4, 7.
2 - Mt 10, 22.
3 - Sal 21, 17.
4 - Sal 21, 18.
5 - 1 Cor 4, 9.
6 - Gv 16, 33.
7 - Gn 22, 18.
8 - 1 Cor 1, 27-28.
9 - Col 2, 6-7.
10 - Col 2, 3.
11 - Cf. 2 Cor 3, 16.
12 - Mt 1, 1.
13 - Mt 1, 2-6.
14 - Mt 1, 6-16.
15 - Mt 1, 17.
16 - Mt 1, 18.
17 - Cf. Symb. fidei.
18 - Mt 1, 18-19.
19 - Mt 1, 20-21.
20 - Mt 1, 21.
21 - Cf. Symb. fidei.
22 - 1 Cor 11, 19.
23 - Cf. Ger 27.
24 - Rm 11, 1.
25 - Cf. 1 Cor 15, 6.
26 - Cf. At 1, 15; 2, 1-4.
27 - At 13, 46.
28 - Ger 29, 7.
29 - 1 Tm 2, 1-2.
30 - Ger 29, 7.
31 - Cf. Gv 19, 15.
32 - Cf. Sal 117, 22.
33 - Mt 1, 20.
34 - Mt 1, 21.
35 - Cf. Lc 2, 42-47.
36 - Lc 2, 48-49.
37 - Lc 1, 31-32.
38 - Lc 2, 48.
39 - Cf. Ef 5, 23.
40 - Gal 4, 4.
41 - Cf. Symb. fidei.
42 - Gn 2, 22.
43 - Lc 2, 49.
44 - Lc 2, 49-51.
45 - Cf. Sap 8, 1.
46 - Rm 1, 3.
47 - Rm 9, 5.
48 - Mt 22, 42.
49 - Rm 1, 3.
50 - Mt 22, 43-46; Sal 109, 1.
51 - Sal 131, 11.
52 - Sal 109, 1.
53 - Fil 2, 6.
54 - Fil 2, 7.
55 - 1 Cor 7, 29
56 - 1 Ts 4, 4.
57 - Ef 5, 25.
58 - 1 Cor 7, 6.
59 - 1 Cor 7, 5.
60 - 1 Cor 7, 6-7.
61 - Cf. Sir 14, 18.
62 - Fil 3, 19.
63 - Cf. 1 Re 19, 6-8.
64 - Cf. Gn 16, 1.
65 - Cf. Gn 30, 1.
66 - Cf. Gn 30, 9.
67 - 1 Cor 7, 4.
68 - Cf. Es 2, 1-10.
69 - Rm 2, 14.
70 - Gn 48, 5-6.
71 - Gal 4, 4-5.
72 - Rm 8, 23.
73 - Rm 9, 3-5.
74 - Cf. Dt 25, 5-6; Mt 22, 24.
75 - Mt 1, 16.
76 - Lc 3, 23.
77 - Lc 2, 48.
78 - Mt 1, 19.
79 - Cf. Lc 1, 62-63.
80 - Lc 1, 31.
81 - Mt 1, 20-21.
82 - Lc 2, 7.
83 - Lc 3, 23.
84 - Cf. Gn 22, 18.
85 - Cf. 2 Sam 12.
86 - Cf. Gn 15, 13; At 7, 6.
87 - Cf. 2 Cor 5, 6.
88 - Cf. Dt 9, 9.
89 - Cf. 1 Re 19, 8.
90 - Cf. Mt 4, 2.
91 - Cf. Nm 32, 13.
92 - Cf. Gn 7, 4.
93 - Cf. At 1, 3.
94 - Cf. 2 Cor 5, 6.
95 - Cf. 1 Cor 11, 26.
96 - Cf. Gv 1, 14.
97 - Cf. Rm 4, 25.
98 - Gv 1, 14.
99 - Cf. Mt 3, 16-17; Lc 3, 21-22.
100 - Cf. 1 Tm 6, 10.
101 - Cf. Fil 2, 21.
102 - Cf. 1 Cor 13, 5.
103 - Amos 1, 3; 6, 9.
104 - Mt 18, 22.
La filotea: Parte terza
La filotea - San Francesco di Sales
Leggilo nella BibliotecaContiene molti consigli per l’esercizio delle virtù
Capitolo I
LA SCELTA NECESSARIA NELL’ESERCIZIO DELLE VIRTU’
Come la regina delle api non esce mai senza essere circondata da tutto il suo piccolo popolo, così la carità non entra mai in un cuore senza condurre al suo seguito tutte le altre virtù. Come un buon capitano le mantiene tutte in esercizio e le impiega in vari compiti, come soldati: chi per un servizio, chi per un altro; chi in un modo, chi in un altro; chi prima e chi dopo; chi in questo luogo chi in quell’altro.
Il giusto è come un albero piantato lungo un corso d’acqua che porta i frutti nella sua stagione. Quando la carità entra in un’anima, produce in essa frutti di virtù, ciascuno a suo tempo.
La musica briosa, tanto gradevole in sé, può essere fuori luogo in un lutto. Sono molti ad avere il difetto che ora ti dico: siccome si sono impegnati in una determinata virtù, si intestardiscono a volerla praticare in tutte le circostanze, e vogliono o piangere senza interruzione o ridere senza fine; proprio come certi antichi filosofi. Anzi, fanno di peggio: trovano da ridire e coprono di biasimo quelli che non li seguono nell’esercizio delle "loro" virtù.
L’Apostolo dice che bisogna rallegrarsi con quelli che sono contenti e piangere con quelli che sono afflitti; dice anche che la carità è paziente e benevola, aperta e prudente, accondiscendente.
Ci sono, a dire il vero, delle virtù che hanno un impiego quasi universale, per cui, non soltanto non devono essere praticate separatamente, ma anzi devono arricchire delle loro qualità gli atti di tutte le altre virtù. Per esempio, le occasioni di praticare la forza, la magnanimità, la munificenza, non sono molto frequenti; altre virtù invece, come la dolcezza, la temperanza, l’onestà e l’umiltà devono dare colore e splendore agli atti di tutte le altre virtù. Non è che non ci siano virtù superiori in eccellenza; ma il fatto è che queste sono richieste con maggior frequenza. Lo zucchero è più buono del sale, ma il sale ha un impiego più frequente e più generale. Questa è la ragione per la quale occorre avere sempre pronta una buona provvista di queste virtù generali. Si può dire che il loro impiego sia necessario quasi ininterrottamente.
Nell’esercizio delle virtù dobbiamo dare la precedenza a quelle più utili al compimento del nostro dovere, non a quelle che ci piacciono di più. A Santa Paola piacevano le asprezze delle mortificazioni corporali per godere più facilmente delle dolcezze dello spirito, ma il suo primo dovere era l’obbedienza ai superiori; questa è la ragione per la quale S. Girolamo dice che era da riprendere perché si dava a digiuni incontrollati contro il parere del suo Vescovo.
Gli Apostoli, per contro, istituiti per predicare il Vangelo e distribuire il pane celeste alle anime, giudicarono cosa molto ben fatta, per poter esercitare tale mansione senza distrazioni, tralasciare la pratica della virtù della cura dei poveri, che pure, in sé, è ottima.
Ogni vocazione ha le sue virtù particolari: le virtù proprie di un Vescovo non sono quelle di un principe; le virtù adatte ad un soldato non sono quelle di una donna sposata; quelle di una vedova, sono altre ancora. E’ vero che tutti devono possedere tutte le virtù, ma questo non vuol dire che debbano praticarle allo stesso modo; ognuno deve impegnarsi in modo tutto speciale in quello proprie dello stato cui è stato chiamato.
Tra le virtù che non riguardano in modo specifico il nostro stato, dobbiamo dare la preferenza alle migliori e non alle più appariscenti. Alla vista le comete sembrano più grandi delle stelle e ai nostri occhi hanno una dimensione maggiore; e invece non sono nemmeno paragonabili alle stelle, né per grandezza, né per luminosità; ci sembrano più grandi solo perché sono più vicine a noi e composte di materiale più grossolano di quello delle stelle.
Lo stesso avviene per certe virtù che, per il fatto che sono più vicine a noi, sono sensibili e direi quasi palpabili, il popolino le stima molto e le preferisce.
Per questo rimane più colpito dall’elemosina materiale che da quella spirituale; antepone il cilicio, il digiuno, la nudità, la disciplina e le mortificazioni del corpo alla dolcezza, alla bontà, alla modestia e altre mortificazioni del cuore: se vogliamo essere onesti, queste ultime sono di molto migliori.
Tu, Filotea, devi scegliere le virtù più consistenti, non quelle che godono di maggior stima; le più efficaci, non le più appariscenti; le migliori, non le più onorate.
E’ bene che ognuno scelga l’esercizio particolarmente intenso di qualche virtù, non per questo abbandonando le altre , ma per tenere sempre abitualmente il proprio spirito ordinato e occupato.
Una giovane donna, bellissima, splendida più del sole, vestita come una regina, cinta di una corona di olivo, apparve a S. Giovanni, Vescovo di Alessandria e gli disse: Sono la figlia primogenita del Re, se mi accetti come amica ti condurrò alla sua presenza. La riconobbe, era la Misericordia verso i poveri che Dio voleva da lui. Vi si consacrò con tanta assiduità che fu chiamato S. Giovanni Elemosiniere.
Eulogio di Alessandria desiderava compiere qualche cosa di speciale per il Signore: siccome non aveva abbastanza salute per abbracciare la vita dell’eremita o per porsi sotto l’obbedienza di un altro, accolse presso di sé un emarginato dalla società, campione di ogni vizio e ladroneria, per esercitare nei suoi confronti la carità e la mortificazione; per farlo ancora meglio fece voto di onorarlo, trattarlo e servirlo come un domestico nei confronti del suo padrone e signore. Ad un certo momento, sia l’uno che l’altro, ebbero la tentazione di separarsi; chiesero consiglio al grande S. Antonio che disse: Figli miei, guardatevi bene dal separarvi uno dall’altro; siete oramai prossimi alla vostra fine, e se l’Angelo non vi trova insieme, correte grande pericolo di perdere le vostre corone.
Il Re S. Luigi considerava un premio visitare gli ospedali e serviva gli ammalati di persona.
S.Francesco amava tanto la povertà, che la chiamava la sua signora; S. Domenico invece, amava tanto la predicazione, che ne ha dato il nome ai suoi Frati. S. Gregorio il Grande, sull’esempio di Abramo, trattava i pellegrini con affetto, e il Re della gloria gli fece lo stesso onore che aveva fatto al Patriarca Abramo presentandosi a lui in veste di pellegrino.
Tobia esercitava la virtù della sepoltura dei morti. S. Elisabetta, che pure era una grande principessa, amava l’abiezione di se stessa. S. Caterina da Genova, rimasta vedova, si consacrò al servizio degli ospedali. Cassiano racconta che una ragazza devota, volendo esercitare la virtù della pazienza, ricorse a S. Atanasio, che le pose a fianco una vedova triste, collerica, dispettosa, insofferente che, aggredendola senza interruzione, le diede modo di praticare alla perfezione la dolcezza e la condiscendenza.
Tra i Servitori di Dio c’è chi si impegna nel servizio dei malati, chi ad aiutare i poveri, chi a promuovere la conoscenza della dottrina cristiana tra i piccoli, chi a radunare le anime perdute o smarrite, chi a preparare le chiese e ad ornare gli altari, chi a procurare la pace e la concordia tra gli uomini.
In ciò imitano i ricamatori, i quali, su fondi diversi, dispongono in studiata varietà le sete, l’oro, l’argento, per formare fiori di ogni specie; la stessa cosa fanno quelle anime pie che iniziano uno speciale esercizio di devozione. Tale devozione serve loro da fondo per il ricamo spirituale, sul quale poi impostano le variazioni di tutte le altre virtù; in tal modo mantengono i loro atti e i loro affetti uniti e ordinati proprio in forza del rapporto in cui mantengono le singole virtù con la principale. Per tale motivo il loro spirito appare nel suo bel vestito di broccato d’oro ricamato e trapunto di vari motivo all’ago.
Quando siamo combattuti da qualche vizio, abbracciamo la virtù contraria, sempre che siamo in condizione di farlo, riconducendo le altre a quella. In tal modo sconfiggeremo il nemico e continueremo a progredire in tutte le virtù.
Se sono combattuto dall’orgoglio e dalla collera, devo assolutamente chinarmi e piegarmi all’umiltà e alla dolcezza; per riuscirvi, ricorrerò all’orazione, ai Sacramenti, alla prudenza, alla costanza, alla sobrietà.
Prendo il paragone del cinghiale, il quale, per rendere aguzze le zanne di difesa le sfrega e le appuntisce con l’aiuto degli altri denti, il che fa sì che tutti ne risultino affilati e taglienti; allo stesso modo, l’uomo virtuoso, che ha iniziato l’opera della perfezione, deve limare e affilare quella virtù della quale sente maggiormente il bisogno per la propria difesa; e questo per mezzo dell’esercizio delle altre virtù, che, a loro volta, mentre affilano quella, ne traggono vantaggio, migliorano e risultano meno ruvide.
Così capitò a Giobbe, che esercitando in modo particolare la virtù della pazienza, a causa di tante tentazioni cui era sottoposto, finì col diventare perfettamente santo e virtuoso in tutte le virtù e sotto ogni aspetto.
Secondo quanto dice S. Gregorio di Nazianzo, può capitare che, per un solo atto perfetto di una virtù, qualcuno raggiunga l’apice di tutte le virtù. Come esempio porta Raab che, per aver praticato in modo perfetto l’ospitalità, giunse a somma gloria; ciò si deve intendere solo per i casi in cui l’atto è stato veramente perfetto, e animato da un grande fervore di carità.
Capitolo II
CONTINUAZIONE DEL MEDESIMO DISCORSO SULLA SCELTA DELLA VIRTU’
Molto bene dice S. Agostino quando afferma che coloro i quali iniziano il cammino della devozione commettono certi errori che, stando al rigore dei canoni sulla perfezione, sono biasimevoli; ma per un altro verso sono lodevoli perché sono segno della grande pietà che seguirà; ne sono in certo modo l’avvio.
Il timore servile, frutto d’ignoranza, che genera scrupoli eccessivi nelle anime di coloro che escono dall’abitudine al peccato, all’inizio può essere una virtù raccomandabile; fa prevedere con sicurezza una retta coscienza in futuro. Se lo stesso timore dovesse persistere in coloro che hanno già fatto un certo progresso, sarebbe un segno negativo; perché nel cuore di costoro deve dominare l’amore che, per gradi, elimina il timore servile.
Agli inizi, S. Bernardo era rigido e rude con coloro che si ponevano sotto la sua direzione: diceva loro, per prima cosa, che era necessario abbandonare il corpo per continuare verso di Lui solo con lo spirito. Quando ascoltava le loro confessioni, aggrediva con tale severità ogni loro difetto, per piccolo che fosse, e faceva pressioni con tanta forza su quei poveri principianti, che volendo spingerli con troppa forza verso la perfezione, finiva per farli rinunciare e tornare indietro. Sotto quelle pressioni ininterrotte si scoraggiavano e si sentivano incapaci di affrontare una salita così ripida e così lunga.
Se rifletti un po’, Filotea, giungi alla conclusione che si trattava di uno zelo molto bruciante di un’anima perfetta che consigliava a quel grande santo quel tipo di metodo. Quello zelo era senz’altro una grande virtù in sé, ma una virtù che pur essendo tale, nel caso specifico era da riprovare. Dio stesso gli apparve e lo corresse e colmò la sua anima di uno spirito dolce, soave, amabile e tenero, che lo resero totalmente un altro. Si accusò di essere troppo rigido e severo e si trasformò in un uomo tanto cordiale e arrendevole con tutti, da potergli applicare il detto: Tutto a tutti, per conquistare tutti.
S.Girolamo racconta che la sua cara figlia spirituale S. Paola, non solo era portata all’esagerazione, ma era testarda nella pratica delle mortificazioni corporali, fino a non volersi arrendere al parere contrario che il suo Vescovo, S. Epifanio, le aveva espresso al riguardo. Oltre a ciò, si era lasciata andare talmente al pianto per la morte dei suoi, che aveva rischiato di morire. S. Girolamo conclude: Mi direte che anziché tessere le lodi di questa santa, sto scrivendone critiche e rimproveri. Ma, davanti a Gesù, che ella ha servito e che io voglio servire, affermo che non mento né pro né contro, come cristiano di una cristiana; voglio dire che io ne sto scrivendo la storia e non un panegirico; i suoi vizi sono virtù per gli altri. Intende dire cjìhe gli scarti e i difetti di S. Paola sarebbero state virtù in un’anima meno perfetta; se consideriamo seriamente le cose troveremo degli atti che vengono considerati difetti in coloro che sono perfetti, che potrebbero essere considerate grandi perfezioni in coloro che sono imperfetti. In uno che esce dalla malattia è buon segno avere le gambe gonfie, perché dimostra che la natura ha già ripreso vigore e si sbarazza degli umori superflui; ma lo stesso sintomo sarebbe cattivo indizio in una persona non malata, perché starebbe ad indicare che la natura non ha sufficiente vigore per eliminare e assorbire gli umori.
Filotea, bisogna avere una buona opinione di quelli che vediamo impegnati nella pratica delle virtù, anche se frammiste a imperfezioni; anche i Santi le hanno praticate in tal modo.
Per quello che ci riguarda personalmente, dobbiamo impegnarci ad esercitarle molto seriamente, non soltanto con fedeltà, ma anche con prudenza. A tal fine facciamo nostro il consiglio del Saggio: Non fare affidamento sulla tua prudenza, ma su quella di coloro che Dio ti ha dato per guidarti.
Ci sono alcune cose che molti considerano virtù, e invece non lo sono affatto! Bisogna che te ne parli in po’. Sono le estasi, i rapimenti, l’insensibilità, l’impassibilità, l’unione deificante, le elevazioni, le trasformazioni e simili perfezioni su cui si dilungano alcuni libri, che promettono l’elevazione dell’anima fino alla contemplazione puramente intellettuale, all’adesione essenziale dello spirito e alla vita superiore.
Vedi, Filotea, queste perfezioni non sono virtù; sono piuttosto ricompense che Dio concede come premio alle virtù o, meglio ancora, saggi della felicità della vita futura, che, qualche volta, il Signore fa intravedere agli uomini per far loro desiderare il tutto lassù in paradiso.
Questa non è una ragione per esigere tali grazie, anche perché non sono in nessun modo necessarie per servire e amare Dio, che deve essere la nostra unica aspirazione. Non sono grazie che possono essere conquistate con lavoro e impegno perché, più che di azioni si tratta di passioni, che siamo in grado di ricevere, ma non di procurare.
Aggiungo che noi abbiamo iniziato un cammino per diventare persone oneste, gente devota, uomini pii, donne pie; ecco perché dobbiamo impegnarci seriamente. Se poi Dio ha deciso di innalzarci fino a quelle perfezioni angeliche, sapremo essere anche dei buoni angeli; in attesa, con molta semplicità, umiltà e devozione, esercitiamoci alle piccole virtù, messe da Nostro Signore alla portata del nostro impegno e del nostro lavoro: e sono, ad esempio, la pazienza, la bontà, la mortificazione del cuore, l’umiltà, l’obbedienza, la povertà, la castità, la dolcezza nei confronti del prossimo, la sopportazione delle sue imperfezioni, la diligenza e il fervore delle cose sante.
Lasciamo volentieri le altezze alle anime grandi: non siamo capaci di un ruolo così elevato nel servizio di Dio. Saremo già contenti di poterlo servire in cucina o come fornai, di essere suoi servi, suoi facchini, magari suoi camerieri; è Lui soltanto che può decidere di chiamarci a far parte degli intimi e del consiglio privato.
E’ così, Filotea. Perché questo Re di gloria non dà ai suoi servi le ricompense secondo il livello dei compiti assegnati, ma secondo l’amore e l’umiltà che hanno messo nell’esercitarli.
Saul cercava le asine di suo padre e trovò il regno di Israele; Rebecca abbeverò i cammelli di Abramo e divenne sposa del figlio; Ruth, dopo aver spigolato dietro ai mietitori di Booz, si coricò ai suoi piedi, ma egli la volle al suo fianco e divenne sua sposa.
La pretesa di cose straordinarie così alte ed elevate è facilmente occasione di illusioni, inganni, e falsità. Capita qualche volta che coloro i quali pensano di essere angeli non siano nemmeno uomini come si deve; in loro, alla prova dei fatti, trovi soltanto sfoggio di parole e termini magniloquenti, ma vuoto di sentimenti e assenze di opere.
Tuttavia non è bene disprezzare e censurare in modo temerario; Benediciamo Dio per la superiorità degli altri, ma rimaniamo nel nostro cammino, che corre più a valle ma è più sicuro, meno appariscente, ma più alla portata della nostra insufficienza e della nostra pochezza; e se noi ci manteniamo in quello con umiltà e fedeltà, Dio ci innalzerà a grandezze maggiori.
Capitolo III
LA PAZIENZA
Voi avete bisogno di pazienza, affinché, facendo la volontà di Dio, meritiate di conseguire la sua promessa, dice l’Apostolo. Il Salvatore aveva detto: con la pazienza conquisterete la padronanza delle vostre anime.
Dominare la propria anima è la massima aspirazione dell’uomo, e il dominio dell’anima è commisurato al livello della pazienza!
Ricordati spesso che Nostro Signore ci ha salvato soffrendo con costanza; è nello stesso modo che noi potremo operare la nostra salvezza, sopportando la sofferenza, le afflizioni, le ingiurie, le contraddizioni, i dispiaceri con la maggior dolcezza che ci sarà possibile.
Non limitare la tua pazienza a un genere determinato di ingiurie o di afflizioni, ma estendile a tutte quelle che il Signore ti manderà o permetterà che tu incontri. Alcuni vogliono sopportare soltanto le tribolazioni che procurano onore, come per esempio: essere feriti in guerra, essere prigionieri di guerra, essere maltrattati a causa della religione, diventare poveri per una lite da cui sono usciti vincitori. Io dico che costoro non amano la tribolazione, ma soltanto l’onore che ne deriva. Il vero paziente, ossia chi vuole servire Dio, sopporta con animo uguale le tribolazioni unite al disonore e quelle che danno onore. Se ci disprezzano, ci attaccano e ci accusano i cattivi, per un uomo di coraggio è una vera gioia; ma se quelli che ci attaccano, ci accusano e ci maltrattano, sono gente per bene, amici, i genitori, altri parenti, allora sì che va bene!
Ho una stima maggiore per la dolcezza con la quale S. Carlo Borromeo sopportò a lungo gli attacchi che gli sferrava pubblicamente dal pulpito un predicatore di fama, appartenente ad un Ordine rigorosissimo nell’ortodossia, che non per tutti gli altri attacchi sopportati.
Le punture delle api fanno più male di quelle delle mosche; allo stesso modo il male che riceviamo dalla gente per bene e le opposizioni che ci fanno, risultano molto più difficili da sopportare che qualunque altra. Capita abbastanza spesso che due brave persone, entrambi con la migliore intenzione di questo mondo, per divergenza di opinione, si facciano guerra senza quartiere, accanendosi l’uno contro l’altro.
Non essere paziente soltanto nel momento culminante della tribolazione, ma anche in tutti gli inconvenienti e i guai che si trascina dietro. Molti accetterebbero anche di avere qualche guaio a condizione di non soffrirne conseguenze. Non sono dispiaciuto di essere caduto in povertà, dirà uno, però questo nuovo stato di cose mi impedisce di essere utile agli amici, di educare i miei figli e di vivere in modo decoroso, come avrei voluto.
Dirà un altro: Io non mi preoccuperei se la gente non dicesse che è colpa mia. C’è anche quello che non tiene in alcun conto le maldicenze contro di lui e le sopporterebbe volentieri se i presenti non prestassero fede al maldicente. Altri ancora accettano di provare qualche conseguenza del male, ma, a loro parere, tutte sono troppe! Non si impazientiscono, dicono, di essere malati, ma solo perché non hanno il denaro per farsi curare; trovano anche la scusa che in tale stato sono di peso agli altri. Io dico, Filotea, che occorre sopportare con pazienza, non solo lo stato di malattia, ma anche la malattia che Dio vuole, nel luogo dove vuole, circondati dalle persone che vuole, e con gli inconvenienti che vuole; e così per tutte le altre tribolazioni.
Quando sarai colpita dal male, contrapponi tutti i rimedi che Dio ha messo a tua disposizione; agire diversamente sarebbe tentare la divina Maestà: ma, una volta fatto ciò, aspetta con una fiducia totale, l’effetto che Dio vorrà loro concedere. Se Dio crede bene che i rimedi vincano il male, tu lo ringrazierai con umiltà; ma se invece crede bene di permettere che il male vinca i rimedi, benedicili con pazienza.
Io sono del parere di San Gregorio: quando ti accusano giustamente di qualche colpa realmente commessa, umiliati molto, confessa che meriti l’accusa che ti è stata mossa. Se poi sei accusata ingiustamente, discolpati con calma, prova che non sei colpevole: hai l’obbligo di rispettare la verità anche per il buon esempio al prossimo. Ma se dopo la tua sincera e onesta spiegazione dei fatti a tua discolpa, gli altri insistono nel caricare su di te le responsabilità dei fatti, non angustiarti in alcun modo e non cercare altre strade per far accettare la versione autentica dei fatti. Sai perché? Dopo che hai reso il suo alla verità, rendilo ora all’umiltà.
Lamentati meno che puoi per i torti che ricevi; è un fatto certo che chi abitualmente si lamenta finisce per peccare. E’ colpa dell’amor proprio che ingigantisce per professione i torti subiti: ma quello che più ti raccomando e di non andare a lamentarti con persone facili all’indignazione e a pensare male. Se proprio non puoi fare a meno di lamentarti con qualcuno, sia per riparare l’offesa, sia per calmare te stessa, rivolgiti a persone calme e piene di amore di Dio. Se non farai così, il tuo cuore, invece di ricavarne serenità, sarà spinto ad essere ancora più inquieto: invece di toglierti la spina che ti punge appena, te la conficcherebbero più profondamente nel piede. Ci sono poi alcuni che quando sono ammalati, afflitti o offesi da qualcuno, stanno bene attenti a non lamentarsi e a dimostrare troppa permalosità; a loro parere, ed è vero, ciò darebbe prova di grande debolezza e di mancanza di generosità; ma poi, nel fondo di loro stessi, desiderano intensamente che qualcuno li compatisca e si danno da fare con mille arti a tale scopo. Vogliono che tutti sappiano che loro sono afflitti, ma anche pazienti e coraggiosi! Ti pare che quella sia pazienza? Chiamala come vuoi, ma quella è soltanto una finta pazienza. In fondo è soltanto un’abile e studiata ambizione, è vanità: ne ricavano gloria, ma non davanti a Dio!
Il vero paziente non si lamenta del male e non desidera essere compatito; ne parla con naturalezza, sincerità e semplicità, senza lamenti, senza rimpianti, senza esagerazioni; se lo compatiscono, sopporta con pazienza i compatimenti, a meno che addirittura siano per mali che non ha; in tal caso, con molta umiltà, farà notare che quel male non l’ha e poi si manterrà con animo sereno nella pace tra la verità e la pazienza, ammettendo sì il male, ma senza lamentele.
Nelle contrarietà che ti piomberanno addosso nell’esercizio della devozione, e vedrai che non mancheranno, ricordati della parola di nostro Signore: La donna quando partorisce provi dolori molto forti, ma tutto dimentica alla vista del bambino, perché ha dato un uomo alla vita. Nella tua anima hai concepito il figlio più meraviglioso di questo mondo, Gesù Cristo. Prima che sia dato completamente alla luce e generato, può darsi che ti procuri ansia e sofferenza; ma fatti animo perché, passati quei dolori, ti rimarrà la gioia senza fine di aver dato tale uomo al mondo. Per quello che ti riguarda sarà generato totalmente solo quando l’avrai formato completamente nel tuo cuore e nelle tue azioni con l’imitazione della sua vita.
Quando sarai malata, offri i tuoi dolori, gli inconvenienti e le debolezze per il servizio del Signore, e chiedigli, con insistenza, di unirli a quanto Egli ha sopportato per te. Obbedisci al medico, prendi le medicine, i cibi e gli altri rimedi per amore di Dio; ricordati del fiele che egli ha preso per amore nostro.
Desidera pure di guarire per servirlo, ma non rifiutare di essere ammalata per obbedirgli; e preparati anche alla morte, se quella a lui piacesse, per lodarlo e gioire con Lui. Le api nel periodo in cui fanno il miele, vivono e si nutrono con una sostanza molto amara; lo stesso avviene per noi: non potremo mai compiere atti di grande dolcezza e pazienza, fare il miele delle buone virtù, finché non saremo capaci di mangiare il pane dell’amarezza e vivere tra le sofferenze. Il miele ricavato dai fiori di timo, piccola erba amara è, senza confronti, il migliore; lo stesso è della virtù esercitata nell’amarezza delle tribolazioni più vili, basse e abbiette.
Guarda spesso con gli occhi interiori Gesù cristo crocifisso, spogliato, bestemmiato, calunniato, abbandonato, oppresso da ogni sorta di mali, tristezze e ansie, e pensa che tutte le tue sofferenze non sono in alcun modo paragonabili alle sue, né per intensità, né per numero; e pensa che mai riuscirai a soffrire per Lui quello che Egli ha sofferto per te.
Considera i tormenti atroci sopportati dai Martiri e le sofferenze che tante persone sopportano e che sono, senza confronto, più penose delle tue, e poi dì a te stessa: Le contrarietà che mi affliggono sono consolazioni e le mie spine sono rose a confronto di coloro che vivono in una morte continua, oppressi da croci infinitamente più gravose e questo senza aiuti, senza consolazioni, senza alcun sollievo.
Capitolo IV
L’UMILTA’ ESTERIORE
Disse il profeta Eliseo ad una povera vedova: Prendi tutti i vasi vuoti che hai e riempili d’olio. Per ricevere la grazia di Dio nei nostri cuori, dobbiamo vuotarli di noi stessi. Il gheppio, stridendo e fissando gli uccelli da preda, li mette in fuga per una forza misteriosa; per questo è il preferito delle colombe, che vicine a lui si sentono sicure. Allo stesso modo l’umiltà respinge Satana e conserva in noi le grazie e i doni dello Spirito Santo. E’ per questo che i Santi, e in modo particolare il Re dei Santi e sua Madre, onorano e amano l’umiltà più di tutte le altre virtù morali.
Sono diverse le ragioni per le quali dobbiamo considerare vana la gloria che ci viene attribuita: o perché non è in noi, o anche perché, pur essendo in noi, non è nostra; o anche perché, pur essendo in noi ed essendo nostra, non è meritata. La nobiltà della stirpe, il favore dei potenti, la popolarità, sono glorie che non hanno radice in noi, ma o nei nostri predecessori o nella stima degli altri. C’è gente che va superba e altera perché cavalca un bel destriero, perché ha un bel pennacchio sul cappello, perché indossa vestiti meravigliosi. Non ti pare che quella gente sia un po’ matta? Se proprio vogliamo parlare di gloria, spetta al cavallo, allo struzzo, al sarto. Ci vuole proprio un bel coraggio per prendere in prestito un po’ di stima da un cavallo, da una piuma, da una piega dell’abito!
Altri si sentono importanti e si danno delle arie per un bel paio di baffi all’insù, per una barba ben curata, per i capelli ricciuti, per le mani delicate; perché sanno danzare, giocare, cantare; e non ti pare che anche questi abbiano una rotellina fuori posto? Vorrebbero aumentare il proprio pregio e la propria reputazione con cose frivole e insulse!
Ci sono poi quelli che, per quel poco che sanno, esigono onore e rispetto dal mondo intero; tutti dovrebbero, secondo loro, precipitarsi a imparare qualcosina alla loro scuola. Loro si sentono maestri, la gente li considera soltanto dei pedanti. Ci sono anche quelli che sono convinti di essere molto belli e credono che tutti li corteggino.
Tutto ciò è tremendamente vuoto, sciocco e senza senso; la gloria che proviene da "valori" così insignificanti deve essere ritenuta vana, sciocca e frivola.
Il bene vero si conosce come il vero balsamo: la prova della genuinità del balsamo si fa distillandolo nell’acqua; se va a fondo e rimane sommerso è valutato finissimo e prezioso. Allo stesso modo per sapere
se un uomo è veramente saggio, sapiente, generoso, nobile, bisogna vedere se le sue doti tendono all’umiltà, alla modestia, al nascondimento; in tal caso si tratta di doti genuine; ma se galleggiano e si mettono in mostra sono false e tanto maggiori saranno gli sforzi che faranno per farsi notare, tanto più sarà evidente che non sono doti autentiche.
Le perle nate e cresciute all’aperto, al vento e al rumore dei tuoni, hanno soltanto l’involucro di perle, dentro sono vuote. Allo stesso modo le virtù e le belle qualità degli uomini, nate e cresciute nell’orgoglio, nell’esaltazione di sé e nella vanità, hanno soltanto l’apparenza del bene, senza linfa, senza midollo e senza solidità. Gli onori, la stirpe, le dignità sono come lo zafferano: più lo calpesti e più si rinforza e rende bene. Essere belli, quando ci si tiene, perde il suo pregio: la bellezza per piacere deve essere disinvolta; la scienza ci rende ridicoli quando ci gonfia e degenera in pedanteria.
Se siamo puntigliosi per la stirpe, per il rango, per i titoli, offriamo le nostre qualità all’esame sindacatore degli altri, alla loro inchiesta su di noi, all’indagine e così ci ritroveremo le nostre credute qualità svuotate e scostanti; sì, perché l’onore che è bello quand’è ricevuto in dono, diventa dozzinale e di nessun pregio quando è preteso, cercato e mendicato.
Quando il pavone fa la ruota per farsi notare, drizzando le sue belle piume, scopre tutto il resto e fa vedere da tutte le parti ciò che ha di meno bello; i fiori sono belli quando sono piantati in terra; una volta staccati appassiscono. Il profumo della mandragora può esserci di aiuto per capire: coloro che la odorano da lontano e di passaggio, ne rimangono conquistati; ma coloro che la odorano da vicino e con insistenza ne rimangono intontiti o addirittura ammalati; lo stesso avviene per gli onori che danno una dolce consolazione a chi li gode da lontano e solo leggermente senza spenderci troppo e diventare ansioso; ma chi ci si attacca e se ne ciba, merita di essere biasimato e ripreso.
La ricerca e l’amore della virtù ci rende già un po’ virtuosi; la ricerca e l’amore degli onori invece, ci rende soltanto meritevoli di disprezzo e di rimprovero. Le persone serie non perdono tempo nell’inutile groviglio di gerarchie, di onori, di saluti; hanno altro da fare! Questo è un terreno per il perditempo.
Chi può avere perle non va alla ricerca di conchiglie: coloro che tendono alla virtù, non si agitano alla caccia di onori.
Ognuno ha diritto di rimanere nel proprio rango senza mancare di umiltà, a condizione che ciò avvenga con naturalezza e senza contese.
Mi sembra che si possa fare un paragone con quelli che tornano dal Perù i quali, oltre all’oro e all’argento, portano con sé anche scimmie e pappagalli; costano poco e non pesano molto per il carico della nave; così è di coloro che tendono alla virtù senza per questo lasciare il loro rango e gli onori inerenti; a condizione che ciò non sottragga loro troppo tempo e troppa attenzione e che sia senza gravarsi di dubbi, d’inquietudine, di dispute e di contese. Tuttavia non parlo di coloro la cui dignità è in rapporto con una carica pubblica e nemmeno di alcune situazioni particolari nelle quali le conseguenze potrebbero incidere negativamente; in tali casi ognuno deve rimanere al posto che gli compete con prudenza e discrezione, accompagnate sempre da carità e cortesia.
Capitolo V
L’UMILTA’ INTERIORE
Tu, Filotea, mi chiedi di condurti avanti nell’umiltà: quello che ho detto finora riguarda più il campo della saggezza che quello dell’umiltà; quindi andiamo avanti.
Molti non vogliono pensare alle grazie che Dio ha loro dato personalmente, non ne hanno il coraggio perché temono di cadere nella vanagloria e nel vuoto compiacimento. E qui si sbagliano: S. Tommaso d’Aquino dice che il mezzo per giungere all’amore di Dio è il pensiero dei suoi benefici; meglio li conosciamo e più amiamo Dio.
Direi proprio che niente può umiliarci di fronte alla misericordia di Dio quanto i suoi benefici, e niente può umiliarci di fronte alla sua giustizia quanto le nostre offese. Pensiamo a quello che Egli ha fatto per noi e a quello che noi abbiamo fatto contro di Lui; e, come dobbiamo pensare ai nostri peccati più piccoli, dobbiamo pensare alle sue grazie più piccole. Non dobbiamo temere che il conoscere i doni che ha posto in noi ci gonfi; è sufficiente che abbiamo sempre presente questa verità: ciò che di buono c’è in noi non viene da noi.
Rifletti: i muli, animali pesanti e maleodoranti, non cessano di essere tali solo perché sono carichi di mobili preziosi e profumati appartenenti al principe. Che cosa abbiamo di buono che non ci sia stato dato?
E se ci è stato dato, perché insuperbircene? E’ proprio il contrario: la seria riflessione sui doni ricevuti ci rende umili; la conoscenza genera la riconoscenza.
Ma se poi, vedendo i doni di Dio in noi, venisse a solleticarci in qualche modo la vanità, c’è sempre pronto un rimedio infallibile: pensiamo alla nostra ingratitudine, alla nostra imperfezione, alla nostra miseria: se pensiamo ai guai che abbiamo combinato quando Dio non era con noi, scopriremo subito che quanto di buono riusciamo ad imbastire con Lui, non è nel nostro stile e del nostro sacco. Ne proveremo gioia sincera perché il bene c’è, ma ne daremo il merito a Dio perché Lui solo ne è l’autore.
La Santa Vergine dice che Dio opera in lei meraviglie, e lo fa soltanto per umiliarsi e dare gloria a Dio; la mia anima magnifica il Signore, dice, perché ha fatto in me cose grandi.
Spesso diciamo che non siamo nulla, anzi che siamo la miseria in persona, la spazzatura del mondo; ma resteremmo molto male se ci prendessero alla lettera e se ci considerassero in pubblico secondo quanto diciamo. E’ proprio il contrario: fingiamo di fuggire e di nasconderci solo perché ci inseguano e ci cerchino; dimostriamo di voler essere gli ultimi, seduti proprio all’ultimo angolino della tavola, ma soltanto per passare con grande onore a capotavola.
L’umiltà vera non finge di essere umile, a fatica dice parole di umiltà; perché è suo intendimento non solo nascondere le altre virtù, ma soprattutto vorrebbe riuscire a nascondere se stessa; se le fosse lecito mentire, o addirittura scandalizzare il prossimo, prenderebbe atteggiamenti arroganti e superbi, per potercisi nascondere e vivere completamente ignorata e nascosta.
Eccoti il mio parere, Filotea: o evitiamo di dire parole di umiltà, oppure diciamole con profonda convinzione, profondamente rispondente alle parole. Non abbassiamo gli occhi senza umiliare il cuore; non giochiamo a fare gli ultimi se non intendiamo esserlo per davvero. Questa è la mia regola generale e non faccio alcuna eccezione; aggiungo soltanto questo: la buona educazione esige qualche volta che cediamo la precedenza a persone che certamente non l’accetteranno; questa non è doppiezza o falsa umiltà: in tal caso l’offerta della precedenza è un segno d’onore, e poiché non ci è concesso di tributarlo a chi di dovere secondo il merito, non è cosa fatta male darne almeno un piccolo segno. Questo vale anche per alcune espressioni di onore e di rispetto che, strettamente prese, non sembrano rispecchiare la verità: ma lo sono abbastanza se colui che le pronuncia ha seriamente l’intenzione di onorare e dimostrare rispetto a colui cui sono indirizzate. Anche se le parole hanno un significato che va oltre la nostra intenzione, non facciamo nulla di male a servircene quando l’uso è corrente. Personalmente preferirei che le parole fossero rispondenti, il più fedelmente possibile, ai nostri pensieri, e questo per poter seguire sempre e dappertutto la linea della semplicità e della spontaneità affettuosa.
L’uomo sinceramente umile sarebbe più contento se fosse un altro, anziché lui stesso, a dire di lui che è un miserabile, un nulla, un buono a nulla; o, perlomeno, se sa che si dice, non si oppone, ma approva di cuore. Perché, se è vero che ne è convinto, è naturale che ne sia contento di vedere condivisa la sua opinione.
Molti affermano che vogliono lasciare l’orazione mentale ai perfetti perché essi non ne sono degni; altri protestano che non hanno il coraggio di fare spesso la comunione, perché non si sentono sufficientemente purificati; altri ancora dicono di temere di essere causa di disonore per la devozione se ci si impegnano, a causa della loro enorme miseria e fragilità; altri rifuggono dal mettere i loro talenti al servizio di Dio e del prossimo perché, dicono, conoscono la loro debolezza e potrebbero inorgoglirsi vedendosi strumenti di qualche cosa di buono; temono di consumarsi facendo luce agli altri. Tutte queste preoccupazioni sono soltanto inganni, una sorta di umiltà non soltanto falsa, ma perversa, per mezzo della quale, con molta sottigliezza e senza dirlo, si critica l’operato di Dio, o almeno si tenta di coprire di umiltà l’orgoglio della propria opinione, della propria indole, della propria pigrizia.
Domanda a Dio un segno dall’alto, dal cielo o dal basso, dal profondo del mare, dice il Profeta all’infelice Acaz, che risponde: No, non lo domanderò e non tenterò il Signore! E’ veramente perverso. Ostenta un grande sentimento di rispetto verso Dio e, colorando d’umiltà la sua presunzione, rifiuta la grazia di cui Dio vuole dargli un segno. Non pensa che rifiutare i doni che Dio vuole darci è orgoglio! Dobbiamo ricevere i doni che Dio ci manda; l’umiltà è obbedire e seguire da vicino i suoi disegni. Dio vuole che noi siamo perfetti e unendoci a Lui esige che lo seguiamo da vicino il più possibile. Il superbo, che confida solo in se stesso, ha infinite ragioni per non porre mano ad alcuna iniziativa; ma l’umile trova tutto il coraggio nella sua incapacità: più si sente debole e più diventa intraprendente, perché tutta la sua fiducia è riposta in Dio, che si compiace di manifestare la sua potenza nella nostra debolezza e far trionfare la sua misericordia basandola sulla nostra miseria.
Molto umilmente e santamente dobbiamo tentare tutto quello che è giudicato opportuno per il nostro progresso spirituale da coloro che hanno la responsabilità della nostra anima.
Pensare di sapere ciò che non si sa, è stupidità manifesta; voler fare il sapiente in un campo in cui sappiamo benissimo di essere ignoranti, è una vanità insopportabile; per conto mio non vorrei fare il sapiente nemmeno in quello che so, ma nemmeno atteggiarmi a ignorante.
Quando lo richiede la carità, bisogna dare al prossimo, con franchezza e dolcezza allo stesso tempo, non soltanto quanto gli è utile all’istruzione, ma anche ciò che gli fa piacere. L’umiltà nasconde e copre le virtù per conservarle, le lascia vedere quando lo esige la carità, per accrescerle, svilupparle e perfezionarle.
L’umiltà richiama alla mente quell’albero delle isole di Tilo che di notte chiude e protegge i suoi bei fiori di colore incarnato e li dischiude soltanto quando si alza il sole, sicché la gente del paese dice che questo fiore di notte dorme. Così fa l’umiltà che copre e nasconde tutte le virtù e le perfezioni umane e le lascia apparire solo per il servizio della carità, perché è una virtù del cielo, non della terra, divina, non umana: è il vero sole delle virtù sulle quali deve sempre brillare. Si può concludere che le forme di umiltà che portano pregiudizio alla carità, sono certamente false.
Non vorrei atteggiarmi a matto, ma nemmeno a saggio: perché se l’umiltà mi impedisce di fare il saggio, la semplicità e la franchezza mi impediscono di fare il matto; se è vero che la vanità è contraria all’umiltà, è anche vero che l’artificio, l’affettazione e la finzione sono contrarie alla franchezza ed alla semplicità.
E anche se qualche celebre servitore di Dio ha fatto il matto per essere schernito dal mondo, ammiriamolo pure, ma non imitiamolo. Per lasciarsi andare a quegli eccessi quei Servi di Dio hanno avuto motivi personali fuori dall’ordinario che non ci autorizzano a trarre conclusioni per noi.
Davide, saltando e danzando più di quanto sembrasse opportuno, davanti all’Arca dell’alleanza, non voleva fare il matto; ma, molto semplicemente e senza artifici, con quelle danze voleva dimostrare la gioia straordinaria di cui traboccava il suo cuore.
Quando sua moglie Micol glielo rimproverò cime una follia, non fece caso all’umiliazione, ma continuò a manifestare con naturale schiettezza la sua gioia e diede prova di saper accettare un po’ di disprezzo per il suo Dio.
Per questo io ti dico che, se a seguito di atti di una vera e schietta devozione, sarai stimata persona di poco conto, degna di disprezzo o pazza, l’umiltà ti farà gioire per quel fortunato attacco che non ha le sue ragioni in te, ma in coloro che ti attaccano.
Capitolo VI
L’UMILTA’ CI FA AMARE L’ABIEZIONE
Procedo oltre, Filotea, e ti dico di amare l’abiezione sempre e in tutto. Ma, mi chiederai, che cosa vuol dire amare la propria abiezione? In latino abiezione vuol dire umiltà e umiltà vuol dire abiezione; di modo che, quando la Madonna nel suo Cantico dice che, poiché il Signore ha visto l’umiltà della sua serva, tutte le generazioni la chiameranno beata, vuol dire che il Signore, con bontà, ha guardato la sua abiezione, la sua meschinità, la sua bassezza, per colmarla di grazia e di favori. C’è tuttavia differenza tra la virtù dell’umiltà e l’abiezione; l’abiezione è la pochezza, la bassezza e la meschinità che alberga in noi, senza che ci pensiamo; la virtù dell’umiltà invece, è la conoscenza veritiera e l’ammissione della nostra abiezione.
L’apice dell’umiltà così intesa consiste non soltanto nel riconoscere la nostra abiezione, ma nell’amarla ed esserne contenti; non per mancanza di coraggio o di generosità, ma per esaltare maggiormente la Maestà divina e dare al prossimo una stima maggiore che a noi stessi. Ti incoraggio a questo e, per essere più esplicito, ti dirò che, tra i mali che ci affliggono, alcuni sono spregevoli, altri onorati; a quelli onorati molti si adattano, ma nessuno vuol saperne di quelli spregevoli. Prendi, per esempio, un devoto eremita, coperto di cenci e tremante dal freddo: tutti onoreranno il suo abito a brandelli e proveranno compassione per la sua sofferenza; ma se un povero artigiano, un povero galantuomo o una povera ragazza si trovano nelle stesse condizioni, verranno coperti di disprezzo, derisi e la loro povertà sarà spregevole.
Se un Religioso accetta con devozione un duro richiamo dal superiore, o un figlio dal padre, tutti chiameranno quel comportamento mortificazione, obbedienza, saggezza; se un cavaliere o una dama dovessero subire, per amore di Dio, la stessa cosa da parte di qualcuno, di qualunque cosa si tratti, tutti la chiameranno codardia o vigliaccheria: ecco un altro male spregevole.
Poni il caso che uno abbia un tumore al braccio e un altro al volto: il primo soffre soltanto il male, ma il secondo, con il male, si trova il disprezzo, l’isolamento e l’abiezione.
Io ti dico che non soltanto devi amare il male, il che è opera della virtù della pazienza; tu devi amare anche l’abiezione, e questo è opera dell’umiltà.
Ci sono poi delle virtù disprezzate e delle virtù onorate: la pazienza, la dolcezza, la semplicità e la stessa umiltà, per i mondani , sono virtù vili e da disprezzare; per contro stimano molto la prudenza, il valore, la liberalità.
Ci sono addirittura atti della stessa virtù che a volte sono disprezzati e a volte onorati; prendi, ad esempio, l’elemosina o il perdono delle offese; sono entrambi atti di carità: la prima è onorata da tutti, il secondo è disprezzato dal mondo. Un giovanotto o una ragazza che non si lasciano trascinare ai disordini di una brigata dissoluta nel parlare, nel giocare, nel ballare, nel bere, nel vestire come loro, saranno scherniti e criticati e il loro riserbo sarà chiamato bigottismo o esibizionismo. Amare queste conseguenze vuol dire amare la propria abiezione.
Passiamo a un altro campo: la visita agli ammalati. Se ti mandano dal più reietto secondo il mondo, per te sarà un’abiezione; per questo l’amerai. Se ti mandano da gente bene sarà un’abiezione secondo lo spirito, perché il merito e le virtù saranno minori; amerai anche quella abiezione. Se si cade nel bel mezzo della strada, oltre al male, ci trovi la vergogna; anche questa va amata. Ci sono alcune colpe che non comportano altro male all’infuori dell’abiezione; l’umiltà non esige che le commettiamo apposta, ma, che una volta commesse, non ce ne preoccupiamo. Si tratta di certe sciocchezze, mancanze di educazione, o sbadataggini, che vanno evitate finché si è in tempo, per comportarsi educatamente e con prudenza; ma una volta che ci siamo caduti, bisogna accettare l’abiezione che ne consegue ed accettarla di cuore per amore dell’umiltà.
Ma vado oltre: se per collera o mancanza di controllo, mi sono lasciata andare a parole indecorose o offensive di Dio e del prossimo, me ne pentirò sinceramente e sarò profondamente dispiaciuta per l’offesa che cercherò di riparare meglio che potrò; ma non lascerò passare l’occasione per accettare volentieri l’abiezione e il disprezzo che ricadranno su di me. Se fosse possibile separare le due cose, respingerei con forza il peccato e terrei umilmente l’abiezione.
Ma pur amando l’abiezione che deriva dal male, non bisogna arrendersi alle fatalità del male che ne è la causa; bisogna correre ai ripari. Occorre farlo in modo efficace e con cura, soprattutto poi, quando il male è soltanto una conseguenza.
Se sono afflitta da un male spregevole al volto, farò di tutto per guarire, senza far nulla perché sia dimenticata l’abiezione che me ne è venuta. Se ho commesso qualche cosa che non offende alcuno, non cercherò scuse, perché, pur trattandosi di un difetto, non è permanente; se mi scusassi sarebbe solo per evitare l’abiezione che me ne viene. Questo l’umiltà non lo permette. Ma, se per disattenzione o leggerezza, ho offeso o scandalizzato qualcuno, riparerò l’offesa con qualche scusa che risponda a verità; perché in tal caso, il male ha radici e la carità esige che lo sradichi.
Qualche volta capita anche che la verità esiga che poniamo rimedio all’abiezione per il bene del prossimo, al quale è necessaria la nostra buona reputazione; in tal caso pur togliendo l’abiezione dagli occhi del prossimo, per impedirne lo scandalo, dobbiamo rinchiuderla e nasconderla nel nostro cuore perché ne sia edificato.
Tu, Filotea, vuoi sapere quali sono le abiezioni migliori: ti dico subito, e senza esitazione, che quelle più utili all’anima e più gradite a Dio, sono quelle che incontriamo per caso o che sono legate alla nostra condizione; la ragione è che non le abbiamo scelte noi, ma le abbiamo ricevute come Dio ce le ha mandate. E Lui sa scegliere sempre meglio di noi. Se fosse necessario scegliere, ricordati che le più grandi sono le migliori; e sai quali sono le più grandi? Quelle maggiormente contrarie alle nostre inclinazioni, sempre, beninteso, in linea con la nostra vocazione. Te lo dico una volta per sempre: la nostra scelta e la nostra preferenza rovina, o almeno diminuisce, tutte le nostre virtù. Chi ci farà la grazia di poter dire con il grande Re Davide: "Ho scelto di essere abietto nella casa del Signore. Piuttosto che abitare nelle tende dei peccatori"?
Il solo che lo può, cara Filotea, è Colui che per innalzare noi, è vissuto e morto come obbrobrio degli uomini e abiezione del popolo.
Ti ho detto molte cose che potranno sembrarti dure quando ci rifletterai sopra; ma, credimi, risulteranno più dolci dello zucchero e del miele, quando le metterai in atto.
Capitolo VII
COME VA CONSERVATO IL BUON NOME PRATICANDO L’UMILTA’
Per una virtù ordinaria non ci si scomoda a lodare, ad onorare, a dare gloria a chi la possiede; questo si fa soltanto quando la virtù è eccellente.
Con la lode, infatti non vogliamo portare gli altri ad avere stima per le ottime qualità di qualcuno; con l’onore facciamo sapere a tutti che quella stima noi l’abbiamo; la gloria, poi, a mio parere, è il lustro della reputazione che scaturisce dalla somma di molte lodi e onori: possiamo dire che le lodi e gli onori sono come pietre preziose, dalla composizione delle quali, come un gioiello, nasce la gloria.
L’umiltà non accetta che noi pensiamo di essere migliori e che abbiamo diritto di essere anteposti agli altri; non permette nemmeno che andiamo alla caccia di lodi, di onori, di gloria, cose che devono essere tributate soltanto all’ottimo.
Accetta il consiglio del Saggio che dice di aver cura del nostro buon nome, perché il buon nome è la stima, non dell’ottimo, ma soltanto di una semplice e ordinaria prudenza e onestà di vita, che l’umiltà non ci impedisce di riconoscere in noi stessi; di conseguenza non ci vieta di desiderarne il relativo buon nome.
E’ vero che l’umiltà disprezzerebbe il buono nome se la carità non ne avesse bisogno; ma visto che è uno dei fondamenti della società umana, e che, senza di essa, noi siamo addirittura dannosi per la gente e non soltanto inutili, a motivo dello scandalo che daremmo; la carità richiede e l’umiltà di buon grado accetta, che noi desideriamo e conserviamo con cura il buon nome.
Prendi a paragone le foglie degli alberi che, di per sé, non valgono gran che, e tuttavia rendono un grande servizio, non solo nel dare un bell’aspetto all’albero, ma anche nel proteggere i frutti finché sono teneri; è la stessa cosa per il buon nome che, per sé, non è da considerare fortemente; tuttavia è molto utile, non soltanto come abbellimento della vita, ma anche per proteggere le nostre virtù, in modo particolare quelle ancora tenere e deboli.
L’obbligo di conservare il buon nome e di essere realmente come la gente ci stima, esige che abbiamo un coraggio generoso sostenuto da una forte e dolce violenza.
Conserviamo le nostre virtù, cara Filotea, perché sono gradite a Dio, grande e sommo fine di tutte le nostre azioni; ma allo stesso modo che coloro i quali vogliono conservare i frutti, non si accontentano di fare marmellate, ma li sigillano in vasi adatti alla conservazione, così, pur rimanendo l’amore di Dio la principale garanzia per le nostre virtù, possiamo servirci, a tale scopo, anche del buon nome e con utilità.
Tuttavia nella difesa del nostro buon nome non dobbiamo essere troppo zelanti, esatti e puntigliosi: quelli che sono delicati e sensibili in modo esagerato per tutto ciò che concerne la loro reputazione, assomigliano a quelli che ingurgitano medicine per il minimo disturbo: costoro, infatti, volendo proteggere la loro salute, la rovinano del tutto; così, chi vuole, con troppa premura, proteggere il proprio buon nome, lo perde del tutto, e sai perché? La tenerezza verso se stessi rende strani, ribelli, insopportabili, pasto ideale per i maldicenti.
Non dar peso e disprezzare l’ingiuria e la calunnia, ordinariamente è un rimedio molto efficace del risentimento, della contestazione, della vendetta: il dispetto le rende evanescenti; chi se ne inquieta, invece, dà l’impressione di confessare.
I coccodrilli fanno del male soltanto a coloro che ne hanno paura; la maldicenza fa del male solo a chi se ne preoccupa.
Il timore eccessivo di perdere il buon nome dimostra mancanza di fiducia nel suo fondamento, che è la vita onesta. Le città dotate di ponti di legno su grandi fiumi, ad ogni alluvione temono di vederli travolti; quelle invece che sono dotate di ponti in pietra, temono soltanto in caso di piene eccezionali. Similmente coloro che hanno un’anima cristiana con solide basi, non fanno abitualmente caso alle alluvioni delle lingue malefiche; coloro invece che si sentono deboli, temono di essere travolti ad ogni occasione.
Chi vuol godere di un buon nome nei confronti di tutti, lo perde proprio nei confronti di tutti: merita di perdere l’onore chi vuole mendicarlo da coloro che il vizio ha reso indiscutibilmente infami e senza onore.
Il buon nome è l’insegna che indica dove alloggia la virtù; è evidente che la virtù viene prima. Ecco perché, se ti dicono: sei un ipocrita perché ti sei incamminata nella devozione; se ti considerano un uomo senza carattere perché hai perdonato un’ingiuria, lascia correre, non farci caso. Per prima cosa abbi presente che tali giudizi sono emessi da persone vuote e superficiali; quand’anche poi il buon nome si perdesse davvero, l’importante è non perdere la virtù e non deviare dal suo cammino; mi pare logico che si dia la preferenza ai frutti sulle foglie, ossia ai beni spirituali interiori su quelli esteriori. Va bene essere gelosi del proprio buon nome, ma non idolatri! E’ vero che non bisogna scandalizzare l’occhio dei buoni, ma nemmeno si deve contentare quello dei cattivi. La barba è un ornamento adatto al volto dell’uomo e i capelli a quello della donna: se si strappano alla radice i peli dal mento o i capelli dalla testa , probabilmente non rispunteranno più; ma se li tagli soltanto, o magari anche li radi, rispunteranno molto presto, più forti e più folti. Lo stesso avviene per il buon nome: la lingua dei maldicenti può tagliarlo o anche addirittura raderlo, giacché, dice Davide, è come un rasoio affilato; ma niente paura! Rispunterà presto più bello di prima e anche più forte! Se invece il nostro buon nome viene distrutto dai nostri vizi, dalle vigliaccherie, dalla nostra cattiva condotta, beh! Allora possiamo aspettare tutto il tempo che vogliamo, e non rispunterà! Sarà inutile l’attesa perché abbiamo estirpato la radice.
La radice del buon nome è la bontà e l’onestà della vita; finché sono presenti in noi, possono sempre rigenerare il buon nome giustamente conquistato.
Lascia quella vuota conversazione, quell’attività inutile, quell’amicizia frivola, quella compagnia equivoca, se danneggiano il tuo buon nome, perché il buon nome vale più di tutte quelle vuote soddisfazioni; ma se la gente mormora, riprova o calunnia perché ti impegni nella pietà per avanzare nella devozione e nel cammino verso il bene eterno, lascia abbaiare i cani contro la luna; anche se dovessero riuscire a costruire un’opinione negativa sul tuo buon nome, e in tal modo tagliare e radere i capelli e la barba del buon nome, sta tranquilla che presto rispunterà. Il rasoio della maldicenza sarà utile al tuo onore, come la roncola alla vigna, perché la rende copiosa di frutti.
Teniamo sempre gli occhi fissi a Gesù Cristo crocifisso, camminiamo al suo servizio con fiducia e semplicità, accompagnata da saggezza e devozione: sarà lui a proteggere il nostro buon nome. Se permette che ci sia tolto è solo per darcene uno migliore o per favorirci nella crescita dell’umiltà. Ricorda bene che un’oncia di umiltà vale più di mille libre di onore.
Se veniamo ripresi ingiustamente, opponiamo serenamente la verità alla calunnia; se persiste, insistiamo nell’umiltà. Mettiamo il nostro buon nome, unitamente alla nostra anima nelle mani di Dio,; non potremo trovare migliore garanzia.
Serviamo Dio nella buona e nella cattiva fama, sull’esempio di S. Paolo; potremo così dire con Davide: Mio Dio, è soltanto per Te che ho sopportato l’obbrobrio e che ho tollerato che la vergogna coprisse il mio volto.
Faccio eccezione per certi crimini talmente atroci e infamanti che nessuno deve accettare di vedersene attribuita la paternità; anzi bisogna liberarsi anche del sospetto se si può fare nel rispetto della giustizia.
La stessa eccezione va fatta per le persone dal cui buon nome dipende l’edificazione di molti; in tali casi è necessario perseguire la riparazione del torto ricevuto, e questo secondo la più rigorosa morale teologica.
Capitolo VIII
LA DOLCEZZA VERSO IL PROSSIMO E IL RIMEDIO CONTRO L’IRA
Il sacro crisma che, per tradizione apostolica, la Chiesa usa nelle confermazioni e nelle benedizioni, è composto di olio di oliva e balsamo: questi due elementi ricordano, tra l’altro, le due meravigliose virtù che risplendevano in modo particolare nella persona di Nostro Signore. Egli ce le ha raccomandate personalmente, quasi che, per mezzo di esse soltanto, il nostro cuore possa essere consacrato al suo servizio e trascinato ad imitarlo: Imparate da me, dice, che sono mite e umile di cuore.
L’umiltà ci fa crescere in perfezione davanti a Dio e la dolcezza davanti al prossimo. Il balsamo che, come ho detto sopra, scende sempre a fondo, raffigura l’umiltà, e l’olio di oliva, che rimane sempre in superficie, raffigura la dolcezza e la bonomia, che superano tutte le virtù ed eccellono quali splendidi fiori della carità che, stando a s. Bernardo, raggiunge la perfezione quando non è soltanto paziente, ma anche dolce e affabile.
Fa attenzione, Filotea: questo mistico crisma composto di dolcezza e di umiltà deve trovarsi dentro al tuo cuore; l’abile inganno del nemico, infatti, è quello di far sì che molti si fermino alle parole ed agli atteggiamenti esterni di queste due virtù, per cui, nella loro imperdonabile superficialità, pensano di essere umili e dolci, mentre non lo sono affatto; e si tradiscono perché, nonostante la loro cerimoniosa dolcezza e umiltà, alla minima parola leggermente scortese, alla più piccola ingiuria, scattano con un’arroganza inaspettata.
Si dice che coloro i quali si sono immunizzati per mezzo del controveleno chiamato comunemente "la grazia di S. Paolo", se vengono punti o morsicati d una vipera, non si gonfiano, a condizione che "la grazia" fosse di prima qualità. Quando l’umiltà e la dolcezza sono vere e sincere capita la stessa cosa: ci difendono dal gonfiore e dal bruciore che le ingiurie abitualmente provocano nei nostri cuori. Ne consegue che se reagisci mostrandoti orgogliosa, gonfia d’ira, indispettita, allorché sei punta e morsicata dalle male lingue, vuole dire che la tua umiltà e la tua dolcezza non sono profonde e sincere ma soltanto superficiali ed epidermiche.
Il santo ed illustre Patriarca Giuseppe, quando dall’Egitto rispedì i fratelli a casa del padre, diede loro un consiglio: Per via, non adiratevi.
A te dico la stessa cosa, Filotea. Questa vita terrena è soltanto un cammino versa quella beata, non adiriamoci dunque per la strada gli uni contro gli altri; camminiamo tranquillamente e in pace con i fratelli e i compagni di viaggio.
Con chiarezza, e senza eccezioni, ti dico: Se ti è possibile, non inquietarti affatto, non deve esistere alcun pretesto perché tu apra la porta del cuore all’ira. S. Giacomo, senza tanti giri di parole, dice chiaramente: L’ira dell’uomo non opera la giustizia di Dio.
Bisogna resistere seriamente al male e reprimere i vizi di coloro di cui abbiamo la responsabilità, con costanza e con decisione, ma sempre con dolcezza e serenità. Niente calma un elefante infuriato come la vista di un agnellino e nulla attenua la violenza delle cannonate come la lana.
La correzione dettata dalla passione, anche quando ha basi ragionevoli, ha molto meno efficacia di quella che viene unicamente dalla ragione; questo perché l’anima ragionevole sa cedere alla ragione, ma rifiuta di piegarsi alla passione ed alla tirannia. Di modo che la ragione accompagnata dalla passione è odiosa, perché la sua giusta autorità è avvilita dall’alleanza con la tirannia.
I Principi, quando fanno visita con un seguito di pace, onorano e danno gioia ai popoli; ma quando arrivano con i soldati, anche se è per il bene pubblico, la loro visita è sempre sgradita e apportatrice di danni; perché, anche qualora riescano a far osservare rigorosamente la disciplina ai loro soldati, non potranno mai riuscire ad impedire che scoppi qualche disordine, in cui il civile ha la peggio e viene oppresso.
Allo stesso modo, quando domina la ragione e distribuisce pacificamente castighi, correzioni, rimproveri, anche se lo fa con rigore e severità, tutti le vogliono bene ugualmente e approvano il suo operato; ma se porta con sé l’ira, la collera, la stizza, che, dice S. Agostino, sono i suoi soldati, da amabile diventa piuttosto temibile e il cuore ne esce sempre maltrattato e calpestato. Dice sempre S. Agostino, scrivendo a Profuturo: E’ meglio chiudere la porta all’ira giusta e imparziale, anche se di minime proporzioni, perché, una volta entrata, è molto difficile farla uscire, poiché entra come un piccolo germoglio, e in brevissimo tempo, cresce e diventa un albero.
Che se poi giunge fino alla notte e il sole tramonta sulla nostra ira, ciò che l’Apostolo proibisce, si tramuta in odio e non te ne liberi più. Perché essa si nutre di mille false convinzioni. Non si è mai trovato un uomo adirato il quale fosse convinto che la sua ira era ingiusta.
Meglio imparare a vivere senza collera, che volersi servire con moderazione e saggezza della collera, e quando, a causa della nostra imperfezione e debolezza, ci coglie di sorpresa, è meglio respingerla immediatamente che voler entrare in trattativa con essa. E sai perché? Per poco che tu le conceda, diventa subito padrona della piazza e fa come il serpente che, dove riesce a far passare la testa, fa passare tutto il corpo.
Ma come faccio a respingerla? Dirai. Semplicissimo, ti rispondo. Al primo allarme raccogli tutte le tue forze, non con precipitazione e violenza, ma con dolcezza, tuttavia con serio impegno. Hai notato quello che accade nelle sedute di molti senati e parlamenti? Gli uscieri che gridano: zitti là o zitti qui, fanno più confusione di quelli che vorrebbero far tacere. Allo stesso modo, può capitarci che quando con forza vogliamo reprimere la collera, provochiamo più agitazione nel nostro cuore di quanta non ne avrebbe causata la collera; il cuore così agitato non riesce più ad essere padrone di se stesso.
Dopo questo sforzo compiuto con calma, segui il consiglio che S. Agostino, già vecchio, diede al giovane Vescovo Ausilio: Fa ciò che deve fare un uomo; e se ti capita ciò che l’uomo di Dio dice nel Salmo: Il mio occhio è turbato da grande collera, ricorri a Dio e grida: Abbi misericordia di me, Signore; e così egli stenderà la sua mano destra e reprimerà la tua collera.
Voglio dire che bisogna invocare l’aiuto di Dio, quando ci sentiamo agitati dalla collera, ad imitazione degli Apostoli, sballottati sul mare dal vento e dalla tempesta: comanderà alle nostre passioni e subentrerà una grande calma. Ma non mi stancherò mai di ripeterti che l’orazione che si fa contro la collera in atto che ci sta travolgendo, deve essere fatta con dolcezza, tranquillità, non con violenza. E’ una norma generale per tutti i rimedi contro questo male.
Di più, appena ti accorgi che ti sei lasciata andare a qualche atto di collera, rimedia con un atto di dolcezza, nei confronti della stessa persona con cui ti sei irritata.
Rimedio sovrano contro la menzogna, è correggerla subito, appena uno si accorge di averla detta; per la collera bisogna agire nello stesso modo: appena ti accorgi di esserci caduta, ripara subito con un atto contrario di dolcezza. C’è un detto che fa al caso nostro: la piaga recente si cura meglio.
Fa qualche cosa di più: quando sei calma e senza alcun motivo di collera, fa rifornimento di dolcezza e di affabilità, parlando e agendo, nelle tue azioni piccole e grandi, nel modo più cortese che ti sarà possibile, ricordandoti che la Sposa, nel Cantico dei Cantici, non soltanto ha il miele sulle labbra e sulla lingua, ma anche nel petto, ove non c’è soltanto miele, ma anche latte. Perché non basta avere la parola dolce nei confronti del prossimo, bisogna averla anche nel petto, ossia nell’intimo della nostra anima. Non basta nemmeno avere la dolcezza del miele, che è aromatico e profumato, e raffigura la dolcezza della conversazione educata con gli estranei, ma bisogna avere anche la dolcezza del latte verso i familiari e i vicini: in questo mancano seriamente quelli che sono angeli per la strada e diavoli in casa.
Capitolo IX
LA DOLCEZZA VERSO NOI STESSI
Uno dei metodi più efficaci per conseguire la dolcezza è quello di esercitarla verso se stessi, non indispettendosi mai contro di sé e contro le proprie imperfezioni. E’ vero che la ragione richiede che quando commettiamo errori ne siamo dispiaciuti e rammaricati, ma non che ne proviamo un dispiacere distruttivo e disperato, carico di dispetto e di collera. E in questo molti sbagliano grossolanamente perché si mettono in collera, poi si infuriano perché si sono infuriati, diventano tristi perché si sono rattristati, e si indispettiscono perché si sono indispettiti. In tal modo conservano il cuore come frutta candita a bagno nella collera: può anche sembrare che la seconda collera elimini la prima, ma in realtà è soltanto per fare spazio maggiore alla seconda, alla prima occasione.
C’è di più: queste collere e amarezze contro di se stessi portano all’orgoglio e sono soltanto espressione di amor proprio, che si tormenta e si inquieta per le imperfezioni. Il dispiacere che dobbiamo avere per le nostre mancanze deve essere sereno, ponderato e fermo; un giudice punisce molto meglio i colpevoli quando emette sentenze ragionevoli in ispirito di serenità, che quando procede con aggressività e passione. In tal caso non punirebbe le colpe secondo la loro natura, ma secondo la propria passione. Allo stesso modo noi puniamo molto meglio noi stessi se usiamo correzioni serene e ponderate e non aspre, precipitose e colleriche; tanto più che queste correzioni fatte con irruenza non sono proporzionate alle nostre colpe ma alle nostre inclinazioni.
Per esempio, chi è attaccato alla castità, andrà su tutte le furie e sarà inconsolabilmente amareggiato per la minima colpa contro di essa, e poi farà le matte risate per una gravissima maldicenza commessa. Per contro, chi odia la maldicenza, andrà in crisi per una leggera mormorazione e non darà peso ad una grave mancanza contro la castità; e così via. E questo capita perché la coscienza di costoro non giudica secondo ragione, ma secondo passione.
Devi credermi, Filotea: le osservazioni di un papà, se fatte con dolcezza e cordialità, hanno molta più efficacia per correggere il figlio, della collera e delle sfuriate. La stessa cosa avviene quando il nostro cuore è caduto in qualche colpa: se lo riprendiamo con osservazioni dolci e serene e gli dimostriamo più compassione che passione, lo incoraggiamo a correggersi, il pentimento sarà molto più profondo e lo compenetrerà più di quanto non farebbe un pentimento pieno di dispetto, di ira e di minacce.
Per conto mio, posto che ci tenessi molto a non cadere nel vizio di vanità, e ciononostante ci fossi caduto, e seriamente, non vorrei correggere il mio cuore con parole come le seguenti: Guarda quanto sei miserabile e abominevole; dopo tante risoluzioni, guarda come ti sei lasciato travolgere! Muori di vergogna, non azzardarti più ad alzare gli occhi verso il cielo; cieco, svergognato, traditore e sleale con il tuo Dio, e simili cose. Io procederei invece, ragionevolmente, con compassione: Coraggio, mio povero cuore, eccoci caduti nella trappola da cui avevamo promesso di stare lontano; rialziamoci e liberiamocene per sempre, invochiamo la misericordia di Dio e speriamo in essa; d’ora in poi ci darà la sua assistenza per renderci più decisi, rimettiamoci in cammino con umiltà.
Coraggio, d’ora in poi stiamo in guardia, Dio ci aiuterà, ce la faremo. E su questa correzione vorrei costruire un solido e fermo proposito di non ricaderci più, prendendo i mezzi più idonei a tal fine, compreso il parere del mio direttore spirituale.
Se poi qualcuno pensasse di non essere sufficientemente scosso da questo tipo di correzione, potrebbe servirsi di un richiamo o di un rimprovero duro e forte per provocare una vergogna profonda, purché, dopo aver rudemente sgridato e strapazzato il proprio cuore, chiuda con una consolazione, ponendo termine alla sua amarezza e al suo corruccio con una dolce e santa fiducia in Dio, ad imitazione di quel grande penitente che, vedendo un’anima afflitta, la risollevava in questo modo: Perché sei triste, anima mia? Perché mi turbi? Spera in Dio, io lo benedirò ancora perché è la salvezza del mio volto e il mio vero Dio.
Rialza dunque dolcemente il tuo cuore quando cade, umiliati grandemente davanti a Dio alla conoscenza della tua miseria; ma non meravigliarti della tua caduta: è naturale che l’infermità sia malata, che la debolezza sia debole, e la miseria sia misera. Disprezza con tutte le forze l’offesa che Dio ha ricevuto da te e, con coraggio e fiducia nella sua misericordia, rimettiti nel cammino della virtù, che avevi abbandonato.
Capitolo X
LE OCCUPAZIONI VANNO AFFRONTATE CON ATTENZIONE, MA SENZA PRECIPITAZIONE E FRETTA ECCESSIVA
La cura e la diligenza che dobbiamo mettere nelle nostre occupazioni non hanno nulla in comune con l’ansia, l’apprensione e la fretta eccessiva.
Gli Angeli hanno cura della nostra salvezza e la procurano con diligenza, ma senza ansia, apprensione e fretta; la cura e la diligenza sono espressione della loro carità, mentre l’ansia, l’apprensione e la fretta sarebbero contrarie al loro stato di beatitudine; giacché la cura e la diligenza possono essere compagne della serenità e della pace dello spirito; non invece l’ansia, la preoccupazione, e ancor meno l’angustia precipitosa.
Sii dunque accurata e diligente in tutte le responsabilità che ti saranno affidate, Filotea; se Dio te le ha affidate, tu ne devi avere grande cura; ma se ti è possibile, non cadere nell’ansia e nell’apprensione, ossia non affrontarle con cuore inquieto, ansioso e tormentato.
Non agire con precipitazione nel compimento dei tuoi doveri: la precipitazione turba la ragione e il giudizio, e ci impedisce di compiere bene proprio quello verso cui ci precipitiamo!
Quando Nostro Signore riprende Marta, dice: Marta, Marta, sei ansiosa e ti agiti per molte cose. Vedi, se ella fosse stata semplicemente premurosa, non si sarebbe agitata; ma è proprio perché era preoccupata e inquieta che si affretta e si agita, ed è proprio questo che Nostro Signore le rimprovera.
I fiumi che scorrono dolcemente nella pianura portano grandi battelli con ricche merci; le piogge che cadono dolcemente sulla campagna la rendono feconda di foraggi e di grano; ma i torrenti ed i corsi d’acqua che precipitano a valle con rapide e cascate, rovinano le campagne circostanti e non sono utili al traffico; lo stesso fanno le piogge violente e tempestose che travolgono i terreni lavorati e rovinano i pascoli. Un lavoro fatto con violenza e precipitazione non riesce mai bene: Bisogna affrettarsi con calma, dice l’antico proverbio.
Colui che ha fretta, dice Salomone, corre il rischio di inciampare e urtare contro tutto. Facciamo sempre abbastanza presto quando facciamo bene.
I fuchi fanno molto più rumore e si spostano con molta più fretta della api, ma producono soltanto cera, non miele. Più o meno fanno la stessa cosa coloro che si affrettano con un’ansia bruciante e con un’apprensione disordinata: finiscono con il fare poco e male!
Le mosche non ci danno noia per la mole, ma per il numero: allo stesso modo si può dire che le occupazioni importanti non ci mettono in agitazione come le piccole, perché queste si presentano molto numerose.
Accetta in pace le incombenze che ti capitano, e cerca di portarle a termine con ordine, una dopo l’altra. Se vuoi farle tutte in una volta e disordinatamente, farai soltanto sforzi che ti angustieranno e prostreranno il tuo spirito; e finirai quasi sempre schiacciato sotto il loro peso e senza risultato.
In tutte le tue occupazioni appoggiati completamente alla Provvidenza di Dio, che è la sola che possa dare compimento ai tuoi progetti; tuttavia, da parte tua, lavora dolcemente per cooperare con essa , e sii certa che se confidi in Dio, il risultato che conseguirai sarà sempre il migliore per te, sia che ti sembri personalmente buono che cattivo.
Fa come i bambini che con una mano si aggrappano a quella del papà e con l’altra raccolgono le fragole e le more lungo le siepi; anche tu fai lo stesso: mentre con una mano raccogli e ti servi dei beni di questo mondo, con l’altra tinti aggrappata al Padre celeste, volgendoti ogni tanto verso di Lui, per vedere se le tue occupazioni e i tuoi affari sono di suo gradimento. Fa attenzione a non lasciare la sua mano e la sua protezione, pensando così di raccogliere e accumulare di più. Se il Padre celeste ti lascia non farai più nemmeno un passo, ma finirai subito a terra. Voglio dire, Filotea, che quando sarai in mezzo agli affari e alle occupazioni ordinarie, che non richiedono un’attenzione molto accurata e assidua, guarda Dio più delle occupazioni; quando gli affari sono così importanti che richiedono tutta la tua attenzione per riuscire bene, ogni tanto dà uno sguardo a Dio, come fanno coloro che navigano in mare i quali per raggiungere il porto previsto, guardano più il cielo che la nave. Così Dio lavorerà con te, in te e per te, e il tuo lavoro sarà accompagnato dalla gioia.
Capitolo XI
L’OBBEDIENZA
Soltanto la carità ci eleva alla perfezione; ma l’obbedienza, la povertà e la castità sono i tre grandi mezzi per acquistarla. L’obbedienza consacra il nostro cuore, la castità il nostro corpo, e la povertà i nostri beni all’amore e al servizio di Dio: sono i tre bracci della croce spirituale, che poggiano sul quarto che è l’umiltà.
Non intendo parlare di queste virtù in quanto oggetto di voto pubblico; riguarda soltanto i religiosi; e nemmeno in quanto oggetto di voto privato, perché il voto aggiunge sempre grazie e meriti a tutte le virtù. Tuttavia per portarci a perfezione non è necessario che siano oggetto di voto; l’importante è che siano vissute.
Quando sono legate al voto, soprattutto se pubblico, mettono l’uomo nello stato di perfezione; per metterlo invece semplicemente nella perfezione è sufficiente viverle. C’è molta differenza tra lo stato di perfezione e la perfezione: tutti i vescovi e i religiosi sono nello stato di perfezione, ma non per questo sono nella perfezione, il che si vede anche troppo!
Sforziamoci, Filotea, di mettere bene in pratica queste tre virtù, ciascuno secondo la propria vocazione; è vero che non ci mettono nello stato di perfezione, ma ci daranno l’autentica perfezione; tutti siamo obbligati a praticare queste tre virtù, anche se non tutti allo stesso modo.
Due sono i generi d’obbedienza: l’obbligatoria e la volontaria. In forza dell’obbligatoria devi obbedire umilmente ai tuoi superiori ecclesiastici, come il papa, il vescovo, il parroco e i loro rappresentanti; devi poi obbedire ai tuoi superiori civili, ossia il principe e i magistrati da lui preposti al governo del tuo paese; poi devi ubbidire anche ai tuoi superiori familiari, ossia tuo padre, tua madre, il padrone e la padrona. Questa obbedienza si chiama obbligatoria perché nessuno può dispensarsi dall’obbligo di ubbidire ai superiori sunnominati, perché è Dio che ha dato loro l’autorità di comandare e di governare, ognuno nei suoi limiti. Fa dunque quello che ti è comandato. E’ necessario. Ma per essere perfetto devi seguire i loro consigli e anche i loro desideri e le preferenze nella misura in cui te lo permettono la prudenza e la carità. Obbedisci quando ti ordinano una cosa gradevole, come mangiare, prendere un po’ di ricreazione; può anche sembrare che non ci sia grande virtù ad obbedire in queste cose. E’ certo che sarebbe un difetto grave disobbedire.
Obbedisci alle cose indifferenti, quali indossare un abito anziché un altro, passare per una strada anziché per un’altra, cantare o tacere; sarà un’obbedienza molto preziosa. Obbedisci nelle cose difficili, aspre e dure; quella sarà un’obbedienza perfetta.
Obbedisci poi con dolcezza, senza repliche; con prontezza, senza ritardi; con gioia, senza tristezza; soprattutto obbedisci con amore, per amore di colui che, per amor nostro, si è fatto obbediente fino alla morte in Croce, e che, come dice S. Bernardo, preferì rinunciare alla vita piuttosto che all’obbedienza.
Per imparare ad obbedire con facilità ai tuoi superiori, accondiscendi senza difficoltà alla volontà dei tuoi pari, cedendo al loro parere in ciò che non ha nulla di male, lasciando da parte un comportamento litigioso ed aspro; adattati volentieri ai desideri dei tuoi inferiori nei limiti del ragionevole, senza prendere atteggiamenti intransigenti d’autorità, almeno finché si comportano bene.
E’ falso credere che da religioso o da religiosa ci sarebbe più facile obbedire; sarebbe la stessa cosa. Se ora troviamo difficile ed arduo obbedire a coloro che Dio ci ha preposto, nulla cambierebbe mutando stato!
Chiamiamo obbedienza volontaria quella cui ci leghiamo per nostra scelta, e che non ci è imposta da alcuno. Abitualmente il principe e il vescovo non li scegliamo noi, né il padre, né la madre; qualche volta nemmeno il marito. Ma scegliamo invece il confessore e il direttore spirituale. Ora, sia che alla scelta si aggiunga il voto di obbedirgli, come fece S. Teresa che, oltre all’obbedienza solenne votata al superiore dell’Ordine, si era obbligata con voto semplice, ad obbedire al P. Graziano; o anche senza voto, si prometta obbedienza a qualcuno, questa rimarrà sempre un’obbedienza volontaria, perché è decisa dalla nostra volontà in base alla nostra scelta.
Bisogna ubbidire a tutti i superiori, a ciascuno nel campo che lo riguarda. Per ciò che riguarda lo Stato e la cosa pubblica, bisogna ubbidire alle autorità civili; per ciò che riguarda il campo religioso, ai vescovi; per le cose di casa, al padre, al marito, al padrone; per la guida personale dell’anima al confessore e al direttore.
Fatti indicare dal padre spirituale gli esercizi di pietà che devi praticare; riusciranno meglio ed avranno doppia grazia e doppio valore: la prima, per se stessi, perché sono pii esercizi; l’altra la ricevono dall’obbedienza che li ha prescritti e in virtù della quale sono compiuti. Gli obbedienti sono dei fortunati, perché il Signore non permetterà mai che si perdano.
Capitolo XII
LA NECESSITA’ DELLA CASTITA’
La castità è il giglio delle virtù; rende gli uomini simili agli Angeli. Niente è bello se non è puro, e la purezza degli uomini è la castità. Alla castità si dà il nome di onestà, e alla sua conservazione, onore, Viene anche chiamata integrità e il contrario corruzione. Gode di gloria tutta speciale perché è la bella e splendida virtù dell’anima e del corpo.
Non è mai permesso prendere piaceri impudichi dai nostri corpi, poco importa in che modo. Li legittima soltanto il matrimonio che, con la sua santità, compensa il discredito insito nel piacere. Anche nel matrimonio bisogna avere cura che l’intenzione sia onesta, perché se ci dovesse essere qualche sconvenienza nel piacere che si prende, ci sia sempre l’onestà nell’intenzione che lo ha cercato.
Il cuore casto è come la madreperla, che può ricevere soltanto le gocce d’acqua che scendono dal cielo, giacché può accogliere soltanto i piaceri del matrimonio, che viene dal cielo. Fuori da ciò non deve nemmeno tollerare il pensiero voluttuoso, volontario e prolungato.
Come primo grado in questa virtù, Filotea, guarda di non accogliere in te alcun genere di piacere inammissibile e proibito, quali sono tutti quelli che si prendono fuori del matrimonio, o anche nel matrimonio, se si prendono contro le regole del matrimonio.
Come secondo grado, taglia, per quanto ti sarà possibile, anche i piaceri inutili e superflui, benché permessi e leciti.
Per il terzo, non legare il tuo affetto ai piaceri e alle soddisfazioni che sono comandate e prescritte; è vero che bisogna prendere i piaceri necessari, ossia quelli che sono legati al fine e alla natura stessa del santo matrimonio, ma non per questo devi impegnare in essi il cuore e lo spirito.
Del resto, tutti hanno molto bisogno di questa virtù. Coloro che vivono nella vedovanza devono avere una castità coraggiosa, che non soltanto disprezza le occasioni presenti e le future, ma resiste alle fantasie che i piaceri leciti provati nel matrimonio possono suscitare nel loro spirito, che per questo sono più sensibili alle suggestioni poco oneste.
E’ questa la ragione per cui S. Agostino ammira la purezza del suo caro Alipio, che aveva completamente dimenticato e non teneva in alcun conto i piaceri carnali, che aveva conosciuto, almeno in parte, nella sua giovinezza. Prendi a paragone i frutti: un frutto sano e intero può essere conservato o nella paglia o nella sabbia o nelle proprie foglie; ma una volta intaccato, è impossibile conservarlo se non facendone marmellata con l’aggiunta di miele o di zucchero; così avviene per la castità non ancora ferita e contaminata: sono tanti i modi per conservarla, ma una volta intaccata, può conservarla soltanto una devozione eccellente che, come ho detto spesso, è l’autentico miele e lo zucchero delle anime.
Le vergini hanno bisogno di una devozione semplice e delicata, per bandire dal loro cuore ogni genere di pensieri curiosi ed eliminare con un disprezzo totale ogni genere di piacere immondo che, a essere sinceri, non meritano nemmeno di essere considerato dagli uomini, visto che i somari e i porci li superano in questo campo.
Quelle anime pure stiamo bene attente; senza alcun dubbio dovranno sempre avere per certo che la castità è incomparabilmente molto meglio di tutto ciò che le è contrario; il nemico, infatti, dice S. Girolamo, spinge fortemente le vergini al desiderio di provare il piacere. A tal fine lo rappresenta loro molto più attraente e delizioso di quanto non sia; questo le turba molto, dice quel Padre, perché pensano che quello che non conoscono sia più dolce.
La piccola farfalla ci è maestra: vedendo la fiamma così bella vuol provare se non sia altrettanto dolce; e, spinta da questo desiderio, non si arrende finché, alla prima prova, ci rimane. I giovani agiscono allo stesso modo: si lasciano talmente affascinare dal falso e vuoto luccichio delle fiamme del piacere che, dopo averci girato intorno con mille pensieri curiosi, finiscono per cadere e perdersi. In questo sono più sciocchi delle farfalle, perché quelle, in una certa misura, hanno motivo di pensare che il fuoco sia anche buono perché è veramente bello; mentre questi sanno bene che quello che vogliono è disonesto, ma non per questo tagliano la stima folle ed esagerata che hanno del piacere.
Per gli sposati dico che è sicuro, anche se la gente comune non riesce a pensarlo, che la castità è loro molto necessaria; per essi non consiste nell’astenersi in modo totale dai piaceri carnali, ma nel sapersi moderare. Ora, a mio parere, il comando: Adiratevi e non peccate, è più difficile di quest’altro: Non adiratevi affatto. Riesce più facile evitare la collera che controllarla. Lo stesso si può dire dei piaceri carnali: è più facile astenersene completamente che essere moderati.
E’ vero che la grazia del sacramento del matrimonio dà una forza particolare per attenuare il fuoco della concupiscenza, ma la debolezza di coloro che ne usufruiscono passa facilmente alla permissività, poi alla dissoluzione, dall’uso all’abuso.
Molti ricchi sono ladri, non per bisogno, ma per avarizia. Così molta gente sposata ruba piaceri disordinati solo per mancanza di padronanza e lussuria, benché abbiano un campo legittimo sufficientemente ampio nel quale muoversi; la loro concupiscenza assomiglia a un fuoco fatuo, che balla qua e là senza fermarsi in alcun luogo.
E’ sempre pericoloso prendere medicine troppo forti, perché qualora se ne prenda più della giusta dose, o anche se la medicina non è stata ben preparata, ce ne viene del danno: il matrimonio è stato istituito, in parte, anche quale rimedio della concupiscenza; senz’altro è un rimedio di ottima efficacia, ma , attenzione, perché è molto forte, di conseguenza può essere molto pericoloso se non è usato con discrezione.
Aggiungo che i casi della vita, oltre alle lunghe malattie, spesso separano i mariti dalle mogli. Ecco perché gli sposati hanno bisogno di due generi di castità: la prima, per essere capaci di vivere in astinenza assoluta quando sono separati, nelle occasioni cui ho appena accennato; la seconda, per essere capaci di moderarsi, quando vivono insieme.
S. Caterina da Siena vide tra i dannati dell’inferno molti che erano tormentati con supplizi particolarmente atroci per avere profanato la santità del matrimonio: e questo era loro capitato, diceva, non per la gravità del peccato in sé, perché gli omicidi e le bestemmie sono più gravi, ma perché coloro che li avevano commessi vi avevano preso l’abitudine senza più farci caso, e così avevano persistito negli stessi per lungo tempo.
Vedi dunque che la castità è necessaria a tutti. Procura di essere in pace con tutti, dice l’Apostolo, e di possedere la santità senza di cui nessuno vedrà Dio. Ora, per santità, secondo S. Girolamo e S. Giovanni Crisostomo, intende la castità.
Filotea, è proprio vero, nessuno vedrà Dio se non è casto, nessuno abiterà nella sua santa tenda se non è puro di cuore; e, come dice il Salvatore stesso: I cani e i peccatori di sensualità ne saranno esclusi, e beati i puri di cuore perché vedranno Dio.
Capitolo XIII
CONSIGLI PER CONSERVARE LA CASTITA’
Filotea, tienti lontana dagli inganni e dagli allettamenti della sensualità. E’ un cancro che corrode impercettibilmente; e da inizi invisibili ti porta in breve a situazioni incontrollabili; è più facile evitarlo che guarirlo.
I corpi umani assomigliano a vasi di vetro che non possono essere trasportati insieme senza porre qualche cosa tra l’uno e l’altro; senza tale precauzione, il rischio di mandarli in pezzi è molto grande. Anche la frutta ci può insegnare qualcosa: infatti anche se la frutta che trasporti è sana e matura al punto giusto, rischi di ammaccarla tutta sballottandola, se non metti qualcosa tra un frutto e l’altro. Anche l’acqua, per limpida che sia, quando la versi in un vaso, se ci mette il muso un animale sporco la sua limpidezza è svanita. Non permettere mai, Filotea, che qualcuno ti tocchi in modo screanzato, né per leggerezza, né per amicizia; è vero che, volendo, la castità può essere conservata anche in simili situazioni, che sanno più di leggerezza che di malizia; ma la freschezza del fiore della castità ne soffre sempre e ci perde qualche cosa. Se poi uno si lascia toccare in modo disonesto, è la fine totale della castità.
La castità ha la sua radice nel cuore, ma è il corpo la sua abitazione; ecco perché si perde a causa dei sensi esteriori del corpo e per i pensieri e i desideri del cuore. Guardare, ascoltare, parlare, odorare, toccare cose disoneste è impudicizia se il cuore vi si immerge e ci prende piacere. S. Paolo taglia corto: La fornicazione non deve nemmeno essere nominata tra di voi.
Le api evitano nel modo più assoluto di toccare le carogne, ma non basta: fuggono e non riescono nemmeno a sopportare il lezzo che ne emana. Nel Cantico dei Cantici, la Sposa dalle mani distilla mirra, profumo che preserva dalla corruzione; le sue labbra sono coperte di un nastro rosso, segno del pudore delle sue parole; i suoi occhi assomigliano a quelli di una colomba per la loro purezza; il suo naso è incorruttibile come i cedri del Libano. E’ così l’anima devota deve essere: casta, pura, onesta di mani, di labbra, di orecchie, di occhi e di corpo.
A questo proposito ti riporto quello che dice il padre [del deserto] Cassiano, come uscito dalla bocca del grande S. Basilio, che disse un giorno, parlando di se stesso: Non ho mai conosciuto donne eppure non sono vergine. La castità si può perdere in tanti modi quanti sono i generi di impudicizie e di lascivie, che poi, secondo che sono grandi o piccole, l’indeboliscono, la feriscono, o la fanno morire del tutto. Certe familiarità, certe passioncelle leggere e un po’ sensitive, a voler essere nel giusto, non ledono gravemente la castità; tuttavia la indeboliscono, la rendono malaticcia e offuscano il suo splendore. Ci sono poi altre familiarità e passioni, che non sono soltanto indiscrete, ma viziose; non soltanto leggere, ma disoneste; non soltanto sensitive, ma carnali; la castità da queste ne rimarrà sempre almeno ferita e paralizzata. Ho detto almeno, perché abitualmente muore e scompare del tutto quando le leggerezze e le lascivie danno alla carne il massimo del piacere voluttuoso, perché in tal caso, la castità perisce nel modo più indegno, perverso e infelice che si possa immaginare. E’ peggio di quando si perde per fornicazione, adulterio e incesto, perché questi ultimi sono soltanto peccati, ma gli altri, dice Tertulliano, nel libro dell’Impudicizia, sono ‘mostri’ di iniquità e di peccato.
Cassiano non crede, e io nemmeno, che S. Basilio si riferisca a queste sregolatezze, quando dice di non essere più vergine; penso che si riferisse soltanto ai cattivi pensieri di sensualità che, pur non avendo contaminato il corpo, avevano contaminato il cuore, della cui castità, abitualmente, le anime riservate sono molto gelose.
Nel modo più assoluto, Filotea, non frequentare le persone licenziose, soprattutto se in più, sono anche svergognate, il che avviene quasi sempre; sai perché? Sono come i caproni che, leccando i mandorli dolci, li rendono amari.
Quelle anime maleodoranti e quei cuori infetti non riescono a conversare con alcuno, poco importa di quale sesso, senza trascinarlo in qualche modo nell’impudicizia. Hanno il veleno negli occhi e nell’alito come i basilischi.
Frequenta piuttosto le persone caste e virtuose, pensa e leggi spesso cose sante, perché la Parola di Dio è casta e rende casti coloro che vi si compiacciono; sicché Davide la paragona al topazio, pietra preziosa, che ha la proprietà di calmare l’ardore della concupiscenza.
Tienti sempre vicino a Gesù Cristo crocifisso; fallo spiritualmente con la meditazione e realmente con la santa Comunione: perché allo stesso modo che coloro i quali si coricano sull’erba detta "agnus castus" diventano casti e puri, se tu riposi il cuore su Nostro Signore, che è il vero Agnello casto e immacolato, scoprirai presto che la tua anima e il tuo corpo sono mondati da tutte le sozzure e le sensualità.
Capitolo XIV
LA POVERTA’ DI SPIRITO OSSERVATA NELLE RICCHEZZE
Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli; infelici dunque i ricchi di spirito, perché li aspetta la miseria dell’inferno.
Il ricco di spirito è quello che ha le ricchezze nel cuore e il cuore nelle ricchezze; il povero di spirito è colui che non ha né le ricchezze nel cuore, né il cuore nelle ricchezze. Gli alcioni fanno i nidi in forma di palma e vi lasciano soltanto una piccola apertura in alto. Li piazzano sulla riva del mare e li costruiscono così solidi e impermeabili che se anche le onde dovessero travolgerli, le acque non penetrano; anzi rimangono sempre a galla in mezzo al mare, sul mare e padroni del mare.
Così deve essere il tuo cuore, cara Filotea, aperto soltanto al cielo, e impenetrabile alle ricchezze e ai beni caduchi. Se possiedi delle ricchezze, non impegnare il cuore in esse; fa in modo di dominarle sempre e, pur essendo in mezzo ad esse, comportati come se ne fossi senza. Non affogare quel dono del cielo, che è il cuore, nei beni della terra; conservalo sempre superiori ad essi, sopra di essi, senza smarrirlo in essi.
Possedere del veleno ed essere avvelenati non è la stessa cosa: i farmacisti possiedono quasi sempre del veleno per servirsene in varie circostanze, ma non per questo sono avvelenati; non hanno il veleno nel corpo, ma nel laboratorio. Allo stesso modo puoi possedere ricchezze senza esserne avvelenata: questo se lo hai in casa o nel portafoglio, ma non nel cuore.
Essere ricco di fatto e povero nel cuore è una gran fortuna per il cristiano; in tal modo ha gli agi della ricchezza in questo mondo e il merito della povertà per ‘altro!
Sai, Filotea? Nessuno al mondo vorrà mai ammettere di essere avaro! Tutti negano di essere contagiati da questo tarlo che inaridisce il cuore. Chi adduce a scusa il pesante fardello dei figli, chi la necessità di crearsi una posizione solida. Non si possiede mai abbastanza; si scopre sempre un motivo per avere di più: quelli poi che sono avari più degli altri, non ammetteranno mai di esserlo, e il bello è che, in coscienza, sono proprio convinti di non esserlo! L’avarizia è una febbre maligna, che più è forte e bruciante e più rende insensibili.
Mosè vide la fiamma che bruciava un cespuglio senza consumarlo; al contrario il fuoco dell’avarizia, consuma e divora l’avaro senza mai bruciarlo. Tra gli ardori e i calori più forti, egli si vanta di provare la più riposante freschezza di questo mondo, e ritiene la sua sete insaziabile una sete naturale e piacevole.
Se desideri lungamente, ardentemente e con ansia i beni che non possiedi, hai un bel dire che non li vuoi acquistare ingiustamente. Non sarà per questo che cesserai di essere un autentico avaro. Chi brama di bere con arsura, con insistenza e con ansia, anche se desidera bere solo acqua, dimostra chiaramente di aver la febbre.
Filotea, non so fino a che punto sia un giusto desiderio voler possedere giustamente quello che un altro giustamente già possiede; con questo desiderio noi vogliamo fare il comodo nostro incomodando gli altri. Chi già possiede giustamente un bene, non ha forse più ragioni di conservarlo giustamente, che noi di volerglielo portar via giustamente? E perché vogliamo allungare il nostro desiderio sul suo bene per portarglielo via? Ma anche volendo supporre che questo nostro desiderio sia giusto per davvero, di sicuro non è caritatevole; è certo che noi saremmo molto contrariati se qualcuno, anche giustamente volesse impadronirsi di quello che giustamente possediamo noi! Questo è il peccato di Acab, che voleva impossessarsi giustamente della vigna di Nabot, mentre Nabot giustamente voleva conservarla. La desiderò con tanto ardore, così a lungo e tormentandosi che finì con l’offendere Dio.
Aspetta, Filotea, a desiderare il bene del prossimo che il prossimo abbia il desiderio di disfarsene; in tal caso il suo desiderio renderà il tuo più che giusto, addirittura caritatevole.
Sì, sono d’accordo che tu abbia cura di accrescere il tuo patrimonio e le tue possibilità, ma sempre con giustizia, con calma e carità.
Sì, sono d'accordo che tu abbia cura di accrescere il tuo patrimonio e le tue possibilità, ma sempre con giustizia, con calma e carità.
Se sei molto attaccata ai beni che possiedi, se ne sei tutta presa e ci metti dentro il cuore e i pensieri, e temi con un timore intenso e ossessivo di perderli, credimi, hai ancora la febbre. Chi ha la febbre beve l'acqua che gli offrono con un'ingordigia, una bramosia e una soddisfazione che i sani abitualmente non manifestano. Non è possibile trovare molta soddisfazione in una cosa, se non nutriamo per la stessa molto affetto.
Se capita che tu perda dei beni e che il tuo cuore rimanga desolato, fortemente afflitto, credi a me, Filotea, vuol dire che lì c'era molto del tuo affetto. Infatti l'afflizione per la cosa perduta è la prova più certa dell'affetto che si aveva per essa.
E allora non desiderare con una brama travolgente e definita il bene che non hai; non impegnare troppo il cuore in quello che possiedi; non disperarti per i rovesci che potranno colpirti. Avrai allora qualche motivo di pensare che, pur essendo ricca di fatto, non lo sei di affetto, ma sei povera di spirito e quindi felice, perché il Regno dei cieli è tuo.
Capitolo XV
COME DEVE ESSERE PRATICATA LA POVERTA REALE RIMANENDO RICCHI DI FATTO
Il pittore Parrasio, dipingendo il popolo di Atene, ebbe un'idea geniale: lo rappresentò con espressioni sempre diverse: di collera, di rabbia, di incostanza, di cortesia, di clemenza, di misericordia, di alterigia, di superbia, di umiltà, di vanità, di timidezza, e tutto ciò contemporaneamente; io, cara Filotea, vorrei mettere allo stesso modo contemporaneamente nel tuo cuore la ricchezza e la povertà, una grande cura e un grande disprezzo dei beni temporali.
Devi avere più cura tu di rendere i tuoi beni utili e fruttuosi di quanta non ne abbia la gente di mondo. Infatti i giardinieri dei grandi principi non sono forse più accurati e diligenti nel coltivare ed abbellire i giardini loro affidati che se fossero di loro proprietà? E perché? P- semplice: pensano che quei giardini appartengono ai principi e ai re nelle grazie dei quali vogliono entrare con quel servizio.
Filotea, tutto quello che possediamo non è nostro: Dio ce l'ha affidato e vuole che lo rendiamo fruttuoso e utile; se ne abbiamo cura per bene il nostro servizio gli sarà accetto. Deve essere una cura maggiore e più continua di quella che la gente del mondo ha per i propri beni. Essi si impegnano soltanto per amore di se stessi, noi invece lavoriamo per amore di Dio.
Se metti a confronto questi due amori arrivi alla conclusione che, poiché l'amore di sé è un amore violento, turbolento e ossessivo, anche la cura dei beni fondata su di esso sarà agitata, rabbiosa e piena di paure; per contro poiché l'amore di Dio è dolce, sereno e tranquillo, la cura dei beni fondata su di esso sarà serena, dolce e tranquilla. Cerchiamo di essere calmi nella cura dei nostri beni temporali, sia per conservarli, sia anche, all'occasione, per accrescerli, se la nostra condizione lo richiede. Questa è la volontà di Dio e noi dobbiamo realizzarla per amore.
Ma fa attenzione agli inganni dell'amor proprio; sa così bene scimmiottare l'amore di Dio, che a volte sembra proprio lui! Per impedire questo equivoco, ossia che la cura dei beni temporali si tramuti in avarizia, oltre a quanto ti ho indicato nel capitolo precedente, dobbiamo molto spesso praticare una povertà reale ed effettiva, pur vivendo circondati da tutte le ricchezze che Dio ci ha dato.
Comincia col disfarti di un po' dei tuoi beni dandoli di tutto cuore ai poveri: dare significa impoverirsi nella misura in cui si dà, e più darai e più sarai povera. t- vero che Dio ti ricompenserà, non soltanto nell'altro mondo, ma anche in questo; infatti niente rende gli affari tanto prosperi quanto l'elemosina. Tuttavia, in attesa mancherai di quello che hai dato!
Ed è una santa e ricca povertà quella procurata dall'elemosina.
Ama i poveri e la povertà; è questo amore che ti farà sinceramente povera, giacché, come dice la Scrittura, noi assomigliamo alle cose che amiamo. L'amore rende simili gli amanti. Chi è infermo e io non sono come lui? dice S. Paolo. Avrebbe anche potuto dire: Chi è povero e io non lo sono come lui? L'amore lo rendeva simile a quelli che amava.
Se dunque ami i poveri parteciperai realmente della loro povertà e sarai povera con loro. Se è vero che ami i poveri, frequentali spesso: sii contenta quando vengono a casa tua e tu va a trovarli a casa loro. Parla volentieri con loro, sii contenta se ti vengono vicino in chiesa, per strada, ovunque. Usa un linguaggio semplice con loro, parlando come usano parlare tra di loro. Devi invece essere ricca di mano, distribuendo loro con abbondanza dei tuoi beni.
Vuoi fare ancora di più, Filotea? Non accontentarti di essere povera come i poveri, ma sii più povera dei poveri. E come? Il servo è minore del padrone: e allora tu fatti serva dei poveri. Va a servirli nei loro giacigli quando sono ammalati, intendo di persona, con le tue mani; sii la loro cuoca a tue spese; sii la loro cameriera, la loro lavandaia. Filotea, questo servizio vale più di una corona reale.
Sono preso da sconfinata ammirazione ogni volta che penso allo zelo con il quale S. Luigi lo mise in pratica: io considero quel monarca uno dei più grandi re della terra, ma di una grandezza che abbraccia tutti i settori. Spesso serviva alla tavola dei poveri che manteneva a sue spese; e quasi tutti i giorni tre li faceva sedere alla sua mensa e spesso mangiava con amore quello che rimaneva nei loro piatti. Quando visitava gli ammalati negli ospizi, e lo faceva spesso, abitualmente serviva quelli che erano colpiti dalle malattie più ributtanti, come lebbrosi, cancerosi e simili; li serviva a capo scoperto e in ginocchio, rispettando in essi la persona del Salvatore del mondo; dimostrava loro una tenerezza che soltanto una madre premurosa ha per il proprio figlio.
S. Elisabetta, figlia del re d'Ungheria, si univa abitualmente ai poveri e qualche volta, per divertimento, si vestiva poveramente tra le sue dame e diceva loro: Se fossi povera, mi vestirei così.
Cara Filotea, quel principe e quella principessa erano poveri sul serio in mezzo alle ricchezze ed erano ricchi nella loro povertà.
Beati quelli che sono poveri in questo modo, perché di essi è il regno dei cieli. Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto freddo e mi avete vestito; possedete il regno che vi è stato preparato fin dalla creazione del mondo, dirà nel giudizio finale il Re dei poveri a coloro che a loro volta avranno voluto essere re, dominando le cose materiali.
Tutti, prima o poi, incontriamo situazioni nelle quali sperimentiamo la mancanza di qualche comodità e ne sentiamo il peso. Ci capita, ad esempio, di ospitare una persona che vorremmo e dovremmo trattare con riguardo e non c'è modo a causa dell'ora; oppure ti capita di avere gli abiti belli in un luogo mentre ti servirebbero in un altro per presentarti meglio; ti può capitare ancora che in cantina i vini si siano voltati in aceto e ti rimane solo un vino cattivo e aspro; oppure ti trovi in campagna in una bicocca dove manca tutto: il letto, la camera, un tavolo, il personale!
Capita spesso di avere bisogno di qualche cosa anche se si è ricchi; in tal caso bisogna saper essere poveri in quello che manca.
Filotea, sii contenta in queste situazioni, accettale volentieri e sopportale serenamente.
Quando ti capiteranno rovesci che ti impoveriranno, o molto o poco, quali la grandine, il fuoco, le inondazioni, la siccità, le ruberie, i processi, allora sì che è il tempo di praticare la povertà; accetta serenamente la diminuzione dei beni, adattati con pazienza e costanza all'impoverimento.
Esaù si presentò -a suo padre con le mani coperte di peli, e Giacobbe lo imitò; ma siccome il pelo che copriva le mani di Giacobbe non apparteneva alla sua pelle, ma ai guanti, se lo poteva togliere senza scorticarsi; al contrario il pelo di Esaù apparteneva alla sua pelle; era peloso per natura; chi avesse voluto levarglielo gli avrebbe causato un atroce dolore, lo avrebbe fatto urlare e si sarebbe difeso.
Quando i nostri beni sono legati al cuore, se la grandine, i ladri o gli imbroglioni ce ne strappano una parte, che urla, che agitazione, che tormento ne abbiamo! Ma se i nostri beni sono attaccati a noi solo per la cura che Dio vuole che ne abbiamo e non sono attaccati al cuore, se ce li strappano, non sarà per quello che daremo in smanie e cadremo in svenimento.
I vestiti degli uomini e degli animali differiscono proprio in questo: i vestiti delle bestie fanno parte della loro carne, quelli degli uomini sono soltanto sovrapposti, per poterli indossare e togliere quando si vuole.
Capitolo XVI
COME PRATICARE LA RICCHEZZA DI SPIRITO NELLA POVERTA' REALE
Se sei povera di fatto, cara Filotea, cerca di esserlo anche nello spirito; fa di necessità virtù, e considera la pietra preziosa della povertà per quello che vale. Il mondo non apprezza il suo splendore che rimane ugualmente meraviglioso e unico.
Coraggio, Filotea, sei in buona compagnia: Nostro Signore, la Madonna, gli Apostoli, tanti Santi e Sante sono stati poveri, pur avendo avuto la possibilità di essere ricchi, se l'avessero voluto. Quante persone del mondo, vincendo contrasti, a volte durissimi, sono andati alla ricerca, con un amore impareggiabile, di madonna Povertà nei chiostri e negli ospedali. E hanno tanto sofferto per trovarla! Lo testimoniano S. Alessio, S. Paola, S. Paolino, S. Angela e tanti altri. Per te, Filotea, la Povertà si è scomodata personalmente ed è venuta a trovarti; l'hai incontrata senza bisogno di cercarla nella sofferenza. Abbracciala perché è l'amica del cuore di Gesù Cristo, che è nato, vissuto e morto con lei vicino; per tutta la vita l'ha avuta per governante.
La tua povertà, Filotea, ha due grandi privilegi che possono procurarti molto merito.
Il primo è che non l'hai scelta tu, ma è la volontà di Dio che ti ha creata povera senza alcun concorso della tua volontà. Ora ciò che riceviamo dalla volontà di Dio senza altri interventi, gli è gradito di più, se noi l'accettiamo di cuore e per amore della sua santa volontà; quando c'è poco di nostro, c'è molto di DIO.
L'accettazione pura e semplice della volontà di Dio rende purissima la sofferenza.
Il secondo privilegio di questa povertà è quello di essere povera sul serio. Una povertà lodata, corteggiata, stimata, aiutata e assistita assomiglia piuttosto alla ricchezza, o, perlomeno, non è povera del tutto; ma una povertà disprezzata, isolata, rinfacciata e abbandonata è veramente povera. Così è abitualmente la povertà della gente che vive nel mondo: non sono poveri perché l'hanno voluto, ma perché ci si sono trovati, e di questo non si tiene conto; e per il fatto che di questo non si tiene conto, la loro povertà è più povera di quella dei religiosi, benché, d'altra parte, questa abbia un valore più grande e raccomandabile, a motivo del voto e dell'intenzione per cui è stata scelta.
Non lamentarti, dunque, cara Filotea, della tua povertà; ci si lamenta soltanto di ciò che ci dispiace; e se la povertà ti dispiace, non sei povera nello spirito, ma anzi ricca nel cuore. Non lamentarti di non essere aiutata come si dovrebbe; in questo consiste il valore della povertà. Voler essere poveri e non volerne patire gli inconvenienti, è una pretesa assurda. E’ pretendere l'onore della povertà e gli agi delle ricchezze.
Non vergognarti di essere povera e di chiedere l'elemosina per carità; accetta con umiltà quello che ti verrà dato e sopporta l'eventuale rifiuto con dolcezza. Ricordati spesso del viaggio che la Madonna fece in Egitto per portare in salvo il Figlio, e quanto disprezzo, povertà e miseria dovette sopportare! Se vivrai così sarai molto ricca nella tua povertà.
Capitolo XVII
L'AMICIZIA E, PRIMA DI TUTTO, LA CATTIVA E LA FRIVOLA
L'amore occupa il primo posto tra le passioni dell'anima: è il re di tutti i movimenti del cuore, fa convergere tutto a sé e ci rende simili a ciò che amiamo.
Fa attenzione, Filotea, a non amare cose cattive: saresti irrimediabilmente e subito cattiva anche tu!
L'amicizia è l'amore più pericoloso: gli altri amori possono anche fare a meno di comunicare, l'amicizia invece è fondata essenzialmente proprio sulla comunicazione. Di norma è impossibile che l'amicizia non ci faccia partecipare delle qualità della persona amata.
Non ogni amore è amicizia.
- Si può amare senza essere riamati; in tal caso c'è amore, ma non amicizia, perché l'amicizia è un amore ricambiato. Se non è ricambiato non è amicizia.
- Non basta che sia ricambiato l'amore: le parti che si amano, devono saperlo. Se non lo sanno, avranno tutto l'amore che vogliono, ma non ci sarà amicizia.
3. In più coloro che si amano, devono avere qualche bene in comune a base della loro amicizia.
L'amicizia si differenzia secondo la diversità dei modi di comunicare e i modi di comunicare si differenziano secondo i beni che costituiscono l'oggetto dello scambio: se si tratta di beni falsi e vani, l'amicizia è falsa e vana; se si tratta di beni veri, l'amicizia è vera; e migliori saranno i beni, migliore sarà l'amicizia. Infatti, allo stesso modo che il miele raccolto dalle gemme dei fiori più deliziosi è il migliore, così l'amore fondato sullo scambio di un bene squisito è ottimo.
Esiste in Eraclea del Ponto un genere di miele velenoso, che fa impazzire coloro che ne mangiano. t velenoso perché viene raccolto dalla pianta dell'aconito, presente in abbondanza in quella regione. Lo stesso è dell'amicizia fondata sullo scambio di beni vuoti e viziosi: risulterà totalmente falsa e cattiva. Lo scambio di piaceri carnali è semplicemente un'attrazione reciproca e un'esca bestiale che, tra gli uomini, non merita di essere chiamata con il nome di amicizia; parola che del resto non ci si sogna nemmeno di usare quando ci si riferisce agli stessi rapporti tra i somari e i cavalli; e se nel matrimonio lo scambio si riducesse a questo, non sarebbe possibile alcuna amicizia; ma siccome, oltre a ciò, c'è lo scambio della vita, dell'iniziativa, degli affetti e di una indissolubile fedeltà, ecco perché l'amicizia nel matrimonio è vera e santa.
L'amicizia fondata sullo scambio del piacere dei sensi è grossolana e non merita il nome di amicizia; così pure quella fondata su virtù frivole e inutili, perché sono virtù che dipendono dai sensi.
Do il nome di piaceri dei sensi a quelli che sono legati in modo diretto e principale ai sensi esteriori, quali sono il piacere di ammirare la bellezza, di ascoltare una voce dolce, di toccare e simili.
Do il nome di virtù frivole a certe abilità e qualità inutili che gli spiriti deboli chiamano virtù e perfezioni. Ascolta quello che dicono la maggior parte delle
ragazze, delle donne e dei giovanotti in genere: non esiteranno a dire che Tizio è molto virtuoso, ha tante perfezioni, perché balla bene, sa destreggiarsi abilmente in tutti i giochi, sa vestirsi con gusto, canta bene, ha una brillante conversazione, ha un bell'aspetto. I ciarlatani considerano migliori tra loro quelli che meglio riescono nell'arte di fare i buffoni.
Siccome tutto ciò riguarda i sensi, per tale ragione le amicizie che hanno tali fondamenti si chiamano sensuali, vane e frivole e meriterebbero più di essere chiamate follie che amicizie.
Di questo genere sono abitualmente le amicizie dei giovani che riguardano i baffi, i capelli, lo sguardo, gli abiti, il sussiego, la parlantina. Sono virtù caratteristiche dell'età degli amanti, che hanno virtù poco solide, come la loro peluria del mento e hanno il senno in bocciolo. Tali amicizie sono soltanto passeggere e fondono come neve al sole.
Capitolo XVIII
LE PASSIONCELLE (I FLIRTS)
Quando queste allegre amicizie hanno luogo tra persone di diverso sesso, senza alcuna intenzione di giungere al matrimonio, si chiamano passioncelle; sono soltanto aborti, o meglio ancora, fantasie di amicizie; ma non si deve dare loro il nome di amicizie o di amori perché sono vuote e senza senso. Cionondimeno i cuori degli uomini e delle donne vi rimangono catturati e si impegolano e si allacciano tra di loro in affetti vani e leggeri, che hanno per fondamento soltanto quegli scambi frivoli e quelle sciocche attrattive di cui ho appena parlato.
Benché questi sciocchi amori finiscano abitualmente per naufragare ed affogare in carnalità e lascivie molto volgari, bisogna riconoscere che non è mai la prima intenzione degli interessati tale conclusione. Altrimenti non sarebbero passioncelle, ma impudicizie dichiarate.
A volte potranno anche trascorrere molti anni, senza che capiti tra coloro che sono afflitti da questa follia, un solo gesto che sia contrario alla santità del corpo. Gli interessati si limiteranno, con varie scuse, a stemperare i loro cuori in auguri, desideri, sospiri, complimenti e simili scemenze e vanità.
Alcuni vogliono soltanto appagare il cuore nel dare e ricevere amore seguendo la loro inclinazione all'amore; nella scelta degli amori costoro non riflettono minimamente: è loro sufficiente seguire il gusto e l'istinto; sicché, quando incontrano una persona piacevole, senza pensare al lato interiore, né al comportamento morale della stessa, danno subito la stura alle loro passioncelle e si impigliano in una rete dalla quale in seguito, faticheranno molto per liberarsi.
Altri vi si lasciano andare per vanità perché pensano che non è piccola gloria prendere e legare i cuori con l'amore; costoro, poiché fanno la loro scelta per vanità, collocano le loro tagliole e tendono le loro reti in luoghi privilegiati, eccelsi, distinti e illustri.
Altri ancora sono spinti contemporaneamente dalla tendenza all'amore e dalla vanità, e agiscono in questo modo perché, pur avendo il cuore fortemente attirato dall'amore, vogliono aggiungervi anche un po' di gloria.
Simili amicizie sono cattive, folli e vane:
cattive, perché vengono e finiscono nel peccato della carne; rubano l'amore, e di conseguenza anche il cuore, a Dio, alla moglie, al marito, a chi era dovuto; folli perché non hanno basi, né motivazioni serie; vane, perché non recano alcuna utilità, nessun onore, nessuna gioia. Al contrario, ci fanno perdere tempo, offuscano l'onore, e non offrono alcun piacere, a meno che non si voglia chiamare piacere l'ansia di attendere e sperare, senza sapere né quello che si vuole, né che cosa si attende.
Questi spiriti piccoli e deboli sono persuasi che c'è un non so che nelle testimonianze di amore che ricevono, ma non saprebbero precisare che cos’è; per questo la loro brama è insaziabile ed alimenta, senza soste, nel loro cuore, eterne diffidenze, gelosie e tormenti.
S. Gregorio di N'azianzo, scrivendo contro le donne vanitose, dice meraviglie, a questo proposito; cito un brano che egli indirizza alle donne, ma va molto bene anche per gli uomini: " La tua bellezza naturale è sufficiente per tuo marito; se poi vuoi che sia per molti uomini, come una rete tesa per molti uccelli, che succederà? Ti piacerà colui che ti troverà bella, ad occhiata risponderai con occhiata, a sguardo con sguardo; presto verranno i sorrisi e le frasettine d'amore, all'inizio, fatte scivolare di nascosto, ma presto si giungerà alla familiarità e al chiacchiericcio manifesto. Sta attenta, lingua mia chiacchierona, a non dire quello che verrà dopo; ma questa verità voglio dirla: niente di tutto ciò che i giovanotti e le donne dicono o fanno insieme in quelle folli galanterie va senza grosse ferite. Tutte le passioncelle sono legate insieme e si susseguono tutte, proprio come un ferro preso da una calamita che, a sua volta, attira altri ferri uno dopo l'altro ".
Come ha ragione questo santo Vescovo! Che cosa vuoi fare? Dare amore, non è vero? Nessuno può dare volontariamente amore senza necessariamente riceverne in cambio; in questo gioco chi prende è preso. L'erba chiamata aproxis, alla sola vista riceve e genera fuoco: così sono anche i nostri cuori. Appena vedono un'anima che brucia d'amore per loro, si infiammano immediatamente per lei.
Voglio stare al gioco, dirà qualcuno, ma poco per volta t'inganni: quel fuoco è forte e penetrante più di quanto sembri. Pensi di non essere colpito che da una scintilla, e ti accorgi che in un baleno tutto il cuore è incendiato, ridotti in cenere i tuoi propositi e in fumo il tuo buon nome. Grida il Saggio: Chi avrà compassione di un incantatore morso da un serpente? E io grido con lui: pazzo e insensato, pensavi di domare l'amore per dosarlo a tuo piacimento! Volevi divertirti con lui, ma egli ti ha punto e morso profondamente. Sai cosa dirà la gente? Rideranno di te perché hai voluto incantare l'amore e, pieno di presunzione, ti sci messo in seno una serpe pericolosa che ti ha rovinato e ci hai rimesso l'anima e l'onore.
Mio Dio, che cieca pazzia è mai questa? Rischiare in questo modo, con garanzie così fragili, la parte più nobile della nostra anima! Sì, Filotea, perché Dio vuole l'uomo solo per l'anima, l'anima solo per la volontà e la volontà solo per l'amore. Non abbiamo amore a sufficienza nemmeno per ciò che è necessario! Voglio dire: già è molto se ne abbiamo abbastanza per amare Dio; ciononostante, miserabili come siamo, lo disperdiamo e dilapidiamo in cose sciocche, vane e frivole, come se ne avessimo troppo! Quel grande Dio che aveva riservato per sé soltanto l'amore delle nostre anime, quale riconoscenza per la creazione, la conservazione e la Redenzione, esigerà un conto rigoroso delle sottrazioni che avremo fatto; pensa: ha detto che ci chiederà conto delle parole oziose; come vuoi che non ce lo chieda delle amicizie oziose, sciocche, pazze e dannose?
Il noce reca molto danno ai campi e alle vigne in cui è piantato, perché è grande ed assorbe tutte le sostanze della terra, che così non riesce a nutrire anche le altre piante; il suo fogliame è così folto che fa un'ombra grande e spessa. Per di più attira i passanti che, per prenderne i frutti rovinano e calpestano tutt'intorno.
Queste passioncelle producono danni simili all'anima; l'occupano talmente e condizionano così potentemente i suoi movimenti, che essa non è più disponibile per alcun'altra opera buona; le foglie, ossia i chiacchiericci, i divertimento e i corteggiamenti sono così frequenti che non lasciano spazio; infine attirano così numerose le tentazioni, le distrazioni, i sospetti e tutto ciò che vi si accompagna, sicché il cuore ne è rovinato e calpestato.
In breve, queste passioncelle, non solo allontanano l'amore celeste, ma anche il timore di Dio; prostrano lo spirito, indeboliscono il buon nome. In una parola è il giocattolo delle corti, ma la peste dei cuori!
Capitolo XIX
LE VERE AMICIZIE
Ama tutti, Filotea, con un grande amore di carità, ma legati con un rapporto di amicizia soltanto con coloro che possono operare con te uno scambio di cose virtuose. Più le virtù saranno valide, più l'amicizia sarà perfetta.
Se lo scambio avviene nel campo delle scienze, la tua amicizia sarà, senza dubbio, molto lodevole; più ancora se il campo sarà quello delle virtù, come la prudenza, la discrezione, la fortezza, la giustizia.
Ma se questo scambio avverrà nel campo della carità, della devozione, della perfezione cristiana, allora sì, che si tratterà di un'amicizia perfetta. Sarà ottima perché viene da Dio, ottima perché tende a Dio, ottima perché il suo legame è Dio, ottima perché sarà eterna in Dio.
L bello poter amare sulla tetra come si ama in cielo, e imparare a volersi bene in questo mondo come faremo eternamente nell'altro. Non parlo qui del semplice amore di carità, perché quello dobbiamo averlo per tutti gli uomini; parlo dell'amicizia spirituale, nell'ambito della quale, due, tre o più persone si scambiano la devozione, gli affetti spirituali e diventano realmente un solo spirito. A ragione quelle anime felici possono cantare: Com'è bello e piacevole per i fratelli abitare insieme. Ed è vero, perché il delizioso balsamo della devozione si effonde da un cuore all'altro con una comunicazione ininterrotta, di modo che si può veramente dire che Dio ha effuso la sua benedizione e la sua vita su simile amicizia per i secoli dei secoli.
Mi sembra che tutte le altre amicizie siano soltanto fantasmi a confronto di questa e i loro legami anelli di vetro e di giaietto, a confronto del legame della devozione che è tutta di oro fino.
Non stringere amicizie di altro genere; intendo dire quelle che dipendono da te. Non devi lasciar cadere, né disprezzare quelle che la natura e i doveri precedenti ti obbligano a intrattenere: quali quelle con i parenti, i soci, i benefattori, i vicini e altri; ripeto, mi riferisco a quelle che tu scegli liberamente di persona.
Può darsi che qualcuno ti dica che non bisogna avere alcun genere di particolare affetto o amicizia, perché ciò ingombra il cuore, distrae lo spirito, dà luogo ad invidie; ma si sbagliano. Negli scritti di molti santi e devoti autori, hanno letto che le amicizie particolari e gli affetti fuori dell'ordine sono molto dannosi per i religiosi; pensano che la regola valga per tutti, ma su questo ci sarebbe molto da dire.
Premesso che in un monastero ben ordinato, il progetto comune è di tendere tutti insieme alla vera devozione, è evidente che non sono necessari questi scambi particolari, per timore che, mentre si cerca in particolare ciò che è comune, non si passi dalle particolarità alle parzialità. Ma per coloro che vivono tra la gente del mondo e abbracciano la vera virtù, è indispensabile stringere un'alleanza reciproca con una santa amicizia; infatti appoggiandosi ad essa, ci si fa coraggio, ci si aiuta, ci si sostiene nel cammino verso il bene.
Coloro che camminano in piano non hanno bisogno di prendersi per mano, ma coloro che si trovano in un cammino scabroso e scivoloso si sostengono l'un l'altro per camminare con maggiore sicurezza. I religiosi non hanno bisogno di amicizie particolari, ma coloro che vivono nel mondo, sì, per darsi reciprocamente sicurezza e aiuto in tutti i passaggi pericolosi che devono affrontare. Nel mondo, non tutti tendono allo stesso fine, non tutti hanno lo stesso spirito; bisogna dunque riflettere e stringere amicizie secondo i nostri programmi; questa particolarità crea veramente una parzialità, ma è una santa parzialità che non crea divisioni se non quella del bene dal male, delle pecore dalle capre, delle api dai fuchi, che sono separazioni necessarie.
IR fuor di dubbio, e nessuno si sogna di negarlo, che Nostro Signore nutrisse un'amicizia più tenera e personale per Giovanni, Lazzaro, Marta, Maddalena; lo dice la Scrittura. Sappiamo che S. Pietro aveva una predilezione per Marco e per Santa Petronilla; S. Paolo per S. Timoteo e S. Tecla. S. Gregorio di Nazianzo si gloria cento volte dell'amicizia che aveva per S. Basilio e così la descrive: " Si aveva l'impressione che in noi due ci fosse una sola anima con due corpi. P, vero che non bisogna prestare fede a coloro che dicono che tutto è in tutto; tuttavia è vero che tutti e due eravamo in ciascuno e ciascuno nell'altro; coltivare la virtù e ordinare i programmi della nostra vita alle speranze future; questo era il modo di uscire da questa terra mortale, prima di morire ".
S. Agostino dice che S. Ambrogio voleva molto bene a S. Monica, per le rare virtù che ammirava in lei, ed ella gli voleva bene come a un angelo di Dio.
Ma ho torto -a farti perdere tempo per una cosa così chiara. S. Girolamo, S. Agostino, S. Gregorio, S. Bernardo e tutti i più grandi Servi di Dio hanno avuto amicizie personali senza pregiudizio per la loro perfezione. S. Paolo, rimproverando ai Gentili il disordine morale della vita, li accusa di essere gente senza affetto, ossia gente incapace di amicizia. S. Tommaso, come del resto tutti i buoni filosofi, dice che l'amicizia è una virtù: certamente parla dell'amicizia personale perché, dice, la vera amicizia non può essere estesa a molte persone.
La perfezione dunque, non consiste nel non avere amicizie, ma nell'averne una buona, santa e bella.
Capitolo XX
LA DIFFERENZA TRA LE VERE AMICIZIE E QUELLE FUTILI
Fa attenzione, Fílotea: voglio metterti in guardia perché tu non corra pericolo. Non so se tu sappia che il miele di Eraclea, molto velenoso, assomiglia incredibilmente al miele comune; e il pericolo di prendere uno per l'altro è reale, come pure quello di mischiarli: nel qual caso l'inganno è anche peggiore perché la buona qualità dell'uno non impedisce l'effetto velenoso dell'altro.
Bisogna fare attenzione a non lasciarsi trarre in inganno nelle amicizie, soprattutto quando si stringono tra persone di sesso diverso, poco importa per quale motivo; spesso Satana si sostituisce a coloro che amano.
Si comincia sempre dall'amore virtuoso, ma, se non si è molto saggi, si insinua presto l'amore frivolo, poi si passa all'amore sensuale, poi a quello carnale; il pericolo esiste persino nell'amore spirituale, se non si fa molta attenzione; benché in questo sia molto più difficile la confusione e l'equivoco, perché la sua purezza e il suo nitore rendono più evidenti le brutture che Satana vuole insinuarvi: ecco perché il diavolo, quando ci prova, fa le cose con maggior finezza e tenta di far scivolare le brutture quasi impercettibilmente.
Distinguerai l'amicizia mondana da quella santa e virtuosa, esattamente come si distingue il miele di Eraclea dall'altro: il miele di Eraclea è più dolce al palato dei miele ordinario; è l'aconito che gli aumenta la dolcezza; così fa abitualmente l'amicizia mondana che sforna a ripetizione quantità enormi di parole melliflue, una pioggia di frasette appassionate e di lodi sulla bellezza, la grazia e le qualità sensuali: l'amicizia sana invece ha un linguaggio semplice e schietto, loda soltanto la virtù e la grazia di Dio, unico suo fondamento.
Il miele di Eraclea, una volta ingoiato, provoca dei capogiri; allo stesso modo l'amicizia futile provoca dei disorientamenti di spirito che rendono insicura la persona nella castità e nella devozione. La conducono a sguardi languidi, vezzosi, insistiti; a carezze sensuali, a sospiri equivoci, a piccole lamentele di non essere amati a sufficienza; ad artifici ben mascherati, ma abili e cattivanti: galanterie, abuso di baci e altre libertà e familiarità che portano alla volgarità e sono sicuro presagio di una imminente resa dell'onestà.
L'amicizia santa, invece, ha occhi semplici e casti; gli atti di cortesia sono controllati e schietti; se ci sono sospiri, saranno per il cielo, le libertà solo per lo spirito, i lamenti saranno soltanto perché Dio non è abbastanza amato, prova infallibile dell'onestà.
Il miele di Eraclea turba la vista; l'amicizia mondana turba il senno, di modo che coloro che ne sono colpiti, pensano di agire bene mentre agiscono male, e sono convinti che le loro scuse, i loro pretesti, e le loro parole sono motivi validi. Temono la luce e amano le tenebre. L'amicizia santa invece ha gli occhi luminosi e non si nasconde, anzi si fa vedere volentieri dalla gente per bene.
Infine il miele di Eraclea lascia un forte sapore amaro in bocca: avviene lo stesso nelle false amicizie che si tramutano e finiscono in parole e richieste carnali e degne delle fogne; in caso di rifiuto, esploderanno le ingiurie, le calunnie, le imposture, le tristezze, le confessioni e le gelosie che si concludono quasi sempre nell'abbrutimento e in isterismi; l'amicizia pulita è sempre uguale nell'onestà, educata e amabile, e si muta soltanto in una unione degli spiriti più pura e più perfetta, immagine vivente dell'amicizia beata che regna in Cielo.
S.Gregorio di Nazianzo dice che il pavone quando fa la ruota, emette il suo verso caratteristico e si pavoneggia, eccitando le femmine che l'odono, alla lubricità. Allo stesso modo, quando vedi un uomo pavoneggiarsi, agghindarsi e così parato, avvicinarsi per fare chiacchiericcio, per sussurrare, mercanteggiare alle orecchie di una donna matura o di una giovane, e tutto senza alcuna intenzione di matrimonio, beh, sta certa che è soltanto per tentarla a qualche impudicizia; la donna onorata turerà le proprie orecchie per non udire il verso di quel pavone e la voce dell'incantatore che vuole sedurla; se ascolterà sarà l'inizio della perdita del cuore.
I giovani che fanno gesti leziosi, smancerie, e carezze, o dicono parole che non vorrebbero che fossero udite dai loro padri, madri, mariti, mogli o confessori, dimostrano in tal modo che si stanno occupando non proprio dell'onore e della coscienza.
La Madonna rimase turbata vedendo un Angelo in sembianza di uomo, perché era sola e la stava lodando con molta solennità: non dimentichiamo che erano lodi celesti! 0 Salvatore del mondo! La purezza teme un Angelo in forma umana; perché la nostra purità non dovrebbe temere un uomo, anche se in sembianza di Angelo, quando tesse lodi sensuali o almeno umane?
Capitolo XXI
CONSIGLI E RIMEDI PER COMBATTERE LE CATTIVE AMICIZIE
Ma che cosa fare per combattere gli amori futili, le stranezze, le pazzie, le brutture cui ho accennato? Appena ne avverti i primi sintomi, volgiti subito dall'altra parte e, respingendo nel modo più assoluto quelle stupidità, corri presso la Croce del Salvatore, afferra la sua corona di spine e cingine il tuo cuore di modo che quelle piccole volpi non possano avvicinarsi.
Sta bene attenta a non scendere a patti con il nemico; non dire: lo ascolterò, ma poi non farò nulla di quanto mi suggerirà; gli presterò orecchio, ma gli rifiuterò il cuore. Filotea, in tali circostanze, devi essere intransigente: il cuore e le orecchie sono collegati, e com'è impossibile arrestare un torrente che scende a valle dalla montagna, così è difficile impedire che l'amore entrato in un orecchio non scenda presto nel cuore.
Secondo Alcmeone le capre respirano per le orecchie e non per le froge; Aristotele lo nega; io non ne so niente, ma di certo so che il nostro cuore respira per l'orecchio, e siccome inspira ed espira i suoi pensieri per mezzo della lingua, respira anche per l’orecchio, per mezzo del quale riceve i pensieri degli altri. Proteggiamo dunque scrupolosamente le nostre orecchie dai colpi d'aria delle parole inutili; in caso contrario ben presto il nostro cuore ne sarà contagiato.
Sotto nessun pretesto devi ascoltare proposte oscene di alcun genere: è questo il solo caso in cui non corri pericolo di essere incivile e scortese.
Ricordati che hai consacrato il cuore a Dio, gli hai dato il tuo amore, e sarebbe un sacrilegio sottrargliene anche una briciola soltanto; rinnova la tua offerta con mille propositi e promesse e rimani in quelle come un cervo nel suo rifugio e poi invoca Dio. Egli ti verrà in aiuto: prenderà il tuo amore sotto la sua protezione, per farlo vivere unicamente in Lui.
Se poi sei già incappata nelle reti di quei futili amori, allora sento l'obbligo di dirti che ti sarà difficile sbarazzartene. Mettiti alla presenza della divina Maestà, riconosci l'enormità della tua miseria, la tua debolezza, la tua vanità; poi con l'impegno massimo di cui sarai capace, detesta quegli amori già iniziati, rinnega la sciocca manifestazione che ne hai fatto, rinuncia a tutte le promesse ricevute e, con una volontà forte e risoluta, decidi nel cuore e risolviti a mai più ricominciare quei giochi e quelle schermaglie d'amore.
Se poi ti è possibile allontanarti fisicamente dalla persona coinvolta, sono d'accordissimo, perché, allo stesso modo che coloro i quali sono stati morsi da un serpente, non possono guarire facilmente in presenza di coloro che già sono stati morsi a loro volta, la persona ferita d'amore difficilmente riuscirà a guarire da quella passione, finché sarà vicina a quella ferita dallo stesso morso.
Il mutamento del luogo è molto utile per calmare la febbre e l'agitazione causate sia dal dolore che dall'amore. Il ragazzo di cui parla S. Ambrogio nel II libro della Penitenza, ritornò da un lungo viaggio completamente guarito dai futili amori che l'avevano attanagliato prima; alla sciocca amante che, incontrandolo gli disse: Non mi conosci? sono sempre la stessa! Sì, certo, rispose, ma sono io che non sono più lo stesso. La lontananza aveva operato in lui quel felice mutamento.
S. Agostino dice che per alleviare il dolore per la morte dell’amico si allontanò da Tagaste, dove quegli era morto, e se ne andò a Cartagine.
Ma chi non può allontanarsi? Deve troncare ogni conversazione privata, gli incontri segreti, gli sguardi languidi, i sorrisi e in genere tutti gli scambi e gli ammiccamenti che possono nutrire questo fuoco maleodorante e fuligginoso. Se poi le circostanze esigono che si rivolga la parola al complice, deve essere per dichiarare, con una coraggiosa, breve e seria protesta, il divorzio definitivo che abbiamo giurato. Grido a voce alta, a chiunque sia caduto in questi lacci passionali: taglia, tronca, spezza. Non bisogna perdere tempo a discutere queste futili amicizie; bisogna strapparle non perdere tempo a sciogliere i nodi; bisogna spezzarli è tagliarli; tanto quei cordoni e quei legami non hanno alcun pregio.
Non bisogna avere riguardi per un amore che è contrario all'amore di Dio.
Ma, dopo avere in questo modo spezzate le catene di quell'infame schiavitù, è possibile che resti qualche strascico. I marchi e le piaghe dei ferri rimarranno impressi nei piedi, ossia negli affetti. Non fa nulla, Filotea, se tu hai concepito per il tuo male tutto l'orrore che merita; se farai così non sarai più agitata dalle ansie; proverai soltanto un forte orrore per quell'amore infame e per tutto quello ad esso collegato e sarai libera da ogni altro affetto per la persona che hai lasciato; ti rimarrà soltanto un amore purissimo per Iddio.
Se poi, a causa dell'imperfezione del pentimento, rimane in te qualche inclinazione cattiva, procura per la tua anima una solitudine mentale, come ti ho già insegnato, e ritirati in essa con tutte le tue facoltà, e con mille slanci ripetuti dello spirito, rinuncia alle tue inclinazioni, rinnegale con tutte le forze; datti alla lettura dei Libri santi più di quanto non sei solita fare, confessati e comunicati più spesso, con umiltà e sincerità parla di tutte queste suggestioni e tentazioni al tuo direttore spirituale, se ti è possibile; o almeno con qualche anima dalla fede profonda e molto prudente; sta certa che il Signore ti libererà da tutte le passioni, se tu continuerai fedelmente questi esercizi.
Ma, mi dirai, non è ingratitudine rompere così drasticamente un'amicizia? lo ti dico: quant'è bella l'ingratitudine che ti rende accetta a Dio! Filotea, non sarà ingratitudine, ma anzi un'azione meritoria in favore del tuo amante; perché, spezzando i tuoi legami, romperai anche i suoi; e se anche, sul momento, non saprà apprezzare la sua felicità, lo farà ben presto e con te canterà in ringraziamento: 0 Signore, tu hai spezzato i miei legami, io ti sacrificherò la vittima di lode e invocherò il tuo santo Nome.
Capitolo XXII
QUALCHE ALTRO CONSIGLIO A PROPOSITO DELLE AMICIZIE
L'amicizia richiede un intenso scambio tra coloro che si vogliono bene: diversamente non può nascere e tanto meno mantenersi. Ecco perché avviene spesso che agli scambi che sono alla base dell'amicizia, se ne aggiungano molti altri che si insinuano insensibilmente da cuore a cuore: e così gli affetti, le tendenze e le opinioni passano in continuazione da uno all'altro.
Questo soprattutto quando all'affetto si aggiunge la stima; in tal caso apriamo il cuore all'amico con molta larghezza per cui, con essa, entrano con facilità in noi tutte le sue tendenze e le sue opinioni, poco importa se siano buone o cattive.
Le api che raccolgono il miele di Eraclea cercano soltanto il miele, ma con esso succhiano anche le qualità velenose dell'aconito sul quale fanno la raccolta.
A questo proposito, Filotea, bisogna mettere in pratica la parola che il Salvatore delle anime nostre era solito ripetere e che gli antichi ci hanno insegnato: Sii abile cambiavalute, batti buona moneta; ossia, non accettare il denaro falso con il buono, né l'oro di bassa lega con l'oro fino; separa il metallo prezioso dal vile. Fa' attenzione perché nessuno va esente da imperfezioni.
E che motivo c'è di ricevere alla rinfusa difetti e imperfezioni dell'amico assieme alla sua amicizia? E’ evidente che bisogna volergli bene nonostante le sue imperfezioni, ma non bisogna voler bene alle sue imperfezioni e prenderle su di noi; l'amicizia richiede che ci comunichiamo il bene, non il male.
A somiglianza di coloro che cavano la ghiaia dal Taro e separano l'oro che trovano Per portarlo via, mentre lasciano il resto sulla riva del fiume, coloro che comunicano con l'amico devono saper separare la sabbia delle imperfezioni e non lasciarla penetrare nelle loro anime.
S. Gregorio di Nazianzo ci dice che molti, i quali volevano bene e ammiravano S. Basilio, erano talmente portati alla sua imitazione, che lo scimmiottavano anche nelle sue imperfezioni esteriori, nel suo modo di parlare lentamente e con lo spirito assorto e pensoso, nel taglio della barba e nel modo di camminare. Noi vediamo dei mariti, delle mogli, dei figli, degli amici, che hanno tanta stima dei loro amici, dei loro padri, dei loro mariti, delle loro mogli, che per condiscendenza o imitazione, prendono da loro, assieme all'amicizia, mille piccole tendenze cattive.
Questo non deve accadere: ciascuno ne ha abbastanza dei propri difetti senza bisogno di caricarsi anche di quelli degli altri; aggiungo che l’amicizia non soltanto non lo richiede, ma al contrario, ci obbliga a darci reciprocamente una mano per liberarci da tutte le forme di imperfezione.
E’ fuor di dubbio che bisogna sopportare con dolcezza l'amico nelle sue imperfezioni, ma non incoraggiarlo in quelle, e ancor meno trasferirle in noi.
Parlo soltanto di imperfezioni; quanto ai peccati non bisogna accettarli e sopportarli nemmeno nell'amico. Un'amicizia che lascia morire l'amico senza prestargli aiuto, è un'amicizia debole e cattiva; vedere un amico che muore di un ascesso e non avere il coraggio di dare il colpo di bisturi per salvarlo, non è amicizia.
L'amicizia vera e vitale non sopravvive tra i peccati. Si dice che, dove si adagia, la salamandra spegne il fuoco; il peccato distrugge l'amicizia in cui si annida: se si tratta di un peccato passeggero, l'amicizia lo mette immediatamente in fuga con la correzione; ma se ci rimane e ci si ferma, l'amicizia perisce immediatamente, perché per vivere ha bisogno della virtù; da qui risulta molto chiaro che non è possibile peccare per amicizia.
L'amico diventa nemico quando vuole condurci al peccato e merita di perdere l'amicizia se vuol condurre l’amico alla rovina e alla dannazione; una delle prove più sicure di una falsa amicizia è vederla praticata tra persone viziose, qualunque sia il genere di peccato che le accomuna. Se colui al quale vogliamo bene è preda del vizio, la nostra amicizia è sicuramente viziosa; giacché se non può avere per base una solida e sincera virtù, è giocoforza che sia fondata su una virtù apparente o su qualche aspetto sensuale.
Una società costituita tra i commercianti per il profitto temporale ha soltanto l'apparenza di vera amicizia. Essa non ha per fine l'amore delle persone, ma l'amore del denaro.
Infine eccoti due massime, fondamentali colonne della vita cristiana; una è del Saggio: Chi teme Dio incontrerà una buona amicizia; l'altra è di S. Giacomo: L'amicizia di questo mondo è nemica di Dio.
Capitolo XXIII
GLI ESERCIZI DELLA MORTIFICAZIONE ESTERIORE
Coloro che si intendono di agricoltura e di coltiva2ione di alberi da frutta assicurano che se si incide una parola su una mandorla intatta e poi si rimette nel suo nocciolo, si richiude e si salda a perfezione, e si pianta, tutte le mandorle che produrrà l'albero che ne nascerà porteranno scritta la parola incisa nella mandorla piantata.
Non ho mai approvato il metodo di coloro che per riformare l'uomo cominciano dall'esterno: dal contegno, dall'abito, dai capelli. Mi sembra che si debba cominciare dal di dentro: Convertitevi a me con tutto il cuore, dice Dio. Figlio mio, dammi il tuo cuore; e questo perché è il cuore la sorgente delle azioni, per cui le azioni sono secondo il cuore.
Lo Sposo divino invita l'anima e le dice: Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio. E’ proprio vero perché chi ha Gesù nel cuore lo ha ben presto anche in tutte le azioni esteriori.
Ecco perché, cara Filotea, prima di tutto, voglio incidere e scrivere nel tuo cuore questo santissimo Motto: VIVA GESU’; e sono sicuro che in seguito la tua vita, vero albero nato dal cuore, come il mandorlo dal nocciolo, produrrà tutte le azioni, ossia i suoi frutti, segnati dallo stesso motto della salvezza. Quel dolce Gesù, che sarà vivente nel tuo cuore, lo si vedrà nei tuoi occhi ' sulla tua bocca, nelle tue mani e persino dai tuoi capelli; e potrai dire sinceramente, sull'esempio di S. Paolo: Vivo sì, ma non più io; è Cristo che vive in me. A dirla in breve, chi conquista il cuore e dell'uomo conquista tutto l'uomo.
Ma proprio questo cuore, dal quale vogliamo cominciare, ha bisogno di essere educato su come darsi una linea di condotta e un comportamento, di modo che non si manifesti soltanto la santa devozione, ma anche una profonda saggezza con altrettanta discrezione. A tal fine eccoti alcuni consigli.
Se sei in condizione di sopportare il digiuno, farai bene a digiunare qualche giorno in più di quelli che comanda la Chiesa; perché, oltre all'effetto ordinario del digiuno, che è quello di liberare lo spirito, sottomettere la carne, praticare la virtù e accrescere l'eterna ricompensa in cielo, il digiuno ci dà modo di dominare i nostri appetiti, e mantenere la sensualità e il corpo sottomessi allo spirito; e anche se i digiuni non saranno molti, il nemico quando si accorgerà che sappiamo digiunare, ci temerà di più.
Il mercoledì, il venerdì e il sabato sono i giorni che i primi cristiani più facilmente consacravano alla astinenza: scegline uno tra di essi per digiunare, secondo quanto ti consiglierà la tua devozione e la discrezione del tuo direttore spirituale.
Ripeto volentieri quanto dice S. Girolamo a Leta: I digiuni lunghi ed esagerati mi indispongono molto, soprattutto se sono effettuati da persone in giovane età. Ho sperimentato che il somarello fiacco cerca di deviare dal sentiero; ossia, i giovani che si ammalano per digiuni eccessivi, si girano facilmente verso le cose delicate. I cervi corrono goffamente in due circostanze: quando sono troppo grassi e quando sono troppo magri. Anche noi siamo molto fragili di fronte alle tentazioni sia quando il nostro corpo è troppo pasciuto, come quando è troppo debole; nel primo caso è presuntuoso nel suo benessere, nell'altro è disperato nel suo malessere; quando è troppo grasso non riusciamo a portarlo, quando è troppo magro lui non porta noi. La mancanza di misura nei digiuni, nelle flagellazioni, nell'uso del cilicio, nelle asprezze rende molte persone incapaci di consacrare gli anni migliori della vita ai servizi della carità; questo avvenne anche a S. Bernardo che si pentì in seguito di aver abusato di penitenze troppo dure; chi ha trattato con troppa durezza il proprio corpo all'inizio, finirà col blandirlo alla fine. Non pensi che se quei tali avessero agito con più senno, se gli avessero riservato un trattamento sempre uguale e -adeguato ai suoi compiti ed alle sue occupazioni avrebbero fatto meglio?
Il digiuno e il lavoro domano e prostrano la carne.
Se il lavoro che fai ti è necessario, o è molto utile alla gloria di Dio, sono dei parere che sia meglio per te affrontare la fatica del lavoro che quella del digiuno; questo è il pensiero della Chiesa che dispensa anche dai digiuni comandati quelli che si consacrano a lavori utili al servizio di Dio -e del prossimo.
C'è chi fa fatica a digiunare, chi invece a servire gli ammalati, un altro a visitare i prigionieri, a confessare, a predicare, consolare gli afflitti, Pregare ed altri esercizi simili: queste ultime fatiche valgono di più di quella del digiuno, perché, oltre a darci ugualmente il dominio sulla carne, in Più ci offrono frutti molto più apprezzabili.
Come principio generale è meglio conservare forze corporali più di quanto serve, che perderne più di quanto è necessario; si può sempre fiaccarle, volendolo; ma non sempre basta volerlo, per recuperarle.
Mi sembra che dobbiamo avere una grande considerazione per la frase che Nostro Signore, Salvatore e Redentore disse ai suoi discepoli: Mangiate ciò che vi sarà presentato Io sono del parere che sia maggiore virtù mangiare senza scelta ciò che ti viene presentato, e nell'ordine in cui ti viene presentato, senza far caso se sia di tuo gusto o meno, che scegliere sempre quanto c'è di peggiore. Perché se anche questo ultimo modo di agire sembra più austero, l'altro denota maggiore mortificazione, perché non ti porta soltanto alla rinuncia al tuo gusto, ma anche alla scelta personale; e mi sembra che non sia una mortificazione da poco piegare il proprio gusto alle circostanze del caso e tenerlo sottomesso alle situazioni fortuite; in Più questo genere di mortificazione passa inosservato, non dà noia ad alcuno ed è di un valore ineguagliabile quanto a buona educazione!
Mettere da parte un cibo per prenderne un altro, piluccare e assaggiare tutto senza mai trovare nulla di ben preparato e a puntino, giocare a fare il misterioso ad ogni boccone. Tutto ciò manifesta un cuore da mollusco, sensibile solo ai piatti e alle scodelle. Ammiro di più S. Bernardo che beve olio per acqua o vino per colpa di altri, che se avesse bevuto assenzio per propria scelta; quello che fece disse chiaramente che non faceva caso a quello che beveva!
E in questa indifferenza a ciò che si mangia e a ciò che si beve si trova la perfezione di questa parola: Mangiate ciò che vi sarà presentato.
Faccio eccezione per i cibi che nuocciono alla salute o che disturbano lo spirito, come sono, per molti, i cibi caldi e le spezie che riscaldano e che gonfiano; o anche certe circostanze nelle quali la natura deve essere sostenuta, per avere la forza di affrontare qualche impegno per la gloria di Dio. Una sobrietà costante e moderata è molto meglio che le privazioni violente fatte di tanto in tanto, intervallate da periodi di grande rilassatezza.
Se presa con moderazione, la disciplina dà meravigliosi risultati nel risvegliare il desiderio della devozione. Il cilicio domina potentemente il corpo, ma il suo uso abitualmente non è consigliabile agli sposati, alle persone di costituzione delicata, o a quelli che devono sopportare altre grosse fatiche. Tuttavia si può impiegare, volendo, nei giorni forti di penitenza, sempre che il confessore sia d'accordo.
La notte, ciascuno secondo la propria costituzione, deve prendersi il tempo sufficiente per dormire; questo per poter essere pienamente sveglio e fresco di giorno. Si aggiunga che la Sacra Scrittura in cento modi, l'esempio dei Santi e motivi di ordine naturale, ci raccomandano fortemente, come momento più ricco e producente del giorno, il mattino. Oltre a ciò pensa che Nostro Signore viene chiamato Sole che sorge, la Madonna Alba del giorno.
Penso che tutto ciò indichi che è segno di virtù coricarsi di buon'ora la sera per potersi alzare per tempo il mattino. Certamente è il tempo più bello, il più dolce e il meno occupato; anche gli uccelli ci invitano, al mattino per tempo, a lodare Dio; di modo che l'alzarsi presto giova alla salute e alla santità.
Balaam, cavalcando la sua asina, stava recandosi a trovare Balac; ma siccome la sua intenzione non era retta, l'Angelo lo attendeva sulla strada con la spada sguainata per ucciderlo. L'asina, che vedeva l'Angelo, si fermò tre volte rifiutandosi di avanzare; Balaam la prendeva ferocemente a bastonate per farla avanzare; alla terza volta si coricò del tutto sotto Balaam e, per un grande prodigio, parlò e disse: Che cosa ti ho fatto? Perché mi hai già bastonato tre volte? Subito si apersero gli occhi a Balaam che vide l'Angelo, il quale gli disse: Perché hai percosso la tua asina? Se non ti avesse tenuto lontana) da me io ti avrei ucciso e lei l'avrei risparmiata! Rispose allora Balaam: Signore, ho peccato perché non sapevo che ti eri posto contro di me sulla via.
Vedi, Filotea, Balaam ha fatto il male e bastona e percuote la povera asina che non c'entra per nulla.
E’ quello che avviene spesso nella nostra vita. Guarda per esempio quella donna; cade malato il figlio o i marito, e subito ricorre al digiuno, alla disciplina, al cilicio, come fece Davide in un caso simile, Cara amica, tu percuoti il povero asino, affliggi il tuo corpo, che non ha niente a che fare con il tuo male. Non è lui che ha provocato la spada di Dio contro di te; correggi Piuttosto il cuore che idolatra il marito e che tollera mille vizi nel figlio, e lo conduce all'orgoglio, alla vanità, all'ambizione.
Ci sarà qualche altro che cadrà pesantemente nel peccato di lussuria: il rimorso interiore aggredirà la sua coscienza con la spada in pugno per trapassarla di santo timore; e subito, riprendendo la padronanza del cuore griderà: carne traditrice, corpo traditore, tu mi hai rovinato. E subito infierirà a grandi colpi sulla carne, con digiuni sregolati, discipline senza criterio, cilici insopportabili. Povero te, se il tuo corpo potesse parlare come l'asina di Balaam! Ti direbbe: Miserabile, perché mi percuoti? t contro te, anima mia, che Dio prepara la vendetta; sei tu la criminale; perché mi conduci alle cattive conversazioni? Perché impieghi i miei occhi, le mie mani, le mie labbra nei piaceri? Perché mi turbi con cattive fantasie? Fa buoni pensieri e io non avrò cattivi movimenti, frequenta la gente onesta e lo non sarò agitato dalla concupiscenza. Sei tu che mi getti nel fuoco e poi pretendi che non arda. Mi getti il fumo negli occhi e non vuoi che gli occhi si infiammino.
In questi casi Dio ti dice: Percuoti spezza fendi, strapazza prima il tuo cuore, perché è contro di esso che sono adirato.
Per guarire il prurito non serve molto lavarsi e fare il bagno, quanto piuttosto purificare il sangue e rinfrescare il fegato. Allo stesso modo per sanare i nostri vizi, è bene, sì, mortificare la carne, ma più ancora e necessario purificare i nostri affetti e rinnovare il nostro cuore.
Per chiudere, ricordati di non dare mai seguito a penitenze corporali senza aver avuto il parere favorevole del tuo direttore spirituale.
Capitolo XXIV
LE CONVERSAZIONI E LA SOLITUDINE
Ricercare le conversazioni e fuggirle sono due estremi ugualmente riprovevoli in una devozione civile quale è quella che vado proponendoti.
La fuga dalla conversazione tradisce un senso di superiorità e disprezzo nei confronti del prossimo; la ricerca, per contro, tradisce tendenza all'ozio e alla professione di perditempo.
Bisogna amare il prossimo come se stessi e, per dimostrargli amore, non bisogna evitare di incontrarlo; ma per dimostrare che vogliamo bene anche a noi stessi, occorre rimanere con noi quando ne abbiamo I’opportunità. E questa l'abbiamo quando siamo soli: Pensa a te stesso, dice S. Bernardo, e poi agli altri. Se dunque nulla ti impone di far visite o riceverne a casa tua, rimani in te stessa e conversa con il tuo cuore. Ma se ti capita di trovarti in compagnia o, per qualche giusto motivo devi andare a cercarla tu stessa, vacci con Dio, Filotea, e guarda il prossimo con cuore contento e occhio felice.
Vengono chiamate cattive conversazioni quelle che si tengono con intenzione perversa, o anche se quelli che vi partecipano sono viziosi, scriteriati, dissoluti; da quelle bisogna stare lontano, come fanno le api che si tengono lontane dai gruppi di tafani e di calabroni.
Allo stesso modo che quelli i quali sono stati morsi da cani arrabbiati, sudano, hanno il fiato e la saliva pericolose, soprattutto per i bambini e le persone di costituzione delicata, quei viziosi depravati costituiscono sempre un pericolo e un rischio per coloro che li frequentano, soprattutto se si tratta di persone dalla devozione ancora tenera e delicata.
Ci sono conversazioni che hanno il solo scopo di divertire, servono per distrarsi un po' dalle occupazioni serie; a quelle è chiaro che non dobbiamo consacrarci; lasciamo loro soltanto il tempo libero destinato a riposarci.
Altre conversazioni hanno per fine la buona educazione, come, ad esempio, lo scambio di visite e certe riunioni che si fanno per onorare il prossimo: direi che per quelle non bisogna farsi scrupolo nel disertarle. Però nemmeno essere troppo incivili dimostrando per esse disprezzo. Facciamo con moderazione il nostro dovere, evitando in ugual misura di essere rozzi e leggeri.
Rimangono le conversazioni utili, quali quelle delle persone devote e virtuose: Filotea, ritieni una grande grazia incontrarne spesso. La vigna piantata tra gli olivi dà un'uva grassa che sa di oliva; un'anima che si trovi a frequentare spesso gente di virtù partecipa necessariamente delle loro qualità.
I fuchi da soli non fanno miele, ma in compagnia delle api qualche cosa riescono a fare. La conversazione con le anime devote ci aiuta molto nell'esercizio della devozione.
In ogni conversazione occorre dare sempre la preferenza alla spontaneità, alla semplicità, alla dolcezza, alla misura. C'è gente che si comporta e si muove con tanto studio che tutti ne sono annoiati, Uno che non volesse mai spostarsi senza cadenzare il passo, che non volesse parlare senza cantare, sarebbe davvero un peso per tutti; non è diverso per quelli che hanno sempre un contegno studiato e agiscono soltanto con mosse calcolate; rendono impossibile la conversazione; la gente di questo tipo è ammalata di presunzione.
In via ordinaria la nostra conversazione deve essere dominata da una gioia moderata. S. Romualdo e S. Antonio vengono molto lodati perché, nonostante tutte le austerità, avevano sempre il volto e le parole illuminate di gioia, allegria e civiltà.
Sta allegra con chi è contento, ti ripeto con l'Apostolo; sii sempre contenta, ma in Nostro Signore, e la tua moderazione sia nota a tutti gli uomini.
Per gioire in Nostro Signore, è necessario che '1 motivo della tua gioia, non solo sia lecito, ma anche onesto. Dico questo perché ci sono cose lecite che poi risultano disoneste; per mettere in evidenza, per esempio, la tua modestia, sta attenta a non diventare insolente, il che è sempre da riprovare. Fare lo sgambetto a uno, mettere in ombra un altro, pungere un terzo> fare del male a un menomato, sono scherni e soddisfazioni stupide, insolenti e anche cattive.
Ma oltre alla solitudine mentale, nella quale ti è sempre possibile rifugiarti anche in mezzo alle più rumorose compagnie, e di cui ti ho già parlato, (P. Il, C. XII), devi amare anche la solitudine locale e reale; non voglio spedirti nel deserto, come S. Maria Egiziaca, S. Paolo, S. Antonio, Arsenio e gli altri padri eremiti, ma penso che ogni tanto ti farebbe bene rimanere sola in camera tua, nel tuo giardino o altrove, dove ti sia possibile raccogliere il tuo spirito nel tuo cuore e ritemprare la tua anima con buoni propositi e santi pensieri, o con qualche buona lettura, come faceva quel santo vescovo di Nazianzo che parlando di se stesso diceva: Passeggiavo con me stesso al tramonto del sole e trascorrevo il tempo in riva al mare; ho questa abitudine per riposarmi e liberarmi un po' dalle preoccupazioni quotidiane.
Abbiamo anche l'esempio di S. Ambrogio riferito da S. Agostino ci racconta che spesso entrava in camera sua (non 'chiudeva mai la porta a nessuno), e lo guardava leggere. Aspettava un po', poi se ne andava per non disturbarlo e, senza dir parola, pensando che il tempo che rimaneva a quel grande pastore per ritemprare e distendere il proprio spirito, dopo il carico di una giornata di lavoro, non doveva essergli tolto.
Anche Nostro Signore agì allo stesso modo con gli Apostoli dopo che gli avevano raccontato le loro fatiche nella predicazione e nel ministero: Venite in disparte, disse loro, e riposatevi un po'.
Capitolo XXV
IL BUON GUSTO E IL SENSO DELLA MISURA NEL VESTIRE
S. Paolo vuole che le donne devote, vale anche per gli uomini, vestano abiti decenti, ornandosi con modestia e misura. Il decoro degli abiti e degli altri ornamenti si deduce dalla stoffa, dal taglio, dalla pulizia.
Per quello che riguarda la pulizia deve essere costante e generale; per quanto ci è possibile non lasciamo sugli abiti tracce di sporcizia e segni di trascuratezza. La pulizia esteriore indica, in una certa misura, l'onestà interiore. Dio stesso esige la pulizia esteriore in coloro che si avvicinano al suo altare, e hanno la principale responsabilità della devozione.
Per quello che riguarda la stoffa e il taglio degli abiti, il decoro va collegato a diverse circostanze: di tempo, di età, di rango, di ambiente, di situazioni. Abitualmente ci si veste meglio nei giorni di festa, tenuto conto anche della solennità che ricorre; in tempo di penitenza, come in Quaresima, si veste in tono molto dimesso; se vai a nozze ti vesti con l'abito adatto alle nozze; se vai a un funerale, con l'abito adatto al funerale; se vai dal principe, alzi il tono; se resti con i domestici, ti adegui a loro.
La donna sposata, quand'è col marito, deve ornarsi per piacere a lui, se lo facesse quando lui è lontano sarebbe lecito chiedersi agli occhi' di chi voglia essere piacente.
Alle ragazze sono permessi più fronzoli, perché hanno il giusto diritto di voler piacere a molti anche se deve essere soltanto per conquistarne uno in vista del matrimonio.
Niente di male che anche le vedove, che cercano marito, si ornino con una certa evidenza, purché non esibiscano leggerezze; sono già madri di famiglia, hanno passato i dispiaceri della vedovanza; si ha il diritto di giudicarle persone di spirito maturo e formato.
Le vere vedove, che s ' i sentono tali non solo nel corpo, ma anche nel cuore, devono rinunciare a tutti gli ornamenti; per esse c'è l'umiltà, la modestia, la devozione. Se vogliono dare amore agli uomini, non sono vedove vere, e se non ne vogliono dare, perché vanno in giro con le insegne? Chi non vuole più ricevere clienti, deve togliere l'insegna. Ci si diverte sempre alle spalle delle persone anziane che vogliono fare i belli: le pazzie si possono permettere solo ai giovani!
Sii sempre in ordine, Filotea; non ci deve essere niente in te che sappia di trasandato, di approssimativo, di raffazzonato: sarebbe segno di disprezzo per quelli che incontri, andare da loro con un abito indecoroso; d'altra parte evita l'affettazione, la vanità, la ricercatezza, le follie. Fin che ti è possibile rimani semplice e modesta; è il più bell'ornamento della bellezza e la miglior copertura in caso che la bellezza non ci fosse!
S. Pietro chiede, in modo particolare alle giovani donne, di non portare i capelli esageratamente increspati, arricciati, inanellati, ritorti a modo di serpente. Gli uomini tanto smidollati da perdere tempo in queste civetterie, sono additati da tutti come ermafroditi, e le donne vanitose sono considerate arrendevoli in fatto di castità. Se poi sono virtuose non è che si veda tanto in mezzo a tante scemenze e stupidaggini. Dicono, per difendersi, che non pensano male; ma io dico, come del resto ho già detto, che al male ci pensa il diavolo.
Da parte mia vorrei che il devoto e la devota che seguono i miei consigli fossero quelli vestiti sempre con più gusto nella brigata, ma i meno ricercati e affettati; come dice il proverbio, vorrei che fossero ornati di grazia, di gentilezza e di dignità. S. Luigi lo esprime molto bene: Ci si deve vestire secondo la propria condizione, di modo che i saggi e i buoni non possano dire: ti sei caricato troppo; e i giovani: ti sei tirato troppo giù.
Ma in caso che i giovani non fossero soddisfatti del nostro decoro, poco danno, atteniamoci al parere dei saggi!
Capitolo XXVI
SUL PARLARE E IN PRIMO LUOGO COME SI DEVE PARLARE DI DIO
I medici, dall'esame della lingua di un paziente, si fanno un'opinione fondata sul suo stato di salute; per noi le informazioni valide sullo stato della nostra anima sono le parole: Dalle tue parole, dice il Salvatore, sarai giustificato e dalle tue parole sarai condannato. Quando proviamo un dolore, subito vi portiamo la mano sopra; lo stesso fa la lingua sull'amore che proviamo.
Per cui, Filotea, se sei molto innamorata di Dio, parlerai spesso di Dio nelle conversazioni familiari con i i tuoi domestici, con gli amici, con i vicini: perché, la bocca del giusto mediterà la sapienza, e la sua lingua parlerà con giudizio. A somiglianza delle api, che con la loro boccuccia trattano solo il miele, la tua lingua sarà sempre profumata del suo Dio, e il tuo più grande piacere sarà quello di sentir fluire dalle tue labbra lodi e benedizioni al suo nome, proprio come si dice di S. Francesco d'Assisi, il quale, dopo che aveva pronunciato il santo nome del Signore, ripassava la lingua sulle labbra per continuare ad assaporare la più grande dolcezza del mondo.
Ma quando parli di Dio, ricordati che stai parlando di Dio, ossia che lo devi fare con rispetto e devozione, non prendendo atteggiamento di sufficienza o il tono di una predica, ma con spirito di dolcezza, di carità e di umiltà, facendo scendere, come ben sai e come si dice della Sposa nel Cantico dei Cantici, il miele delizioso della devozione e delle cose divine, goccia a goccia, ora nell'orecchio dell'uno, ora nell'orecchio dell'altro; e pregherai Dio nell'intimo della tua anima che voglia far scendere quella santa rugiada fino al cuore di quelli che ascoltano. Questo compito angelico va condotto con dolcezza e soavità; bisogna evitare il tono della correzione; bisogna procedere per modo di ispirazione; sai bene che la soavità dei modi e l'amabilità nel proporre qualche buon suggerimento, compiono meraviglie ed hanno la forza di un invito irresistibile per i cuori.
Non parlare mai di Dio e di devozione tanto per dire di averlo fatto, o per fare due chiacchiere; ma sempre con attenzione e devozione; questo te lo dico per impedirti di cadere in una sciocca vanità che si riscontra in molti che fanno professione di persone devote. Ad ogni piè sospinto dicono parole sante e piene di fervore, quasi per modo di battute, senza nemmeno pensarci. Dopo averle dette sono convinti di essere lo specchio delle parole che hanno detto; invece, proprio non lo sono!
Capitolo XXVII
L'ONESTA' NELLE PAROLE E IL RISPETTO DOVUTO ALLE PERSONE
Dice S. Giacomo: Se uno non pecca in parole è un uomo perfetto. Fa scrupolosamente attenzione a non lasciarti sfuggire alcuna parola sconveniente; anche se non la dici con cattiva intenzione, coloro che l'odono, possono prenderla in tal senso. Se la parola sconveniente cade in un cuore debole, si estende e si allarga come una goccia d'olio su un lenzuolo; e qualche volta si impadronisce in modo tale del cuore da riempirlo di mille pensieri e tentazioni oscene.
Tu sai che il veleno per il corpo entra dalla bocca; quello per il cuore entra dall'orecchio e la lingua che lo propina è assassina, anche se il veleno propinato non consegue l'effetto perché ha trovato immunizzati i cuori degli uditori. Se gli altri non sono morti non è perché mancasse la volontà di uccidere.
Nessuno venga a dirmi che non ci pensa: Nostro Signore, che conosce i pensieri, ha detto che la bocca parla dell'abbondanza del cuore. Se il pensiero non ce lo mettiamo noi, sta pur certa che ce lo mette il diavolo e anche molto! t il suo segreto: servirsi di cattive parole per trafiggere i cuori di chi gli capita a tiro.
Si dice che quelli che mangiano l'erba detta angelica, hanno sempre l'alito dolce e gradevole; coloro che hanno nel cuore l'onestà e la castità, che è una virtù angelica, usano sempre parole educate e pulite. Quanto alle cose indecenti e folli, l'apostolo non vuole nemmeno che se ne faccia il nome, e ci assicura che niente corrompe i buoni costumi quanto le conversazioni invereconde.
Se queste parole indecenti sono dette di nascosto, in modo studiato e sottile, sono ancora più velenose; infatti più un dardo è appuntito e più profondamente penetra nel corpo; così, più una parola cattiva è sottile e più penetra nei nostri cuori.
Coloro che pensano di essere gentiluomini perché usano tali parole nelle conversazioni, non hanno idea di che cosa sono le conversazioni; devono essere simili a sciami di api raccolte insieme per ricavare il miele da qualche dolce e virtuoso argomento, e non un mucchio di vespe che si uniscono per succhiare marciume.
Se qualche stupido ti dice parole indecenti, fa vedere che le tue orecchie non vogliono udirle: interessati ad altro o manifesta la tua ripugnanza in qualche modo; sarà la tua prudenza a indicarti quello opportuno.
Uno dei difetti peggiori dello spirito è quello di essere beffardo: Dio odia molto questo vizio e sappiamo che lo ha punito con castighi esemplari.
Nessun vizio è così contrario alla carità, e più ancora alla devozione, quanto il disprezzo e la derisione del prossimo.
La derisione e la beffa non vanno senza disprezzo; è per questo che è un peccato molto grave, e i moralisti hanno ragione di dire che la derisione è il modo peggiore di offendere il prossimo con parole; le altre offese salvano sempre, in una certa misura, la stima per la persona; la derisione invece non la risparmia in nulla.
Cosa molto diversa sono le battute scherzose tra amici; si fanno in allegria e gioia serena. Si tratta addirittura di una virtù cui i Greci davano il nome di eutrapelia: noi diciamo buona conversazione. E’ il modo di prendersi una onesta e amabile ricreazione sulle situazioni buffe cui i difetti degli uomini danno occasione.
Bisogna soltanto stare attenti a non passare dagli scherzi sereni alla derisione. La derisione provoca al riso per mancanza di stima e per disprezzo del prossimo; invece la battuta allegra e la burla scherzosa provocano al riso per la " trovata ", gli accostamenti imprevedibili fatti in confidenza e schiettezza amichevole; e sempre con molta cortesia di linguaggio.
S. Luigi quando le persone bigotte volevano parlargli di argomenti impegnativi dopo il pranzo, era solito dire: Ora non è tempo di dotte discussioni, ora è tempo di allegria e di scherzi; ciascuno dica quello che si sente. in tal modo andava incontro alla nobiltà che lo circondava per ricevere gentilezze da Sua Maestà. Filotea, l'importante è passare il tempo di ricreazione in modo tale da conservare per devozione il pensiero della santa eternità.
Capitolo XXVIII
I GIUDIZI TEMERARI
Non giudicare e non sarai giudicato, dice il Salvatore delle nostre anime; non condannare e non sarai condannato. Dice l'apostolo: Non giudicare prima del tempo, ossia fino a che non venga il Signore che svelerà il segreto nascosto nelle tenebre, e manifesterà i pensieri dei cuori. I giudizi temerari sono severamente riprovati da Dio! 1 giudizi emessi dai figli degli uomini sono temerari perché gli uomini non sono autorizzati ad emettere giudizi gli uni sugli altri; ciò facendo usurpano l'ufficio che Nostro Signore si è riservato; in più sono temerari perché la principale malizia del peccato dipende dall'intenzione e dal disegno del cuore, che è per noi il segreto delle tenebre; sono temerari perché ciascuno è sufficientemente occupato a giudicare se stesso, senza mettersi a giudicare anche il prossimo.
Per non correre il rischio di essere giudicati, è assolutamente necessario evitare di giudicare gli altri: fermiamoci invece a giudicare noi stessi. Nostro Signore ci ha proibito la prima cosa e l'apostolo ci comanda la seconda quando dice: Se noi giudichiamo noi stessi, non verremo giudicati. Noi facciamo invece esattamente il contrario: non manchiamo mai di fare quello che ci era stato proibito, sentenziando -a dritta e a manca sul prossimo; giudicare noi stessi, che sarebbe poi quello che ci è stato comandato, chi si sogna di farlo?
Bisogna correre ai ripari partendo dalle cause dei giudizi temerari. Ci sono dei cuori acidi, amari e aspri per natura, che rendono acido e amaro tutto quello che ricevono; costoro, secondo il detto del Profeta, mutano il giudizio in assenzio, perché non sanno giudicare il prossimo senza rigore e asprezza. Simili persone hanno tanto bisogno di cadere tra le mani di un consumato medico spirituale, perché, dato che l'amarezza di cuore è loro connaturale, vincerla è difficile; benché per sé non sia peccato, anzi soltanto un'imperfezione, tuttavia è da ritenersi pericolosa, perché introduce nell’anima, e ve li fissa, il giudizio temerario e la maldicenza.
Altri fanno giudizi temerari, non per acidità, ma per orgoglio; pensano che nella misura in cui abbassano l'onore degli altri, alzano il proprio! Sono spiriti arroganti e presuntuosi, pieni di ammirazione per se stessi, che si collocano così in alto nella propria stima, da vedere tutto il resto come cose piccole e basse: Non sono come gli altri uomini, diceva quel Fariseo.
In alcuni questo orgoglio non è tanto evidente e si manifesta soltanto in un certo compiacimento nel considerare i difetti degli altri per assaporare con maggior piacere il bene contrario di cui si sentono dotati. Questo compiacimento è così segreto e impercettibile che, se non si è forniti di una buona vista, non lo si può scoprire; e persino quelli che ne sono affetti, non se ne accorgono se non si fa loro notare.
Altri poi, per lusingarsi e trovare scuse nei confronti di se stessi, o per attenuare i rimorsi delle loro coscienze, pensano molto volentieri che gli altri siano contagiati dal vizio al quale si sono dati, o da qualche altro equivalente; pensano che il fatto di trovarsi ad essere in molti colpevoli dello stesso crimine, riduca la gravità.
Molti si lasciano andare al giudizio temerario per il solo piacere di filosofeggiare e fare gli indovini sulle abitudini e i capricci della gente, quasi per esercitarsi! Che se poi, per disgrazia, qualche volta azzeccano i loro giudizi, l'audacia e la brama di andare avanti diventa tanto forte in essi, che solo a fatica si può riuscire a distoglierli. Altri ancora giudicano per passione e pensano sempre bene di ciò che amano e sempre male di ciò che odiano. Soltanto in un caso, sorprendente fin che si vuole, ma reale, l'eccesso di amore spinge ad emettere un giudizio negativo su ciò che si ama: come risultato è mostruoso, ma lo spieghi facilmente se pensi che viene da un amore equivoco, imperfetto, agitato, malato, che si chiama gelosia, che, come tutti sanno, per un semplice sguardo, per il minimo sorriso di questo mondo, condanna le persone accusandole di perfidia e di adulterio.
Infine, spesso e molto, contribuiscono alla formazione di sospetti e giudizi temerari il timore, l'ambizione e altre simili debolezze dello spirito.
Quali sono i rimedi? Coloro che bevono un estratto di un oppiaceo detto ofiusa, che cresce in Etiopia, credono di vedere ovunque serpenti e altre cose orribili: coloro che hanno trangugiato orgoglio, invidia, ambizione, odio, vedono tutte le cose come cattive e riprovevoli; chi ha bevuto l'oppiaceo, se vuol guarire, deve bere vino di palma; la stessa cosa devono fare i viziosi di cui sopra.
Bevi più che puoi il sacro vino della carità; ti libererai da quegli umori perversi che ti fanno dare giudizi temerari.
La carità teme l'incontro con il male, tanto meno lo cerca; quando ci si imbatte volge altrove lo sguardo e fa finta di niente, anzi chiude gli occhi prima di vederlo, alle prime avvisaglie e finisce con il credere, con santa semplicità, che quello non era male, ma soltanto un'ombra o un fantasma del male; se poi l'evidenza la costringe ad ammettere che è proprio male, se ne allontana immediatamente e cerca di dimenticarne l'aspetto.
Per tutti i mali il grande rimedio è la carità; in modo particolare per questo. Tutto sembra giallo agli occhi degli ammalati gravi di itterizia; si dice che per guarirli da questo male bisogna obbligarli a mettere un po' d'erba detta celidonia sotto la pianta dei piedi.
Il peccato del giudizio temerario è un'itterizia spirituale, che, agli occhi di coloro che ne sono affetti, trasforma tutte le cose in cattive; chi vuole guarirne, non deve curare gli occhi, ossia l'intelletto, ma gli affetti, che sono i piedi dell'anima: se i tuoi affetti sono dolci, se sono caritatevoli, anche i tuoi giudizi lo saranno.
Voglio raccontarti tre esempi notevoli.
Isacco aveva detto che Rebecca era sua sorella, Abimelech vide che gioiva con lei, ossia che l'accarezzava con tenerezza, e subito concluse che era sua moglie: un occhio maligno avrebbe invece pensato che era la sua amante, o caso mai, se realmente era sua sorella, che erano due incestuosi; Abimelech segue l'interpretazione più benevola del fatto. Bisogna agire sempre in questo modo, Filotea, interpretando sempre in favore del prossimo; e se un’azione avesse cento aspetti, tu ferma sempre la tua attenzione al più bello.
La Madonna era incinta: S. Giuseppe lo vedeva bene. D'altra parte la vedeva tutta santa, tutta pura, tutta angelica; non poteva credere che fosse rimasta incinta mancando al suo onore. Decide allora di abbandonarla, lasciando a Dio il giudizio. Benché ci fossero tutte le circostanze evidenti per farsi una cattiva opinione di quella Vergine, egli non volle giudicarla. Perché? Perché era giusto, dice lo Spirito di Dio. L'uomo giusto quando non può scusare né il fatto né l'intenzione, di chi sa per altre vie essere uomo per bene, rifiuta di giudicare, se lo toglie dallo spirito, lascia a Dio solo la sentenza.
Il Salvatore non può scusare completamente il peccato di coloro che lo stanno crocifiggendo; ne diminuisce la malizia, adducendo l'ignoranza. Quando non ci è possibile scusare il peccato, rendiamolo almeno degno di compassione, attribuendolo alla causa più comprensibile che si possa pensare, quali l'ignoranza e la debolezza.
Ma allora, non è mai permesso giudicare il prossimo? No, mai! t Dio solo, Filotea, che giudica i colpevoli secondo giustizia. t vero che si serve della voce dei magistrati per renderla intelligibile alle nostre orecchie: sono il suo tramite e i suoi interpreti e devono pronunciare soltanto quello che hanno sentito da Lui, quasi come oracoli. Se agiscono diversamente, seguendo le loro passioni, in tal caso chi giudica sono loro e dovranno renderne conto essendo a loro volta giudicati, perché agli uomini, in quanto uomini, è proibito di giudicare.
Vedere o conoscere una cosa, non è giudicare, perché il giudizio, stando al detto della Scrittura, presuppone la necessità di chiarire una difficoltà, che può essere piccola o grande, vera o apparente; infatti dice che coloro i quali non credono sono già giudicati; non ci sono dubbi sulla loro condanna eterna. Non c'è nulla di male nel dubitare del prossimo, perché non è proibito dubitare, ma giudicare! Tuttavia non e permesso dubitare o sospettare se non proprio quando rigorosamente non se ne può fare a meno, e siamo costretti a dubitare da motivi e ragioni serie. Al di fuori di ciò i dubbi e i sospetti sarebbero temerari.
Se qualche occhio maligno avesse visto Giacobbe mentre baciava Rachele vicino al pozzo, e se avesse visto Rebecca accettare in dono braccialetti e orecchini da Eleazaro, forestiero in quel paese, avrebbe, senza alcun dubbio, pensato male di quei due modelli di virtù, ma senza ragione e senza fondamento; perché quando un'azione è per se stessa indifferente, tirarne cattive conclusioni è un sospetto temerario, a meno che siamo costretti al sospetto da molte indicazioni inequivocabili.
Concludere da un'azione mal fatta la condanna della persona è un giudizio temerario; ma su questo, tra breve, parlerò con maggior chiarezza.
E per finire ti dico che chi ha molta cura della propria coscienza non è quasi mai portato ai giudizi temerari; come le api vedendo la nebbia o il tempo nuvoloso s ' i rifugiano nelle loro arnie a sistemare il miele, allo stesso modo i pensieri delle anime buone non si posano su oggetti confusi, né sulle azioni poco chiare del prossimo. Anzi, per evitare il pericolo, si raccolgono all'interno del loro cuore per curare i buoni propositi del proprio emendamento. Soltanto un'anima insulsa può perdere tempo ad esaminare la vita degli altri.
Faccio eccezione per quelli che hanno la responsabilità di altri, sia in famiglia che nella società: per essi gran parte della coscienza sta nel guardare e vegliare su quella degli altri.
Adempiano al loro dovere con amore; al di fuori di ciò, si comportino come tutti.
Capitolo XXIX
LA MALDICENZA
Il giudizio temerario causa preoccupazione, disprezzo del prossimo, orgoglio e compiacimento in se stessi e cento altri effetti negativi, tra i quali il primo posto spetta alla maldicenza, vera peste delle conversazioni. Vorrei avere un carbone ardente del santo altare per passarlo sulle labbra degli uomini, per togliere loro la perversità e mondarli dal loro peccato, proprio come il Serafino fece sulla bocca di Isaia.
Se si riuscisse a togliere la maldicenza dal mondo, sparirebbero gran parte dei peccati e la cattiveria. A chi strappa ingiustamente il buon nome al prossimo, oltre al peccato di cui si grava, rimane l'obbligo di riparare in modo adeguato secondo il genere della maldicenza commessa. Nessuno può entrare in Cielo portando i beni degli altri; ora, tra tutti i beni esteriori, il più prezioso è il buon nome. La maldicenza è un vero omicidio, perché tre sono le nostre vite: la vita spirituale, con sede nella grazia di Dio; la vita corporale, con sede nell'anima; la vita civile che consiste nel buon nome. Il peccato ci sottrae la prima, la morte ci toglie la seconda, la maldicenza ci priva della terza. Il maldicente, con un sol colpo vibrato dalla lingua, compie tre delitti.- uccide spiritualmente la propria anima, quella di colui che ascolta e toglie la vita civile a colui del quale sparla. Dice S. Bernardo che sia colui che sparla come colui che ascolta il maldicente, hanno il diavolo addosso, uno sulla lingua e l'altro nell'orecchio. Davide, riferendosi ai maldicenti dice: Hanno affilato le loro lingue come quelle dei serpenti.
Il serpente ha la lingua biforcuta, a due punte, come dice Aristotele; tale e quale è quella del maldicente, che con un sol morso ferisce e avvelena l'orecchio di chi ascolta e il buon nome di colui di cui parla male.
Per questo ti scongiuro, carissima Filotea, di non sparlare mai di alcuno, né direttamente, né indirettamente. Sta attenta a non attribuire delitti e peccati inesistenti al prossimo, a non svelare quelli rimasti segreti, a non gonfiare quelli conosciuti, a non interpretare in senso negativo il bene fatto, a non negare il bene che sai esistere in qualcuno, a non fingere di ignorarlo, tanto meno poi devi sminuirlo a parole; agendo in questo modo offenderesti seriamente Dio, soprattutto se dovessi accusare falsamente il prossimo o negassi la verità a lui favorevole; mentire e contemporaneamente nuocere al prossimo è doppio peccato.
Coloro che per seminare maldicenza fanno introduzioni onorifiche, e che la condiscono di piccole frasi gentili, o peggio di scherno, sono i maldicenti più sottili e più velenosi.
Protesto, dicono, che gli voglio bene e che per il resto è un galantuomo, ma, continuano, la verità va detta: ha avuto torto nel commettere quella perfidia; quella è una ragazza virtuosissima, ma si è lasciata sorprendere..., e simili piccole cornici!
Non capisci dov'è l'arte? Chi vuol scoccare una freccia, la tira più che può a sé, ma è soltanto per scagliarla con maggior forza: si può anche avere l'impressione che costoro tirino a sé la maldicenza, ma è soltanto per scoccarla con maggior sicurezza, per farla penetrare più a fondo nel cuore di coloro che ascoltano.
La maldicenza portata sotto forma di scherno è la più cattiva di tutte; fa pensare alla cicuta che, di per sé, non è un veleno molto forte, anzi ha un'azione lenta e facilmente vi si può porre rimedio, ma se viene '1 vino, è senza scampo; lo stesso è di una presa con maldicenza che, di natura sua, secondo il detto, entrerebbe da un orecchio e uscirebbe dall'altro e che invece penetra fortemente nella mente degli ascoltatori quando è presentata in un contesto di parole sottili e gioviali.
Dice Davide: Hanno il veleno dell'aspide sotto le loro labbra. La puntura dell'aspide è quasi impercettibile, e il suo veleno dà sulle prime un prurito gradevole, che allarga così il cuore e le viscere e favorisce così l'assorbimento del veleno, contro il quale non ci sarà più nulla da fare.
Non dire mai: Il tale è un ubriacone, anche se l'hai visto ubriaco davvero; quello è un adultero, perché l'hai visto in adulterio; è incestuoso perché l'hai sorpreso in quella disgrazia; una sola azione non ti autorizza a classificare la gente. Il sole si fermò una volta per favorire la vittoria di Giosuè e si oscurò un'altra volta per la vittoria del Salvatore; a nessuno viene in mente per questo di dire che il sole è immobile e oscuro.
Noè si ubriacò una volta; e così anche Lot e questi, in più, commise anche un grave incesto: non per questo erano ubriaconi, e non si può dire che quest'ultimo fosse incestuoso. E non si può dire che S. Pietro fosse un sanguinario perché una volta ha versato sangue, né che fosse bestemmiatore perché ha bestemmiato una volta.
Per classificare uno vizioso o virtuoso bisogna che abbia fatto progressi e preso abitudini; è dunque una menzogna affermare che un uomo è collerico o ladro, perché l'abbiamo visto adirato o rubare una volta soltanto.
Anche se un uomo è stato vizioso per lungo tempo, sì rischia di mentire chiamandolo vizioso.
Simone il lebbroso chiamò Maddalena peccatrice, perché lo era stata prima; mentì, perché non lo era più, anzi era una santa penitente; e Nostro Signore la difese. Quell'altro Fariseo vanesio considerava grande peccatore il pubblicano, ingiusto, adultero, ladro; ma si ingannava, perché proprio in quel momento era giustificato.
Poiché la bontà di Dio è così grande che basta un momento per chiedere e ottenere la sua grazia, come facciamo a sapere che uno, che era peccatore ieri, lo sia anche oggi? Il giorno precedente non ci autorizza a giudicare quello presente, e il presente non ci autorizza a giudicare il passato. Solo l'ultimo li classificherà tutti.
Non potremo mai dire che un uomo è cattivo senza pericolo di mentire. In caso che sia necessario parlare possiamo dire che ha commesso tale o tal'altra azione cattiva, che ha condotto una vita disordinata in tale periodo, che agisce male al presente; ma non è lecito da ieri tirare delle conclusioni per oggi, né da oggi per ieri, e ancor meno da oggi per domani.
Se è vero che bisogna essere molto attenti a non parlare mai male del prossimo, però bisogna anche guardarsi dall'estremo opposto, in cui cadono alcuni, i quali, per paura di fare della maldicenza, lodano e dicono bene del vizio.
Se ti imbatti in un maldicente senza pudore, per scusarlo, non dire che è una persona libera e franca; di una persona apertamente vanesia, non dire che è generosa e senza complessi; le libertà pericolose non chiamarle semplicità e ingenuità; non camuffare la disobbedienza con il nome di zelo, l'arroganza con il nome di franchezza, la sensualità con il nome di amicizia.
Cara Filotea, per fuggire il vizio della maldicenza, non devi favorire, accarezzare, e nutrire gli altri vizi; ma con semplicità e franchezza, devi dire male del male e biasimare le cose da biasimare; solo se agiamo in questo modo diamo gloria a Dio.
Fa però attenzione ed attienti a quello che ora ti dirò.
Si possono lodevolmente biasimare i vizi degli altri, anzi è necessario e richiesto, quando lo esige il bene di colui di cui si parla o di chi ascolta.
Facciamo degli esempi: supponi che in presenza di ragazze vengano raccontate delle licenziosità commesse da Tizio e da Caia: è una cosa senz'altro pericolosa; oppure supponi che si parli della dissolutezza verbale di un tale o di una tale, sempre esemplificando; o ancora di una condotta oscena: se io non biasimo chiaramente quel male, o, peggio, tento di scusarlo, quelle tenere anime che ascoltano, avranno la scusa per lasciarsi andare a qualche cosa di simile; il loro bene esige che, con molta franchezza, biasimi all'istante quelle sconcezze. Potrei riservarmi di farlo in un altro momento soltanto se sapessi di ricavarne sicuramente un miglior risultato togliendo allo stesso tempo importanza ai colpevoli.
P, necessaria anche un'altra cosa: per parlare del soggetto devo averne l'autorità, o perché sono uno di quelli più in evidenza nel gruppo; nel qual caso se non parlo, avrò l'aria di approvare il vizio: se invece nel gruppo non godo di molta considerazione, devo guardarmi bene dal fare censure.
Più di tutto Poi è necessario che io sia ponderato ed esatto nelle parole, per non dirne una sola di troppo: per esempio. se devo riprendere le eccessive libertà di quel giovanotto e di quella ragazza, perché chiaramente esagerate e pericolose, devo saper conservare la misura per non gonfiare la cosa nemmeno di un soffio.
Se c'è soltanto qualche sospetto, dirò soltanto quello; se si tratta di sola imprudenza, non dirò di più; se non c'è né imprudenza, né sospetto di male, ma soltanto materia perché qualche spirito malizioso faccia della maldicenza, non dirò niente del tutto o dirò soltanto quello che è,
Quando parlo del prossimo, la mia bocca nel servirsi della lingua è da paragonarsi al chirurgo che maneggia il bisturi in un intervento delicato tra nervi e tendini: il colpo che vibro deve essere esattissimo nel non esprimere né di più né di meno della verità.
Un'ultima cosa: pur riprendendo il vizio, devi fare attenzione a non coinvolgere la persona che lo porta. Ti concedo di parlare liberamente soltanto dei peccatori infami, pubblici e conosciuti da tutti, ma anche in questo caso lo devi fare con spirito di carità e di compassione, non con arroganza e presunzione; tanto meno per godere del male altrui. farlo per quest'ultimo motivo è prova di un cuore vile e spregevole.
Faccio eccezione per i nemici dichiarati di Dio e della Chiesa; quelli vanno screditati il più possibile: ad esempio, le sette eretiche e scismatiche con i loro capi. E’ carità gridare al lupo quando si nasconde tra le pecore, non importa dove.
Tutti si prendono la libertà di giudicate e censurare i governanti e parlar male di intere reazioni, lasciandosi guidare dalla simpatia: Filotea, non commettere quest'errore. Tu, oltre all’offesa a Dio, corri il rischio di scatenare mille rimostranze.
Quando senti parlare male, se puoi farlo con fondatezza, metti in dubbio l'accusa; se non è possibile, dimostra compassione per il colpevole, cambia discorso, ricorda e richiama alla mente dei presenti che coloro i quali non sbagliano lo devono soltanto a Dio. Riporta in se stesso il maldicente con buone maniere; se sai qualche cosa di bene della persona attaccata, dilla.
Capitolo XXX
ALTRI CONSIGLI SUL PARLARE
Il tuo modo di parlare sia pacato, schietto, sincero, senza fronzoli, semplice e veritiero. Tienti lontano dalla doppiezza, dall'astuzia e dalle finzioni. t vero che non tutte le verità devono sempre essere dette; ma per nessun motivo è lecito andare contro la verità.
Abituati a non mentire coscientemente, né per scusa, né per altro, ricordandoti che Dio è il Dio della verità. Se hai mentito inavvertitamente e puoi rimediare spiegando e correggendo, fallo subito: le scuse sincere hanno più delicatezza e più forza convincente per scusarci di qualunque menzogna.
Qualche volta è permesso, con prudenza e discrezione, alterare e nascondere la verità con un giro di parole; ma soltanto per motivi seri; quando lo richiedono, senza ombra di dubbio, la gloria di Dio e il suo servizio. Fuori di ciò, i giri di parole o le astuzie verbali sono pericolose perché, come dice la Parola di Dio, lo Spirito Santo non abita in un'anima falsa e doppia.
Nessuna finezza è migliore e più desiderabile della semplicità.
La prudenza mondana e le arti della carne sono caratteristiche dei figli di questo secolo; i figli di Dio invece camminano senza astuzie e hanno il cuore senza misteri. Chi cammina con semplicità, dice il Saggio, avanza con fiducia. La menzogna, la doppiezza, la simulazione sono segni di uno spirito debole e vile.
S. Agostino, nel IV libro delle Confessioni, dice che l'anima sua e quella del suo amico formavano un'anima sola, e che odiava la vita dopo la morte dell'amico, perché non se la sentiva di vivere a metà e, nello stesso tempo, temeva di morire, perché in tal modo anche l'amico avrebbe cessato di vivere totalmente. In seguito queste parole gli parvero troppo artificiose e studiate e così, nel Libro delle Ritrattazioni, le sconfessa e le chiama inezie. Cara Filotea, pensa quanto quella bella e sant'anima fosse sensibile all'affettazione delle parole! Senza dubbio il parlare in modo schietto, senza fronzoli e con sincerità, è un prezioso ornamento della vita cristiana.
"Ho detto, farò attenzione alle mie vie per non peccare in parole; Signore, metti le sentinelle alla mia bocca e una porta a chiusura delle mie labbra " cantava Davide.
E’ un consiglio del grande Re S. Luigi: Non contraddire mai nessuno a meno che non sia peccato o dal consenso ne consegua un grave danno; questo ti eviterà contestazioni e litigi. Quando è necessario contraddire qualcuno e opporsi all'opinione di un altro, bisogna usare molta dolcezza e una grande abilità, senza aver l'aria di aggredire chicchessia; non ci si guadagna mai a prendere le cose con asprezza. Il parlare poco, tanto raccomandato dagli antichi saggi, non va inteso nel senso di dire poche parole, ma di non dirne di inutili. Nel campo delle parole non si guarda alla quantità, ma alla qualità. Secondo me bisogna evitare i due estremi: darsi troppo un contegno sostenuto e severo, rifiutandosi di partecipare alla conversazione familiare, il che mi sembra che denoti mancanza di fiducia e anche un certo disprezzo degli altri; d'altra parte il ciarlare e il cicalare senza soste, senza mai lasciare spazio agli altri per dire una sola parola, sarebbe segno di leggerezza e insulsaggine.
S.Luigi trovava che non fosse ben fatto, quando si è in compagnia, parlare all'orecchio o fare conciliaboli; questo per non dare il sospetto che si stesse parlando di qualcuno. Diceva: Chi si trova a tavola, in buona compagnia, e ha da dire una cosa allegra e simpatica, la deve dire in modo che tutti la odano; se invece si tratta di un affare di importanza, non parli affatto.
Capitolo XXXI
PASSATEMPI E DIVERTIMENTI E, IN PRIMO LUOGO, QUELLI LECITI E LODEVOLI
Ogni tanto è necessario rilassare lo spirito e il corpo con qualche divertimento.
S.Giovanni Evangelista, secondo quanto riferisce Cassiano, un giorno fu sorpreso da un cacciatore mentre accarezzava per divertimento una pernice che gli si era posata sulla mano; il cacciatore gli chiese come mai lui, uomo di tanto valore, perdesse il suo tempo in una cosa tanto insignificante e senza frutto; S. Giovanni gli chiese di rimando: E tu, perché non tieni il tuo arco sempre teso? Per il timore, rispose il cacciatore, che, rimanendo sempre curvo, al momento opportuno non abbia più la forza di distendersi. E per un replicò l'apostolo, perché ti meravigli se lascio per un po' il rigore e la concentrazione dello spirito per distrarmi un po' e consacrarmi poi, con maggior vi. gore alla contemplazione? Essere tanto rigidi, rustici e selvatici da non voler permettere né a sé, né agli altri alcun genere di divertimento, senza alcun dubbio è un vizio!
Prendere una boccata d'aria, fare due passi, fermarsi in conversazioni gioviali e piacevoli, suonare il liuto o qualche altro strumento, fare della musica, andare a caccia, sono divertimenti così onesti che per usarne bene basta la prudenza comune a tutti, quella che assegna ad ogni cosa un posto, un luogo, un tempo e la misura.
1 giochi nei quali la vittoria premia e ricompensa la destrezza e l'inventiva del corpo e dello spirito, come il gioco della pallacorda, della palla, della pallamaglio, il gioco della giostra, gli scacchi e altri giochi da tavolino, di natura loro, sono divertimenti buoni e onesti.
Bisogna guardarsi soltanto dagli eccessi, sia per il tempo che vi si spende, sia per il denaro che vi si impegna; se tu vi consacri troppo tempo, diventa un'occupazione, non più un divertimento: non ne traggono giovamento né lo spirito, né il corpo, anzi alla fine ti troverai stordito e stanco.
Dopo che hai giocato cinque o sei ore agli scacchi, ti trovi stanco morto e vuoto nello spirito; se giochi a lungo a pallacorda, non ti diverti, ma ti ammazzi di fatica. Se poi la posta, ossia ciò che si mette in palio, è troppo alta, si altera la serenità dei giocatori. Inoltre, mi sembra un'ingiustizia mettere grossi premi per la destrezza e l'inventiva in cose di così poca importanza, anzi, direi di nessuna utilità, come il gioco.
Ma soprattutto, Filotea, sta attenta a non impegnare il tuo affetto; un gioco sarà onesto fin che vuoi, ma metterci dentro il cuore e il proprio affetto è sempre male! Non dico che non si debba provar piacere mentre si gioca, non sarebbe più un divertimento, ma ti dico di non impegnarci il cuore per desiderarlo, perderci tempo e agitarti.
Capitolo XXXII
I GIOCHI PROIBITI
Il gioco dei dadi, delle carte e simili, nei quali la vittoria dipende più dalla fortuna che altro, non soltanto sono divertimenti pericolosi, come il ballo ma, di natura loro, sono semplicemente cattivi e riprovevoli. P- per questo che sono proibiti tanto dalle leggi civili che da quelle ecclesiastiche.
Ma dov'è tutto questo male? mi chiederai.
In questi giochi non è la ragione che dà la vittoria, ma il caso, che spesso favorisce chi di per sé, quanto a destrezza e ingegno, non meriterebbe niente: sotto questo aspetto la ragione è umiliata. Tu mi dirai: Ma ci siamo messi d'accordo! Questo vale soltanto per dimostrare che chi vince non fa torto agli altri, ma ciò non toglie che il patto non sia ragionevole e il gioco nemmeno; perché la vittoria, che deve essere il premio della destrezza, diventa premio del caso, che non merita nessun premio, visto che non dipende, in alcun modo, da noi!
Aggiungi che questi giochi hanno il nome di divertimenti e sono fatti per questo; e invece proprio non lo sono, ma sono soltanto occupazioni a tempo pieno.
Non è forse un'occupazione tenere lo spirito caricato e teso da un'attenzione continua, e agitato da insistenti inquietudini, ansie e paure? Riesci a trovare una tensione più triste, più lugubre e più desolata di quella di un giocatore? Non si può parlare, non si può ridere, nemmeno tossire, altrimenti i giocatori si stizziscono.
Infine nel gioco non c'è gioia se non vinci. E non ti sembra che sia una gioia perversa, giacché si può conseguire soltanto per mezzo della sconfitta e del dispiacere del compagno? t davvero una gioia senza onore.
Sono queste le tre ragioni per cui questi giochi sono proibiti. Il grande Re S. Luigi, sapendo che suo fratello, il Conte di Angiò e il nobile Gautier de Nemours stavano giocando, malato com'era, si alzò e, barcollando, si recò in camera loro, prese i tavolini da gioco, i dadi e una parte del denaro e gettò tutto in mare dalla finestra, e si corrucciò molto contro di loro.
La santa e casta Sara, parlando a Dio della propria innocenza, per metterla in evidenza, dice: Tu sai, Signore, che non mi sono mai fermata a parlare con i giocatori.
Capitolo XXXIII
I BALLI E I PASSATEMPI LECITI MA PERICOLOSI
Di natura loro, le danze e i balli sono cose indifferenti, ma il modo abituale di dar corso a questi passatempi, manifesta una forte inclinazione e tendenza al male. Per tale motivo costituiscono sempre un certo pericolo.
Ci si dà alle danze di notte e, col favore delle tenebre e dell'oscurità, è facile farci scivolare qualche libertà equivoca e insinuatrice, per un soggetto che, di natura sua, tende fortemente al male; si veglia a lungo, il che guasta la mattinata del giorno seguente e quindi la possibilità di servire Dio in essa; in una parola è sempre follia cambiare il giorno con la notte, la luce con le tenebre, le buone azioni con le follie.
Tutti fanno a gara nell'essere vanitosi al ballo e si sa che la vanità dispone fortemente agli affetti equivoci e agli amori riprovevoli e pericolosi; nelle danze tutto ciò trova un terreno ideale.
Filotea, sai cosa dicono i medici delle zucche e dei funghi? Che non valgono niente. Ti dico la stessa cosa delle danze: i balli migliori non sono buoni a nulla.
Se ti capita di dover mangiare delle zucche, fa attenzione che almeno siano preparate bene: se ti trovi in una situazione per cui non ti è possibile trovare plausibili giustificazioni per dispensarti dal ballo, cura che la danza sia 'ben preparata'.
Con che cosa la devi condire? Modestia, dignità e retta intenzione.
Riferendosi ai funghi, i medici dicono dì mangiarne pochi e di rado, perché, per quanto ben preparati, la quantità li rende velenosi. Filotea, danza poco e raramente; diversamente rischieresti di affezionartici.
Secondo Plinio, i funghi, proprio perché sono spugnosi e porosi, assorbono facilmente tutto ciò che di infetto c'è intorno, e se si trovano vicino a un serpente ne assorbono il veleno. I balli, le danze e simili riunioni equivoche ordinariamente assorbono tutti i vizi e i peccati che dominano in un ambiente: le dispute, le invidie, le beffe, gli amori folli. Allo stesso modo che il ballo apre i pori del corpo di coloro che vi si impegnano, contemporaneamente apre anche i pori del cuore; per cui, se qualche serpente, approfittando dell'occasione, viene a sussurrare qualche parola lasciva all'orecchio, qualche corteggiamento, qualche moina, o addirittura qualche basilisco viene a gettare sguardi impudichi, occhiate d’amore, i cuori sono molto arrendevoli e si lasciano facilmente conquistare ed avvelenare.
Questi divertimenti, Filotea, abitualmente sono fuori posto e risultano pericolosi: dissipano lo spirito di devozione, indeboliscono le forze, intiepidiscono la carità, e risvegliano nell'anima mille generi di affetti perversi; questa è la ragione per cui occorre servirsene con grande prudenza.
Dopo i funghi si raccomanda di bere vino della migliore qualità; io ti dico che dopo le danze devi ricorrere a qualche santa e buona riflessione, per bloccare le impressioni pericolose che il piacere che hai provato potrebbe aver risvegliato nella tua anima. E quali?
1. Mentre tu ti davi alle danze, molte anime bruciavano nel fuoco dell'inferno per i peccati commessi nel ballo o per colpa del ballo.
2. Molti religiosi e persone devote, mentre tu bal1-avi, erano alla presenza di Dio, cantavano le sue lodi e ne contemplavano la bellezza. Hanno impiegato il loro tempo molto meglio di te!
3. Mentre tu danzavi, molte anime morivano tra grandi sofferenze; milioni di uomini e donne combattevano con il male nei loro letti, negli ospedali, nelle strade. Pativano per la gotta, i calcoli, il delirio. E non trovavano riposo! Tu non ne hai compassione? Non pensi che un giorno ti lamenterai come loro, mentre altri danzeranno come ora fai tu?
4. Nostro Signore, la Madonna, gli Angeli e i Santi ti hanno visto al ballo: come hai fatto loro pena! Hanno visto il tuo cuore affogarsi in simile follia e tutta presa da quella sciocchezza.
5. Mentre tu ballavi il tempo scorreva e ti sei avvicinata alla morte; guarda come sogghigna e ti invita al ballo; al suo ballo, nel quale i violini saranno i gemiti dei circostanti e il passo di danza sarà uno solo, quello dalla vita alla morte.
Quella danza è il solo vero 'passatempo' dei mortali; in un momento passi dal tempo all'eternità della felicità o del tormento.
Ho notato per tua comodità queste brevi riflessioni; ma Dio te ne suggerirà altre a questo fine, se tu hai il suo timore.
Capitolo XXXIV
QUANDO E’ PERMESSO GIOCARE E DANZARE
e non fino a stancarsi o stordirsi, e di rado. Chi lo facesse spesso, trasformerebbe il divertimento in lavoro.
Le occasioni per la danza e il gioco, di per sé moralmente indifferenti, sono abbastanza frequenti; quelle per i giochi proibiti sono più rare, e quanto più tali giochi sono biasimevoli e pericolosi tanto più rare saranno le occasioni in cui saranno permessi.
In breve: gioca e danza alle condizioni che ti ho indicato, quando te lo consiglieranno la prudenza e la discrezione per accondiscendere e far piacere all'onesta compagnia nella quale ti troverai; la condiscendenza è figlia della carità e come tale rende buone le azioni indifferenti e permesse quelle pericolose.
Riesce persino a togliere la malizia a quei giochi che sono del tutto cattivi: per cui i giochi d'azzardo, che di per sé sono riprovevoli, cessano di esserlo se, qualche volta, è una ragionevole condiscendenza che ti ci conduce.
Mi ha edificato leggere nella vita di S. Carlo Borromeo che era arrendevole con gli Svizzeri in certi campi nei quali ordinariamente era molto severo, e che il Beato Ignazio di Loyola, invitato a giocare, accettò. Di S. Elisabetta d'Ungheria sappiamo che giocava e danzava quando si trovava in riunioni fatte per divertirsi; e questo senza pregiudizio della devozione, che era tanto radicata nella sua anima che aumentava in mezzo alla pompa e alle vanità cui l'esponeva la sua condizione, proprio come avviene per gli scogli intorno al lago di Rieti che crescono se battuti dalle onde; col vento i grandi fuochi divampano con maggior violenza, ma i piccoli si spengono del tutto se non li proteggiamo.
Capitolo XXXV
BISOGNA ESSERE FEDELI NELLE GRANDI E NELLE PICCOLE OCCASIONI
Nel Cantico dei Cantici lo Sposo confessa che la Sposa gli ha rapito il cuore con uno sguardo e un capello. Tra tutte le parti del corpo umano nessuna è più nobile dell'occhio, sia per la sua perfezione come organo, sia per la sua attività; e niente è più trascurabile di un capello. Lo Sposo divino in tal modo vuole farci capire che non gli sono accette soltanto le opere importanti dei devoti, ma anche le minori e quelle che sembrano di nessun conto. Sarà contento di noi soltanto se avremo cura di servirlo bene nelle cose importanti e di rilievo come nelle piccole e insignificanti; sia con le une che con le altre, possiamo rapirgli il cuore per amore.
Preparati dunque, Filotea, a soffrire un gran numero di grosse afflizioni per il Signore, fors'anche il martirio; deciditi a fargli dono di quanto hai di più prezioso, sempre che si degni di accettare: padre, madre, fratello, marito, moglie, figli, i tuoi occhi e la tua vita; a tutto ciò devi preparare il cuore.
Quando la Divina Provvidenza non ti manda afflizioni acute e pesanti, insomma non ti chiede gli occhi, donale almeno i capelli: voglio dire, sopporta con dolcezza le piccole offese, gli inconvenienti insignificanti, quelle sconfitte da poco sempre all'ordine del giorno; per mezzo di tutte queste piccole occasioni, usate con amore e direzione, conquisterai totalmente il suo cuore e lo farai tuo.
I piccoli gesti quotidiani di carità, un mal di testa, un mal di denti, un lieve malessere, una stranezza del marito o della moglie, un vaso rotto, un dispetto, una smorfia, la perdita di un guanto, di un anello, di un fazzoletto; quel piccolo sforzo per andare a letto presto la sera e alzarsi al mattino di buon'ora per pregare, per fare la comunione; quella piccola vergogna che si prova a fare in pubblico un atto di devozione; a farla breve, tutte le piccole contrarietà accettate e abbracciate con amore fanno infinitamente piacere alla Bontà divina, che, per un bicchiere d'acqua, ha promesso il mare della felicità completa ai fedeli; e siccome queste occasioni si presentano in continuazione, servirsene bene è un mezzo sicuro per accumulare grandi ricchezze spirituali.
Quando nella vita di S. Caterina da Siena ho letto tanti rapimenti ed elevazioni di spirito, tante parole
di sapienza e persino di predicazioni tenute da lei, ho avuto la certezza che con quell'occhio di contemplazione aveva rapito il cuore dello Sposo celeste; ma mi ha consolato nella stessa misura vederla in cucina girare umilmente lo spiedo, attizzare il fuoco, preparare il cibo, impastare il pane e fare tutti gli uffici più umili della casa, con un coraggio pieno di amore e di dilezione per il Signore. Ho uguale stima per la piccola e semplice meditazione che faceva consacrandosi a quei compiti così umili e disprezzati, come per le estasi e i rapimenti così frequenti in lei, e che forse le furono concessi proprio in ricompensa di quell'umiltà e di quell'abiezione.
Ecco com'era la sua meditazione: mentre preparava da mangiare per suo padre, pensava di prepararlo per Nostro Signore, come S. Marta; per lei sua madre le ricordava la Madonna; i fratelli, gli Apostoli. In tal modo pensava nel suo spirito di servire tutta la corte celeste e si adoperava in quei piccoli lavori con molta dolcezza, perché sapeva che quella era la volontà di Dio.
Ti ho presentato quest'esempio, Filotea, perché tu ti renda conto quanto sia importante indirizzare bene tutte le nostre azioni, per vili che siano, al servizio della divina Maestà.
A questo scopo ti consiglio vivamente di imitare la donna forte tanto lodata da Salomone e che poneva mano alle imprese forti, alte e generose senza trascurare di filare e girare il fuso: Ella ha posto mano a cose grandi e la sua mano gira il fuso. Poni mano a cose forti, applicandoti alla meditazione e all'orazione, all'uso dei sacramenti, a donare amore a Dio e alle anime, -a spargere buoni pensieri nei cuori, a fare insomma opere grandi e importanti secondo la tua vocazione; ma non dimenticare il fuso e la conocchia, ossia pratica quelle piccole e umili virtù che crescono come
fiori ai piedi della Croce: il servizio dei poveri, la visita ai malati, la cura della famiglia, con tutto quello che comporta, con una diligenza che non ti lascerà mai tempo per l'ozio; e in tutte queste faccende cerca di avere pensieri simili a quelli che, come ti ho detto, aveva S. Caterina in tali situazioni.
Le grandi occasioni di servire Dio si presentano raramente, le piccole invece le hai sempre: ora, chi sarà fedele nel piccolo, dice il Salvatore, avrà un incarico grande. Fa dunque tutto in nome di Dio, e tutto sarà fatto bene. Sia che tu mangi, sia che tu beva, sia che tu dorma, sia che ti diverta, sia che tu giri lo spiedo, purché tu porti avanti bene le tue faccende, trarrai sempre grande profitto al cospetto di Dio, perché fai tutte le cose che Dio vuole che tu faccia.
Capitolo XXXVI
BISOGNA ESSERE GIUSTI E RAGIONEVOLI
Siamo uomini soltanto perché siamo dotati di ragione, eppure è cosa estremamente difficile trovare un uomo veramente ragionevole, perché l'amor proprio abitualmente offusca la ragione, e insensibilmente ci conduce a mille generi di ingiustizie e cattiverie, piccole sì, ma pericolose, che, come le piccole volpi di cui parla il Cantico dei Cantici, distruggono le vigne: essendo piccole nessuno ci fa caso ma siccome sono numerose, producono seri danni. 'Non pensare che quello che ora dirò siano cattiverie e discorsi senza fondamento.
Per poco accusiamo immediatamente il prossimo, mentre scusiamo noi stessi anche nel molto; vogliamo
vendere a prezzo molto alto e comperare a buon mercato; vogliamo che si faccia giustizia in casa degli altri, per casa nostra, misericordia e comprensione; pretendiamo che si prendano sempre in buona parte le nostre parole, ma siamo suscettibili e permalosi a quelle degli altri.
Pagando, vorremmo che il prossimo ci cedesse quello che è suo; non è più giusto che si tenga quello che è suo e noi il nostro denaro? Ce l'abbiamo con lui perché non vuole piegarsi a noi, ma non ti pare che dovrebbe essere lui ad avercela con noi perché vogliamo farlo piegare?
Se ci piace un esercizio disprezziamo tutto il resto e sentenziamo su tutto quello che non è di nostro gusto. Se qualcuno dei nostri dipendenti ha un modo di fare sgarbato, o ci riesce antipatico, può fare qualunque cosa, la prenderemo sempre per traverso; non cessiamo di umiliarlo e siamo pronti al rimprovero; al contrario, se qualcuno ci va a genio, può fare quello che vuole, lo scuseremo sempre.
Ci sono dei figli veramente buoni e bravi, ma invisi ai loro papà e alle loro mamme solo a causa di difetti fisici e magari poi sono preferiti quelli viziosi, perché hanno delle belle qualità fisiche. In ogni campo diamo la preferenza ai ricchi sui poveri, anche se non sono di stirpe più nobile o più virtuosi; diamo la preferenza anche a quelli vestiti meglio.
Esigiamo con scrupolo i nostri diritti, ma pretendiamo che gli altri siano remissivi nel chiedere i loro; conserviamo il nostro posto con puntiglio, ma vogliamo che gli altri siano umili e condiscendenti; ci lamentiamo con facilità del prossimo, ma poi guai se uno si lamenta di noi! Quello che facciamo per gli altri ci sembra sempre tanto, ciò che gli altri fanno per noi, nulla, almeno ci sembra.
Assomigliamo alle pernici di Pafiagonia che hanno due cuori: ne abbiamo uno dolce e cortese per noi, e uno duro, severo, intransigente per il prossimo. Usiamo due pesi: uno per pesare le nostre comodità, caricando il più possibile, l'altro per pesare quelle del prossimo, alleggerendo più che possiamo.
La Scrittura dice che le labbra ingannatrici hanno parlato in un cuore e in un cuore: con ciò vuol dire che hanno due cuori; avere due pesi: uno forte, per riscuotere e un altro leggero, per pagare, è cosa abominevole davanti a Dio.
Filotea, sii costante e giusta nelle tue azioni: mettiti sempre al posto del prossimo e metti lui al tuo e così giudicherai rettamente; quando compri fa la venditrice e quando vendi fa la compratrice e vedrai che riuscirai a vendere e comprare secondo giustizia.
Si tratta di piccole ingiustizie, che non obbligano alla restituzione, perché ci limitiamo rigorosamente nei termini a nostro favore; ma non per questo è un motivo per non correggerci. Sono grosse mancanze contro la ragionevolezza e la carità; se si guarda bene sono veri imbrogli: ma che ci vuole in fin dei conti a vivere con generosità, nobiltà di cuore, cortesia, e con un cuore signore, costante e ragionevole?
Ricordati di esaminare spesso il tuo cuore, Filotea, per vedere se verso il prossimo si comporta come vorresti che si comportasse lui nei tuoi confronti se tu fossi al suo posto; qui sta la ragionevolezza.
Traiano, rimproverato dai suoi confidenti perché rendeva, secondo loro, la Maestà imperiale troppo accessibile, rispose: E sì, perché non dovrei essere per i cittadini quel tipo di imperatore che io vorrei incontrare se io stesso fossi semplice cittadino?
Capitolo XXXVII
I DESIDERI
Tutti sanno che bisogna tenersi lontano dai desideri di cose viziose, perché il desiderio del male ci rende cattivi. Ti dico di più, Filotea: non desiderare le cose che sono pericolose per l'anima, come i balli, i giochi e i passatempi in genere; non desiderare le cariche e gli onori, nemmeno le visioni e le estasi, perché in queste cose c'è un grave pericolo di vanità e di inganno. Non desiderare le cose molto lontane nel tempo, ossia che per lungo tempo non potranno capitare, cosa che fanno molti stancando ed impoverendo inutilmente i loro cuori; per di più si mettono in una situazione di continua agitazione.
Se un giovane desidera fortemente ricevere un incarico prima del tempo, a che gli serve, dico io, quel desiderio? Se una donna sposata desidera essere religiosa, che senso ha? Se desidero comprare i beni del mio vicino prima che sia disposto a vendere, non sto perdendo il tempo? Se quando sono malato desidero predicare e dire la santa Messa, visitare gli altri malati e fare tutto quello che fanno quelli che sono in buona salute, non sono desideri inutili? giacché in quelle occasioni non sono in grado di realizzarli! Questi desideri inutili occupano il posto di altri che dovrei avere, ossia, essere molto paziente, molto rassegnato, molto mortificato, molto obbediente e molto dolce nelle mie sofferenze; questo è quello che vuole Dio per ora!
Generalmente abbiamo le voglie come le donne incinte, che vogliono le ciliege fresche in autunno e l'uva fresca in primavera!
Proprio non approvo che una persona tenuta a qualche dovere o a qualche vocazione, si diverta a desiderare un altro genere di vita diverso da quello che conviene al suo stato attuale. Ciò distrae il cuore e lo rende fiacco per i doveri che gli sono propri.
Se desidero la solitudine dei Certosini perdo il mio tempo, e questo desiderio occupa il posto di quello che dovrei avere di impegnarmi seriamente al mio dovere attuale. Vorrei che nemmeno si desiderasse di avere uno spirito migliore o un giudizio migliore, perché questi desideri sono frivoli ed occupano il posto del desiderio che ciascuno deve avere di coltivare il proprio così com'è. Non vorrei nemmeno che si desiderassero i mezzi che non si hanno per servire Dio. Questo per i desideri che distraggono il cuore; quanto invece al semplice augurio, non porta alcun danno; l'importante è che non sia troppo insistente.
Desidera le croci solo nella misura in cui sarai riuscita a sopportare quelle incontrate; è una pazzia desiderare il martirio e non avere la forza di sopportare un'ingiuria. Il nemico spesso fa nascere in noi forti desideri per eroismi impossibili e che non si verificheranno mai, per distoglierci dalle piccole occasioni presenti, dalle quali per piccole che siano, potremmo trarre grande profitto. Nella nostra immaginazione combattiamo contro i mostri africani e poi di fatto ci lasciamo uccidere da serpentelli che incontriamo sulla nostra strada; questo perché siamo distratti.
Non desiderare le tentazioni; sarebbe temerità: ma impegna il tuo cuore a saperle attendere con coraggio e a saperti difendere quando arriveranno.
La varietà dei cibi, soprattutto poi se la quantità è grande, carica sempre lo stomaco e, se è debole, lo rovina. Non riempire la tua anima di troppi desideri: non di quelli mondani perché ti distruggerebbero totalmente, ma nemmeno di quelli spirituali, perché ti appesantirebbero. Quando l'anima è purificata si sente libera dai cattivi umori, ritrova un forte appetito dei cibi spirituali, e come un'affamata, desidera mille generi di esercizi di pietà, di mortificazione, di penitenza, di umiltà, di carità, di orazione. Avere buon appetito, Filotea, è buon segno, ma rifletti bene se poi sarai in grado di digerire tutto quello che vuoi inghiottire.
Con il parere del tuo padre spirituale, tra tanti desideri, scegli quelli che puoi attuare e portare a compimento ora; e impegnati seriamente su quelli: vedrai che Dio te ne ispirerà degli altri; a suo tempo, porterai a compimento anche quelli. In questo modo non perderai il tuo tempo in desideri inutili.
Fa attenzione, Filotea, non ti chiedo di accantonare nessun genere di desideri; ti chiedo soltanto di metterli in ordine. Quelli che non puoi realizzare ora, mettili da parte, in un angolino del tuo cuore, fino -a che non giunga il loro momento; nel frattempo realizza quelli che sono maturi e di stagione.
Quello che dico non vale soltanto per i desideri spirituali, ma anche per quelli del mondo: se non riusciamo ad agire in questo modo saremo sempre anime inquiete e nell'affanno.
Capítolo XXXVIII
CONSIGLI PER GLI SPOSATI
Il Matrimonio è un grande Sacramento, lo dico in Gesù Cristo e nella sua Chiesa; e deve essere onorato da tutti, in tutti e nella sua totalità, ossia in tutte le sue componenti.
Da tutti, perché anche le nubili devono onorarlo con umiltà; in tutti, perché è ugualmente santo tra i poveri e tra i ricchi; nella sua totalità, perché la sua origine, il suo fine, i suoi vantaggi, la sua forma e la sua materia sono santi.
E’ il vivaio del cristianesimo, che popola la terra di fedeli per completare il numero degli eletti in cielo; ne consegue che la difesa del bene del Matrimonio è molto importante per la società perché è l'origine e la sorgente di tutti i ruscelli che le danno vita.
Piacesse a Dio che il suo amatissimo Figlio fosse invitato a tutte le nozze come lo fu a quelle di Cara! Il vino della gioia e della benedizione non mancherebbe mai; e invece ce n'è appena un po' per cominciare: il motivo è che è stato invitato Adone al posto di Nostro Signore e Venere al posto di Maria Santissima.
Chi vuole avere degli agnelli molto belli e pezzati, come Giacobbe, deve agire come lui: offriva alla vista delle pecore che stavano per partorire dei bastoncini colorati in vario modo; similmente chi vuole che il matrimonio sia felice, durante le nozze deve pensare alla santità e alla dignità di questo Sacramento; se poi invece di pensare alla santità ci si lascia andare a mille distrazioni, a feste, a banchetti e a chiacchiere e tutto finisce lì, nessuna meraviglia che i risultati siano poi diversi da quelli attesi.
Esorto soprattutto gli sposi all'amore reciproco che lo Spirito Santo tanto insistentemente raccomanda loro nella Scrittura. Sposi cari, se vi amate reciprocamente soltanto di amore naturale, non fate gran che: anche le coppie di tortore si amano così. Se vi amate di un amore umano, non aggiungete gran che: anche i pagani si amavano in tal modo. Ma io vi dico con il grande Apostolo: Mariti, amate le vostre mogli come Gesù Cristo ama la sua Chiesa; mogli, amate i vostri mariti come la Chiesa ama il suo Salvatore.
t stato Dio a presentare Eva al nostro primo padre Adamo e a dargliela in moglie: amici miei, è Dio che con la sua mano invisibile, ha stretto il nodo del sacro vincolo del vostro matrimonio e vi ha consegnato uno all'altra e viceversa. Come potete allora amarvi di un amore che non sia santo, sacro e divino?
Il primo effetto di questo amore è l'unione indissolubile dei vostri cuori. Se incolli tra loro due tavolette di abete, servendoti di una buona colla, si uniranno in modo tale che ti sarà più facile spaccarle altrove che nel punto nel quale le hai incollate; Dio unisce l'uomo e la donna con il proprio sangue; ecco perché questa unione è così forte che sarà più facile che l'anima si separi dal corpo che il marito dalla moglie. Questa unione va intesa in primo luogo riferita al cuore, all'affetto, all'amore e non al corpo.
Il secondo effetto di questo amore deve essere la fedeltà inviolabile di uno per l'altra. Anticamente i sigilli erano incisi negli anelli che si portavano al dito, cosa che del resto afferma anche la Sacra Scrittura: ecco la ragione della cerimonia degli anelli, che si compie alle nozze. La Chiesa, tramite il sacerdote, benedice un anello e in primo luogo lo consegna all'uomo, per significare che in questo modo marca e sigilla il suo cuore con questo Sacramento, perché in esso non entri mai più il nome o l'amore di un'altra donna, finché vivrà colei che gli è stata data; poi lo sposo mette l'anello nella mano della sposa perché anche lei sappia che mai più in seguito il suo cuore dovrà accogliere affetto per un altro uomo diverso da quello che il Signore le ha dato, finché vivrà su questa terra.
Il terzo frutto del matrimonio è la legittima generazione dei figli e la loro crescita. Voi, sposi, godete di un onore molto grande, giacché Dio, volendo Moltiplicare le anime che lo lodino e lo benedicano per l'eternità, vi ha scelto per cooperare a un così grande disegno, affidandovi la generazione dei corpi nei quali egli fa scendere come gocce celesti le anime che crea appositamente per infonderle in quei corpi.
Per tutto questo, voi mariti dovete nutrire per le vostre mogli un amore tenero, costante e profondo: per questo la donna è stata tratta dalla costola più vicina al cuore del primo uomo: perché egli l'amasse profondamente e teneramente.
Le debolezze e le infermità delle vostre donne, sia di corpo che di spirito, non devono provocare nessun genere di disprezzo, ma piuttosto una dolce e amorevole comprensione, perché è Dio che le ha create così; infatti per tale condizione dipendono da voi e a voi ne viene maggiore onore e rispetto; sono per tale motivo strettamente legate a voi quali compagne e voi ne siete i capi responsabili.
E voi, mogli, amate con tenerezza e cordialità i mariti che Dio vi ha dato, ma non dimenticate di mettere nel vostro amore anche rispetto e cortesia; è per questo che Dio li ha creati più vigorosi e risoluti, e ha voluto che la donna dipendesse dall'uomo, ossa delle sue ossa, carne della sua carne, e fosse generata da una sua costola, presa sotto il suo braccio, per indicare che deve stare sotto la protezione ed essere guidata dal marito. In tutta la Sacra Scrittura si raccomanda insistentemente questa sottomissione, che poi la stessa Scrittura rende dolce, non solo perché vi chiede di accettarla con amore, ma perché raccomanda ai vostri mariti di fare la loro parte, con grande amore, tenerezza e dolcezza: Mariti, dice S. Pietro, abbiate un comportamento discreto con le vostre mogli, perché sono fragili come vasi di cristallo; e portate loro onore.
Vi esorto a rendere sempre più forte questo amore reciproco, ma fate attenzione che non si muti in alcuna forma di gelosia; capita spesso che le mele più delicate e più mature abbiano il verme; la stessa cosa può capitare tra gli sposi: dall'amore più ardente e premuroso può nascere il verme della gelosia che guasta e fa marcire tutto. Comincia con le discussioni, poi le discordie e infine le divisioni. La gelosia non potrà mai entrare dove c'è un'amicizia reciproca fondata sulla virtù sincera; infatti la gelosia è segno di un amore sensuale e che cresce dove trova una virtù manchevole, incostante e diffidente.
Ed è per questo che è una sciocca pretesa voler esaltare l'amicizia con la gelosia; la gelosia è soltanto segno dell'ampiezza e dello spessore dell'amicizia; ma non della sua buona qualità, della sua bellezza, della sua perfezione. La perfezione dell'amicizia esige certezza nella presenza di virtù in colui che si ama; la gelosia presuppone invece l'incertezza sulla presenza di tali virtù.
Se voi, mariti, volete che le vostre donne siano fedeli, insegnatelo loro con il vostro esempio. Dice S. Gregorio Nazianzeno: " Con che faccia pretendete la pudicizia dalle vostre mogli, se poi siete voi a vivere nell'impudicizia? Come potete domandare loro ciò che non fate voi? ". Volete che siano caste? Comportatevi castamente con loro e, come dice S. Paolo: Ciascuno sappia possedere il proprio vaso in santità. Se al contrario, voi insegnate loro cose disoneste, non meravigliatevi poi se le perderete e con disonore.
Voi, mogli, il cui onore è legato inseparabilmente alla pudicizia e all'onestà, conservate gelosamente la vostra gloria e non permettete che alcun genere di dissolutezza offuschi la bellezza del vostro buon nome. Temete ogni sorta di attacco, per piccolo che sia, non tollerate alcun corteggiamento nei vostri confronti. Dovete sospettare di chi viene a lodare la vostra bellezza e la vostra gentilezza, perché chi loda una merce che non può acquistare per lo più è fortemente tentato di rubarla. Se poi alla lode delle tue qualità aggiunge il disprezzo per tuo marito, ti offende gravemente perché è evidente che, non solo vuole perderti, ma ti considera già a metà perduta; infatti il contratto è mezzo concluso con il secondo acquirente quando si è stanchi del primo!
Ci sono donne, sia dell'antichità che dei nostri tempi, che hanno l'abitudine di portare pendagli con un certo numero di perle alle orecchie, per il piacere di sentirle tintinnare, una contro l'altra, almeno così dice Plinio! Ed ora, se permetti, ti dico il mio parere: io so che Isacco, grande amico di Dio, mandò a Rebecca, come primo segno del suo amore, degli orecchini; penso che quell'ornamento mistico voglia significare che la prima cosa che un marito ha il diritto di aspettarsi dalla moglie, e che la moglie deve gelosamente conservare per lui, è l'orecchio; non deve lasciarvi entrare alcuna parola o altro, al di fuori del dolce tintinnio pieno d'amore, fatto di parole caste e pudiche, figurate nelle perle orientali del Vangelo: bisogna ricordarsi sempre che le anime sono avvelenate per le orecchie, come il corpo per la bocca.
L'amore e la fedeltà unite insieme generano sempre libertà e confidenza; ecco perché i Santi e le Sante nel matrimonio hanno usato di molte reciproche carezze, carezze piene d'amore, ma caste; tenere, ma sincere.
Isacco e Rebecca, la coppia più casta dell'antichità, furono visti dalla finestra mentre si accarezzavano in tale maniera che, benché non ci fosse nulla di disonesto, Abimelech concluse che non potevano essere che marito e moglie. Il grande S. Luigi re, rigorosissimo con se stesso, era tenerissimo con la moglie, tanto da meritare quasi di essere richiamato per le carezze eccessive; penso che piuttosto avrebbe meritato una lode per il modo con il quale sapeva dimenticare il suo spirito militare e coraggioso per far posto a quelle piccole attenzioni che hanno il pregio di conservare l'amore coniugale; infatti, benché quelle piccole dimostrazioni di semplice e schietta amicizia non leghino i nostri cuori, servono tuttavia ad avvicinarli e sono un piacevole complemento della reciproca conservazione.
S.Monica, quand'era incinta del grande S. Agostino, lo consacrò con rinnovate offerte, alla religione cristiana e al servizio della gloria di Dio, come ci riferisce egli stesso confessandoci che aveva già assaporato " il sale di Dio nel seno di sua madre ".
E’ un grande esempio per le donne cristiane: offrire alla maestà divina il frutto del loro seno, anche prima che veda la luce, perché Dio, che accetta le offerte di un cuore umile e pieno di buona volontà, abitualmente asseconda gli affetti delle madri in tali condizioni.
Ne sono testimoni Samuele, S. Tommaso d'Aquino, S. Andrea da Fiesole e molti altri. La madre di S. Bernardo, degna madre di così grande figlio, prendeva in braccio i figli appena nati e li offriva a Gesù Cristo, e da quel momento voleva loro bene come a cosa consacrata a Dio e che da Lui le era stata affidata; cosa che I,- riuscì così perfettamente che tutti e sette divennero grandi santi.
Ma una volta venuti al mondo, quando cominciano ad avere l'uso di ragione, i papà e le mamme devono avere grande cura di imprimere nel cuore dei loro figli il timore di Dio.
La buona regina Bianca compì particolarmente bene questo dovere nei confronti del Re S. Luigi, suo figlio, dicendogli spesso: " Caro figlio, preferirei vederti morto sotto i miei occhi, che vederti commettere un sol peccato mortale "; la qual cosa rimase talmente impressa nel cuore di quel santo figlio, che, come raccontava egli stesso, non ci fu mai giorno della sua vita nel quale non se ne ricordasse, e si impegnasse con tutte le sue forze, a restare fedele a quella raccomandazione.
Nel nostro modo di parlare, le stirpi e le generazioni sono chiamate 'casa'; gli Ebrei chiamano anche la generazione dei figli 'costruzione della casa', perché è in questo senso che si dice che Dio edificò delle case per mezzo delle levatrici d'Egitto.
Questo per dimostrare che impiegare molti beni mondani non equivale a costruire una buona casa; ma allevare i figli nel timore di Dio e nella virtù, quello sì che è costruire una casa solida.
In questo campo non ci si deve risparmiare nessun genere di fatica e di lavoro, perché i figli sono la corona del padre e della madre.
S. Monica contrastò con tanto amore e costanza le cattive inclinazioni di S. Agostino, che, dopo averlo seguito per terra e per mare, si può dire che lo rese felicemente suo figlio con la conversione, più di quanto non lo fosse stato per la generazione del corpo.
S. Paolo lascia alle donne la cura e la responsabilità della casa; molti sono di questa opinione e sostengono che la devozione della donna porta più frutto alla famiglia di quella del marito; il motivo è che i mariti conducono una vita molto più fuori dalle pareti domestiche, per cui non possono avere tanta influenza nell'indirizzare i figli alla virtù.
E’ questa considerazione che fa dire a Salomone, nei Proverbi, che tutta la felicità di una casa dipende dalla cura e dall'attività di quella donna forte che egli ci descrive.
Nella Genesi si dice che Isacco vedendo che sua moglie Rebecca era sterile, pregò il Signore per lei o, com'è detto nel testo ebraico, pregò il Signore di fronte a lei, perché pregavano uno da un lato e uno dall'altro del luogo di preghiera: e la preghiera del marito fatta in questo modo fu esaudita.
L'unione che si realizza tra marito e moglie nella santa devozione è la più fruttuosa che si possa dare; per questo devono, a gara, incoraggiarsi reciprocamente ad acquisirla. Ci sono dei frutti, come la mela cotogna, che, per la loro asprezza, sono buoni soltanto in marmellata; altri frutti poi sono talmente teneri e delicati che non possono essere conservati se non canditi, come le ciliege e le albicocche.
Similmente le mogli devono augurarsi che i loro mariti siano canditi con lo zucchero della devozione, perché l'uomo senza devozione è un animale spietato, aspro e rude; i mariti devono augurarsi che le loro donne siano devote, perché senza la devozione, la donna è molto fragile e predisposta a lasciare la virtù o a permettere che venga offuscata.
S. Paolo ha detto che l'uomo infedele è santificato dalla donna fedele, e la donna infedele dall'uomo fedele, perché nella stretta alleanza del matrimonio, facilmente l'uno può attrarre l'altro alla virtù e viceversa. P, una vera benedizione quando l'uomo e la donna fedele si santificano reciprocamente in un autentico timore del Signore.
L'aiuto reciproco deve essere così grande che mai avvenga che entrambi siano adirati contemporaneamente e improvvisamente, perché tra loro non si devono vedere dissensi e litigi. Le mosche da miele non possono fermarsi dove c'è eco, rimbombo o clamore di voci; lo stesso è dello Spirito Santo che non entra in una casa dove ci sono dispute, contese, urla che si accavallano e litigi.
S. Gregorio Nazianzeno dice che già al suo tempo gli sposi festeggiavano l'anniversario del matrimonio. Mi piacerebbe che si introducesse questa abitudine, purché non fosse la copertura per divertimenti mondani e sensuali, ma che i mariti e le mogli, confessati e comunicati in quel giorno, raccomandassero a Dio, con un fervore più intenso che d'abitudine, il progresso del loro matrimonio, e rinnovassero i buoni propositi di santificarlo sempre più con un'amicizia e una fedeltà reciproca; sarebbe il modo di riprendere fiato in Nostro Signore per sopportare sempre meglio il peso della loro vocazione.
Capitolo XXXIX
L'ONESTA DEL LETTO MATRIMONIALE
Il letto matrimoniale deve essere immacolato, dice l'apostolo, ossia non contaminato da impudicizie e altre innominabili brutture.
Il matrimonio è stato istituito nel paradiso terrestre, dove ancora non c'era stata alcuna sregolatezza sensuale, né altra disonestà.
C'è una certa analogia tra i piaceri legati al sesso e quelli legati al cibo: sia gli uni che gli altri riguardano la carne; l'unica differenza è che i primi, per la loro brutale violenza, vengono chiamati semplicemente carnali. Per cui parlerò degli uni, intendendo con ciò illustrare anche gli altri, soprattutto riguardo ad alcuni dettagli scabrosi, che non mi sembra opportuno affrontare direttamente.
1. Il mangiare ha per fine la conservazione della vita: ora mangiare semplicemente per nutrire e conservare la persona è una cosa buona, santa e comandata; la stessa cosa va detta per l'uso del matrimonio: ciò che esige la generazione dei figli e la moltiplicazione delle persone è una cosa buona e molto santa, perché ne è il fine principale.
2. Mangiate non per conservare la vita ma per il piacere di continuare ad intrattenerci con gli altri e scambiare con essi cortesie, è cosa molto giusta e onesta: allo stesso modo, la reciproca e legittima soddisfazione delle parti nel santo matrimonio, è chiamato da S. Paolo dovere; ma è un dovere così grande che non permette che nessuna delle due parti possa esimersene senza il libero e volontario consenso dell’altra, nemmeno per consacrarsi agli esercizi di devozione, il che mi ha fatto dire sull'argomento la frase che ho inserito nel capitolo sulla santa Comunione; quindi ancor meno ci si deve dispensare con scuse capricciose di pretese virtù immaginarie o peggio ancora perché si è adirati o si prova un sentimento di disprezzo.
3. Coloro che mangiano per il dovere di stare in compagnia, devono farlo disinvoltamente e non per forza; per di più devono anche dare l'impressione di avere appetito. Similmente il dovere coniugale deve essere reso sempre fedelmente, con franchezza e nella speranza di generare figli, anche se si dovesse realizzare qualche condizione che lo escluda.
4. Mangiare non per i due motivi suindicati, ma solo per soddisfare l'appetito, si può anche accettare, ma non lodare; il semplice piacere dell'appetito sensuale non può essere motivo sufficiente per rendere lodevole un'azione; è già molto che la renda accettabile.
5. Mangiare non per appetito, ma per ingordigia, è cosa più o meno riprovevole; dipende dalla misura degli eccessi.
6. L'eccesso nel mangiare non si valuta soltanto dalla quantità esagerata che si ingurgita, ma anche dal modo e dalla maniera di mangiare. Sembra strano, Filotea, eppure il miele così appropriato e salutare per le api, qualche volta fa loro male fino a renderle malate: quando in primavera ne mangiano troppo, l'eccesso dà loro la dissenteria che qualche volta le conduce fino alla morte; alla stessa conclusione giungono quando si impiastricciano di miele la testolina e le alucce.
In verità, il rapporto matrimoniale che di natura sua è così santo, giusto e raccomandabile, tanto utile alla società, in certi casi può diventare pericoloso per gli interessati; sì, perché qualche volta rende le loro anime molto malate di peccato veniale, questo con i semplici eccessi; ma qualche altra volta le fa addirittura morire con il peccato mortale, come quando viola e perverte l'ordine naturale stabilito per la generazione dei figli, nel qua] caso, in proporzione alla gravità della violazione di quell'ordine, i peccati, sempre mortali, possono risultare più o meno esecrabili. Siccome la procreazione dei figli è il primo e principale fine del matrimonio, non ci si può mai scostare dall'ordine da esso richiesto, anche se per causa di qualche altra circostanza non dovesse essere conseguito: esempi, la sterilità o la gravidanza in corso, nei quali casi evidentemente non c'è procreazione; in tali circostanze il commercio corporale non cessa di essere giusto e santo, sempre che siano osservate le regole per la generazione, perché nessuna circostanza potrà mai togliere valore alla legge imposta dal fine principale del matrimonio.
L’azione infame ed esecrabile commessa da Onan nel matrimonio, era detestabile agli occhi di Dio, come dice il testo sacro nel capitolo trentottesimo della Genesi; e benché qualche eretico del nostro tempo, più biasimevole dei Cinici, dei quali parla S. Girolamo nel commento alla lettera agli Efesini, abbia voluto sostenere che era l'intenzione perversa che Dio detestava, la Scrittura non lascia dubbi, e dice chiaramente che era la cosa in sé che davanti a Dio era detestabile e abominevole.
7. E’ indice sicuro di uno spirito di accattone, villano, abietto e senza onore pensare ai cibi e alla scorpacciata prima del pasto; peggio ancora quando dopo ci si sofferma sul piacere provato nel rimpinzarsi, parlandone e pensandoci, immergendo lo spirito nel ricordo della voluttà provata trangugiando vivande; proprio come fanno alcuni che prima del pranzo hanno il loro spirito sullo spiedo e dopo il pranzo nel piatto. Sono veri lavandini da cucina, sono quelli di cui parla S. Paolo quando dice che hanno fatto del ventre il loro dio.
La gente rispettabile pensa alla tavola quando si siede, e dopo il pasto si lava le mani e la bocca per non sentire più né l'odore, né il sapore di quello che ha mangiato. L'elefante è un gran bestione, ma è il più degno degli animali ed ha buon senso: voglio raccontarvi un aspetto della sua onestà. Non cambia mai femmina e ama teneramente quella che ha scelto, con la quale si accoppia soltanto ogni tre anni e per cinque giorni; si circonda di tanto segreto che non è mai stato possibile sorprenderlo in quell'atto; si fa vedere apertamente il sesto giorno quando si reca al fiume per un bagno totale, perché non vuole rientrare nel branco senza essersi totalmente purificato.
Sembra quasi che il comportamento così bello e onesto di quest'animale inviti gli sposi a non rimanere impantanati col cuore nelle sensualità e nei piaceri provati secondo la loro condizione; ma una volta passati, bisogna lavarne il cuore e gli affetti, purificarsi il più presto possibile, per potere in seguito, in libertà di spirito, affrontare le altre azioni più pulite ed elevate del proprio stato.
In questo consiglio è racchiusa la pratica della meravigliosa dottrina che S. Paolo consegna ai Corinzi; dice: Il tempo è breve, coloro che hanno moglie si comportino come se non l'avessero. Perché, secondo S. Gregorio, avere una donna come se non si avesse vuol dire prendere assieme a lei i piaceri corporali in modo tale da non essere distolti dalle aspirazioni dello spirito. Quello che si dice del marito, si applica logicamente anche alla moglie.
Coloro che usano del mondo, continua l'apostolo, siano come se non ne usassero. Tutti si servano pure del mondo, secondo la propria vocazione, ma senza impegnare l'affetto, in modo da essere sempre liberi e pronti a servire Dio senza che il mondo ci sia di ostacolo.
Dice S. Agostino: " t il grande male dell'uomo pretendere di godere di quelle cose di cui deve soltanto servirsi, e volersi servire di quelle per le quali deve soltanto provare gioia ". Noi dobbiamo godere delle cose spirituali e di quelle corporali soltanto servircene; quando noi trasformiamo in godimento l'uso delle cose corporali, anche la nostra anima da ragionevole diventa bruta e bestiale.
Penso di aver detto tutto quello che volevo dire, ed essere riuscito a far capire senza dirlo quello che non voleva dire.
Capitolo XL
CONSIGLI ALLE VEDOVE
S. Paolo, scrivendo a Timoteo, dice a tutti i vescovi: Onora le vedove che sono veramente vedove. Ora, per essere veramente vedove sono richieste queste tre condizioni:
1. La vedova deve essere non soltanto vedova di corpo, ma anche di cuore, ossia deve aver deciso, con una ferma risoluzione, di mantenersi nello stato di una casta vedovanza; coloro che sono vedove in attesa di risposarsi, sono separate dagli uomini solo quanto al piacere del corpo, ma sono già unite a loro con la volontà del cuore. Se la vera vedova, per sentirsi più stabile nello stato di vedovanza, vuole offrire in voto a Dio il suo corpo e la sua castità, aggiungerà un bell'ornamento alla vedovanza e metterà al sicuro la sua decisione. Infatti, una volta fatto il voto, vedendo che non è più in suo potere lasciare la castità senza lasciare il paradiso, sarà custode così gelosi del suo proposito, che non permetterà nemmeno a semplici pensieri di matrimonio, di fermarsi nel suo spirito anche per un attimo, in modo tale che quel voto costituirà una solida barriera tra la sua anima e ogni progetto che sia contrario alla decisione presa.
S. Agostino consiglia con particolare insistenza questo voto alla vedova cristiana; e l'antico e dotto Origene va molto oltre, perché consiglia alle donne sposate di destinarsi e votarsi alla castità vedovile in caso che i mariti dovessero morire prima di loro; questo perché tra i piaceri sensuali che potrebbero provare nel matrimonio, possano avere anche i meriti di una casta vedovanza con questo voto anticipato.
Il voto rende le opere che ne sono l'oggetto, più gradite a Dio, dà coraggio nell'affrontarle, e non offre a Dio soltanto le opere, che sono il frutto della nostra buona volontà, ma gli fa dono anche della volontà stessa, che è come dire l'albero che produce le opere buone.
Con la semplice castità noi facciamo dono del nostro corpo a Dio, riservandoci la libertà di concedergli in altra occasione, anche i piaceri dei sensi: col voto di castità, invece, gli facciamo un dono assoluto e irrevocabile, senza riservarci la facoltà di cambiare; in tal modo ci rendiamo felicemente schiavi di Colui il cui servizio è molto meglio di tutti i regni. Approvo fino in fondo il parere di quei due grandi uomini, per cui mi piacerebbe che le persone che se la sentono di seguire i loro consigli, lo facessero con prudenza, santità e fermezza, dopo aver bene esaminato il loro coraggio. invocato l'ispirazione celeste e ascoltato il consiglio di qualche saggio e devoto direttore; in tal modo tutto sarebbe fatto con maggior frutto.
2. Inoltre, bisogna che la rinuncia alle seconde nozze si faccia senza secondi fini e con semplicità, per rivolgere con maggiore purezza tutti i propri affetti a Dio, e unire il proprio cuore, con tutte le sue parti, a quello della divina Maestà; anche il desiderio di lasciare ricchezze ai figli o qualche altro progetto urnano, può offrire alla vedova motivo di rimanere nella vedovanza, e probabilmente ne riceverà anche lodi, ma non davanti a Dio, giacché davanti a Dio niente può ricevere lode autentica se non è fatto per Lui.
3. Oltre a ciò, la vedova, per essere veramente vedova, deve vivere staccata dalle gioie dei mondo e privarsene volontariamente. S. Paolo dice che la vedeva che vive nelle delizie è già morta da viva. Pretendere di essere vedova e poi compiacersi di essere corteggiata, coperta di gentilezze, esaltata; pretendere di essere sempre presente ai balli, alle danze, ai festini; profumarsi, agghindarsi, far di tutto per essere piacente, vuoi dire essere vedova corporalmente viva, ma morta nell'anima. a vuoi che abbia il fatto che l'insegna inalberata per indicare la casa di Adone e dell'amor profano sia composta di piume bianche che si innalzano a guisa di pennacchio, oppure di un velo nero, steso con sapiente maestria come una rete sul volto? Anzi, spesso il nero dona anche più del bianco e mette in maggior risalto i colori. La donna che ha già esperienza di come piacere agli uomini, è più abile nel lanciare inviti pericolosi al loro spirito. La vedova che vive compiacendosi in queste futili vanità, pur vivendo, è morta; a voler chiamare le cose con il loro nome, è soltanto un fantasma di vedova.
Il tempo di potare è venuto, nella nostra terra si è udito il tubare della tortora, dice il Cantico. Il taglio delle cose inutili di questo mondo è richiesto a chiunque voglia vivere devotamente; ma è assolutamente indispensabile alla vera vedova, che, come una casta tortora ha da poco smesso di piangere, gemere e lamentarsi per la morte del marito.
Quando Noemi tornò da Moab a Betlemme, le donne della città che l'avevano conosciuta giovane sposa, dicevano tra loro: Non è costei Noemi? Ma essa rispondeva: Vi prego, non chiamatemi Noemi, perché Noemi significa graziosa e bella, ma chiamatemi Mara perché il Signore ha riempito il mio cuore di amarezza: parlava così perché le era morto il marito. Allo Stesso modo la vedova devota non ci tiene ad essere chiamata bella e graziosa; si accontenta di essere ciò che Dio vuole che ella sia, umile e abietta ai suoi occhi.
Le lampade alimentate con olio aromatico emanano un profumo più gradevole quando si spegne la fiamma: similmente le vedove che hanno avuto un amore puro nel loro matrimonio, spandono il profumo della virtù di castità più penetrante ancora quando si spegne la loro fiamma, ossia quando si è spento il marito con la morte. Amare il marito quand'è in vita, è cosa abituale tra le donne; ma amarlo tanto che dopo la morte non se ne accetti un altro, è un livello d'amore che appartiene soltanto alle vedove vere. Sperare in Dio, quando si ha l'appoggio del marito non è un fatto raro; ma sperare in Dio quando tale appoggio viene a mancare, e cosa meritevole di grande lode: questa è la ragione per la quale nella vedovanza si manifesta più facilmente la consistenza delle virtù presenti nel matrimonio.
La vedova che ha figli ancora bisognosi di lei per la formazione e la guida, soprattutto per quello che riguarda l'anima e il loro avvenire, non può e non deve abbandonarli per nessuna ragione; l'apostolo Paolo dice chiaramente che è obbligata ad averne cura, per fare quello che hanno fatto con lei mamma e papà, e anche perché, se nessuno ha cura dei suoi, e principalmente di quelli della sua famiglia, sarebbe da considerare peggio di un infedele.
Ma se i figli sono oramai autosufficienti, la vedova deve raccogliere tutti i suoi affetti e pensieri per impegnarli più puramente al suo avanzamento nell'amore di Dio.
Se non è costretta in coscienza da cause di forza maggiore a immischiarsi nelle faccende materiali, come, per esempio, i processi, il mio consiglio è che se ne stia completamente fuori, e nella condotta degli affari segua il metodo più pacifico e tranquillo che le sarà possibile, anche se non dovesse risultare il più fruttuoso. il pericolo di danno A mio parere occorrerebbe che fosse realmente preoccupante per meritare di essere messo a confronto con il bene di una santa serenità. Lasciamo che i processi e simili pasticci distraggano il cuore e aprano la porta ai nemici della castità; perché, per far piacere a coloro che ci devono sostenere, si hanno spesso modi di fare poco devoti e poco graditi a Dio.
L'orazione deve costituire un costante esercizio per la vedova; siccome ella deve ormai nutrire amore soltanto per Iddio, trovo naturale che le sue parole siano quasi esclusivamente rivolte a Dio. Il ferro in vicinanza di un diamante non viene attratto dalla calamita; ma se allontani il diamante, immediatamente il ferro scatta verso la calamita. Mi sembra che l'esempio si possa applicare alla vedova: mentre il marito era in vita, il suo cuore non poteva lanciarsi completamente in Dio; ma appena il marito è morto, ella è libera di seguire con prontezza la scia dei profumi celesti, dicendo, come la Sposa: Signore, ora che sono tutta mia, prendimi come tutta tua; trascinami con te, corriamo al profumo dei tuoi unguenti.
L'esercizio delle virtù proprie della santa vedova sono il totale riserbo, la rinuncia agli onori, al rango, alle riunioni, ai titoli e simili vanità; il servizio dei poveri e degli ammalati, la consolazione degli afflitti, l'iniziazione delle ragazze alla vita devota, e quella di rendersi un perfetto esempio di ogni virtù per le giovani donne.
La pulizia e la semplicità sono i due abbellimenti per i loro abiti; l'umiltà e la carità i due ornamenti per le loro azioni; l'onestà e il tratto gentile, l'ornamento della loro conversazione; il riserbo e la pudicizia, l'ornamento dei loro occhi; e Gesù Cristo Crocifisso l'unico amore del loro cuore.
Per concludere, nella Chiesa, la vera vedova è una violetta di marzo, che spande intorno a sé un profumo incomparabile di devozione, e si tiene sempre nascosta sotto le larghe foglie della sua umiltà, e con i colori meno sgargianti che indossa, testimonia la mortificazione; cresce nei luoghi freschi e non coltivati, non vuol essere agitata dalle conversazioni della gente di mondo, per meglio proteggere la freschezza del cuore dal desiderio dei beni, degli onori e, perché no? dal calore di un’amore che potrebbe invaghirla. Sarà molto felice, dice il santo Apostolo, perseverando in quella via.
Avrei molte altre cose da dire a questo proposito; ma avrò detto tutto esortando la vedova custode premurosa dell'onore della propria condizione, a leggere attentamente le belle lettere che il grande S. Girolamo scrisse a Furia e a Salvia, e a tutte quelle altre signore che ebbero la fortuna di essere figlie spirituali di un tale padre; non c'è nulla da aggiungere a quello che scrive loro; al più solo questo consiglio: la vera vedova non deve mai biasimare o censurare coloro che passano a seconde nozze e magari anche alle terze . alle quarte; in certe situazioni è Dio che così dispone per la propria maggior gloria. Bisogna avere sempre davanti agli occhi quella dottrina degli Antichi: in cielo il posto alla vedovanza e alla verginità è assegnato soltanto dall'umiltà che le accompagna.
Capitolo XLI
UNA PAROLA ALLE VERGINI
Voi che siete vergini, se aspirate al matrimonio, conservate gelosamente il primo amore per il primo marito. Penso che sia un grave inganno offrire al posto di un cuore integro e sincero, un cuore già usato, adulterato e consumato nell'amore.
Ma se la vostra felicità vi chiama alle caste e verginali nozze spirituali, e volete per sempre rimanere vergini, conservate l’amore nel modo più delicato possibile, per lo Sposo divino che, essendo la Purezza incarnata, nulla gradisce quanto questa virtù. A Lui dobbiamo tutte le primizie, ma principalmente quelle dell'amore.
Le lettere di S. Girolamo vi offrono tutti i consigli del caso; e giacché la vostra condizione vi obbliga all'obbedienza, scegliete una guida, per poter più santamente, sotto la sua condotta, consacrare il vostro cuore e il vostro corpo alla sua divina Maestà.
6-39 Maggio 28, 1904 La mortificazione atterra tutto ed immola tutto a Dio.
Luisa Piccarreta (Libro di Cielo)
(1) Continuando il solito mio stato e stando con somma amarezza per le continue privazioni del mio adorabile Gesù, quando appena si ha fatto vedere dicendomi:
(2) “Figlia mia, la prima mina che si deve menare nell’interno dell’anima è la mortificazione, e quando questa mina si getta nell’anima, atterra tutto ed immola tutto a Dio, perché nell’anima ci sono come tanti palazzi, ma tutti di vizi, come sarebbe l’orgoglio, la disubbidienza, e tant’altri vizi, e la mina della mortificazione atterrando tutto, vi riedifica tanti altri palazzi di virtù, immolandoli e sacrificandoli tutti alla gloria di Dio”.
(3) Detto ciò è scomparso, e dopo poco è venuto il demonio che voleva molestarmi solo, ed io senza prendere paura gli ho detto: “A che pro molestarmi? Quando tu sei un’altro per farti vedere più bravo prendi un bastone e battimi fino a non farmi lasciare neppure una goccia di sangue, intendendo però, che ogni goccia di sangue che spargo sia un attestato di più d’amore, di riparazione e di gloria che intendo di dare al mio Dio”.
(4) E quello: “Non me ne trovo bastoni da poterti battere, e se vado a prenderlo tu non mi aspetti”.
(5) Ed io: “Va pure che qui ti aspetto”. E così se n’è andato, restando io con la ferma volontà d’aspettarlo, quando con mia sorpresa ho visto che avendosi incontrato con un altro demonio, andavano dicendo: “E’ inutile che ritorniamo, a che pro battere quando deve servire a nostro danno e con nostra perdita? E’ buono far soffrire a chi non vuole soffrire, perché quello offende Dio, ma chi vuole soffrire, ci facciamo male con le nostre mani”. E così non è più ritornato, restando io mortificata.