Sotto il Tuo Manto

Giovedi, 5 giugno 2025 - San Bonifacio (Letture di oggi)

Ringraziamo Dio per tutto l'amore che ha per noi, che ci dimostra in tante occasioni e in tanti modi. In cambio, come atto di gratitudine e di adorazione, siate determinati nel farvi santi, perché egli è santo. Ogni volta che Gesù ha voluto provare il suo amore per noi, è stato rifiutato dall'umanità . Prima della sua nascita, i suoi genitori avevano chiesto un luogo dove rifugiarsi e non lo trovarono. (Madre Teresa di Calcutta)

Liturgia delle Ore - Letture

Lunedi della 19° settimana del tempo ordinario (Santa Chiara)

Questa sezione contiene delle letture scelte a caso, provenienti dalle varie sezioni del sito (Sacra Bibbia e la sezione Biblioteca Cristiana), mentre l'ultimo tab Apparizioni, contiene messaggi di apparizioni a mistici o loro scritti. Sono presenti testi della Valtorta, Luisa Piccarreta, don Stefano Gobbi e testimonianze di apparizioni mariane riconosciute.

Vangelo secondo Giovanni 21

1Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così:2si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli.3Disse loro Simon Pietro: "Io vado a pescare". Gli dissero: "Veniamo anche noi con te". Allora uscirono e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla.
4Quando già era l'alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù.5Gesù disse loro: "Figlioli, non avete nulla da mangiare?". Gli risposero: "No".6Allora disse loro: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete". La gettarono e non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci.7Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: "È il Signore!". Simon Pietro appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi il camiciotto, poiché era spogliato, e si gettò in mare.8Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: infatti non erano lontani da terra se non un centinaio di metri.
9Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane.10Disse loro Gesù: "Portate un po' del pesce che avete preso or ora".11Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si spezzò.12Gesù disse loro: "Venite a mangiare". E nessuno dei discepoli osava domandargli: "Chi sei?", poiché sapevano bene che era il Signore.
13Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro, e così pure il pesce.14Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti.
15Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene". Gli disse: "Pasci i miei agnelli".16Gli disse di nuovo: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene". Gli disse: "Pasci le mie pecorelle".17Gli disse per la terza volta: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene?". Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: "Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene". Gli rispose Gesù: "Pasci le mie pecorelle.18In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi".19Questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: "Seguimi".
20Pietro allora, voltatosi, vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, quello che nella cena si era trovato al suo fianco e gli aveva domandato: "Signore, chi è che ti tradisce?".21Pietro dunque, vedutolo, disse a Gesù: "Signore, e lui?".22Gesù gli rispose: "Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi".23Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: "Se voglio che rimanga finché io venga, che importa a te?".

24Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera.25Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.


Levitico 16

1Il Signore parlò a Mosè dopo che i due figli di Aronne erano morti mentre presentavano un'offerta davanti al Signore.2Il Signore disse a Mosè: "Parla ad Aronne, tuo fratello, e digli di non entrare in qualunque tempo nel santuario, oltre il velo, davanti al coperchio che è sull'arca; altrimenti potrebbe morire, quando io apparirò nella nuvola sul coperchio.3Aronne entrerà nel santuario in questo modo: prenderà un giovenco per il sacrificio espiatorio e un ariete per l'olocausto.4Si metterà la tunica sacra di lino, indosserà sul corpo i calzoni di lino, si cingerà della cintura di lino e si metterà in capo il turbante di lino. Sono queste le vesti sacre che indosserà dopo essersi lavato la persona con l'acqua.5Dalla comunità degli Israeliti prenderà due capri per un sacrificio espiatorio e un ariete per un olocausto.6Aronne offrirà il proprio giovenco in sacrificio espiatorio e compirà l'espiazione per sé e per la sua casa.7Poi prenderà i due capri e li farà stare davanti al Signore all'ingresso della tenda del convegno8e getterà le sorti per vedere quale dei due debba essere del Signore e quale di Azazel.9Farà quindi avvicinare il capro che è toccato in sorte al Signore e l'offrirà in sacrificio espiatorio;10invece il capro che è toccato in sorte ad Azazel sarà posto vivo davanti al Signore, perché si compia il rito espiatorio su di lui e sia mandato poi ad Azazel nel deserto.
11Aronne offrirà dunque il proprio giovenco in sacrificio espiatorio per sé e, fatta l'espiazione per sé e per la sua casa, immolerà il giovenco del sacrificio espiatorio per sé.12Poi prenderà l'incensiere pieno di brace tolta dall'altare davanti al Signore e due manciate di incenso odoroso polverizzato; porterà ogni cosa oltre il velo.13Metterà l'incenso sul fuoco davanti al Signore, perché la nube dell'incenso copra il coperchio che è sull'arca e così non muoia.14Poi prenderà un po' di sangue del giovenco e ne aspergerà con il dito il coperchio dal lato d'oriente e farà sette volte l'aspersione del sangue con il dito, davanti al coperchio.15Poi immolerà il capro del sacrificio espiatorio, quello per il popolo, e ne porterà il sangue oltre il velo; farà con questo sangue quello che ha fatto con il sangue del giovenco: lo aspergerà sul coperchio e davanti al coperchio.
16Così farà l'espiazione sul santuario per l'impurità degli Israeliti, per le loro trasgressioni e per tutti i loro peccati. Lo stesso farà per la tenda del convegno che si trova fra di loro, in mezzo alle loro impurità.17Nella tenda del convegno non dovrà esserci alcuno, da quando egli entrerà nel santuario per farvi il rito espiatorio, finché egli non sia uscito e non abbia compiuto il rito espiatorio per sé, per la sua casa e per tutta la comunità d'Israele.
18Uscito dunque verso l'altare, che è davanti al Signore, compirà il rito espiatorio per esso, prendendo il sangue del giovenco e il sangue del capro e bagnandone intorno i corni dell'altare.19Farà per sette volte l'aspersione del sangue con il dito sopra l'altare; così lo purificherà e lo santificherà dalle impurità degli Israeliti.
20Quando avrà finito l'aspersione per il santuario, per la tenda del convegno e per l'altare, farà accostare il capro vivo.21Aronne poserà le mani sul capo del capro vivo, confesserà sopra di esso tutte le iniquità degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati e li riverserà sulla testa del capro; poi, per mano di un uomo incaricato di ciò, lo manderà via nel deserto.22Quel capro, portandosi addosso tutte le loro iniquità in una regione solitaria, sarà lasciato andare nel deserto.
23Poi Aronne entrerà nella tenda del convegno, si toglierà le vesti di lino che aveva indossate per entrare nel santuario e le deporrà in quel luogo.24Laverà la sua persona nell'acqua in luogo santo, indosserà le sue vesti e uscirà ad offrire il suo olocausto e l'olocausto del popolo e a compiere il rito espiatorio per sé e per il popolo.25E farà ardere sull'altare le parti grasse del sacrificio espiatorio.
26Colui che avrà lasciato andare il capro destinato ad Azazel si laverà le vesti, laverà il suo corpo nell'acqua; dopo, rientrerà nel campo.
27Si porterà fuori del campo il giovenco del sacrificio espiatorio e il capro del sacrificio, il cui sangue è stato introdotto nel santuario per compiere il rito espiatorio, se ne bruceranno nel fuoco la pelle, la carne e gli escrementi.28Poi colui che li avrà bruciati dovrà lavarsi le vesti e bagnarsi il corpo nell'acqua; dopo, rientrerà nel campo.
29Questa sarà per voi una legge perenne: nel settimo mese, nel decimo giorno del mese, vi umilierete, vi asterrete da qualsiasi lavoro, sia colui che è nativo del paese, sia il forestiero che soggiorna in mezzo a voi.30Poiché in quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi; voi sarete purificati da tutti i vostri peccati, davanti al Signore.31Sarà per voi un sabato di riposo assoluto e voi vi umilierete; è una legge perenne.32Il sacerdote che ha ricevuto l'unzione ed è rivestito del sacerdozio al posto di suo padre, compirà il rito espiatorio; si vestirà delle vesti di lino, delle vesti sacre.33Farà l'espiazione per il santuario, per la tenda del convegno e per l'altare; farà l'espiazione per i sacerdoti e per tutto il popolo della comunità.34Questa sarà per voi legge perenne: una volta all'anno, per gli Israeliti, si farà l'espiazione di tutti i loro peccati".
E si fece come il Signore aveva ordinato a Mosè.


Giobbe 42

1Allora Giobbe rispose al Signore e disse:

2Comprendo che puoi tutto
e che nessuna cosa è impossibile per te.
3Chi è colui che, senza aver scienza,
può oscurare il tuo consiglio?
Ho esposto dunque senza discernimento
cose troppo superiori a me, che io non comprendo.
4"Ascoltami e io parlerò,
io t'interrogherò e tu istruiscimi".
5Io ti conoscevo per sentito dire,
ma ora i miei occhi ti vedono.
6Perciò mi ricredo
e ne provo pentimento sopra polvere e cenere.

7Dopo che il Signore aveva rivolto queste parole a Giobbe, disse a Elifaz il Temanita: "La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe.8Prendete dunque sette vitelli e sette montoni e andate dal mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi; il mio servo Giobbe pregherà per voi, affinché io, per riguardo a lui, non punisca la vostra stoltezza, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe".
9Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita andarono e fecero come loro aveva detto il Signore e il Signore ebbe riguardo di Giobbe.
10Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima, avendo egli pregato per i suoi amici; accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto.11Tutti i suoi fratelli, le sue sorelle e i suoi conoscenti di prima vennero a trovarlo e mangiarono pane in casa sua e lo commiserarono e lo consolarono di tutto il male che il Signore aveva mandato su di lui e gli regalarono ognuno una piastra e un anello d'oro.
12Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine.13Ebbe anche sette figli e tre figlie.14A una mise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Fiala di stibio.15In tutta la terra non si trovarono donne così belle come le figlie di Giobbe e il loro padre le mise a parte dell'eredità insieme con i loro fratelli.
16Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant'anni e vide figli e nipoti di quattro generazioni.17Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni.


Salmi 64

1'Salmo. Di Davide. Al maestro del coro.'

2Ascolta, Dio, la voce, del mio lamento,
dal terrore del nemico preserva la mia vita.
3Proteggimi dalla congiura degli empi
dal tumulto dei malvagi.

4Affilano la loro lingua come spada,
scagliano come frecce parole amare
5per colpire di nascosto l'innocente;
lo colpiscono di sorpresa e non hanno timore.
6Si ostinano nel fare il male,
si accordano per nascondere tranelli;
dicono: "Chi li potrà vedere?".
7Meditano iniquità, attuano le loro trame:
un baratro è l'uomo e il suo cuore un abisso.

8Ma Dio li colpisce con le sue frecce:
all'improvviso essi sono feriti,
9la loro stessa lingua li farà cadere;
chiunque, al vederli, scuoterà il capo.
10Allora tutti saranno presi da timore,
annunzieranno le opere di Dio
e capiranno ciò che egli ha fatto.

11Il giusto gioirà nel Signore
e riporrà in lui la sua speranza,
i retti di cuore ne trarranno gloria.


Isaia 37

1Quando udì, il re Ezechia si stracciò le vesti, si ricoprì di sacco e andò nel tempio del Signore.2Quindi mandò Eliakìm il maggiordomo, Sebnà lo scrivano e gli anziani dei sacerdoti ricoperti di sacco dal profeta Isaia figlio di Amoz,3perché gli dicessero: "Così dice Ezechia: Giorno di angoscia, di castigo e di vergogna è questo, perché i figli sono arrivati fino al punto di nascere, ma manca la forza per partorire.4Spero che il Signore tuo Dio, udite le parole del gran coppiere che il re di Assiria suo signore ha mandato per insultare il Dio vivente lo voglia castigare per le parole che il Signore tuo Dio ha udito. Innalza ora una preghiera per quel resto che ancora rimane in vita".
5Così andarono i ministri del re Ezechia da Isaia.6Disse loro Isaia: "Riferite al vostro padrone: Dice il Signore: Non temere per le parole che hai udite e con le quali i ministri del re di Assiria mi hanno ingiuriato.7Ecco io infonderò in lui uno spirito tale che egli, appena udrà una notizia, ritornerà nel suo paese e nel suo paese io lo farò cadere di spada".

8Ritornato il gran coppiere, trovò il re di Assiria che assaliva Libna. Egli, infatti, aveva udito che si era allontanato da Lachis.

9Appena Sennàcherib sentì dire riguardo a Tiràka, re di Etiopia: "È uscito per muoverti guerra"; inviò di nuovo messaggeri a Ezechia per dirgli:10"Direte così a Ezechia, re di Giuda: Non ti illuda il tuo Dio, in cui confidi, dicendoti: Gerusalemme non sarà consegnata nelle mani del re di Assiria;11ecco tu sai quanto hanno fatto i re di Assiria in tutti i paesi che hanno votato alla distruzione; soltanto tu ti salveresti?12Gli dèi delle nazioni che i miei padri hanno devastate hanno forse salvato quelli di Gozan, di Carran, di Rezef e la gente di Eden in Telassàr?13Dove sono il re di Amat e il re di Arpad e il re della città di Sefarvàim, di Enà e di Ivvà?".
14Ezechia prese la lettera dalla mano dei messaggeri, la lesse, quindi salì al tempio del Signore. Ezechia, spiegato lo scritto davanti al Signore,15lo pregò:16"Signore degli eserciti, Dio di Israele, che siedi sui cherubini, tu solo sei Dio per tutti i regni della terra; tu hai fatto i cieli e la terra.17Porgi, Signore, l'orecchio e ascolta; apri, Signore, gli occhi e guarda; ascolta tutte le parole che Sennàcherib ha mandato a dire per insultare il Dio vivente.18È vero, Signore, i re di Assiria hanno devastato tutte le nazioni e i loro territori;19hanno gettato i loro dèi nel fuoco; quelli però non erano dèi, ma solo lavoro delle mani d'uomo, legno e pietra; perciò li hanno distrutti.20Ma ora, Signore nostro Dio, liberaci dalla sua mano perché sappiano tutti i regni della terra che tu sei il Signore, il solo Dio".

21Allora Isaia, figlio di Amoz mandò a dire a Ezechia: "Così dice il Signore, Dio di Israele: Ho udito quanto hai chiesto nella tua preghiera riguardo a Sennàcherib re di Assiria.22Questa è la sentenza che il Signore ha pronunciato contro di lui:

Ti disprezza, ti deride
la vergine figlia di Sion.
Dietro a te scuote il capo
la figlia di Gerusalemme.
23Chi hai insultato e schernito?
Contro chi hai alzato la voce
e hai elevato, superbo, gli occhi tuoi?
Contro il Santo di Israele!
24Per mezzo dei tuoi ministri hai insultato il Signore
e hai detto: "Con la moltitudine dei miei carri
sono salito in cima ai monti,
sugli estremi gioghi del Libano,
ne ho reciso i cedri più alti,
i suoi cipressi migliori;
sono penetrato nel suo angolo più remoto,
nella sua foresta lussureggiante.
25Io ho scavato e bevuto
acque straniere,
ho fatto inaridire con la pianta dei miei piedi
tutti i torrenti dell'Egitto".
26Non l'hai forse sentito dire?
Da tempo ho preparato questo,
dai giorni antichi io l'ho progettato;
ora lo pongo in atto.
Era deciso che tu riducessi in mucchi di rovine
le fortezze;
27i loro abitanti impotenti
erano spaventati e confusi,
erano come l'erba dei campi,
come tenera verzura,
come l'erba dei tetti,
bruciata dal vento d'oriente.
28Io so quando ti alzi o ti metti a sedere,
io ti conosco sia che tu esca sia che rientri.
29Poiché tu infuri contro di me e la tua insolenza
è salita ai miei orecchi,
ti metterò il mio anello nelle narici
e il mio morso alle labbra;
ti farò tornare per la strada per cui sei venuto.

30Questo ti serva da segno:
si mangerà quest'anno ciò che nascerà dai semi caduti,
nell'anno prossimo quanto crescerà da sé,
ma nel terzo anno seminerete e mieterete,
pianterete vigne e ne mangerete il frutto.
31Ciò che scamperà della casa di Giuda
continuerà a mettere radici in basso
e a fruttificare in alto.
32Poiché da Gerusalemme uscirà un resto,
dei superstiti dal monte Sion.
Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti.

33Pertanto dice il Signore contro il re di Assiria:
Non entrerà in questa città
né vi lancerà una freccia,
non l'affronterà con gli scudi
né innalzerà contro di essa un terrapieno.
34Ritornerà per la strada per cui è venuto;
non entrerà in questa città.
Oracolo del Signore:
35Io proteggerò questa città e la salverò,
per riguardo a me stesso e al mio servo Davide.

36Ora l'angelo del Signore scese e percosse nell'accampamento degli Assiri centottantacinquemila uomini. Quando i superstiti si alzarono al mattino, ecco erano tutti cadaveri.
37Sennàcherib re di Assiria levò le tende e partì; tornato a Ninive, rimase colà.38Ora, mentre egli era prostrato in venerazione nel tempio di Nisrok suo dio, i suoi figli Adram-Mèlech e Zarèzer lo uccisero di spada, mettendosi quindi al sicuro nel paese di Ararat.
Assarhàddon suo figlio regnò al suo posto.


Apocalisse 14

1Poi guardai ed ecco l'Agnello ritto sul monte Sion e insieme centoquarantaquattromila persone che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo.2Udii una voce che veniva dal cielo, come un fragore di grandi acque e come un rimbombo di forte tuono. La voce che udii era come quella di suonatori di arpa che si accompagnano nel canto con le loro arpe.3Essi cantavano un cantico nuovo davanti al trono e davanti ai quattro esseri viventi e ai vegliardi. E nessuno poteva comprendere quel cantico se non i centoquarantaquattromila, i redenti della terra.4Questi non si sono contaminati con donne, sono infatti vergini e seguono l'Agnello dovunque va. Essi sono stati redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per l'Agnello.5Non fu trovata menzogna sulla loro bocca; sono senza macchia.

6Poi vidi un altro angelo che volando in mezzo al cielo recava un vangelo eterno da annunziare agli abitanti della terra e ad ogni nazione, razza, lingua e popolo.7Egli gridava a gran voce:

"Temete Dio e dategli gloria,
perché è giunta l'ora del suo giudizio.
Adorate colui che ha fatto
il cielo e la terra,
il mare e le sorgenti delle acque".

8Un secondo angelo lo seguì gridando:

"È caduta, è caduta
Babilonia la grande,
quella che ha abbeverato tutte le genti
col vino del furore della sua fornicazione".

9Poi, un terzo angelo li seguì gridando a gran voce: "Chiunque adora la bestia e la sua statua e ne riceve il marchio sulla fronte o sulla mano,10berrà il vino dell'ira di Dio che è versato puro nella coppa della sua ira e sarà torturato con fuoco e zolfo al cospetto degli angeli santi e dell'Agnello.11Il fumo del loro tormento salirà per i secoli dei secoli, e non avranno riposo né giorno né notte quanti adorano la bestia e la sua statua e chiunque riceve il marchio del suo nome".12Qui appare la costanza dei santi, che osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù.
13Poi udii una voce dal cielo che diceva: "Scrivi: Beati d'ora in poi, i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono".

14Io guardai ancora ed ecco una nube bianca e sulla nube uno stava seduto, simile a un Figlio d'uomo; aveva sul capo una corona d'oro e in mano una falce affilata.15Un altro angelo uscì dal tempio, gridando a gran voce a colui che era seduto sulla nube: "Getta la tua falce e mieti; è giunta l'ora di mietere, perché la messe della terra è matura".16Allora colui che era seduto sulla nuvola gettò la sua falce sulla terra e la terra fu mietuta.
17Allora un altro angelo uscì dal tempio che è nel cielo, anch'egli tenendo una falce affilata.18Un altro angelo, che ha potere sul fuoco, uscì dall'altare e gridò a gran voce a quello che aveva la falce affilata: "Getta la tua falce affilata e vendemmia i grappoli della vigna della terra, perché le sue uve sono mature".19L'angelo gettò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e gettò l'uva nel grande tino dell'ira di Dio.20Il tino fu pigiato fuori della città e dal tino uscì sangue fino al morso dei cavalli, per una distanza di duecento miglia.


Capitolo LIV: Gli opposti impulsi della natura e della grazia

Leggilo nella Biblioteca

1. Figlio, considera attentamente gli impulsi della natura e quelli della grazia; come si muovono in modo nettamente contrario, ma così sottilmente che soltanto, e a fatica, li distingue uno che sia illuminato da interiore spiritualità. Tutti, invero, desiderano il bene e, con le loro parole e le loro azioni, tendono a qualcosa di buono; ma, appunto per una falsa apparenza del bene, molti sono ingannati. La natura è scaltra, trascina molta gente, seduce, inganna e mira sempre a se stessa. La grazia, invece, cammina schietta, evita il male, sotto qualunque aspetto esso appaia; non prepara intrighi; tutto fa soltanto per amore di Dio, nel quale, alla fine, trova la sua quiete. La natura non vuole morire, non vuole essere soffocata e vinta, non vuole essere schiacciata, sopraffatta o sottomessa, né mettersi da sé sotto il giogo. La grazia, invece, tende alla mortificazione di sé e resiste alla sensualità, desidera e cerca di essere sottomessa e vinta; non vuole avere una sua libertà, preferisce essere tenuta sotto disciplina; non vuole prevalere su alcuno, ma vuole sempre vivere restando sottoposta a Dio; è pronta a cedere umilmente a ogni creatura umana, per amore di Dio. La natura s'affanna per il suo vantaggio, e bada all'utile che le possa venire da altri. La grazia, invece, tiene conto di ciò che giova agli altri, non del profitto e dell'interesse propri. La natura gradisce onori e omaggi. La grazia, invece, ogni onore e ogni lode li attribuisce a Dio. La natura rifugge dalla vergogna e dal disprezzo. La grazia, invece, si rallegra "di patire oltraggi nel nome di Gesù" (At 5,41). La natura inclina all'ozio e alla tranquillità materiale. La grazia, invece, non può stare oziosa e accetta con piacere la fatica. La natura mira a possedere cose rare e belle, mentre detesta quelle spregevoli e grossolane. La grazia, invece, si compiace di ciò che è semplice e modesto; non disprezza le cose rozze, né rifugge dal vestire logori panni.

2. La natura guarda alle cose di questo tempo; gioisce dei guadagni e si rattrista delle perdite di quaggiù; si adira per una piccola parola offensiva. La grazia, invece, non sta attaccata all'oggi, ma guarda all'eternità; non si agita per la perdita di cose materiali; non si inasprisce per una parola un po' brusca, perché il suo tesoro e la sua gioia li pone nel cielo dove nulla perisce. La natura è avida, preferisce prendere che donare, ha caro ciò che è proprio e personale. La grazia, invece, è caritatevole e aperta agli altri; rifugge dalle cose personali, si contenta del poco, ritiene "più bello dare che ricevere" (At 20,35). La natura tende alle creature e al proprio corpo, alla vanità e alle chiacchiere. La grazia, invece, si volge a Dio e alle virtù; rinuncia alle creature, fugge il mondo, ha in orrore i desideri della carne, frena il desiderio di andare di qua e di là, si vergogna di comparire in pubblico. La natura gode volentieri di qualche svago esteriore, nel quale trovino piacere i sensi. La grazia, invece, cerca consolazione soltanto in Dio, e, al di sopra di ogni cosa di questo mondo, mira a godere del sommo bene. La natura tutto fa per il proprio guadagno e il proprio vantaggio; non può fare nulla senza ricevere nulla; per ogni favore spera di conseguirne uno uguale o più grande, oppure di riceverne lodi e approvazioni; desidera ardentemente che i suoi gesti e i suoi doni siano molto apprezzati. La grazia, invece, non cerca nulla che sia passeggero e non chiede, come ricompensa, altro premio che Dio soltanto; delle cose necessarie in questa vita non vuole avere più di quanto le possa essere utile a conseguire le cose eterne.

3. La natura si compiace di annoverare molte amicizie e parentele; si vanta della provenienza da un luogo celebre o della discendenza da nobile stirpe; sorride ai potenti, corteggia i ricchi ed applaude coloro che sono come lei. La grazia, invece, ama anche i nemici; non si esalta per la quantità degli amici; non dà importanza al luogo di origine o alla famiglia da cui discende, a meno che in essa vi sia una virtù superiore; è ben disposta verso il povero, più che verso il ricco; simpatizza maggiormente con la povera gente che con i potenti; sta volentieri con le persone sincere, non già con gli ipocriti; esorta sempre le anime buone ad ambire a "doni spirituali sempre più grandi" (1Cor 12,31), così da assomigliare, per le loro virtù, al Figlio di Dio. La natura, di qualcosa che manchi o che dia noia, subito si lamenta. La grazia sopporta con fermezza ogni privazione. La natura riferisce tutto a sé; lotta per sé, discute per sé. La grazia, invece, riconduce tutte le cose a Dio, da cui provengono come dalla loro origine; nulla di buono attribuisce a se stessa, non presume di sé con superbia; non contende, non pone l'opinione propria avanti alle altre; anzi si sottomette, in ogni suo sentimento e in ogni suo pensiero, all'eterna sapienza e al giudizio di Dio. La natura è avida di conoscere cose segrete e vuol sapere ogni novità; ama uscir fuori, per fare molte esperienze; desidera distinguersi e darsi da fare in modo che ad essa possa venirne lode e ammirazione. La grazia, invece, non si preoccupa di apprendere novità e curiosità, perché tutto il nuovo nasce da una trasformazione del vecchio, non essendoci mai, su questa terra, nulla che sia nuovo e duraturo. La grazia insegna, dunque, a tenere a freno i sensi, a evitare la vana compiacenza e l'ostentazione, a tener umilmente nascosto ciò che sarebbe degno di lode e di ammirazione, infine a tendere, in tutte le nostre azioni e i nostri studi, al vero profitto, alla lode e alla gloria di Dio. Non vuol far parlare di sé e delle cose sue, desiderando, invece, che, in tutti i suoi doni, sia lodato Iddio, che tutto elargisce per puro amore.

4. E', codesta grazia, una luce sovrannaturale, propriamente un dono particolare di Dio, un segno distintivo degli eletti, una garanzia della salvezza eterna. La grazia innalza l'uomo dalle cose terrestri all'amore del cielo e lo trasforma da carnale in spirituale. Adunque, quanto più si tiene in freno e si vince la natura, tanto maggior grazia viene infusa in noi; così, per mezzo di continue e nuove manifestazioni divine, l'uomo interiore si trasforma secondo l'immagine di Dio.


La città di Dio - Libro primo: Le sventure umane e la provvidenza

La città di Dio - Sant'Agostino d'Ippona

Leggilo nella Biblioteca

Premessa


[Dalle Ritrattazioni 2, 43]
Frattanto Roma fu messa a ferro e fuoco con l’invasione dei Goti che militavano sotto il re Alarico; l’occupazione causò un’enorme sciagura. Gli adoratori dei molti falsi dèi, che con un appellativo in uso chiamiamo pagani tentarono di attribuire il disastro alla religione cristiana e cominciarono a insultare il Dio vero con maggiore acrimonia e insolenza del solito. Per questo motivo io, ardendo dello zelo della casa di Dio 1, ho stabilito di scrivere i libri de La città di Dio contro questi insulti perché sono errori. L’opera mi tenne occupato per molti anni. Si frapponevano altri impegni che non era opportuno rimandare e che esigevano da me una soluzione immediata. Finalmente questa grande opera, La città di Dio, fu condotta a termine in ventidue libri. I primi cinque confutano coloro i quali vogliono la vicenda umana così prospera da ritenere necessario il culto dei molti dèi che i pagani erano soliti adorare. Sostengono quindi che avvengano in grande numero queste sciagure in seguito alla proibizione del culto politeistico. Gli altri cinque contengono la confutazione di coloro i quali ammettono che le sciagure non sono mai mancate e non mancheranno mai agli uomini e che esse, ora grandi ora piccole, variano secondo i luoghi, i tempi e le persone. Sostengono tuttavia che il politeismo e relative pratiche sacrali sono utili per la vita che verrà dopo la morte. Con questi dieci libri dunque sono respinte queste due infondate opinioni contrarie alla religione cristiana. Qualcuno poteva ribattere che noi avevamo confutato gli errori degli altri senza affermare le nostre verità. Questo è l’assunto della seconda parte dell’opera che comprende dodici libri. Tuttavia all’occasione anche nei primi dieci affermiamo le nostre verità e negli altri dodici confutiamo gli errori contrari. Dei dodici libri che seguono dunque i primi quattro contengono l’origine delle due città, una di Dio e l’altra del mondo; gli altri quattro, il loro svolgimento o sviluppo; i quattro successivi, che sono anche gli ultimi, il fine proprio. Sebbene tutti i ventidue libri riguardino l’una e l’altra città, hanno tuttavia derivato il titolo dalla migliore. Perciò è stata preferita l’intestazione La città di Dio. Nel decimo libro non doveva esser considerato un miracolo il fatto che in un sacrificio che Abramo offrì, una fiamma venuta dal cielo trascorse tra le vittime divise a metà 2, perché gli fu mostrato in una visione. Nel libro decimosettimo si afferma di Samuele che non era dei figli di Aronne 3. Era preferibile dire: Non era figlio di un sacerdote. Infatti era piuttosto costume garantito dalla legge che i figli dei sacerdoti succedessero ai sacerdoti defunti; tra i figli di Aronne si trova appunto il padre di Samuele, ma non fu sacerdote. Né si deve considerare tra i figli, nel senso che discendesse da Aronne, ma nel senso che tutti gli appartenenti al popolo ebraico son detti figli di Israele. L’opera comincia così: Gloriosissimam civitatem Dei. Lettera 212/A. Scritta nel 426. Agostino invia a Firmo i XXII ll. de La città di Dio con un riassunto generale e uno particolare a ciascun libro, indicandogli a chi darli a copiare.

Agostino invia cristiani saluti a Firmo, signore egregio e degno d’onore oltre che venerabile figlio
Come ti avevo promesso, ti ho inviato i libri su La città di Dio, che mi avevi chiesti con immensa premura, dopo che li ho riletti; cosa questa che ho fatto sì con l’aiuto di Dio, ma dietro le preghiere di Cipriano, tuo fratello germano e figlio mio, così insistenti come io avrei desiderato mi fossero rivolte. Sono ventidue quaderni ch’è difficile ridurre in un solo volume; se poi vuoi farne due volumi, devi dividerli in modo che uno contenga dieci libri e l’altro dodici. Eccone il motivo: nei primi dieci sono confutati gli errori dei pagani, nei restanti invece è dimostrata e difesa la nostra religione, quantunque ciò sia stato fatto anche nei primi dieci, dov’è parso più opportuno, e l’altra cosa sia stata fatta anche in questi ultimi. Se invece preferisci farne non solo due ma più volumi, allora è opportuno che tu ne faccia cinque volumi, di cui il primo contenga i primi cinque libri nei quali si discute contro coloro i quali sostengono che, alla felicità della vita presente, giova il culto non proprio degli dèi ma dei demoni; il secondo volume contenga i seguenti altri cinque libri i quali confutano coloro che credono debbano adorarsi, mediante riti sacri e sacrifici, numerosissimi dèi di tal genere o di qualunque altro genere, in grazia della vita che verrà dopo la morte. Allora i seguenti altri tre volumi dovranno contenere ciascuno quattro dei libri seguenti. Da noi infatti, la medesima parte è stata distribuita in modo che quattro libri mostrassero l’origine della Città di Dio e altrettanti il suo progresso, o come abbiamo preferito chiamarlo, sviluppo, mentre i quattro ultimi mostrano i suoi debiti fini. Se poi, come sei stato diligente a procurarti questi libri, lo sarai anche a leggerli, comprenderai, per la tua esperienza personale, anziché per la mia assicurazione, quanto aiuto potranno arrecare. Ti prego di degnarti volentieri di dare, a coloro che li chiedono per copiarli, i libri di quest’opera su La città di Dio, che i nostri fratelli di costì a Cartagine ancora non hanno. A ogni modo non li darai a molti, ma solo a uno o al massimo a due; questi poi li daranno a tutti quanti gli altri. Inoltre, il modo con cui darli, non solo ai fedeli cristiani tuoi amici che desiderano istruirsi, ma anche a quanti siano legati a qualche superstizione, dalla quale potrà sembrare che possano essere liberati per mezzo di questa nostra fatica in virtù della grazia di Dio, veditelo da te stesso. Io farò in modo – se Dio lo vorrà – di scriverti spesso per chiederti a quale punto sei giunto nel leggerli. Istruito come sei, non ignori quanto giovi una lettura ripetuta per comprendere quel che si legge. In realtà non v’è alcuna difficoltà di comprendere o è certo minima quando esiste la facilità di leggere, la quale diventa tanto maggiore quanto più la lettura è ripetuta, di modo che mediante la continua ripetizione [si capisce chiaramente quello che, per mancanza di diligenza], era stato duro da intendere. Mio venerabile figlio Firmo, signore esimio e degno d’essere onorato, ti prego di rispondermi per farmi sapere in qual modo sei arrivato a procurarti i libri Sugli Accademici scritti da me poco dopo la mia conversione, poiché in una lettera precedente l’Eccellenza tua mi ha fatto credere che ne era a conoscenza. Quanti argomenti poi comprenda l’opera scritta nei ventidue libri lo indicherà il sommario che ti ho inviato.


Libro Primo - LE SVENTURE UMANE E LA PROVVIDENZA


Premessa
Nell'ideare questa opera dovuta alla promessa che ti ho fatto , o carissimo figlio Marcellino, ho inteso difendere la gloriosissima città di Dio contro coloro che ritengono i propri dèi superiori al suo fondatore, sia mentre essa in questo fluire dei tempi, vivendo di fede , è esule fra gli infedeli, sia nella quiete della patria celeste che ora attende nella perseveranza , finché la giustizia non diventi giudizio e che poi conseguirà mediante la supremazia con la vittoria ultima e la pace finale. È una grande e difficile impresa ma Dio è nostro aiuto. So infatti quali forze si richiedono per convincere i superbi che è molto grande la virtù dell'umiltà. Con essa appunto la grandezza non accampata dalla presunzione umana ma donata dalla grazia divina trascende tutte le altezze terrene tentennanti nel divenire del tempo. Infatti il re e fondatore di questa città, di cui ho stabilito di trattare, nella scrittura del suo popolo ha rivelato un principio della legge divina con le parole: Dio resiste ai superbi e dà la grazia agli umili. Anche il tronfio sentimento dell'anima superba vuole presuntuosamente che gli si riconosca fra le glorie il potere, che è di Dio, di usare moderazione con i soggetti e assoggettare i superbi . Perciò anche nei confronti della città terrena la quale, quando tende a dominare, è dominata dalla passione del dominare anche se i cittadini sono soggetti, non si deve passare sotto silenzio, se si presenta l'occasione, ciò che richiede la tematica dell'opera in progetto.

Legge di guerra sospesa in onore a Cristo (1-7)
Le chiese cristiane offrono scampo ai vinti. 1. Da essa infatti provengono nemici, contro i quali deve essere difesa la città di Dio. Di costoro tuttavia molti, rinunciando all'errore d'empietà, divengono in essa cittadini ben disposti. Molti invece sono infiammati contro di lei da odio così ardente e sono ingrati ai benefici tanto evidenti del suo Redentore che oggi non parlerebbero male di lei se nel fuggire il ferro dei nemici non avessero salvato nei luoghi sacri la vita, di cui oggi sono arroganti. Non sono forse contrari al nome di Cristo anche quei Romani che i barbari per rispetto a Cristo hanno risparmiato? Ne fanno fede i sepolcri dei martiri e le basiliche degli apostoli che accolsero nel saccheggio di Roma fedeli ed estranei che in essi si erano rifugiati . Fin lì incrudeliva il nemico sanguinario, qui si arrestava la mano di chi menava strage, là da nemici pietosi venivano condotti individui risparmiati anche fuori di quei luoghi affinché non s'imbattessero in altri che non avevano eguale umanità. Altrove erano spietati e incrudelivano come nemici. Ma appena giungevano in quei luoghi, in cui era proibito ciò che altrove era lecito per diritto di guerra, veniva contenuta l'efferatezza dell'uccidere e il desiderio di far prigionieri. Così molti scamparono. Ed ora denigrano la civiltà cristiana e attribuiscono a Cristo i mali che la città ha subito. Al contrario, non attribuiscono al nostro Cristo ma al loro destino il bene che in onore a Cristo si è verificato a loro vantaggio. Dovrebbero piuttosto, se fossero un po' saggi, attribuire le crudeltà e le sventure che hanno subito dai nemici alla divina provvidenza. Essa di solito riforma radicalmente con le guerre i costumi corrotti degli individui ed anche mette alla prova con tali sventure la vita lodevolmente onesta degli uomini e dopo averla provata o l'accoglie in un mondo migliore o la conserva ancora in questo mondo per altri compiti. Dovrebbero invece attribuire alla civiltà cristiana il fatto che, fuori dell'usanza della guerra, i barbari li abbiano risparmiati, o dovunque per rispetto al nome di Cristo o nei luoghi particolarmente dedicati al nome di Cristo, molto spaziosi e quindi scelti per una più larga bontà di Dio a contenere molta gente. Perciò dovrebbero ringraziare Dio e divenire con sincerità seguaci del nome di Cristo per sfuggire le pene del fuoco eterno, mentre molti lo hanno adoperato con inganno per sfuggire le pene dello sterminio nel tempo. Infatti moltissimi di essi che si vedono insultare insolentemente e sfrontatamente i servi di Cristo son proprio quelli che non sarebbero sfuggiti alla morte e alla strage se non avessero finto di essere servi di Cristo. Ed ora per ingrata superbia ed empia follia si oppongono al suo nome con cuore malvagio per esser puniti con le tenebre eterne; e allora avevano invocato quel nome con parole sia pure false per continuare a godere della luce temporanea.

I templi pagani non offrono alcun scampo.
2. Sono state tramandate tante guerre prima e dopo la fondazione e la dominazione di Roma. Leggano ed esibiscano o che una città sia stata occupata da stranieri con la garanzia che i nemici occupanti risparmiassero coloro che avessero trovati rifugiati nei templi dei loro dèi o che un condottiero di barbari avesse ordinato nel saccheggio di una città di non uccidere chi fosse stato trovato in questo o quel tempio. Al contrario Enea vide Priamo che imbrattava di sangue i fuochi sacri che egli stesso aveva consacrato . E Diomede ed Ulisse, uccisi i custodi del tempio posto sulla rocca, afferrarono la statua di Pallade e con le mani insanguinate osarono toccare le bende verginali della dea. Ma non è vero quel che segue: Da quel fatto la speranza dei Greci fu ricacciata definitivamente in alto mare . Al contrario dopo quel fatto vinsero, distrussero Troia a ferro e fuoco, trucidarono Priamo che si era rifugiato presso l'altare . E Troia non fu distrutta perché perdé Minerva. Ancor prima che cosa aveva perduto Minerva stessa per andare perduta? Forse i custodi? Ma proprio questo è vero perché con la loro uccisione fu possibile trafugarla. Dunque non gli uomini erano difesi dalla statua ma la statua dagli uomini. Perché allora era venerata per custodire la patria e i cittadini se non riuscì a custodire i propri custodi?.

Perfino gli dèi si trovano in difficoltà.
3. Eppure i Romani si rallegravano di avere affidata la propria città alla protezione di questi dèi. O errore degno di tanta commiserazione! E si adirano con noi quando parliamo così dei loro dèi e non si arrabbiano con i propri scrittori. Pagano anzi per pubblicarli e per di più hanno ritenuto degni di compenso da parte dello Stato e di onori gli stessi insegnanti. Adduciamo come esempio Virgilio. I fanciulli lo leggono appunto perché il grande poeta, il più illustre e alto di tutti, assimilato dalle tenere menti non sia dimenticato con facilità, secondo il detto di Orazio: Il vaso di creta conserverà a lungo il profumo con cui è stato riempito appena modellato 2. Presso Virgilio dunque Giunone, ostile ai Troiani, è presentata mentre dice ad Eolo, re dei venti, per istigarlo contro di loro: Una gente a me nemica naviga il mar Tirreno per portare in Italia i vinti penati di Troia . Ma davvero sono stati tanto prudenti da affidare Roma perché non fosse vinta a codesti penati vinti? Giunone però parlava così da donna arrabbiata senza sapere quel che diceva. Ma Enea, chiamato tante volte pio, così narra: Panto di Otreo, sacerdote del tempio di Apollo, con la mano consacrata sostiene i dèi vinti e conduce il nipotino e fuori di sé di corsa si avvicina alle porte . Ed Enea fa capire che a lui gli dèi, giacché non dubita di chiamarli vinti, sono stati affidati e non lui agli dèi, quando gli si dice: Troia ti affida le cose sacre e i propri penati . Dunque Virgilio dichiara vinti gli dèi e affidati a un uomo affinché, sebbene vinti, in qualche modo siano salvati. È pazzia dunque il pensare che è stato saggio l'affidare Roma a tali difensori e che è stato possibile saccheggiarla soltanto perché li ha perduti. Anzi l'onorare dèi vinti come validi difensori significa soltanto conservare non buoni numi ma cattivi nomi. Non è saggio dunque credere che Roma non sarebbe giunta a tanta sconfitta se prima non fossero andati perduti ma piuttosto che da tempo sarebbero andati perduti se Roma non li avesse conservati finché le è riuscito. Ciascuno può notare, purché rifletta, con quanta leggerezza si sia presupposto che essa sotto la protezione di difensori vinti non poteva essere vinta e che è andata perduta perché ha perduto gli dèi custodi. Piuttosto sola causa del perdersi ha potuto essere l'aver voluto dèi difensori che sarebbero andati perduti. Non è dunque che i poeti si divertivano a mentire quando venivano scritti in versi quei fatti sugli dèi vinti, ma la verità costringeva uomini saggi a parlar così. Tuttavia questi concetti si devono esporre diligentemente e diffusamente in altra parte. Ora per un po' sbrigherò, come posso, l'argomento già iniziato sugli uomini ingrati. Essi attribuiscono bestemmiando a Cristo i mali che meritatamente hanno subito a causa della propria perversità. Non si degnano di riflettere che sono risparmiati, anche se non credenti, in onore del Cristo. Usano inoltre contro il suo nome per frenesia di empia perversità quella stessa lingua con cui mentitamente adoperarono il medesimo nome per salvare la vita o per timore la fecero tacere nei luoghi a lui dedicati. Così pienamente sicuri in quei luoghi, sono scampati dai nemici per uscirne fuori a lanciare maledizioni contro di lui.

Confronto fra Cristo e Giunone.
4. Come ho detto, la stessa Troia, madre del popolo romano, non poté difendere nei templi degli dèi i propri cittadini dal fuoco e ferro dei Greci che onoravano gli stessi dèi. Anzi Fenice e il fiero Ulisse, guardie scelte, sorvegliavano il bottino nel tempio di Giunone. In esso vengono raccolti gli oggetti preziosi di Troia sottratti alle case bruciate, gli altari, i vasi d'oro massiccio e le vesti sacre. Stanno attorno in lunga fila fanciulli e madri tremanti . Fu scelto dunque il tempio sacro a una dea sì grande non perché si ritenne illecito sottrarre di lì i prigionieri ma perché si era deciso di chiuderveli. Ed ora confronta con i luoghi eretti in memoria dei nostri Apostoli quel tempio non di un qualsiasi dio subalterno o della turba degli dèi inferiori ma della stessa sorella e moglie di Giove e regina di tutti gli dèi. In esso veniva trasportato il bottino trafugato ai templi incendiati e agli dèi non per esser donato ai vinti ma diviso fra i vincitori. Nei nostri templi invece veniva ricondotto con onore e rispetto religioso ciò che pur trovato altrove si scoprì appartenesse ad essi. Lì fu perduta la libertà, qui conservata; lì fu ribadita la schiavitù, qui proibita; là venivano stipati per divenire proprietà dei nemici che divenivano padroni, qua perché rimanessero liberi venivano condotti da nemici pietosi. Infine il tempio di Giunone era stato scelto dall'avarizia e superbia dei frivoli Greci, le basiliche di Cristo dalla liberalità e anche umiltà dei fieri barbari. Ma forse i Greci nella loro vittoria risparmiarono i templi degli dèi che avevano in comune e non osarono uccidere o far prigionieri i miseri Troiani vinti che ci si rifugiavano. Virgilio, secondo l'usanza dei poeti, avrebbe mistificato quei fatti. Al contrario egli ha narrato l'usanza dei nemici che saccheggiavano le città.

Orrori della guerra civile.
5. Ma anche Cesare, come scrive Sallustio, storico di sicura veridicità, non teme di ricordare tale usanza nel discorso che ebbe al senato sui congiurati: Furono fatti prigionieri ragazze e fanciulli, strappati i figli dalle braccia dei genitori, le madri hanno subito ciò che i vincitori si son permessi, sono stati spogliati templi e case, si sono avute stragi e incendi, infine tutto era in balia delle armi, dei cadaveri, del sangue e della morte . Se avesse taciuto i templi, potevamo pensare che i nemici di solito risparmiavano le dimore degli dèi. E i templi romani subivano queste profanazioni non da nemici di altra stirpe ma da Catilina e soci, nobili senatori e cittadini romani. Ma questi, si dirà, erano uomini perduti e traditori della patria.

La clemenza romana e una dura legge di guerra.
6. Perché dunque il nostro discorso dovrebbe volgersi qua e là ai molti popoli che fecero guerra gli uni contro gli altri e non risparmiarono mai i vinti nei templi dei propri dèi? Esaminiamo i Romani stessi, riferiamoci e consideriamo, dico, i Romani, a cui lode singolare fu detto risparmiare i soggetti e assoggettare i superbi , anche per il fatto che, ricevuta una ingiuria, preferivano perdonare che vendicarsi . Giacché, per estendere il proprio dominio, hanno saccheggiato dopo l'espugnazione e la conquista tante e grandi città, ci si mostri quali templi avevano usanza di esentare perché chiunque vi si rifugiasse rimanesse libero. Forse essi lo facevano ma gli scrittori di quelle imprese non ne hanno parlato? Ma davvero essi che andavano in cerca principalmente di fatti da lodare avrebbero omesso questi che per loro erano nobilissimi esempi di rispetto? Marco Marcello, uomo illustre nella storia di Roma, occupò la ricchissima città di Siracusa. Si narra che prima la pianse mentre stava per cadere e che alla vista della strage versò lagrime per lei. Si preoccupò anche del rispetto al pudore col nemico. Infatti prima che da vincitore desse l'ordine d'invadere la città, stabilì con editto che non si violentassero persone libere . Tuttavia la città fu distrutta secondo l'usanza delle guerre e non si legge in qualche parte che sia stato comandato da un condottiero tanto pudorato e clemente di considerare inviolabile chi si fosse rifugiato in questo o quel tempio . Non sarebbe stato omesso certamente giacché non sono stati taciuti il suo pianto e l'ordine del rispetto al pudore. Fabio che distrusse la città di Taranto è lodato perché si astenne dal saccheggio delle statue. Il segretario gli chiese cosa disponesse di fare delle molte immagini degli dèi che erano state prese. Ed egli abbellì la propria morigeratezza anche con una battuta scherzosa. Chiese come fossero. Gli risposero che erano molte, grandi e anche armate. Ed egli: Lasciamo gli dèi irati ai Tarentini . Dunque gli storiografi di Roma non poterono passare sotto silenzio né il pianto del primo né l'umorismo di quest'ultimo, né la pudorata clemenza del primo né la scherzosa morigeratezza del secondo. Quale motivo dunque di passar sotto silenzio se per rispetto di qualcuno dei propri dèi avessero risparmiato degli individui proibendo in qualche tempio la strage o la riduzione in schiavitù?

Spietata usanza sospesa in onore a Cristo.
7. E tutto ciò che nella recente sconfitta di Roma è stato commesso di rovina, uccisione, saccheggio, incendio e desolazione è avvenuto secondo l'usanza della guerra. Ma si è verificato anche un fatto secondo una nuova usanza. Per un inconsueto aspetto degli eventi la rozzezza dei barbari è apparsa tanto mite che delle spaziose basiliche sono state scelte e designate per essere riempite di cittadini da risparmiare. In esse nessuno doveva essere ucciso, da esse nessuno sottratto, in esse molti erano condotti da nemici pietosi perché conservassero la libertà, da esse nessuno neanche dai crudeli nemici doveva esser condotto fuori per esser fatto prigioniero. E chiunque non vede che il fatto è dovuto al nome di Cristo e alla civiltà cristiana è cieco, chiunque lo vede e non lo riconosce è ingrato e chiunque si oppone a chi lo riconosce è malato di mente. Un individuo cosciente non lo attribuisca alla ferocia dei barbari. Animi tanto fieri e crudeli ha sbigottito, ha frenato, ha moderato fuori dell'ordinario colui che, mediante il profeta, tanto tempo avanti aveva predetto: Visiterò con la verga le loro iniquità e con flagelli i loro peccati ma non allontanerò da loro la mia misericordia .

I mali della storia e la Provvidenza (8-28)


Buoni e cattivi...
8. 1. Qualcuno dirà: Perché questo tratto della bontà di Dio è giunto anche a miscredenti e ingrati? Perché? Certamente perché lo ha compiuto colui che ogni giorno fa sorgere il suo sole sopra buoni e cattivi e fa piovere su giusti e ingiusti . Alcuni di loro riflettendo con ravvedimento su questi fatti si convertono dalla loro miscredenza; altri invece, come dice l'Apostolo, disprezzando la ricchezza della bontà e longanimità di Dio a causa della durezza del loro cuore e di un cuore incapace di ravvedimento, mettono a profitto lo sdegno nel giorno dello sdegno e della manifestazione del giusto giudizio di Dio che renderà a ciascuno secondo le sue azioni . Tuttavia la pazienza di Dio invita i cattivi al ravvedimento, come il flagello di Dio istruisce i buoni alla pazienza. Allo stesso modo la misericordia di Dio abbraccia i buoni per proteggerli, come la severità di Dio ghermisce i cattivi per punirli. È ordinamento infatti della divina provvidenza preparare per il futuro ai giusti dei beni, di cui non godranno gli ingiusti, e ai miscredenti dei mali, con cui non saranno puniti i buoni. Ha voluto però che beni e mali nel tempo siano comuni ad entrambi affinché i beni non siano cercati con eccessiva passione, poiché si vede che anche i cattivi li hanno, e non si evitino disonestamente i mali, poiché anche i buoni spesso ne sono colpiti.

...nel disegno della bontà e giustizia divina.
8. 2. Inoltre differisce molto la condizione tanto di quella che si considera prosperità come di quella che si considera avversità. L'individuo onesto non si inorgoglisce dei beni e non si abbatte per i mali temporali; il cattivo invece è punito dalla sorte sfavorevole appunto perché abusa della favorevole. Tuttavia Dio manifesta abbastanza chiaramente la sua opera spesso anche nel dispensare tali cose. Se una pena palese colpisse ogni peccato nel tempo, si potrebbe pensare che nulla è riservato all'ultimo giudizio. Se al contrario un palese intervento di Dio non punisse nel tempo alcun peccato, si potrebbe pensare che non esiste la divina provvidenza. Lo stesso è per la prosperità. Se Dio non la concedesse con evidente munificenza ad alcuni che la chiedono, diremmo che queste cose non sono di sua competenza. Allo stesso modo se la concedesse a tutti quelli che la chiedono, supporremmo che si deve servirlo soltanto in vista di tali ricompense. Il servizio a lui non ci renderebbe devoti ma interessati e avari. Stando così le cose, buoni e cattivi sono egualmente tribolati, ma non ne consegue che non siano diversi perché non è diversa la sofferenza che gli uni e gli altri hanno sopportato. Resta la differenza di chi soffre anche nella eguaglianza della sofferenza e, sebbene sia comune la pena, non sono la medesima cosa la virtù e il vizio. Come in un medesimo fuoco l'oro brilla, la paglia fuma, come sotto la medesima trebbia le stoppie sono triturate e il grano è mondato e la morchia non si confonde con l'olio per il fatto che è spremuto dal medesimo peso del frantoio, così una unica e medesima forza veemente prova, purifica, filtra i buoni, colpisce, abbatte e demolisce i cattivi. Quindi in una medesima sventura i cattivi maledicono e bestemmiano Dio, i buoni lo lodano e lo pregano. La differenza sta non nella sofferenza ma in chi soffre. Infatti anche se si scuotono con un medesimo movimento, il fetidume puzza disgustosamente, l'unguento profuma gradevolmente.

Anche la sventura dei buoni...
9. 1. Dunque nella desolazione degli avvenimenti passati, se si valutano con la fede, che cosa hanno sofferto i cristiani che non è riuscito a loro vantaggio? Prima di tutto possono riflettere umilmente sui peccati, a causa dei quali Dio sdegnato ha riempito il mondo di tante sventure. E sebbene essi siano ben lontani dagli scellerati, disonesti e miscredenti, tuttavia non si ritengono così immuni dalle colpe da non giudicarsi degni di dover sopportare, a causa di esse, mali nel tempo. Si fa eccezione per il caso che un individuo, pur vivendo onestamente, cede in alcune circostanze alla concupiscenza carnale, sebbene non fino all'enormità della scelleratezza, non fino al gorgo della disonestà e all'abbominio dell'immoralità, ma ad alcuni peccati o rari o tanto più frequenti quanto più piccoli. Eccettuato dunque questo caso, è forse facile trovare chi tratti come devono esser trattati coloro, per la cui tremenda superbia, lussuria, avarizia ed esecrande ingiustizie e immoralità, Dio, come ha predetto con minacce, distrugge i paesi ? Chi tratta con essi come devono esser trattati? Il più delle volte infatti colpevolmente si trascura di istruirli e ammonirli e talora anche dal rimproverarli e biasimarli o perché rincresce l'impegno o perché ci vergogniamo di affrontarli o per evitare rancori. Potrebbero ostacolarci e nuocerci nelle cose del mondo o perché la nostra avidità desidera ancora di averne o perché la nostra debolezza teme di perderle. Certamente ai buoni dispiace la condotta dei cattivi e pertanto non incorrono assieme ad essi nella condanna che è riservata ai malvagi dopo questa vita. Tuttavia, dato che sono indulgenti con i loro peccati degni di condanna perché si preoccupano per i propri sebbene lievi e veniali, giustamente sono flagellati con i malvagi nel tempo, quantunque non siano puniti per l'eternità. Ma giustamente, quando vengono per disposizione divina tribolati assieme ai cattivi, sentono l'amarezza della vita perché, amandone la dolcezza, hanno preferito non essere amari con i malvagi che peccavano.

...rientra nell'ordine...
9. 2. Ma se qualcuno si astiene dal rimproverare e biasimare coloro che agiscono male o perché aspetta un tempo più opportuno o perché teme per essi che da ciò non diventino peggiori o perché potrebbero scandalizzarsi, importunare e allontanare dalla fede individui deboli, che devono essere educati alla bontà e alla pietà, allora evidentemente non si ha l'interesse dell'avidità ma la prudenza della carità. È da considerarsi colpa il fatto che coloro i quali vivono onestamente e detestano le azioni dei malvagi, sono tuttavia indulgenti con i peccati degli altri che dovrebbero redarguire o rimproverare. Lo fanno per evitare le loro reazioni perché non nuocciano loro nelle cose che i buoni usano lecitamente e onestamente ma con desiderio più intenso di quanto sarebbe opportuno per chi è esule in questo mondo e professa la speranza di una patria superiore. Or vi sono individui più deboli che menano vita coniugale, hanno figli o desiderano averli, posseggono casa e famiglia. L'Apostolo si volge loro nelle varie chiese insegnando e istruendo come le mogli devono comportarsi con i mariti e i mariti con le mogli, i figli con i genitori e i genitori con i figli, i servi con i padroni e i padroni con i servi . Costoro con piacere conseguono molti beni temporali e terreni e con dolore li perdono, quindi per mantenerli non osano affrontare coloro la cui vita peccaminosa e delittuosa, a loro avviso, è reprensibile. Ma anche quelli che hanno raggiunto un grado più perfetto di vita, non sono intralciati dai legami coniugali e si limitano nel vitto e nel vestito, nel temere le macchinazioni e la violenza dei malvagi contro il proprio buon nome e incolumità, per lo più si astengono dal riprenderli. Certamente non li temono al punto da giungere a compiere simili azioni a causa delle intimidazioni e perversità dei malvagi. Tuttavia spesso non vogliono rimproverare le azioni, che non compiono assieme ai disonesti, sebbene potrebbero col rimprovero correggerne alcuni, perché, se non riuscissero, la loro incolumità e buon nome potrebbero subire un grave danno. Non lo fanno perché considerano il loro buon nome e la vita indispensabili all'educazione degli uomini, ma piuttosto per debolezza perché fanno piacere le parole lusinghiere e la vita serena e si temono il giudizio sfavorevole del volgo, la sofferenza e la morte fisica, cioè a causa di certi legami della passione e non dei doveri della carità.

...per la loro tiepida testimonianza al bene.
9. 3. Non mi sembra una ragione di poco rilievo che anche i buoni siano colpiti con i cattivi dal momento che Dio vuole punire la immoralità anche con la calamità delle pene nel tempo. Sono puniti insieme non perché conducono insieme una vita cattiva ma perché amano insieme la vita nel tempo, non in maniera eguale, comunque insieme. I buoni dovrebbero averla in minor conto affinché i malvagi efficacemente ammoniti conseguano la vita eterna. E se non volessero esser compagni nel conseguirla, dovrebbero esser sopportati e amati come nemici, giacché finché vivono, non si sa mai se non muteranno in meglio il proprio volere. In proposito, non certamente eguale ma di gran lunga più grave responsabilità hanno coloro ai quali per mezzo del profeta si dice: Egli morrà nel suo peccato, ma io chiederò conto del suo sangue dalla mano della sentinella . Le sentinelle, cioè i capi delle comunità sono stati costituiti nelle chiese proprio perché non si astengano dal rimproverare i peccati. Tuttavia non è del tutto immune da colpa chi, sebbene non sia posto a capo, conosce e trascura di biasimare e correggere molti fatti in coloro, ai quali è unito da particolare condizione di vita, se vuole evitare fastidi in vista di quei beni che in questa vita usa onestamente ma da cui ritrae piacere più del dovuto. Inoltre per i buoni si ha un'altra ragione della loro soggezione ai mali temporali. È il caso di Giobbe. La coscienza dell'individuo nella prova si rende consapevole del disinteressato sentimento di pietà con cui ama Dio.

Per i cristiani rientra nel bene qualsiasi sventura...
10. 1. Considerati attentamente secondo ragione questi fatti, rifletti se ai credenti e devoti sia avvenuto qualche male che non si sia mutato per loro in bene. A meno di pensare eventualmente che è vuoto di significato il detto dell'Apostolo: Sappiamo che a coloro che amano Dio tutte le cose si volgono in bene . Hanno perduto tutto ciò che avevano. Ma anche la fede? anche la pietà? anche il bene della coscienza ricca davanti a Dio ? Queste sono le ricchezze dei cristiani. E l'Apostolo che ne era ricco diceva: È un grande guadagno la pietà con quanto basta. Non abbiamo portato nulla in questo mondo ma non possiamo portar via nulla. Se abbiamo di che mangiare e coprirci, contentiamoci. Coloro che vogliono diventar ricchi incorrono nella tentazione, nello scandalo e in vari desideri stolti e dannosi che infossano l'uomo nella rovina e perdizione. Radice infatti di tutti i mali è l'amore del denaro ed alcuni che in esso sono incorsi si sono allontanati dalla fede e si sono impigliati in molti dolori .

...la perdita delle ricchezze...
10. 2. Torniamo a quelli che hanno perduto le ricchezze nel saccheggio di Roma. Se le consideravano come hanno udito da questo uomo povero nel corpo ma ricco nella coscienza, cioè se usavano del mondo come se non ne usassero , han potuto dire come Giobbe gravemente tentato ma non vinto: Sono uscito nudo dal grembo di mia madre e nudo tornerò alla terra. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, è avvenuto come è piaciuto al Signore; sia benedetto il nome del Signore . Da buon servo dovette considerare come grande ricchezza lo stesso volere del suo Signore, obbedendogli si arricchì nello spirito, non si addolorò perché da vivo fu abbandonato da quelle cose che, morendo, in breve avrebbe abbandonato. I più deboli poi che con una certa avidità si erano attaccati ai beni terreni, sebbene non li preponessero a Cristo, hanno esperimentato perdendoli fino a qual punto peccavano amandoli. Infatti sono stati tanto addolorati quanto si erano impigliati in dolori, secondo il detto dell'Apostolo che dianzi ho citato. Era infatti necessario che intervenisse l'insegnamento delle prove per individui, da cui a lungo era stato trascurato quello delle parole. Infatti quando l'Apostolo dice: Coloro che vogliono diventar ricchi incorrono nella tentazione, eccetera, certamente riprova nelle ricchezze l'amore disordinato, non la facoltà di averle perché in un altro passo ha ordinato: Comanda ai ricchi di questo mondo di non atteggiarsi a superbia e di non sperare nelle ricchezze fallibili, ma nel Dio vivo che generosamente ci dà a godere tutte le cose; agiscano bene, siano ricchi nelle opere buone, diano con facilità, condividano, mettano a frutto un buon stanziamento per il futuro allo scopo di raggiungere la vera vita . Coloro che trattavano così le proprie ricchezze hanno compensato lievi danni con grandi guadagni e si sono più rallegrati delle ricchezze che dando con facilità hanno conservato più sicuramente che contristati di quelle che tenendo strette per timore hanno perduto con tanta facilità. È avvenuto che è stato perduto sulla terra ciò che rincresceva trasferire altrove. Vi sono alcuni che hanno accolto il consiglio del loro Signore che dice: Non accumulatevi tesori sulla terra perché in essa la tignola e la ruggine distruggono e i ladri scassano e rubano, ma mettete a frutto per voi un tesoro nel cielo perché in esso il ladro non arriva e la tignola non distrugge. Dove infatti è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore . Costoro nel tempo della sventura hanno provato quanto furono saggi nel non disprezzare il maestro più veritiero e il custode più fedele e insuperabile del proprio tesoro. Perché se molti si son rallegrati di avere le proprie ricchezze dove per puro caso il nemico non giunse, quanto più tranquillamente e sicuramente poterono rallegrarsi coloro che per consiglio del proprio Dio le hanno trasferite là dove non poteva assolutamente giungere. Per questo il nostro Paolino, vescovo di Nola, da uomo straordinariamente ricco divenuto volontariamente poverissimo e santo di grande ricchezza, quando i barbari saccheggiarono anche Nola, fatto prigioniero, così pregava in cuor suo, come abbiamo appreso da lui personalmente: O Signore, fa' che non mi affligga per l'oro e l'argento; tu sai dove sono tutte le mie cose. Aveva tutte le sue cose in quel luogo, in cui gli aveva insegnato ad accumularle e metterle a frutto colui il quale aveva preannunciato che simili mali sarebbero avvenuti nel mondo. E per questo coloro che avevano obbedito al consiglio del proprio Signore sul luogo e il modo con cui dovevano riporre il tesoro, nelle incursioni dei barbari non perdettero neanche le ricchezze della terra. Ma quelli che han dovuto pentirsi di non avere ascoltato che cosa si doveva fare dei beni terreni, hanno imparato se non in base alla saggezza che doveva precorrere, certamente in base all'esperienza che ne seguì.

...la tortura...
10. 3. Alcuni buoni, anche cristiani, si dirà, sono stati sottoposti a torture perché consegnassero i propri beni ai nemici. Ma costoro non han voluto né consegnare né perdere il bene, di cui essi stessi erano buoni. Se poi han preferito essere torturati che consegnare l'iniquo mammona, non erano buoni. Individui che sopportavano pene tanto grandi per l'oro dovevano essere educati a sopportarne più gravi per il Cristo, per imparare ad amarlo perché arricchisce della felicità eterna chi soffre per lui. Non dovevano dunque amare l'oro e l'argento, poiché fu grande miseria soffrire per essi, sia che fossero occultati con la menzogna o palesati con la verità. Difatti non è stato perduto il Cristo rendendogli testimonianza fra i tormenti e si è conservato l'oro soltanto affermando di non averlo. Quindi erano forse più utili le torture che insegnavano ad amare un bene incorruttibile che quei beni i quali, per farsi amare, facevano torturare i loro possessori senza alcun vantaggio.

...la soggezione della crudeltà...
10. 4. Ma alcuni, si dice, anche se non avevano che consegnare, sono stati torturati perché non creduti. Ma anche costoro forse desideravano di avere e non erano poveri in virtù di una scelta santa. A loro si doveva far capire che non le ricchezze ma gli stessi desideri disordinati sono degni di tali sventure. Se poi non avevano riposto oro e argento per un impegno di vita più perfetto, non so se a qualcuno di loro avvenne di essere torturato perché si è creduto che l'avesse. Ma anche se è avvenuto, certamente chi, fra le torture testimoniava una santa povertà, testimoniava Cristo. Pertanto anche se non è riuscito a farsi credere dai nemici, tuttavia un testimone della santa povertà non poté essere torturato senza la ricompensa del cielo.

...l'inedia...
10. 5. [11.] Ma una fame prolungata, dicono, ha fatto morire anche molti cristiani. I buoni fedeli hanno volto anche questo fatto a proprio vantaggio sopportando con fede. La fame, come la malattia, ha sciolto dai mali di questa vita coloro che ha estinto e ha insegnato a vivere più morigeratamente e a digiunare più a lungo coloro che non ha estinto.

Anche la morte non è l'irrazionale.
11. Ma, soggiungono, molti cristiani sono stati uccisi, molti sono stati sterminati da varie forme di morte per contagio. Se il fatto è penoso, è comunque comune a tutti quelli che sono stati generati alla vita sensibile. Questo so che nessuno è morto se non doveva morire una volta. Il termine della vita eguaglia tanto una lunga come una breve vita. Quello che non è più, non è né migliore né peggiore né più lungo né più breve. Che differenza fa con quale genere di morte si termina la vita se colui, per il quale è terminata, non è più soggetto a morire? Innumerevoli tipi di morte minacciano in un modo o nell'altro ciascun uomo nelle condizioni di ogni giorno della vita presente, finché è incerto quale di esse sopravverrà. Chiedo dunque se è peggio subirne una morendo o temerle tutte vivendo. E so bene che senza indugio si sceglie vivere a lungo sotto l'incubo di tante morti anziché non temerne più alcuna morendo una sola volta. Ma un discorso è ciò che l'istinto atterrito per debolezza rifugge ed un altro ciò che la riflessione diligentemente liberata dal timore dimostra come vero. Non si deve considerare cattiva morte quella che è preceduta da una buona vita. E non rende cattiva una morte se non ciò che segue alla morte. Coloro che necessariamente moriranno non devono preoccuparsi molto di ciò che avviene per farli morire ma del luogo dove saranno costretti ad andare dopo morti. I cristiani sanno che è stata di gran lunga migliore la morte del povero credente tra i cani che lo leccavano che quella del ricco miscredente nella porpora e nella batista . Dunque in che cosa quel ripugnante genere di morte ha danneggiato i morti vissuti bene?.

La privazione della tomba non è il male...
12. 1. Inoltre, dicono, in una strage così grande non si poté seppellire i cadaveri . Ma la fede sincera neanche di questo si preoccupa eccessivamente perché ricorda che le bestie divoratrici non impediranno che risorgano i corpi, di cui non andrà perduto neanche un capello . La Verità stessa non avrebbe detto: Non temete coloro che uccidono il corpo ma non possono uccidere l'anima , se nuocesse alla vita futura ciò che i nemici hanno deciso di fare dei corpi degli uccisi. A meno che un tizio sia tanto irragionevole da sostenere che coloro i quali uccidono il corpo non si devono temere che prima della morte uccidano il corpo, ma si devono temere che dopo la morte non lascino inumare il corpo ucciso. È falso allora, se hanno tanto potere da esercitare sui cadaveri, ciò che ha detto il Cristo: Essi uccidono il corpo ma dopo non possono fare altro . Ma è impossibile che sia falso ciò che la Verità ha detto. È stato detto appunto che fanno qualche cosa quando uccidono perché vi è sensibilità nel corpo da uccidere, ma poi non hanno che fare perché non vi è sensibilità nel corpo ucciso. La terra dunque non ha ricoperto molti corpi dei cristiani. Nessuno però ha posto fuori del cielo e della terra alcuno di loro, giacché li riempie con la presenza di sé colui che sa da che cosa risuscitare ciò che ha creato. Si dice nel salmo: Han posto i cadaveri dei tuoi servi come cibo agli uccelli del cielo e le carni dei tuoi santi alle belve della terra; hanno versato come acqua il loro sangue alla periferia di Gerusalemme e non vi era chi li seppellisse . Ma è stato detto più per evidenziare la crudeltà di coloro i quali compirono tali azioni che la mala sorte di coloro i quali le subirono. E sebbene agli occhi degli uomini questi fatti siano intollerabili e atroci, tuttavia preziosa alla presenza del Signore è la morte dei suoi santi . Pertanto tutte queste cose, e cioè la preparazione del funerale, l'allestimento della tomba, la parata del corteo funebre sono più una consolazione per i superstiti che aiuto per i trapassati . Se giovasse in qualche modo al miscredente una tomba lussuosa, nuocerebbe al credente una povera o inesistente. Una moltitudine di servi allestì al ricco coperto di porpora un solenne corteo funebre davanti agli uomini, ma ne offrì dinanzi a Dio uno molto più solenne al povero coperto di piaghe il servizio degli angeli che non lo depositarono in un mausoleo di marmo ma fra le braccia di Abramo .

...come mostra anche una certa tradizione pagana.
12. 2. Gli individui, contro cui abbiamo inteso di difendere la città di Dio, scherniscono questi pensieri. Ma anche i loro filosofi hanno disdegnato l'allestimento della tomba . E spesso non si preoccuparono dove rimanessero o di quali bestie divenissero cibo i soldati di tutto un esercito, quando morivano per la patria terrena. In proposito i poeti poterono dire a titolo d'encomio: È coperto dal cielo chi non ha un'urna . A più forte ragione non debbono motteggiare i cristiani a causa dei corpi non sepolti. Ad essi si promette una nuova forma della carne e delle singole membra che nell'attimo indivisibile di tempo dovrà essere restituita e rinnovata non solo dalla terra ma anche dalla più intima struttura degli altri elementi in cui sono tornati i cadaveri decomposti.

Gli onori funebri come opera di umanità.
13. Non per questo si devono abbandonare e trascurare i corpi dei morti, soprattutto dei giusti che avevano la fede, perché di essi l'anima razionale si è servita santamente come di strumenti e mezzi per tutte le opere buone. Se infatti la veste e l'anello di un padre o altro oggetto simile è tanto più caro ai figli quanto è maggiore l'affetto verso i genitori, per nessun motivo si deve trascurare il corpo che portiamo certamente in una più intima unione di qualsiasi vestito. Esso non concerne un ornamento o arnese che s'impiega fuori di noi ma la stessa natura umana. Per questo anche i funerali degli antichi giusti furono preparati con doveroso rispetto, celebrate le esequie, provveduta la tomba ed essi stessi, mentre ancor vivevano avevano dato disposizioni ai figli su la tumulazione ed anche il trasferimento del proprio corpo . Anche Tobia per dichiarazione di un angelo è elogiato per aver meritato presso Dio col seppellire i morti . Lo stesso Signore che doveva risorgere al terzo giorno elogia l'opera buona di una donna pietosa e la elogia come un fatto da ricordarsi perché ha versato un unguento prezioso sopra le sue membra e lo ha fatto per rispetto al suo corpo da seppellire . Nel Vangelo con lode si ricordano coloro che con diligente ossequio si presero cura di coprire e tumulare il suo corpo staccato dalla croce . Tuttavia questi testi biblici non sostengono che vi sia sensibilità nei cadaveri ma indicano, per affermare la fede nella risurrezione, che anche il corpo dei morti rientra nella provvidenza divina la quale dispone anche tali doveri di umanità. Se ne deduce salutarmente quale possa essere il merito delle elemosine che si danno per uomini che vivono e sentono, se davanti a Dio non è perduto neanche ciò che si dà di doverosa cura alle membra esanimi degli uomini. Vi sono anche altre indicazioni che i santi patriarchi diedero in relazione all'inumazione e trasferimento del proprio corpo e vollero far intendere che erano state dette per ispirazione profetica . Ma non è qui il luogo di trattarne a lungo. Basta ciò che è stato detto. Ed anche se le cose necessarie per la sopravvivenza, come vitto e vestiario, possono venire a mancare, sia pure con grave disagio, tuttavia non fiaccano nei buoni la virtù del pazientare e sopportare e non strappano dallo spirito la pietà ma la rendono più viva esercitandola. A più forte ragione dunque, quando mancano i mezzi che di solito si usano per preparare i funerali e tumulare i cadaveri, la mancanza non rende infelici individui già in pace nelle invisibili dimore degli spiriti credenti. E per questo se sono mancati i funerali ai cadaveri dei cristiani nel saccheggio della grande Roma e anche di altri paesi, non è né colpa dei vivi che non han potuto offrirli, né pena dei morti che non possono sentire tale mancanza.

Libertà nella schiavitù.
14. Ma, dicono, molti cristiani sono stati condotti in schiavitù. Sarebbe veramente una grande infelicità se son riusciti a condurli dove non han trovato il loro Dio. Nella sacra Scrittura ci sono parole di grande conforto anche per tale sciagura. Erano prigionieri i tre fanciulli, lo era Daniele, lo erano altri profeti . Ma non mancò loro Dio consolatore. Dunque non ha abbandonato i suoi fedeli posti sotto il dominio di un popolo che sebbene barbaro era di uomini, come non ha abbandonato un suo profeta nel ventre di una bestia . I nostri oppositori preferiscono dileggiare anziché ammettere questi fatti. Eppure ammettono dalla loro letteratura che Arione di Metimna, bravissimo citarista, gettato da una nave, fu accolto sul dorso di un delfino e trasportato a terra . Però l'episodio di Giona, dicono, è più incredibile. Certo che è più incredibile, perché più meraviglioso e più meraviglioso perché opera di un potere maggiore.

L'esempio di Attilio Regolo...
15. 1. Hanno tuttavia anche essi fra i loro uomini illustri un esempio insigne in relazione alla prigionia sopportata anche volontariamente per motivi religiosi. Marco Regolo, condottiero del popolo romano, fu prigioniero presso i Cartaginesi. Costoro stimavano più vantaggioso, che dai Romani fossero restituiti i propri prigionieri anziché tenere prigionieri i loro. Per conseguire l'intento mandarono a Roma con i propri ambasciatori proprio Regolo dopo averlo fatto giurare che sarebbe tornato a Cartagine se non avesse ottenuto ciò che volevano . Egli andò ma in senato sostenne la tesi contraria perché pensava che non c'era tornaconto per lo Stato romano scambiare i prigionieri. Dopo tale discorso dai concittadini non fu costretto a tornare dai nemici. Lo fece spontaneamente perché aveva giurato. Ed essi lo ammazzarono con un supplizio squisitamente atroce. Chiusolo in una stretta cassa di legno, in cui era costretto a stare in piedi, e piantati dei chiodi acuminati nella cassa perché non sì sorreggesse in alcuna parte senza sofferenze terribili, lo fecero morire anche privandolo del sonno. Giustamente dunque gli scrittori lodano una virtù superiore a una sorte tanto triste . Ed egli aveva giurato per gli dèi. Eppure i nostri accusatori ritengono che siano inflitte al genere umano queste calamità perché è stato proibito il loro culto. Ma se essi, che venivano onorati proprio per rendere prospera la vita, hanno voluto o permesso che fossero irrogate a Regolo che giurò il vero tali pene, che cosa più gravemente irati avrebbero fatto se avesse spergiurato? Ma piuttosto perché non dovrei risolvere io stesso il mio dilemma? Egli onorò gli dèi così da non rimanere in patria per fedeltà al giuramento e da non accettare neanche il dubbio di andare altrove e non tornare dai suoi spietati nemici. Se lo stimava vantaggioso per questa vita, dal fatto che ne conseguì una fine così orribile, senza dubbio sbagliava i suoi calcoli. Col suo esempio egli insegnò che gli dèi non aiutano affatto i propri cultori ai fini della felicità temporale, giacché egli fedele nel loro culto fu vinto e fatto prigioniero; e poiché non volle comportarsi diversamente da come aveva loro giurato, morì dopo esser stato torturato con un inaudito e veramente atroce genere di supplizio. Se poi il culto degli dèi procura come ricompensa la felicità dopo questa vita, perché insultano alla civiltà cristiana dicendo che a Roma è capitata quella sventura perché ha cessato di onorare i propri dèi? Anche onorandoli con grande zelo poteva avere la mala sorte che ebbe Regolo. Ma forse contro una verità tanto chiara si resiste con l'irragionevolezza di un accecamento che sbalordisce. Sosterrebbero appunto che tutta la città onorando gli dèi non poteva avere una triste sorte ma che un solo individuo lo poteva. Il potere degli dèi, cioè, sarebbe adatto a proteggere i molti anziché i singoli. Ma la moltitudine è composta di singoli.

...è per tutti un monito alla vera libertà.
15. 2. Se poi dicono che Marco Regolo, anche in prigionia e nelle sofferenze fisiche, poté sentirsi felice a causa di un valore spirituale, si cerchi allora questo valore ideale per cui anche la cittadinanza possa sentirsi felice. Non è vero infatti che da un oggetto è felice la città, da un altro l'individuo, giacché la città non è altro che una moltitudine unanime di individui. Per questo frattanto non metto in discussione quale valore fu in Regolo. Basta per adesso che siano costretti da questo altissimo esempio ad ammettere che gli dèi non si devono onorare per i beni fisici e per le cose che accadono all'uomo dal di fuori. Egli infatti preferì esser privo di tutte queste cose anziché offendere gli dèi, nel cui nome aveva giurato. Ma come dovremmo comportarci con individui che si vantano di avere un tale concittadino e poi temono di avere la città che gli rassomigli? E se non temono questo, ammettano che alla città che, come lui, onorava devotamente gli dèi è potuto accadere un fatto quale accadde a Regolo e non insultino alla civiltà cristiana. Ma la questione è sorta in relazione ai cristiani che furono fatti prigionieri. E allora coloro che da questo fatto oltraggiano con sfrontata sconsideratezza alla religione della vera salvezza, riflettano sul seguente motivo e stiano zitti. Non fu di disonore ai loro dèi che uno scrupoloso loro cultore, nel conservare la fedeltà loro dovuta, rimanesse privo della patria, poiché altra non ne aveva, ed essendo prigioniero fosse ucciso in casa dei nemici attraverso una morte prolungata con un supplizio d'inaudita crudeltà. A più forte ragione dunque non si deve accusare il nome cristiano per la prigionia dei suoi aderenti i quali, aspettando con fede veritiera la patria celeste, sanno di essere esuli anche se sono a casa loro .

La pudicizia non soccombe alla violenza.
16. Pensano anche di lanciare una pesante accusa contro i cristiani quando, per ingrandire gli aspetti dell'occupazione, aggiungono le violenze carnali commesse non solo contro donne sposate e fanciulle ma anche contro alcune persone consacrate. Qui non è in discussione la fede, la pietà e la virtù che si chiama castità. La nostra discussione si restringe per certi limiti fra pudore e ragione. E in proposito non ci preoccupiamo tanto di dare una risposta agli estranei, quanto una consolazione ai nostri. Sia dunque fermamente stabilito che la virtù morale dalla coscienza impera alle membra del corpo e che il corpo diviene santo per l'attitudine di un volere santo. Se il volere rimane stabilmente inflessibile, ogni azione che un altro compie mediante il corpo o nel corpo, se non si può evitare senza peccato proprio non è imputabile a chi la subisce. Ma nel corpo di un altro si può compiere un atto che produce non soltanto dolore ma anche piacere. Ogni atto di questa specie, sebbene non strappi via la pudicizia se conservata con animo irremovibile, tuttavia urta il pudore. Non si creda però che sia avvenuto anche con la volontà della mente ciò che forse non è potuto avvenire senza la voluttà della carne.

Il suicidio è sempre colpevole.
17. E perciò quale umano sentimento non si vorrebbe perdonare alle donne che si uccisero per non subire tale violenza? Però chiunque accusa quelle che non vollero uccidersi, per evitare col proprio atto l'altrui delitto, non può sfuggire all'accusa di stoltezza. Se infatti non è lecito per privato potere uccidere sia pure un colpevole poiché nessuna legge concede tale autorizzazione, certamente anche il suicida è omicida e tanto più colpevole quanto è più incolpevole nei confronti della motivazione per cui ha pensato di uccidersi. Noi condanniamo l'operato di Giuda e l'umana ragione giudica che con l'impiccarsi ha piuttosto accresciuto che espiato l'azione dello scellerato tradimento perché pentendosi a propria condanna col disperare la misericordia di Dio non si lasciò il momento propizio per il pentimento che salva. A più forte ragione dunque si deve astenere dall'uccidersi chi non ha nulla da punire in sé con tale esecuzione. Giuda uccidendosi uccise un delinquente e tuttavia pose termine alla vita rendendosi colpevole della propria morte perché lo era anche di quella di Cristo. Così a causa d'un suo delitto si è giustiziato con un altro delitto. Ma perché un individuo che non ha fatto nulla di male dovrebbe farsi del male e uccidendosi uccidere un innocente per non subire un colpevole e compiere su di sé un proprio peccato perché in lui non se ne compia quello di un altro?

La contaminazione e...
18. 1. Si teme, dicono, che contamini la lussuria dell'altro. Non contamina se è dell'altro, se invece contamina non è dell'altro. Ma la pudicizia è virtù dell'animo ed ha per compagna la fortezza, con cui essa sceglie di sopportare qualsiasi male anziché consentire al male, inoltre l'individuo di animo grande e pudico non ha in suo potere ciò che avviene nella sua carne ma soltanto ciò che accoglie o respinge con la ragione. Chi dunque con la medesima ragione, se è sana, potrebbe pensare che perde la pudicizia se eventualmente nel suo corpo ghermito e violentato si svolge e si compie un atto libidinoso non suo? Se la pudicizia si perde così, certamente la pudicizia non è virtù dell'animo, non appartiene ai beni morali, ma è considerata bene fisico, come il vigore, la bellezza, la salute ed altri se ve ne sono. E la diminuzione di questi beni non diminuisce affatto la rettitudine e l'onestà. Che se la pudicizia è un bene così fatto, a che scopo per non perderla, si resiste anche col pericolo del corpo? Se poi è un bene dell'animo, non si perde anche se il corpo subisce violenza. Che anzi quando il bene di una santa continenza non acconsente alla contaminazione dei desideri carnali, anche il corpo è reso santo. Perciò quando questo bene con inflessibile intenzione continua a non cedere, non si perde neanche la santità del corpo perché persevera la volontà nell'usarne bene e, per quanto da esso dipende, anche la disposizione.

...la pudicizia è nello spirito.
18. 2. Il corpo non è santo perché le sue membra sono integre o perché non è fatto oggetto di toccamenti. In diverse circostanze le membra possono subire violenza anche con ferite. I medici talora provvedendo alla salute compiono in esse degli interventi che lo sguardo rifugge dal vedere. Una ostetrica che esplora con la mano l'integrità di una ragazza, nel controllare, può rovinarla o per cattiveria o per incapacità o per fatalità. Non ritengo che si possa essere tanto insensati da sostenere che per la fanciulla si è perduto anche qualche cosa della santità del suo corpo, sebbene sia perduta la integrità di uno dei suoi membri. Pertanto se rimane l'intenzione dell'animo, per cui anche il corpo ha potuto esser reso santo, la violenza dell'atto libidinoso di un altro non toglie la santità al corpo stesso se la conserva la perseveranza della propria continenza. Se al contrario una donna, avendo depravato la propria coscienza e violata la promessa fatta a Dio, si reca dal proprio seduttore per esser deflorata, possiamo forse, mentre ancor vi si reca, considerarla santa anche nel corpo, se è perduta e distrutta la santità dello spirito, per cui anche il corpo è reso santo? Non sia mai questo errore. Riflettiamo anzi che non si perde la santità del corpo se rimane quella dello spirito, anche se il corpo è stato contaminato, come si perde anche la santità del corpo se è violata la santità dello spirito e il corpo è tuttora illibato. Quindi la donna sopraffatta violentemente e contaminata dal peccato di un altro senza suo consenso non ha nulla da punire in sé con una morte volontaria. A più forte ragione prima che avvenga, perché non si deve commettere un omicidio certo quando è ancora incerto se il delitto, sebbene di altri, sarà compiuto.

Lucrezia uccidendosi...
19. 1. Con questo evidente ragionamento noi affermiamo che anche se il corpo è contaminato, ma il proposito della volontà non muta per consenso al male, il peccato è soltanto di chi si è unito carnalmente con la violenza, non di colei che sopraffatta lo ha subito senza volere. Ma a questo ragionamento oseranno opporsi coloro contro di cui difendiamo la santità non solo della mente ma anche del corpo delle donne cristiane violentate durante l'occupazione di Roma? Essi veramente esaltano per grandi meriti di pudicizia Lucrezia nobile matrona e antica romana. Il figlio di re Tarquinio aveva posseduto con la violenza il suo corpo a scopo di lussuria. Ella indicò il misfatto del giovane dissoluto al marito Collatino e all'amico Bruto, uomini illustri e valorosi, e li indusse alla vendetta. Poi sopportando di malanimo lo sconcio commesso contro di lei si uccise . Che dire? Si deve giudicare adultera o casta? Chi pensa di affannarsi in una discussione simile? Un tale parlando con singolare verità sul fatto ha detto: Cosa meravigliosa, erano due e uno solo ha commesso adulterio . Espressione stupendamente vera. Notando infatti nell'unione carnale dei due corpi la vergognosa passione di uno e la casta volontà dell'altra e riflettendo su ciò che avveniva non nella unione dei corpi ma nella diversità degli animi, ha detto: Erano due e uno solo ha commesso adulterio.

...fu ingiusta contro se stessa...
19. 2. Ma che principio è questo per cui più severamente contro di lei è punito l'adulterio che lei non ha commesso? Il drudo è espulso dalla patria assieme al padre, ella subisce la pena più grave. Se non è impudicizia quella con cui lei riluttante viene violentata, non è giustizia quella con cui lei casta è punita. Mi rivolgo a voi, leggi e giudici romani. Proprio voi avete disposto che è reato uccidere dopo i delitti commessi un delinquente se non è stato condannato. Se dunque si portasse al vostro giudizio questo delitto e risultasse dalle prove che è stata uccisa una donna, non solo non condannata, ma casta e innocente, non colpireste con la dovuta severità chi avesse commesso il reato? Ma lo ha commesso Lucrezia, proprio quella Lucrezia così esaltata ha giustiziato Lucrezia casta, innocente, violentata. Pronunciate la sentenza. E se non potete perché non è presente chi possiate condannare per qual motivo esaltate con tanto encomio l'assassina di una donna innocente e onesta? Ma per nessun motivo la potete difendere presso i giudici d'oltretomba, che appaiono in certi canti dei vostri poeti, appunto perché è posta fra quelli che innocenti si diedero la morte e odiando la luce han gettato l'anima nella tenebra. E se ella desiderasse tornar quassù, la impedisce il destino e la trattiene la squallida palude dalle acque odiate 63. Ma forse non è lì dal momento che si è uccisa non perché innocente ma perché era consapevole della colpa? Se infatti, e questo poteva saperlo soltanto lei, travolta anche dalla propria passione, acconsentì al giovane che la prese con la violenza e per punire in sé il fatto si pentì al punto di pensare di espiarlo con la morte? Ma anche in questo caso non doveva uccidersi se poteva fare presso falsi dèi una salutare penitenza. Ma se è così ed è falso che erano in due e uno solo commise adulterio, ma entrambi commisero adulterio, lui con aggressione palese, lei con assenso nascosto, non si uccise innocente. Quindi si può dire dai letterati suoi difensori che nell'oltretomba non è fra quelli che innocenti si diedero la morte. Ma così il processo si restringe dall'uno e dall'altro canto. Se ha attenuanti l'omicidio, si ratifica l'adulterio; se ha scusanti l'adulterio, si aggrava l'omicidio e non si trova affatto la soluzione al dilemma: se ha consentito all'adulterio, perché è lodata? se era onesta, perché si è uccisa?

...seppure fu casta.
19. 3. Ma a noi nell'episodio tanto celebre di questa donna basta, per confutare coloro che, profani ad ogni concetto di santità, insultano alle donne cristiane violentate durante l'occupazione, ciò che a sua lode più alta è stato detto: Erano in due e uno solo commise adulterio. Dai letterati Lucrezia è stata considerata incapace di macchiarsi di un consentimento da adultera. Quindi il motivo per cui anche non adultera si uccise, e cioè perché non tollerò l'amante, non è amore dell'onestà ma debolezza della vergogna. Si vergognò appunto della dissolutezza dell'altro commessa in lei, sebbene senza di lei. Da donna romana, molto desiderosa di lode, temette si pensasse che ciò che aveva subito violentemente mentre viveva l'avrebbe subito volontariamente se rimaneva in vita. Pensò quindi di usare agli occhi degli uomini come testimone della propria disposizione interiore quella pena perché ad essi non poteva mostrare la propria coscienza. Si vergognò di essere ritenuta compartecipe al fatto se avesse sopportato remissivamente ciò che l'altro aveva compiuto in lei disonestamente. Così non si sono comportate le donne cristiane. Pur avendo subito il medesimo affronto continuano a vivere e non hanno punito in sé il delitto di un altro. Così non hanno aggiunto un proprio delitto a quello d'altri, giacché se i nemici avevano commesso violenza per lussuria, esse avrebbero commesso omicidio per vergogna. Hanno infatti nell'interiorità la testimonianza della coscienza come ornamento della castità. Agli occhi di Dio poi, hanno, e non chiedono altro, poiché non hanno altro per comportarsi onestamente, di non deviare dall'autorità della legge divina, evitando con una colpa il disfavore del sospetto umano.

Il suicidio è omicidio.
20. E a ragione in nessuna parte dei sacri libri canonici si può trovare che ci sia stato ordinato o permesso di ucciderci per raggiungere l'immortalità ovvero per evitare o liberarsi dal male. Al contrario si deve intendere che ci è stato proibito in quel passo in cui la Legge dice: Non uccidere. Da sottolineare che non aggiunge "il tuo prossimo", come quando proibisce la falsa testimonianza: Non fare falsa testimonianza contro il tuo prossimo 64. Tuttavia se qualcuno testimoniasse il falso contro se stesso, non si può reputare immune da questo reato, perché chi ama ha ricevuto da se stesso la misura dell'amore al prossimo. È stato detto appunto: Amerai il prossimo tuo come te stesso 65. Dunque non è meno reo di falsa testimonianza chi testimonia il falso di se stesso che se lo facesse contro il prossimo, sebbene nel comandamento con cui si proibisce la falsa testimonianza, è proibita contro il prossimo e a chi non interpreta rettamente potrebbe sembrare che non è proibito presentarsi come falso testimonio contro se stesso. A più forte ragione dunque si deve intendere che non è lecito uccidersi, giacché nel precetto Non uccidere, senza alcuna aggiunta, nessuno, neanche l'individuo cui si dà il comandamento, si deve intendere escluso. Da ciò alcuni tentano di estendere il comandamento anche alle bestie selvatiche e domestiche, sicché non sarebbe lecito ucciderne alcuna 66. Perché dunque non anche alle erbe e a tutti i vegetali che si alimentano attaccandosi al suolo con le radici? Anche questi esseri, sebbene non abbiano sensazione, si considerano viventi e quindi possono anche morire e di conseguenza anche essere ammazzati, se si usa violenza contro di loro. Per questo anche l'Apostolo, parlando dei loro semi, ha detto: Ciò che tu semini non prende vita se non muore 67; e nel salmo è stato scritto: Uccise le loro viti con la grandine 68. Ma non per questo, quando si ode dire Non uccidere, si deve intendere che è proibito spezzare un ramoscello e prestar fede stupidamente all'errore dei manichei. Lasciamo perdere queste teorie deliranti. E quando si legge Non uccidere, non si deve intendere che sia stato detto degli alberi da frutto, perché non hanno senso, né degli animali irragionevoli che volano, nuotano, camminano, strisciano perché non sono congiunti a noi dalla ragione. Non è stato dato loro di averla in comune con noi. E per questo con giustissimo ordinamento del Creatore la loro vita e morte è stata subordinata alla nostra utilità. Rimane dunque che s'intenda dell'uomo il detto Non uccidere, quindi né un altro né te. Chi uccide se stesso infatti uccide un uomo.

Si considerano alcuni casi.
21. Lo stesso magistero divino ha fatto delle eccezioni alla legge di non uccidere. Si eccettuano appunto casi d'individui che Dio ordina di uccidere sia per legge costituita o per espresso comando rivolto temporaneamente a una persona. Non uccide dunque chi deve la prestazione al magistrato. È come la spada che è strumento di chi la usa. Quindi non trasgrediscono affatto il comandamento con cui è stato ingiunto di non uccidere coloro che han fatto la guerra per comando di Dio ovvero, rappresentando la forza del pubblico potere, secondo le sue leggi, cioè a norma di un ordinamento della giusta ragione, han punito i delinquenti con la morte. Così Abramo non solo non ha avuto la taccia di crudeltà ma è stato anche lodato per la pietà perché decise di uccidere il figlio non per delinquenza ma per obbedienza 69. E a buona ragione si discute se si deve considerare come comando di Dio il caso per cui Iefte sacrificò la figlia che gli andò incontro, giacché aveva fatto voto di immolare a Dio l'essere che per primo gli fosse andato incontro dopo la vittoria 70. Non altrimenti è scusato Sansone per il fatto che si fece schiacciare assieme ai nemici nel crollo della casa 71, giacché una ispirazione divina, che per suo mezzo compiva prodigi, glielo aveva comandato interiormente. Eccettuati dunque questi casi, in cui una giusta legge in generale o in particolare Dio, sorgente stessa della giustizia, comandano di uccidere, è responsabile del reato di omicidio chi uccide se stesso o un altro individuo.

Anche il suicidio per grandezza d'animo...
22. 1. Coloro che si sono uccisi, se forse sono da ammirare per grandezza d'animo, non sono da lodare per rettitudine di giudizio. E se si esamina attentamente la ragione, non si dovrà considerare neanche grandezza d'animo se qualcuno si uccide perché non è capace di sopportare le varie difficoltà o i peccati altrui. Piuttosto si giudica come carattere debole quello che non può tollerare la difficile soggezione della propria sensibilità o la stolta opinione del volgo. Si deve considerare animo più nobile quello che riesce a tollerare piuttosto che a fuggire la vita di stento e a disprezzare alla chiara luce della coscienza il giudizio degli uomini e soprattutto della massa che il più delle volte è avvolto nella foschia dell'errore. E per questo se si deve ritenere un atto di coraggio quando un uomo si dà la morte, si riscontra che ebbe questa grandezza d'animo piuttosto Teombroto 72. Dicono che letto il libro di Platone, in cui questi ha disputato dell'immortalità dell'anima, si gettò da un muro e così da questa vita andò a quella che reputava migliore. Non lo sovrastava nessun caso vero o falso di sventura o di diceria tale che, non potendolo sopportare, si dovesse uccidere. A scegliere la morte e spezzare i dolci legami alla vita gli bastò la sola grandezza d'animo. Tuttavia lo stesso Platone, che aveva letto, poteva insegnargli che fu un gesto più di coraggio che di onestà 73. Questi infatti l'avrebbe fatto certamente per singolare preferenza e anche comandato, se in base all'idea che ebbe dell'immortalità dell'anima non avesse giudicato che non si deve fare, anzi che si deve proibire.

...non è accettabile dal cristiano.
22. 2. [23.] Ma, dicono, molti si sono uccisi per non cadere in mano dei nemici. Adesso non stiamo discutendo se è avvenuto ma se doveva avvenire. La retta ragione si deve anteporre anche agli esempi. Con essa possono concordare anche gli esempi, ma quelli che sono tanto più degni di imitazione quanto più segnalati per religiosità. Non l'han fatto i patriarchi, non i profeti, non gli Apostoli. Lo stesso Cristo Signore, quando consigliò quest'ultimi, se soffrivano persecuzione, di fuggire di città in città 74, poteva consigliarli di uccidersi per non cadere in mano dei persecutori. E se egli non ha né comandato né consigliato che uscissero in questo modo dalla vita i suoi, ai quali, una volta usciti, aveva promesso di preparare una dimora nell'eternità 75, qualunque sia l'esempio che propongono i pagani i quali non conoscono Dio, è chiaro che non è lecito seguirlo da coloro che adorano l'unico vero Dio.

Non probante l'esempio di Catone l'Uticense.
23. Ma anche essi, dopo Lucrezia sulla quale ho sufficientemente espresso la mia opinione, non trovano tanto facilmente qualcuno, sulla cui autorevolezza appoggiarsi, se non il famoso Catone che si uccise a Utica 76. Certamente non è il solo ad averlo fatto, ma siccome era stimato uomo dotto e onesto, a ragione si potrebbe ritenere che onestamente si sia potuto o si possa fare ciò che ha fatto. Ma che dovrei dire del suo gesto? Dico principalmente che i suoi amici, anche essi dotti, che più saggiamente lo sconsigliavano dal farlo, giudicarono il gesto più d'un uomo debole che forte perché in esso si rilevò non l'onestà che evita il disonore ma la debolezza che non regge all'avversità. Lo indicò Catone stesso nei confronti del suo figlio carissimo. Se era disonorevole vivere dopo la vittoria di Cesare, per qual motivo consigliò al figlio tale disonore giacché gli ordinò di affidarsi in tutto alla clemenza di Cesare 77? Perché non lo indusse a morire con sé? Se Torquato, meritandosi lode, uccise il figlio, pur vincitore, che contro l'ordine aveva combattuto i nemici 78, perché Catone vinto risparmiò il figlio vinto se non risparmiò se stesso?. Oppure era più disonorevole esser vincitore contro il comando che tollerare contro l'onore un vincitore? Dunque non ha affatto giudicato che fosse disonorevole vivere dopo la vittoria di Cesare. Altrimenti con la propria spada avrebbe liberato il figlio da questo disonore. Che dire allora? Ma che egli, quanto amò il figlio che desiderò e volle fosse risparmiato da Cesare, tanto invidiò la gloria dello stesso Cesare, o per parlare con maggiore indulgenza, si vergognò di essere perdonato da lui, come si racconta che Cesare stesso ebbe a dire 79.

Regolo superiore a Catone.
24. Questi nostri oppositori non vogliono che reputiamo migliori di Catone il santo uomo Giobbe, che preferì sopportare nel suo corpo mali tanto atroci anziché, dandosi la morte, liberarsi da tutte le sofferenze, o altri santi che, secondo la nostra letteratura, la più illustre per sicura autorevolezza e la più degna di fede, preferirono la schiavitù sotto il dominio dei nemici anziché darsi la morte. Comunque stando alla loro letteratura preferirei a Marco Catone il già ricordato Marco Regolo. Catone infatti non aveva mai vinto Cesare e vinto sdegnò di sottomettersi a lui e scelse di uccidersi per non sottomettersi. Regolo invece aveva già vinto i Cartaginesi e da condottiero romano e con il comando di Roma non aveva riportato una biasimevole vittoria contro i concittadini ma una encomiabile vittoria sui nemici. Ma in seguito vinto da loro preferì tollerarli nella schiavitù anziché sottrarsi ad essi con la morte. Conservò quindi la sopportazione in balia dei Cartaginesi e la costanza nell'amore ai Romani perché non sottrasse dai nemici il corpo vinto e dai concittadini lo spirito invitto. E che non volle uccidersi non lo fece per amore di questa vita. Lo provò quando, a causa della promessa con giuramento, senza alcuna indecisione se ne tornò dagli stessi nemici che aveva danneggiato più con le parole in senato che con le armi in guerra. Pertanto un così eroico sprezzatore della vita, per il fatto che preferì farla stroncare attraverso varie pene da crudeli nemici anziché uccidersi, senza dubbio ha insegnato che il suicidio è un grande delitto. Tra tutti i loro uomini degni di lode e illustri per pregi di dignità umana i Romani non ne presentano uno più grande perché la fortuna non l'ha traviato, in quanto dopo una vittoria così splendida rimase molto povero 80, e la sfortuna non l'ha spezzato, in quanto seppe tornare intrepido verso torture così gravi. Dunque uomini molto coraggiosi e difensori eccellenti della patria terrena, cultori non bugiardi di dèi bugiardi ai quali anzi prestavano un veritiero giuramento, potevano uccidere secondo l'usanza della guerra i nemici vinti, ma vinti dai nemici non vollero uccidersi e non temendo affatto la morte preferirono che gliela infliggessero i nemici anziché procurarsela da sé. A più forte ragione quindi i cristiani, che adorano il vero Dio e sperano ardentemente la patria del cielo, si dovranno astenere da questo delitto se una disposizione divina, o per provarli o per correggerli, li rendesse schiavi per qualche tempo dei nemici. Ma colui che, tanto alto, è venuto per loro a tanta bassezza non li abbandona a questa bassezza, soprattutto perché i diritti dell'autorità militare e dello stesso esercito non li obbligano a uccidere il nemico vinto. Perché dunque dovrebbe insinuarsi un pregiudizio così malvagio che un individuo si debba uccidere o perché un nemico ha peccato o affinché non pecchi contro di lui, se egli non ardisce uccidere lo stesso nemico che ha peccato o peccherà?

Il timore del peccato non deve indurre al suicidio.
25. Ma si deve temere ed evitare che il corpo sottoposto all'atto lussurioso adeschi la coscienza, con un piacere molto eccitante, ad acconsentire al peccato. Dunque, affermano, ci si deve uccidere non a causa dell'altrui peccato ma del proprio prima di commetterlo. Ma la coscienza, la quale fosse più sottomessa a Dio e alla sua sapienza che al corpo e alla sua concupiscenza, non giungerà al punto da acconsentire alla passione della propria carne accesa dalla passione altrui. Tuttavia se è azione detestabile e delitto abominevole anche uccidersi, come dichiara l'evidente verità, non si può essere tanto insensati da dire: "Pecchiamo adesso per non peccare eventualmente dopo; adesso commettiamo un omicidio per non cadere dopo eventualmente in adulterio". E se la disonestà è determinante al punto che non si scelga l'integrità ma il peccato, non è preferibile un adulterio incerto del futuro che un omicidio certo del presente? Non è preferibile commettere una colpa che si espia col pentimento, anziché un delitto così grande, dopo il quale non si lascia il tempo a un salutare pentimento? Ho detto queste cose per quelli o quelle che per evitare non l'altrui ma un proprio peccato e non consentire eventualmente alla propria passione provocata dall'altrui passione reputano di doversi infliggere una violenza tale da morirne. Del resto non avvenga nella coscienza del cristiano che confida nel suo Dio e, posta la fiducia in lui, è sicuro nel suo aiuto, non avvenga, dico, che tale coscienza per qualsiasi diletto carnale ceda all'accettazione dell'atto disonesto. La passione ribelle che sussiste ancora in un corpo moribondo ha il suo movimento quasi per una propria legge indipendentemente dalla legge del nostro volere. A più forte ragione dunque è senza colpa nel corpo di chi non consente, se senza colpa può essere nel corpo di chi dorme.

Violenza e obbedienza a Dio e alle leggi.
26. Ma, dicono, alcune sante donne nel tempo della persecuzione, per sfuggire a coloro che insidiavano la loro pudicizia si sono gettate nel fiume che travolgendole le uccise, con quell'atto morirono e il loro martirio è ricordato con grande venerazione nella Chiesa cattolica. Non oso giudicare arbitrariamente questi fatti. Non so se un'autorità divina, sulla base di testimonianze degne di fede 81, ha indotto la Chiesa a onorare così la loro memoria. Può anche essere che sia così. E se l'hanno fatto non perché umanamente ingannate ma perché ispirate, non per errore, ma per obbedienza? Di Sansone, ad esempio, non è lecito credere diversamente. Dio comanda e fa conoscere il suo comando senza possibilità di equivoco. E allora chi potrebbe reputare reato l'obbedienza, chi potrebbe chiamare in causa l'ossequio della pietà? Ma non per questo non commette delitto chi abbia deciso di sacrificare a Dio il proprio figlio con la giustificazione che Abramo l'avrebbe fatto meritandosi perfino lode. Anche il soldato, quando obbedendo all'autorità sotto la quale è legittimamente costituito, uccide un individuo, non è reo di omicidio in base a qualche legge della sua città. Anzi se non lo facesse, è reo di insubordinazione e di disprezzo all'autorità. Che se lo fa di propria arbitraria autorità, incorrerebbe nel reato di spargimento di sangue umano. Dunque per lo stesso motivo per cui è punito se lo ha fatto senza comando, sarà punito se non lo farà dopo il comando. Che se è così per comando di un'autorità, a più forte ragione lo è per comando di Dio. Chi dunque sa che non è lecito uccidersi, lo faccia pure se lo ha comandato uno di cui non è lecito trasgredire il comando. Accerti soltanto che il comando divino non manchi di autenticità. Noi ci rapportiamo alla coscienza mediante la parola, non possiamo arrogarci il giudizio dei pensieri nascosti. Nessuno sa ciò che avviene nell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui 82. Ma diciamo, affermiamo e dichiariamo in tutti i sensi che non ci si deve infliggere la morte volontaria col pretesto di sfuggire le sofferenze nel tempo perché si incorrerebbe in quelle eterne, o a causa del peccato di un altro perché si commette un proprio gravissimo peccato mentre l'altrui non contaminava, o a causa dei propri peccati passati giacché proprio per essi si ha maggior bisogno di questa vita allo scopo di riscattarli con la penitenza, o col pretesto del desiderio di una vita migliore che si spera dopo la morte perché la vita migliore non accoglie dopo la morte i responsabili della propria morte.

Ineliminabile l'amore alla vita.
27. Avevo cominciato a parlare di un'altra ragione per cui si ritiene vantaggioso uccidersi, cioè per non cadere in peccato se il piacere lusinga o il dolore opprime. Se si dovesse accettare questa ragione, essa si applicherebbe al punto da dover consigliare gli individui di uccidersi preferibilmente quando, mondati col lavacro della santa rigenerazione, hanno ottenuto il perdono di tutti i peccati. Allora, quando sono stati rimessi tutti i peccati passati, è il momento di sfuggire a tutti i peccati futuri. E se questo vantaggio si ottiene onestamente con la morte volontaria, perché non si ottiene preferibilmente allora? Perché il battezzato si risparmia? Perché espone ancora la propria persona ormai libera a tutti i pericoli di questa vita? Sarebbe nel suo immediato potere col darsi la morte evitarli tutti, giacché è stato scritto: Chi ama il pericolo, cadrà in esso 83. Perché dunque si amano tanti e sì grandi pericoli o per lo meno, anche se non si amano, si accettano finché si rimane in questa vita, se è lecito andarsene? O forse una strana bizzarria sconvolge il cuore e lo allontana dal considerare la verità? Ci si dovrebbe uccidere per non cadere in peccato a causa del capriccio di un solo padrone e poi si decide che si deve vivere per sopportare il mondo pieno, a tutte le ore, di tentazioni, di quelle che si temono se si è in balia di un solo padrone e di altre innumerevoli, senza di cui questa vita non si tira avanti. Per qual motivo dunque perdiamo il tempo nei consigli con cui, parlando ai battezzati, procuriamo di infervorarli sia alla integrità verginale sia alla continenza vedovile sia alla fedeltà del vincolo coniugale 84, se abbiamo delle scorciatoie migliori e lontane da tutti i pericoli di peccare? Se potessimo convincere tutti costoro subito dopo la remissione dei peccati di affrontare la morte infliggendosela, li spediremmo più sani e puri al Signore. Ma se qualcuno pensa di tentare e persuadere simile cosa, non dico che è un insensato, ma un pazzo. Con quale faccia dice a un individuo: "Ammazzati per non aggiungere ai tuoi peccati leggeri uno più grave, giacché vivi sotto un padrone dissoluto per barbari costumi"? Con grande disonestà viene a dire proprio questo: "Ammazzati ora che ti son rimessi tutti i peccati per non commetterne altri eguali o anche peggiori, giacché vivi in un mondo dissoluto per tanti piaceri disonesti, forsennato per tante indicibili crudeltà, nemico per tanti errori e paure". Poiché è nefandezza dirlo, è certamente nefandezza uccidersi. Se infatti ci fosse una causa giusta per farlo deliberatamente, senza dubbio non ve ne sarebbe una più giusta. Ma poiché questa non lo è, non ve n'è alcuna.

La violenza subita è stimolo all'umanità...
28. 1. Quindi, o fedeli di Cristo, non sia di disgusto per voi la vostra vita perché la vostra castità è stata di ludibrio per i nemici. Avete un grande e vero conforto se conservate la coscienza tranquilla per non avere acconsentito al peccato di coloro, ai quali fu concesso di peccare contro di voi. E se eventualmente vi chiedete perché fu loro concesso, sublime è la provvidenza del creatore e ordinatore del mondo, i suoi giudizi non si possono conoscere e le sue vie non si possono scorgere 85. Interrogate tuttavia con sincerità la vostra anima se per caso vi siate insuperbite eccessivamente del bene della vostra integrità e continenza o pudicizia e, compiaciute delle lodi degli uomini, abbiate invidiato anche in questo bene le altre. Non imputo ciò che ignoro e non posso ascoltare ciò che il vostro cuore interrogato vi risponde. Tuttavia se vi rispondesse in quel senso, non vi meravigliate che abbiate perduto ciò per cui desideravate di piacere agli uomini e che vi sia rimasto ciò che non si può ostentare agli occhi degli uomini. Se non avete acconsentito a chi peccava con voi, alla grazia divina affinché non fosse perduta si è aggiunto l'aiuto divino, alla gloria umana perché non fosse amata è subentrato l'umano disonore. Consolatevi per l'uno e l'altro aspetto, o anime deboli, da una parte provate dall'altra castigate, da una parte trovate innocenti dall'altra colpevoli. Il cuore di altre invece, se interrogato, potrebbe rispondere che non si sono inorgoglite del bene della verginità o della vedovanza o della fedeltà coniugale, ma nella comprensione verso donne di più bassa condizione hanno esultato del dono di Dio nel timore 86, non hanno invidiato ad alcuna il prestigio di eguale santità e castità. Anzi non considerando la lode umana che di solito è accordata tanto più ampiamente quanto è più raro il bene che merita lode, hanno desiderato piuttosto che fosse maggiore il loro numero anziché distinguersi maggiormente in poche. Anche quelle che sono così, se la dissolutezza dei barbari ne ha violentata alcuna, sappiano spiegarsi come il fatto è stato permesso, non pensino che Dio trascuri queste cose perché permette ciò che non si commette senza colpa. Infatti certi pesi, per dir così, di malvagie passioni sono lasciati cadere per un attuale occulto giudizio divino e sono riservati a un giudizio ultimo palese. Forse costoro che sono consapevoli di non avere avuto il cuore superbo per il dono della castità e tuttavia hanno subito violenza carnale, avevano qualche debolezza nascosta che poteva levarsi in orgoglio se fossero sfuggite all'umiliazione durante l'occupazione. Come dunque alcuni sono stati tolti con la morte perché il male non corrompesse la loro intelligenza 87, così un qualche cosa è stato tolto ad esse con la violenza perché la buona sorte non corrompesse la loro moderazione. Dunque alle une e alle altre, a quelle che erano già orgogliose del proprio corpo perché non aveva subito contatto disonesto di uomo e a quelle che forse potevano insuperbire se neanche dalla violenza dei nemici fosse stato toccato, è stata inculcata l'umiltà, non tolta la castità. L'orgoglio delle prime è stato affrontato perché era dentro, a quello delle altre si è andato incontro perché stava per entrare.

...e alla riflessione.
28. 2. Inoltre non si deve passar sotto silenzio questa considerazione. Alcune delle donne violentate potevano ritenere che il bene della continenza è da annoverarsi fra i beni corporali, che rimane soltanto se il corpo non è contaminato da lussuria, che la santità del corpo e dello spirito non consiste nella forza della volontà aiutata da Dio e che non è un bene che si può togliere anche se lo spirito non vuole. In tal caso questo loro errore è forse scomparso. Quando riflettono infatti sulla coscienza con cui hanno prestato servizio a Dio e per fede incrollabile non pensano di lui che possa in alcun modo abbandonare coloro che prestano tale servizio e lo invocano e non possono dubitare in quale pregio egli tiene la castità, comprendono ciò che ne consegue. Egli infatti non avrebbe permesso che quei fatti accadessero ai suoi santi, se in quel modo poteva esser perduta la santità che ha dato loro e che ama in loro.

Dio e la sua città esule nella terrenità.
29. Dunque tutta la servitù del sommo e vero Dio ha il suo conforto non menzognero e non fondato sulla speranza di cose incerte o caduche; ha anche la stessa vita terrena che non si deve affatto avere in uggia perché in essa la servitù stessa è educata alla vita eterna. Come esule inoltre usa senza rendersene schiava dei beni terreni ed è o provata o purificata dai mali. Ma alcuni insultano la sua moralità e le dicono, quando eventualmente incorre in determinate sciagure temporali: Dov'è il tuo Dio? 88. Dicano loro piuttosto dove sono i loro dèi quando subiscono tali sventure giacché li onorano e si affaticano a farli onorare proprio per evitarle. Essa può rispondere: "Il mio Dio è presente in ogni luogo, tutto in ogni luogo, non limitato nello spazio perché può esser presente senza rivelarsi, assente senza muoversi. Quando mi sprona con le avversità, o soppesa i meriti o punisce i peccati e mi riserva una ricompensa eterna in cambio dei mali temporali religiosamente sopportati. Ma voi chi siete ché si debba parlar con voi per lo meno dei vostri dèi e tanto meno del mio Dio? Egli infatti è terribile su tutti gli dèi perché tutti gli dèi dei pagani sono demoni, il Signore invece ha creato i cieli 89".

I mali dell'eccessivo benessere e potere.
30. Se vivesse il celebre Scipione Nasica, già vostro pontefice, che sotto la paura della guerra punica il senato, giacché si richiedeva un'ottima persona, elesse all'unanimità per accogliere gli dèi della Frigia 90 e che voi non ardireste di guardare in faccia, egli vi frenerebbe da questa vostra sfrontatezza. Perché afflitti dalle avversità vi lamentate della civiltà cristiana? Soltanto perché volete mantenere la vostra dissolutezza e andare alla deriva con costumi pervertiti senza sentire l'asprezza delle difficoltà. Infatti non desiderate avere la pace e abbondare di ricchezze per usar rettamente di questi beni, cioè con moderazione, sobrietà, temperanza e religiosità ma per procurarvi una varietà illimitata di piaceri con sperperi pazzeschi e per far sorgere con la prosperità quei mali nel costume che sono peggiori della crudeltà dei nemici. Ma Scipione, vostro pontefice massimo, quella persona ottima per giudizio di tutto il senato, temendo per voi questa sventura, non voleva che fosse distrutta Cartagine, allora emula della dominazione romana, e si opponeva a Catone il quale sosteneva che doveva essere distrutta 91. Scipione temeva che la sicurezza fosse nemica di animi deboli e pensava che la paura è indispensabile come idoneo tutore di cittadini, per dir così, minorenni. E non s'ingannava. I fatti provarono che aveva ragione. Cartagine fu distrutta, cioè fu allontanata e dissolta la grande paura dello Stato romano. E immediatamente seguirono mali molto gravi originati dal benessere. Infatti fu gravemente lacerata la concordia dapprima a causa di crudeli e sanguinose sedizioni, e subito dopo, data la congiuntura d'infauste circostanze, a causa anche di guerre civili furono compiute grandi stragi, fu versato molto sangue e si accese una sfrenata crudeltà per la cupidigia di confische e rapine. Così quei Romani che a causa di una vita più morale temevano mali dai nemici, essendo venuta a mancare la moralità pubblica, ne dovettero subire più crudeli dai concittadini. E la passione del dominio, che fra i tanti vizi del genere umano si era manifestata più mite nell'intero popolo romano, avendo trionfato in pochi più potenti, domò col giogo della schiavitù anche gli altri dopo averli messi a terra senza più forze.

Volontà di potere e immoralità.
31. E come poteva quietarsi in animi tanto superbi finché con cariche perpetue non fosse giunta al potere monarchico? Ma non si darebbe l'accesso a cariche perpetue se l'ambizione non prevalesse. E l'ambizione può prevalere soltanto in un popolo corrotto dall'amore alle ricchezze e al piacere. E il popolo fu reso dall'eccessivo benessere amante delle ricchezze e del piacere. Per questo Nasica con molta saggezza riteneva che l'eccessivo benessere si dovesse evitare, giacché non voleva che la città nemica più grande, forte e ricca fosse distrutta. Così la passione era inibita dal timore, la passione inibita non portava all'amore del piacere e frenato l'amore al piacere, neanche l'amore alle ricchezze infierisse. Con l'impedir questi vizi sarebbe nata e cresciuta una virtù vantaggiosa per lo Stato e sarebbe rimasta la libertà corrispondente a quella virtù. Da questo fatto anche e da un prudente amor di patria derivò che il sopra ricordato vostro sommo pontefice, eletto, è opportuno ripeterlo, dal senato di quel tempo con votazione unanime alla più alta carica, trattenne il senato, che aveva deciso di costruire la gradinata del teatro, da questo provvedimento e dalla speculazione. Con autorevole discorso li indusse a non tollerare che la depravazione greca s'insinuasse nella virile moralità della patria e si consentisse alla frivolezza straniera di scuotere e svigorire il valore romano. Ebbe tanta influenza con la sua autorità che il consiglio senatoriale, mosso dalle sue parole, proibì perfino che in seguito si disponessero i sedili che, ammucchiati per l'occasione, la cittadinanza aveva già cominciato ad usare per lo spettacolo 92. Con quale ardore egli avrebbe eliminato da Roma perfino le rappresentazioni teatrali, se avesse ardito resistere all'autorità di quelli che riconosceva come dèi, di cui non pensava che fossero demoni malefici o, se lo pensava, riteneva che si dovessero piuttosto placare che disprezzare. Infatti non era stata ancora rivelata ai pagani l'altissima dottrina che purificando il cuore con la fede volgesse l'umano sentimento mediante la pietà terrena a raggiungere le cose celesti e anche sopracelesti e lo liberasse dal dominio di demoni superbi.

Gli dèi vogliono gli spettacoli.
32. Comunque sappiate voi che non lo sapete e riflettete voi che fingete di non sapere e mormorate contro il liberatore da tali padroni. Le rappresentazioni teatrali, gli spettacoli immorali e la frivola licenza sono stati istituiti a Roma non dai vizi degli uomini ma per comando dei vostri dèi. Sarebbe più tollerabile se tributaste onori divini a Scipione che venerare simili dèi. Essi non erano migliori del proprio pontefice. Ed ora, se la vostra intelligenza ubriaca di errori per tanto tempo tracannati vi consente di pensare qualche cosa di sobrio, riflettete. Gli dèi, per sedare il contagio fisico, ordinavano che fossero loro apprestate delle rappresentazioni teatrali 93; il vostro pontefice, per evitare il contagio spirituale, proibiva che fosse costruito il teatro stesso. Se per un residuo di luce mentale ritenete lo spirito superiore al corpo, scegliete chi dovreste venerare. E il contagio non cessò perché in un popolo dedito alla guerra e abituato soltanto agli spettacoli del circo si insinuò la raffinata pazzia degli spettacoli del teatro, ma l'astuzia degli spiriti innominabili, prevedendo che il contagio sarebbe cessato a tempo dovuto, si preoccupò, approfittando della circostanza, di cagionarne non nei corpi ma nei costumi uno molto più grave, di cui particolarmente si compiace. Esso ha accecato la coscienza dei poveretti con tenebre tanto grandi e li ha bruttati di tanto obbrobrio che anche adesso (e forse sarà incredibile se si saprà dai posteri), dopo il saccheggio di Roma, coloro che furono posseduti da tale contagio e poterono fuggendo di lì arrivare a Cartagine, tutti i giorni hanno gareggiato nel far tifo per gli attori nei teatri.

La sventura non corregge i Romani.
33. O menti prive di mente! Questo è non un errore ma una grande pazzia. Mentre, come abbiamo saputo, i popoli di Oriente piangevano la vostra rovina e grandissime città nei più lontani paesi facevano pubblico lutto di compianto, voi cercavate, entravate e riempivate i teatri e facevate cose molto più insensate di prima. Il vostro grande Scipione temeva per voi proprio questo ignominioso contagio delle coscienze, questa rovina della moralità e dell'onestà, quando proibiva la costruzione dei teatri, quando si accorgeva che potevate facilmente essere rovinati dalla prosperità, quando non voleva che foste sicuri dalla paura del nemico. Pensava che non fosse prospero quello Stato in cui le mura rimangono, i costumi crollano. Ma su di voi hanno avuto più influsso ciò che gli empi demoni hanno insinuato di quel che gli individui saggi hanno auspicato. Da ciò dipende che non volete essere incolpati dei mali da voi commessi e incolpate la civiltà cristiana dei mali che subite. Nel vostro benessere voi non cercate lo Stato in pace ma la dissolutezza senza punizione, giacché corrotti nella prosperità non siete riusciti a correggervi nell'avversità. Voleva il grande Scipione che foste impauriti dal nemico perché non vi perdeste nella dissolutezza ma voi, calpestati dal nemico, non avete represso la dissolutezza, avete perduto l'utilità della sventura, siete diventati estremamente infelici e siete rimasti pessimi.

Scampo inusitato nella strage.
34. Tuttavia è dono di Dio che siate ancora in vita. Egli vi ammonisce col perdonarvi affinché vi correggiate col pentirvi e vi ha concesso anche, sebbene ingrati, di sfuggire alle schiere nemiche o perché ritenuti suoi servi o perché rifugiati nelle chiese dei suoi martiri. Si tramanda che Romolo e Remo avessero stabilito un luogo inviolabile. Chi vi si rifugiava era ritenuto immune da reato 94. Cercavano così di aumentare il numero degli abitanti della città da costruire. Fu anticipato un esempio meraviglioso in onore del Cristo. I saccheggiatori di Roma hanno deciso la stessa cosa che avevano deciso prima i suoi fondatori. E che c'è di straordinario se i fondatori per accrescere il piccolo numero dei propri concittadini fecero ciò che hanno fatto i saccheggiatori per conservare il gran numero dei propri nemici?

Commischianza delle due città.
35. La redenta famiglia di Cristo Signore e l'esule città di Cristo Re adduca contro i propri nemici questi argomenti e, se lo potrà, altri in maggior numero e più convenienti. Ricordi però che anche fra i nemici sono nascosti dei futuri concittadini. Non ritenga anche con loro che sia privo di risultato il fatto che, prima di giungere a loro come compagni nella fede, li deve sopportare come avversari. Allo stesso modo sono del loro numero coloro che la città di Dio accoglie in sé, finché è esule in questo mondo, perché uniti nella partecipazione ai sacramenti ma che non saranno con lei nell'eterna eredità dei santi. Di essi alcuni sono celati, altri manifesti. E questi ultimi non si fanno scrupolo di mormorare assieme ai nemici contro Dio, di cui hanno in fronte il sacramento, riempiendo ora i teatri con loro, ora le chiese con noi. Però si deve molto meno disperare della correzione di alcuni, anche se agiscono così, se individui predestinati ad essere amici si celano, ancora sconosciuti a se stessi, fra i nostri avversari più palesi. Infatti le due città non sono riconoscibili in questo fluire dei tempi e sono fra di loro commischiate, fino a che non siano separate dall'ultimo giudizio. Sul loro inizio, svolgimento e fini convenienti tratterò con l'aiuto di Dio ciò che ritengo opportuno per la gloria della città di Dio che splenderà più chiaramente nel contrasto con i caratteri dell'altra.

Progetto della prima e seconda parte dell'opera.
36. Ma devo dire ancora qualche cosa in risposta a coloro che attribuiscono le disfatte dello Stato romano alla nostra religione perché è stato proibito il culto pubblico ai loro dèi. Devo citare le molte e gravi sventure che verranno in mente o che sembreranno sufficienti, capitate alla città e alle province appartenenti al suo impero prima che il loro culto fosse proibito. Le addosserebbero tutte a noi se anche ad esse fosse giunta la nostra religione e impedisse loro allo stesso modo un culto sacrilego. Devo poi dimostrare quali loro istituzioni e per qual motivo Dio si è degnato favorire per accrescere il loro dominio, giacché tutti i regni sono in suo potere; inoltre che quelli che considerano dèi non li hanno aiutati affatto, anzi danneggiati con l'inganno e l'errore. Infine si parlerà contro coloro che, quantunque confutati e convenuti con argomenti convincenti, si affannano a dimostrare che gli dèi non si devono onorare per il benessere della vita presente ma per quello che verrà dopo la morte. E questo, salvo errore, sarà un argomento più faticoso e degno di una più sottile discussione. In essa appunto si argomenterà contro filosofi, non di qualunque risma, ma che presso i Romani sono illustri per altissima fama e la pensano come noi in molte cose relative all'immortalità dell'anima, alla dottrina che Dio ha creato il mondo e alla provvidenza con cui ordina il mondo che ha creato. Ma poiché anche essi si devono ribattere nelle teorie in cui non la pensano come noi, non devo mancare a questo dovere. Dimostrate, cioè, false le obiezioni dei pagani, secondo le forze che Dio mi darà, difenderò la città di Dio, la vera religione e il culto di Dio, perché in lui solo è riposta veramente la felicità eterna. Questa dunque è la fine del primo volume. Riprenderò all'inizio del secondo libro gli argomenti predisposti per il seguito.


Conversazioni tra un avvocato ed un curato di campagna sul sacramento della confessione

San Giovanni Bosco - San Giovanni Bosco

Leggilo nella Biblioteca

Scopo di queste conversazioni.

 

            Non c'è alcun dubbio che nei calamitosi tempi in cui viviamo la fede sia accanitamente combattuta. Riescon però vani gli sforai dei nemici se prima essi non cercano di allontanare i cattolici dal Sacramento della Confessione. Ecco il motivo per cui essi volgono tutte le loro armi contro a questa pratica salutare. Il Cattolico allontanato dalla Confessione e abbandonato a se medesimo cammina da abisso in abisso, e qual debole pianta senza riparo, esposta alla gagliardìa dei venti, giunge ai più deplorabili eccessi. - Per distruggere dalle fondamenta l'idea della Confessione i protestanti stampano e gettano di continuo in faccia ai cattolici, che la Confessione non è stata instituita da Dio, epperciò doversi riprovare. {III [147]}

            Noi perciò, non colla calunnia, non con ciance, o colla mala fede, che sono le armi ordinarie dei nostri nemici, ma col Vangelo e colla Storia alla mano proveremo fino all'evidenza che il bisogno della Confessione fu riconosciuto dagli stessi gentili; per ordine di Dio fu praticato dal popolo Ebreo; e che tal pratica venne dal Salvatore elevata alla dignità di Sacramento, e stabilita qual mezzo utile ad ogni cristiano e assolutamente necessario a tutti quelli che hanno peccato mortalmente dopo il Battesimo.

            I protestanti vanno ripetendo che nei primi tempi della Chiesa non si è mai parlato di Confessione, perciò noi sempre colla storia alla mano faremo loro vedere, se pur non vogliono chiudere gli occhi, che la Confessione fu costantemente praticata nella Chiesa Cattolica da Gesù Cristo fino ai nostri giorni.

            Per quanto fu possibile mi sono astenuto dal nominare gli autori e le empietà contenute negli scritti dei nemici {IV [148]} della Confessione, e ciò feci per due motivi; per non cagionare troppo grave afflizione ai buoni Cattolici, che non possono a meno di essere profondamente addolorati nel vedere profanate le cose più venerande di nostra Religione; ed anche per non eccitare la curiosità di leggere i libri perversi che contengono tali errori e tali sconcezze.

            Mi sono limitato a rendere chiara la dottrina della Chiesa Cattolica intorno all'instituzione della Confessione, mostrando la verità, e combattendo l'errore senza quasi nemmen nominarlo. Mi pare però di aver con certezza risposto a quanto si dice e si scrive contro alla Confessione.

            Intanto profondamente afflitto pei mali che si vanno ogni giorno moltiplicando contro alla religione Cattolica, io raccomando ai Cattolici coraggio e fermezza.

            Sì, Cattolici, coraggio: teniamoci strettamente uniti a quella religione che fu stabilita da Gesù Cristo, che ha per capo visibile il Romano Pontefice suo Vicario in terra; che in mezzo alle {V [149]} vicende dei secoli fu sempre combattuta, ma che ha sempre trionfato.

            Questa religione di Gesù Cristo trovasi solamente nella Chiesa cattolica; niuno è cattolico senza il Papa; guai a chi separasi da questo capo supremo! egli è fuori di quella religione, che unica può condurre a salvamento: chi non ha la Chiesa per madre non può avere Iddio per padre.

            Sia dunque tra noi la medesima fede, la medesima legge, i medesimi Sacramenti, la medesima carità in vita e in morte. Ma soprattutto sappiamo approfittare del Sacramento della Penitenza come di un gran mezzo instituito da Gesù Cristo per comunicare alle anime nostre i meriti della sua passione e morte; per rompere le catene, con cui lo spirito maligno tiene incatenate le anime nostre; per chiuderci l'inferno ed aprirci le porte del cielo. Così sia. {VI [150]}

 

 

Conversazione I. Festino di campagna.

 

            In un paese non molto distante da Torino si radunarono alcuni amici in una casa di campagna per dividere la quaresima dal tempo pasquale con un festino. Fatti alquanto allegri dal vino e dalle pietanze, ciascuno studia vasi di ricreare la brigata con qualche novità, e secondo la smania di oggidì, dopo aver agitate alcuno questioni di politica, si portò il discorso sopra cose di religione.

            Tacete, disse un di loro ridendo, tacete, non toccate la religione, perchè siamo a Pasqua, ed il nostro Curato domenica ha già dato avviso di andarci a confessare. - Lasceremo andare le nostre mogli, disse un altro sempre in tuono di burla, ci andranno anche i nostri ragazzi, ma nè io, nè voi certamente non badiamo a tali minchionerie. {VII [151]}

            Continuando tal discorso e voltando la facezia in disprezzo già cominciavano a proferirsi madornali spropositi. Le donne ed i giovanetti, che colà si trovavano, abbassarono il capo e con dispettoso silenzio disapprovavano bensì quei discorsi, ma non erano in grado di dare una conveniente risposta ai novelli teologi, anzi temevano di far loro dire maggiori spropositi se avessero parlato. Pietro, padrone di casa, fremeva di dispetto per tali discorsi. Egli aveva letto e studiato quanto è necessario ad un cristiano; accudiva i suoi affari, amava tutti e da tutti era amato. Sua prima cura era di educare la sua famiglia nel timore di Dio. Non sentivasi però abbastanza istrutto per ribattere le storditezze che si andavano profferendo. Quando poi si accorse che le burle terminavano in aperte bestialità, e che il suo silenzio sarebbesi potuto interpretare come un'approvazione di quei discorsi, interrompendo le risa e gli schiamazzi prese a parlare così:

            Ascoltate, amici; a noi, che pretendiamo di saperne più degli altri, spesso avviene di burlarci di cose, di cui ignoriamo ben anche l'abbici. Mi è più volte accaduto di sentire uomini, i quali non mettono mai piede in chiesa, che non hanno inteso a parlare di Dio se non alle bettole ed ai caffè, i quali {8 [152]} non sanno che spergiurare e fumare sigari, e dire, come dite voi, che la confessione è una minchioneria. Ditemi pertanto: avete voi attentamente esaminato e studiato che cosa sia la confessione?

            No, rispose uno a nome della brigata, noi siamo occupati in cose assai diverse, ma ciò sentiamo a ripetere da tutto il mondo.

            Ma io credo, ripigliò Pietro, che quel vostro tutto il mondo si riduca a pochi, e che siano forse coloro i quali temono la confessione come i ladri le lanterne, al cui splendore possono essere conosciuti.

            Vorrei che qui ci fosse il nostro Curato, e vedreste come risponderebbe a quanto voi dite. Io voglio solo raccontarvi ciò che avvenne a me alcuni anni addietro. Ascoltate: il fatto è curioso.

            Eravamo ai primi giorni di aprile, quando appunto la campagna cominciava a comparire fiorita e verdeggiante. Mia moglie andava ogni giorno ripetendo: il Curato domenica scorsa ha detto: bisogna confessarsi almeno una volta all'anno, e comunicarsi alla Pasqua di Risurreiione. Molti avevano già compiuto tal dovere pasquale; ma un buon numero non aveva ancora risposto alla voce del Curato.

            Siccome facevano molti altri, anch'io {9 [153]} mandai a confessarsi mia moglie, i miei ragazzi e le persone di servizio; ed io non ci andava. Io li avrei aspramente sgridati se avessero mancato a tal cosa, mentre io non avrei voluto fare un passo per seguirli. Follia e contraddizione quando ci penso! perciocché se la confessione era buona per quelli, era eziandio buona per me. Se la giudicava una minchioneria per me, perchè obbligare gli altri?

            Il buon Curato osservando che il numero di quelli che avevano adempiuto al dovere pasquale era assai minore del numero dei parrocchiani, deliberò di andar egli stesso in cerca delle pecore che non volevano fare ritorno all'ovile.

            Voglio qui notarvi che io amava molto questo Curato. La sua affabilità, la sua dolcezza incantavano. Le sue visite erano buone per me ed oltreché io riputava ad onore l'essere da lui visitato, egli lasciava sempre in casa mia utili avvisi e lo spirito pacificante del buon pastore. Perciò era un piacere per tutta la famiglia quando eravamo da lui visitati. Ascoltate ora il ragionamento fatto meco un giorno, che è quello appunto che m'indusse a confessarmi.

            Zitto, dice uno dei convitati, là ci è un prete; chi sa che non sia il vostro Curato. {10 [154]} Sarei molto contento, vorrei farlo disputare ben bene e divertirmi a sue spese. - Io vorrei fare di più, disse tutto ansante un avvocato di nome Andrea, vorrei ...

            Pietro. Tacete, è veramente desso. Vedete: si avanza recitando il breviario, e viene a farci visita. Vi raccomando di non usargli alcuna sgarbatezza, mostriamoci ben educati, e facciamo vedere che sappiamo rispettare in lui il ministro della religione. Mentre il Curato fa carezze ad alcuni ragazzi che si trastullavano nell'aja, i convitati aprono la porta della sala e lo invitano ad entrare.

 

 

II. La confessione è necessaria.

 

            Curato. Buon giorno, caro Pietro, mi sembra che abbiate fatto un festino ai vostri amici, non è vero? Salute a tutti.

            Pietro. Ben venuto, sig. Curato, abbiamo separato la Pasqua dalla Quaresima.

            Andrea. Abbiamo fatto Pasqua.

            C. Volete dire che faceste Pasqua questa mattina, e quest'oggi avete fatto un testino. Benissimo, benissimo: è questo il vero modo di stare allegri: aggiustare le {11 [155]} cose dell'anima, poi un festino; un pranzo tra amici è cosa tutta lodevole. Tuttavia ... basta, non voglio interrompere la vostra conversazione.

            A. Parlate pure, sig. Curato, la nostra conversazione tra tutta rivolta a voi, continuate quel vostro tuttavia.

            C. Se gradite che io mi trattenga alquanto a discorrere con voi, il fo di buon grado, e vi dico che sono assai contento della maggior parte de' miei parrocchiani, che si danno premura di adempire il loro dovere pasquale accostandosi al sacramento della Confessione e della Communione; tuttavia io sono desolalo di vederne parecchi indifferenti ad un così grave dovere di religione.

            P. Parlavamo appunto di Pasqua e di confessione, sig. Curato, e siete proprio venuto a tempo: il nostro amico Andrea, sebbene non sia tanto cattivo, nulladimeno perchè ha studiato da avvocato, e perchè vive in città, getta giù tali spropositi, che mi sbalordisce, e godo che siate giunto in questo momento, perchè voi certamente sarete in grado di soddisfarlo.

            C. Che uomini senza costumi, senza probità, senza fede parlino male di religione e specialmente di confessione, non mi stupisco, {12 [156]} perchè la confessione per costoro è un amaro rimprovero che loro cagiona vivi rimorsi nelle colpevoli loro azioni. Che poi si parli male di religione tra voi padri di famiglia, uomini di senno ed onesti, stento a persuadermelo. Se poi volete che io vi parli schiettamente, vi dirò, che ho appunto voluto scegliere questo momento per farvi una visita, perchè so alcuni di voi darsi poca cura di adempire l'obbligo pasquale. Miei cari amici, lasciatemi parlare con voce di padre; perchè trasgredite questo dovere? perchè non andate a confessarvi almeno una volta all'anno e comunicarvi alla Pasqua di risurrezione secondo il precetto di Santa Madre Chiesa?

            P. Andrea, adesso è tempo di fare le vostre difficoltà; su parlate.

            A. Sig. Curato, la franchezza della vostra dimanda scuserà la franchezza della mia risposta. Voi dimandate perchè taluno di noi non vada a confessarsi, ed io vi dico che sono appunto uno di quei tali. Tempo fa era anch'io assiduo alla confessione. Da qualche tempo non ci vado più; non perchè io non creda nulla a queste cose, perciocché son nato cattolico e voglio essere cattolico. Ma nel leggere, nel conversare, nel vedere ... mi son nati tanti dubbi, che {13 [157]} mi sono determinato a non voler più sapere di confessione. Difatti perchè io debbo andarmi a confessare? io penso di essere uomo onesto; mi farei gravissimo scrupolo di prendere la minima cosa altrui; io vivo in pace colla moglie, mi do cura di allevare bene i miei ragazzi. A che andarmi a confessare? A che andare a raccontare le mie minchionerie ad un uomo? È Dio, non l'uomo, che perdona i peccati. Tanto più che mi si dice la confessione essere stata inventata dai preti. Io non mi spiegherei così chiaramente con altre persone; ma io spero che voi non vi mostrerete offeso per questo mio parlare, e che non cesserete di amarmi, poiché io stimo molto la vostra amicizia.

            C. Mio caro Andrea, voi mettete in campo molte questioni in una volta. Parmi che esse possano ridursi a questi due punti. Io non ho bisogno di confessarmi perchè io sono un uomo onesto. Non occorre che io mi confessi perchè la confessione è una invenzione dei preti.

            Tale mi sembra in compendio la vostra asserzione. In essa io riscontro alcune contraddizioni; ma per ora passiamoci sopra; ritornerò su questo punto. Pel momento io comincio a dimandarvi, se avete fatto {14 [158]} riflessione a tutto ciò che avete detto. Vi siete deciso di non più confessarvi dopo matura e seria deliberazione?

            A. Senza dubbio ci ho pensato molto. Io non sono nè il solo, nè il primo a parlare così. Ogni giorno in città sento uomini assai più dotti di me a dire lo stesso. Anche il notaio ed il farmacista del nostro paese dicono e pensano così.

            C. Cioè voi avete ripetuto ciò che hanno ripetuto gli altri. E costoro non sono ancora che gente, la quale per lo più impara la scienza della Religione ai passatempi ed ai caffè. Ma ritorniamo a noi. Voi dite, che essendo un uomo onesto non vi fa mestieri la confessione. Or bene rispondete con uguale franchezza a quanto sono per dimandarvi.

            A. Vi dirò il mio sentimento con tutta libertà.

            C. Credete voi che l'uomo si renda colpevole agli occhi di Dio solamente facendo torto al prossimo, commettendo adulterii, dimostrandosi crudele verso i poveri?

            A. Perchè mi fate tale dimanda?

            C. Perchè essere un uomo onesto presso il mondo si riduce a non ammazzare, a non ingannare, a non rubare, a non rifiutare {15 [159]} un servigio al prossimo quando egli trovisi in bisogno.

            A. Ciò appunto vuol dire essere un uomo onesto.

            C. Dio proibisce di bestemmiare?

            A. Sì certamente.

            C. È male lasciarsi dominare dalla collera, dalla superbia, parlar male del prossimo, desiderare cose cattive, divertirsi a pronunziare parole o discorsi disonesti, ubbriacarsi ...

            A. Ah! niuno dubita che queste cose siano male.

            C. Ora ditemi: l'uomo onesto può forse bestemmiare, può parlar male del prossimo, abbandonarsi alla collera, desiderare cose cattive, ed ubbriacarsi? Ciò dovrebbe esser permesso ad un uomo onesto perchè non fa torto ad alcuno. Inoltre forse che non è male burlarsi di Dio e dell'onore a lui dovuto, non amarlo, non pregarlo, sprezzare i comandamenti che la Chiesa ci fa in suo nome; di non santificare le Feste, di non assistere ai divini uffizi, di non astenersi dalle carni ne' giorni proibiti?

            A. Ciò è vero: ma io vedo dove voi volete prendermi.

            C. Ciò posto non fa neppur male ad alcuno, {16 [160]} nel modo che intendete voi, quando anche faccia tutte le cose che vi ho accennato. Laonde si può disubbidire ai comandamenti di Dio e della Chiesa ed essere tuttavia uomini onesti secondo il mondo. Ma voi certamente convenite con me che per andare al cielo bisogna osservare tutti i comandamenti di Dio e della Chiesa. Ce ne sono dieci di Dio, cinque della Chiesa; quando anche noi osservassimo tutti gli altri, e poi mancassimo all'osservanza di uno di essi; ciò basta perchè siamo eternamente dannati. Ora l'uomo che voi dite onesto non ne adempie che due o tre, riguardanti ai doveri che abbiamo verso del prossimo. Voi ben vedete che nella trasgressione degli altri c'è abbondante materia perchè uno vada eternamente perduto. Di più la Messa, e la preghiera, e la Pasqua, e la castità dei pensieri, delle parole e l'osservanza della quaresima, e delle vigilie, il rispetto per la religione, il perdono delle ingiurie son forse cose da contar per niente? Tutti questi mancamenti non recano danno ad alcuno, come voi dite. Error grande. Queste cose recano danno a voi; e non è meno probito il recar danno a sè, di quel che {17 [161]} sia il recar danno agli altri. Per tanto comunque uno sia onest'uomo, egli ha bisogno di ottenere il perdono di certi peccati e per conseguenza di confessione.

            A. Vi assicuro, signor Curato, che non ho mai badato a queste cose: non ne faceva alcun conto.

            C. Pure le cose accennate sono peccati concontrari ai comandamenti di Dio. Non dite più adunque; io sono uomo onesto, a che andarmi a confessare? Noi siamo tutti peccatori chi più, chi meno, e credo che lo sia più degli altri colui, che pretende essere irreprensibile dinanzi a Dio. I santi non avevano così buona opinione di loro medesimi, e si sono salvati mediante la confessione.Credete, caro Andrea, l'inferno è pieno di gente che avendo nulla a rimproverarsi, non andava a confessarsi. Il fariseo di cui parla il Vangelo, non era egli un uomo onesto?

            A. Mi pare di sì.

            C. Secondo voi certamente. Perciocché egli pagava le decime, digiunava due volte per settimana; egli si vantava di non essere simile al pubblicano, ladro, peccatore. Ma che ne avvenne? l'umile pubblicano ritornò a casa giustificato, e il fariseo partì dal tempio riprovato. {18 [162]}

            A. Così io mi guarderò ben bene dal rassomigliargli; riconoscendomi peccatore farò in maniera di correggermi, e ne dimanderò perdono a Dio.

            C. Ma se Iddio avesse stabilito di non perdonare i vostri peccati senza che voi li confessiate?

            A. Allora mi arrenderei e direi: bisogna confessarmi.

            C. Eccoci già in una parte d'accordo. Cioè che l'uomo onesto non è irreprensibile in tutta la sua condotta. La seconda parte della questione si riduce a questo punto: Iddio ha egli posto la condizione di confessarsi al perdono dei peccati sì o no? Se io proverò questo sì, la vostra storia della confessione inventata dai preti resta un calcolo ridicolo. Ed anche in ciò io sono in grado di appagarvi. Ma non vorrei trattenervi chiusi troppo a lungo dopo il pranzo; perciò mi sembra bene che andiate a ricrearvi alquanto con una partita alle boccie. Intanto io reciterò una parte del mio breviario, quindi, se così vi piace, continueremo le nostre conversazioni.

            Tutti i Commensali. Va bene, signor Curato; ma non andate via, perchè adesso siamo giunti alla parte più importante della questione, e siamo ansiosi di vederne la fine. {19 [163]}

 

 

III. Instituzione divina della confessione.

 

            Il buon Curato si ritirò in un giardino per recitare il breviario passeggiando. Ma la brigata aveva la testa riscaldata dalla disputa, e in luogo di andar a fare la partita, si radunò nell'aja intorno a Pietro dicendogli: è presto detto che la confessione sia stata instituita da Dio; ma come possiamo noi sapere, e saper con certezza che Dio abbia instituito la confessione? Pietro allora diede un'occhiata per vedere se il Curato ormai veniva, poi secondo il suo buon senso prese a parlare così: Voi dimandate, come sappiamo che Dio abbia istituita la confessione? Ed io chiedoavoi: come sapete che non l'abbia istituita? qual ragione mi date voi? Nissuna, se non quella che la confessione vi spiace. In tempo di mia giovinezza, quando era soldato, ho udito a raccontare che un generale si faceva condurre innanzi i soldati imputati di qualche mancamento, e se scorgeva nel loro volto qualche cosa che gli spiacesse: fucilateli sull'istante, diceva, di poi giudicheremo la loro colpa. Egli allora aveva timore di trovarli {20 [164]} innocenti. Riguardo alla confessione noi siamo un poco somiglianti a questo capitano. Noi la fuciliamo, la aboliamo, riserbandoci appresso a dare una piccola forma di giudizio e di riflessione alla condanna ingiusta e precipitata.

            Que' discorsi divenivano ognor più riscaldati e la voce piuttosto elevata. La qualcosa fece correre colà molta gente del vicinato, e tra gli altri un uomo ricco e rispettabile chiamato Germano. Costui, dopo di aver coperto onorevoli impieghi, e di essersi dato alle sregolatezze della vita mondana, aveva abbandonato le cure del mondo per viver pacificamente in una casa di campagna vicino a quella di Pietro.

            Instrutto e giudicioso qual era non tardò a provare in se medesimo il gran vuoto che lascia nel cuore umano la mancanza di religione. Ricondotto alla fede dalle sue considerazioni, e da' suoi studi aiutati dalla divina grazia, egli si dimostrò d'allora in poi cristiano e cattolico sincero. Amava molto di trattenersi coi contadini e con altre persone del volgo, raccontando loro le sue vicende passate, e dando sempre utili e buoni consigli. Informato della quistione che si andava agitando, e pregato di dire il suo parere, {21 [165]} prese a dire così: Il nostro signor Curato ha ragione di assicurarvi che non basta essere onest'uomo secondo il mondo, per non aver cosa da rimproverarsi dinanzi a Dio. L'uomo può egualmente dannarsi per l'orgoglio e per la lussuria, per l'incredulità e per l'indifferenza in materia di religione, come si può dannare per furto. Ha eziandio ragione il Curato nell'asserire che la confessione è il mezzo ordinario stabilito da Dio per ottenere il perdono a quelli che l'offendono, fossero essi anche i più galantuomini del mondo. Ragionate, disputate finché volete; se Dio ha stabilita la confessione, se egli non concede perdono senza di essa, tutti i vostri discorsi valgono niente. Non è forse egli padrone di mettere le condizioni, che vuole, a quelli che ricorrono alla sua clemenza?

            C. Benissimo, signor Germano, disse il Curato, che già aveva terminato il suo breviario, voi parlate veramente da uomo assennato. Se Iddio è padrone di tutto, certamente, se il vuole, può comandare la confessione. Tutta la questione adunque si riduce a questo: LA CONFESSIONE È STATA STABILITA DA DIO?

            A. Questa è la cosa che noi desideriamo di conoscere. {22 [166]}

            C. Fate solamente attenzione a ciò che sono per dirvi, e ne sarete certamente convinti. Ma parliamo da amici, con calma, e con rispetto: quando non comprenderete qualche cosa, ditemela, e farò in maniera di spiegarvela. Ditemi adunque: Credete voi al Vangelo?

            A. Senza dubbio; perchè se non crediamo al Vangelo non possiamo essere cristiani.

            C. Credete che G. C. avesse la facoltà di rimettere i peccati?

            A. Anche in ciò non havvi alcun dubbio; perchè G. C. come Dio poteva, anzi era il solo che potesse perdonare i peccati, siccome leggiamo aver più volte fatto nel Vangelo.

            C. Credete eziandio che G. C. abbia dato tale facoltà agli Apostoli?

            A. Quivi sta la difficoltà. Fatemi vedere che G. C. abbia dato agli Apostoli la facoltà di rimettere i peccati, e tutte le difficoltà sono sciolte.

            C. Questo appunto voglio farvi vedere. Apriamo il Vangelo di S. Matteo e nel capo 28 troveremo che G. C. tenne questo discorso a' suoi apostoli: «A me è» dato ogni potere in cielo ed in terra;» andate dunque, ammaestrate e battezzate» tutte le genti nel nome del Padre» {23 [167]} del Figliuolo e dello Spirito Santo, insegnando» loro di osservare tutte ciò» che vi ho comandato.»

            A. Queste parole dimostrano che G. C. aveva ogni potere in cielo ed in terra, e che egli mandava i suoi Apostoli a predicare il Vangelo in tutto il mondo: ma non veggo che abbia conferito questo suo potere agli Apostoli.

            C. Gesù C., siccome è scritto nel Vangelo di S. Matteo, dice che a lui è dato ogni potere in cielo ed in terra: altrove poi dice (Joan. 20), come questo gran potere l'abbia compartito agli Apostoli: Come il Padre mandò me, egli dice agli Apostoli, così io mando voi, vale a dire; come il padre celeste mandò il suo Figlio Unigenito a salvare gli uomini conferendogli ogni potere in cielo ed in terra; così il Salvatore mandò gli Apostoli, e i loro successori a predicare il Vangelo conferendo loro un assoluto e pieno potere sopra tutte quelle cose che avrebbero potuto contribuire alla salvezza delle anime. Ora un gran potere esercitato in terra da G. C. essendo quello di perdonare i peccati; ne deriva che gli Apostoli nella pienezza delle facoltà compartite dal Salvatore ebbero eziandio {24 [168]} quella di rimettere ì peccati. Nè questo è il solo passo del Vangelo ove si parlì di questo pieno potere dato agli Apostoli. Nel medesimo Vangelo di San Matteo, al capo decimosesto, troviamo che G. C. dopo di aver costituito San Pietro capo della Chiesa gli soggiunse queste precise parole «Ti darò le chiavi del regno de' cieli, e tutto ciò che scioglierai in terra sarà sciolto pure in cielo, e tutto ciò che legherai in terra sarà pure legato in cielo.»

            Qui il Signore si servì della similitudine delle chiavi per significare il supremo potere che a lui conferiva e in cielo e in terra, potere assoluto e indipendente che Pietro poteva conferire agli Apostoli secondo il bisogno delle anime.

            A. Adagio, signor Curato, permettetemi un'osservazione. Mi pare che questo supremo potere sia stato dato a S. Pietro e non agli altri Apostoli.

            C. A S. Pietro come capo della Chiesa fu conferito in particolar maniera questo supremo potere, che certamente sarebbe imperfetto se S. Pietro nol potesse conferire agli altri, dicendo: Tutto ciò che tu legherai in terra sarà pure legato in cielo, e tutto ciò che scioglierai in terra sarà pure sciolto in cielo. Matt. 16. {25 [169]}

            G. C. Confermò questa sua medesima autorità a S. Pietro e a tutti gli Apostoli allorché disse: «in verità io vi dico che tutto ciò che legherete in terra sarà pure legato in cielo; e tutto ciò che scioglierete in terra sarà pure sciolto in cielo.» Matt. 18.

            Onde S. Pietro e per conseguenza i! Romano Pontefice, gli Apostoli e per conseguenza i vescovi ed i preti della vera Chiesa di G. C. hanno ricevuto il potere di sciogliere e di legare, perciò di rimettere e non rimettere i peccati.

            A. Bene: signor Curato, ciò comincia ad appagarmi; e mi piace tanto più perchè voi andate alla fonte e dite che Dio avendo dato ogni potere a' suoi Apostoli, diede anche quello di rimettere i peccati. Tuttavia non si può trovare nel Vangelo che il Salvatore abbia proprio conferito agli Apostoli la facoltà di rimettere i peccati.

            C. Quanto vi dissi finora rende manifesto il potere assoluto e illimitato che il Salvatore diede agli Apostoli, perciò anche quello di rimettere i peccati. La qual cosa deve bastare per renderci sicuri di questa verità. Però il divin Salvatore volle egli medesimo fare un'applicazione in particolare {26 [170]} di questo potere intorno alla remissione dei peccati. Ascoltate il fatto intiero siccome trovasi nel Vangelo (Joan. 20). «Dopo la sua risurrezione e prima di salire al cielo comparve il Salvatore dove si trovavano i Discepoli radunati a porte chiuse per timore de' Giudei. Stette in mezzo di loro e disse: pace a voi. E avendo ciò detto mostrò loro le mani ed il costato. Si rallegrarono i Discepoli alla vista del Signore. Frattanto disse loro di nuovo: pace a voi. Come il Padre mandò me, così io mando voi. Avendo dette queste parole soffiò sopra di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo: i peccati sono rimessi a quelli, a cui li rimetterete, e sono ritenuti a quelli, a cui li riterrete.» Io credo che non si possa desiderare un modo di parlare più chiaro, e più manifesto per indicare la facoltà data agli Apostoli da G. C. di rimettere e ritenere i peccati.

            A. Ho qui un libro, sig. Curato, che riferisce le medesime cose ma con una spiegazione alquanto diversa. Dice che per discepoli qui s'intendono tutti i fedeli cristiani, di modo che tale facoltà competerebbe non solo agli Apostoli, ma a tutti i cristiani indistintamente. {27 [171]}

            C. Questo vostro libro, mio caro, interpreta la Bibbia nella maniera più stravagante.

            A. Pure l'autore di questo libro è una persona dotta, ascoltate il titolo del libro e il nome dell'autore ...

            C. Non voglio saperlo. Le sole parole che mi accennate mi fanno abbastanza conoscere che questo libro è di un protestante, e so pur troppo chi n'è l'autore.

            A. Ho la licenza di leggere libri proibiti.

            C. Avete fatto bene a procurarvi tale licenza, ma vorrei eziandio che vi procacciaste libri migliori di questo. Per ora passiamo sopra a tale argomento: vi terrò poi apposito discorso sul gran male che cagionano i libri cattivi, e sul gran bene che ne deriva dalla lettura di libri buoni. Qui voglio solamente notarvi la erronea spiegazione che il vostro libro dà alle parole del Vangelo che riguardano la facoltà di rimettere i peccati.

            A. Cioè che per discepoli s'intendono tutti i cristiani.

            C. Che quivi per discepoli s'intendano i soli Apostoli apparisce chiaramente, 1o dalle parole ivi notate: come il Padre mandò me, così io mando voi. Le quali maniere di parlare G. C. usò più volte {28 [172]} nel Vangelo, ma unicamente co' suoi Apostoli e non mai con altri.

            2o Il Vangelo nota chiaramente che San Tommaso uno dei dodici non era presente quando apparve Gesù. Le quali parole fanno conoscere che qui si parla de' soli Apostoli, e non di altri Discepoli in generale.

            3o Il Vangelo poi nota in maniera speciale che i discepoli che si tenevano chiusi per timore de' Giudei erano gli Apostoli propriamente detti; perchè essi soli come pubblici seguaci del Salvatore, anzi come predicatori del Vangelo avevano molto a temere la persecuzione dei Giudei.

            4° I Santi Padri, tutti gli interpreti, e i più dotti protestanti hanno sempre convenuto colla Chiesa cattolica, che le mentovate parole del Salvatore fossero esclusivamente indirizzate agli Apostoli.

            È poi veramente un genio singolare l'autore del vostro libro! Egli vuole che ciascheduno interpreti la Bibbia come vuole, e poi pretende che gli altri debbano seguire quanto egli suppone di ricavare dalla Bibbia.

            Che se voi osservate bene la traduzione che egli ne fa, scorgerete come egli abbia {29 [173]} aggiunto, tolto e cangiato quanto gli tornava a capriccio. - Siccome fece in altri passi, e siccome fanno generalmente gli scrittori protestanti.

            Osservate poiché stranezza! prima dice che tale facoltà non fu data agli Apostoli; poi dice che fu data a tutti i fedeli cristiani. Dunque fuanche data agli Apostoli che pure erano discepoli e fedeli cristiani.

            A. Veramente ciò mi pare contraddizione. Egli nega agli Apostoli l'autorità di rimettere i peccati, e poi vuole che l'abbiano tutti: di modo che, secondo esso, uomini e donne, vecchi e fanciulli sarebbero tutti confessori, ciò mi pare ridicolo ed assurdo. Io però non avrei alcuna difficoltà di riconoscere l'autorità assoluta concessa da G. C. agli Apostoli di sciogliere e di legare e perciò anche di rimettere i peccati. Ma parmi tuttavia che in questo luogo si parli della sola facoltà di rimettere i peccati, ma non dell'obbligo di confessarsi.

            C. Volete dire essere cosa chiara e certa che il Salvatore abbia dato la facoltà di ritenere e non ritenere, cioè di perdonare e non perdonare i peccati, ma non l'obbligo di confessarsi. Voi certamente dite questo per discorrere, perciocchè è cosa evidente che colla facoltà di rimettere e di ritenere, {30 [174]} assolvere e non assolvere, il Salvatore ha conferito un doppio potere, cioè quello di perdonare e quello di non perdonare. Ora in qual maniera il confessore potrà formare questo giudizio senza che il penitente confessi oralmente le colpe?

            A. Mi pare che si possa benissimo conciliar la facoltà di assolvere e non assolvere senza obbligare alla confessione esterna dei peccati.

            C. Questo mezzo io noi saprei trovare: desidererei che qualcuno me lo dicesse.

            A. Per esempio: se il confessore desse l'assoluzione a chi semplicemente si presenta a lui, non basterebbe?

            C. Non basta certamente: perchè in questo caso il sacerdote assolverebbe a capriccio e fuori di proposito. Non è tale l'intenzione del Salvatore. Supponete che il re mandi un giudice in un tribunale, dicendogli: voi deciderete i processi alla semplice vista dei colpevoli: purchè si presentino a voi, voi darete la sentenza senza esaminare i loro torti: senza ascoltare le deposizioni dei testimonii, voi libererete l'uno, imprigionerete l'altro, manderete questo alla ghigliottina, quell'altro alla galera, che direste voi di questa maniera di giudicare?

            A. Penserei che il re ha perduto la testa. {31 [175]}

            C. Or bene, G. C. dando a suoi Apostoli la facoltà di rimettere o di ritenere i peccati senza la confessione, avrebbe fatto quello che il re non farebbe mai; ed ecco che per decidere quando devonsi rimettere o ritenere i peccati, è necessario che gli Apostoli e i loro successori conoscano le colpe, possano distinguere quelle che meritano perdono da quelle che non lo meritano. Or come faranno questa distinzione, come conosceranno queste colpe, se loro non sono confessate? Vorreste voi forse dire che i confessori debbano giudicare come si fa avanti ai tribunali civili, sulla attestazione di quelli che conoscono la nostra vita? allora sì che si griderebbe contro alla confessione. Iddio avrebbe ciò potuto comandare, ma nella sua bontà ha voluto scegliere un mezzo più comodo e facile, e per noi più vantaggioso.

            Inoltre voi come avvocato comprenderete facilmente che un giudice per esercitare la funzione che gli conferisce la legge, deve conoscere le cause sopra le quali egli è chiamato a proferirvi sentenza. Così gli Apostoli e i sacerdoti loro successori per esercitare la funzione di giudice siccome G. C. ha loro accordato, {32 [176]} devono anche conoscere la causa, cioè i peccati che essi hanno il potere di rimettere o di ritenere.

            Dunque, miei cari amici, bisogna o ammettere una pubblica accusa dei peccati, o ammettere un segreto per la confessione, che è quanto dire la confessione auricolare.

            Germano. Questa conclusione è giusta, e niuno può opporre la minima difficoltà.

            A. Vedo anch'io la forza di questa conclusione, ma non potrebbe darsi, che G. C. abbia stabilita la confessione, come un mezzo più perfetto per fare penitenza, senza obbligare gli uomini a confessarsi?

            C. Non occupiamoci di ciò che Dio abbia potuto fare, ma di ciò che egli ha fatto. G. C. voleva senza dubbio che il potere dato agli Apostoli fosse serio e vantaggioso alla sua Chiesa. Egli non avrebbe, messo tanta importanza nel concedere il potere di rimettere i peccati; se questo potere avesse dovuto rimanere inutile. Dio non fa niente senza ragione e senza scopo.

            A. E perchè la confessione sarebbe stata inutile?

            C. La confessione sarebbe stata inutile; perchè se essa pare tanto gravosa a colui che {33 [177]} ne è obbligato, chi si confesserebbe ancora se si potesse ottenere la remissione dei peccati senza la confessione?

            A. Comprendo benissimo quanto voi dite. Ma parmi che posto l'obbligo di confessarsi debba essere bastante che il penitente si presenti al sacerdote come colpevole per dimandare l'assoluzione e così essere assolto dai peccati.

            C. Questa sarebbe una confessione, ma non quella istituita da G. C. Imperciocché non si danno le chiavi per dichiarare che la porta è aperta, ma per aprirla e chiuderla secondo la convenienza. Perciò avendo egli dato le chiavi del cielo ai confessori, cioè la potenza di sciogliere e di legare, dare o non dare l'assoluzione; ne viene per necessaria conseguenza, che l'uomo debba manifestare le sue colpe al confessore, affinchè egli sia in grado di conoscere e giudicare se il penitente meriti o no l'assoluzione.

            A. Ho ancora una difficoltà che fa il mio libro, ed è questa. Se fosse stata intenzione del Salvatore di obbligarci alla confessione avrebbe ciò dimostrato coi fatti: ma io non mi ricordo di aver letto che Gesù C. abbia confessato.

            C. Ad un cristiano deve bastare il sapere {34 [178]} che una cosa sia stata proposta da G. C, perchè noi siamo obbligati a crederla e praticarla senza indagare se sia stata o no da lui stesso praticata. - Voglio però farvi notare che Gesù Cristo non aveva bisogno di confessione per conoscere i peccati. Egli era Dio e perciò infinitamente sapiente; quindi conosceva ogni segreta azione, ogni più nascosto pensiero. Laonde presentandosi a lui qualche peccatore pentito, poteva dirgli, come disse di fatto: Ti sono rimessi i tuoi peccati; (remittuntur tibi peccata tua: Matt. 9, e Luc. 5 e 7.) Ma i sacerdoti non potendo penetrare i segreti dei cuori senza che siano manifestati dai penitenti; ne segue che non potrebbero giudicare quando debbono assolvere e non assolvere, senza un'esterna dichiarazione dei peccati, cioè senza la confessione.

            Aggiugnete ancora che talvolta l'uomo giudica peccato quello che non lo è, e talora giudica non essere male quello che in realtà lo sarebbe; di più egli ha bisosogno di consiglio per conoscere le sue obbligazioni, per riparare al mal fatto, per non più ricadere in avvenire. Come possono farsi queste cose senza la manifestazione del nostro interno? Come potrebbe {35 [179]} il confessore giudicare delle nostre azioni? Come potrebbe darci gli opportuni avvisi, se non gli facciamo conoscere i nostri bisogni?

            Conchiudiamo adunque essere stata data agli Apostoli la facoltà di rimettere i peccati: e questi non potersi da loro rimettere senza che siano manifestati, essere perciò necessaria la confessione.

 

 

IV. La confessione praticata al tempi degli apostoli.

 

            A. Ciò che dite, signor Curato, mi è soggetto di profonda riflessione. Perciocché posta la divina missione degli Apostoli con potere illimitato, ne segue che essi e i loro successori abbiano eziandio l'autori là di rimettere i peccati. D'altra parte mi fa anche non lieve sensazione il riflettere che gli Apostoli non abbiano mai parlato di confessione, e nemmeno abbiano confessato.

            C. Voi mi fate due difficoltà, cui potete voi medesimo colla Bibbia alla mano rispondere. Gli Apostoli non solo parlarono di confessione, ma ne parlarono moltissimo. {36 [180]} In verità chi è che riferisce particolarmente le cose che riguardano a quanto disse il Salvatore intorno alla facoltà di rimettere i peccati?

            A. Sono gli Evangelisti S. Matteo e S. Gioanni.

            C. Costoro erano ambidue Apostoli. Dunque gli Apostoli scrivendo le pratiche istituite dal Salvatore parlano e scrivono anche della confessione. Oltre a ciò leggiamo nel Vangelo (Matt. 18.) che S. Pietro stupefatto della grandezza della facoltà concessa di rimettere i peccati, un giorno si fece ad interrogare il Divin Salvatore dicendo: Maestro, se il mio fratello cadrà in peccato, quante volte dovrò perdonarlo? fino a sette volte? Gesù a lui disse: non dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Le quali parole, come spiega S. Girolamo, devono essere per noi cosa consolantissima. Ogni qual volta ci avvenisse di commettere qualche colpa, abbiamo un mezzo sicuro per acquetare i rimorsi della coscienza, e riconciliarci con Dio mediante la confessione.

            A. Tutte queste autorità riguardano ai vari colloquii avuti tra il Salvatore e gli Apostoli; io desidererei di sapere se gli Apostoli abbiano ancora parlato di confessione dopo l'Ascensione di lui al cielo. {37 [181]}

            C. Anche in ciò havvi un inganno, anzi un errore grande che moltissimi studiano di spargere fra i cristiani. Gli Aposloli parlarono della confessione, vivente il Salvatore, e ne parlarono dopo la sua Ascensione al cielo. S. Paolo parlando ai cristiani che dimoravano nella città di Corinto, li avvisa che prima di accostarsi a ricevere il Corpo ed il Sangue di G. C., provassero la loro coscienza. Probet autem se ipsum homo et sic de pane illo edat el de calice bibat (1a ai Corinti). Queste parole sono così spiegate da S. Agostino: «Prima di ricevere quel sacramento, «l'Eucaristia, è d'uopo ricorrere alla confessione» ed alla penitenza e fare un «diligente esame delle nostre azioni. Che «se le troviamo colpevoli, con sollecitudine «affrettiamoci per mezzo della confessione «e di un sincero pentimento a «tergerle dall'anima nostra, onde non «dobbiamo perire con Giuda traditore. «occultando il demonio entro di noi.» Lo stesso Apostolo S. Gioanni dice (epist. 1a, I) che noi otterremo facilmente il perdono se confesseremo i nostri peccati.

            A. Approvo quanto mi dite e non saprei come poter negare che gli Apostoli abbiano raccomandato la confessione. Perciò {38 [182]} ne convengo pienamente con voi. Ciò che mi fa specie si è non avere alcun fatto il quale dimostri che gli Apostoli abbiano confessato.

            C. Se gli Apostoli raccomandavano con sollecitudine la confessione, è segno che si praticava ai loro tempi. Inoltre a quei fervorosi cristiani rarissimamente avveniva di cadere in peccato, quindi loro poteva bastare minor frequenza della confessione, tanto più che spesso Dio puniva con terribili castighi i fatti segreti anche non molto gravi. Come di fatti fu punita con morte repentina la bugia detta a S. Pietro da Anania e da Zaffira (Act. 5.). Nemmeno dobbiamo ommettere che moltissime cose si praticavano allora e di cui non si trova parola nella Bibbia; come sono i riti e le cerimonie con cui erano amministrati i Sacramenti e si compievano altre sacre funzioni. Delle quali cose tuttavia ne siamo certi. Nondimeno abbiamo fatti positivi di confessioni fatte ai medesimi Apostoli.

            A. Un solo fatto mi basta.

            G. Apriamo il libro degli atti degli Apostoli al capo 19 e leggiamo che alla predicazione degli Apostoli molti di quelli che avevano creduto venivano ai piè di San {39 [183]}

            Paolo per denunziare e confessare le loro azioni, confitentes et atmuntiantes actus suos. Non apparisce evidente il fatto della confessione? Non si vede S. Paolo intento nd ascoltare le confessioni dei fedeli? Non si vedono qui i fedeli a turbe recarsi ai piè del grande Apostolo per dichiarare e confessare le loro colpe?

            A. Cosi è; così è. Ove intervengono fatti deve cessare ogni dubbio. Una cosa ancora riesce diffìcile a capirsi, ed è come sia possibile che gli uomini possano rimettere i peccati agli altri uomini, come appunto avviene nella confessione; che cosa si potrebbe rispondere in proposito?

            C. Non si è mai insegnato nella Chiesa che i sacerdoti rimettano i peccati in virtù propria, ma li rimettono in virtù dell'autorità ricevuta da G. C. che loro dice: i peccati sono rimessi a quelli, a cui li rimetterete, e sono ritenuti a quelli a cui li riterrete. L'uomo confessa i peccati, il sacerdote assolve, Iddio perdona; ma ciò tutto si fa in nome di G. C.. Vi scrivo, figliuoli, dice S. Gioanni, che i peccati sono rimessi a voi pel nome di Lui, cioè di G. C.; Scribo vobis, filioli, quoniam peccata remittuntur propter nomen ejus. (Joan. Ep. 1 a, cap. 2, v.12). {40 [184]}

            Da chi adunque sono rimessi i peccati, Remittuntur peccata?

            A. Sono rimessi da quelli a cui disse G. C.: tutto ciò che scioglierete in terra, sarà sciolto in cielo: i peccati sono rimessi a quelli, cui li rimtterete.

            C. Non può essere altrimenti. I peccati sono rimessi dai successori degli Apostoli secondo l'autorità ricevuta da G. C. e pel nome di Lui, propter nomen ejus.

 

 

V. La confessione nei primi tempi della Chiesa.

 

            A. C'è qui un libro, signor Curato, che questo mio amico ha comperato ieri, e colui che lo ha venduto accertò che contiene la pura parola di Dio. Questo libro assicura…

            C. Ahi! ahi! caro Andrea, quei libri che si vanno vendendo or qua or là con promessa che contengano la pura parola di Dio, per lo più sono libri protestanti. Ci son proprio venditori pagati per questo infame mestiere, ed essi per un vil guadagno tradiscono la Religione, e spargono libri e fogli volanti per sedurre i semplici e gli ignoranti. Ciò posto, ditemi: quanto ho detto finora non è la pura parola di Dio? {41 [185]}

            A. Non ne ho alcun dubbio.

            C. Dunque è in mala fede chi dice il contrario di quanto dico io; è un ingannatore che si sforza d'ingannare gli altri. Tuttavia, accennatemi qual singolarità trovate in questo libro.

            A. Questo libro dice che nei primi tempi della Chiesa non si è mai parlato di confessione.

            C. Quand'anche non se ne fosse parlato nei primi tempi, non si può conchiudere che non siasi praticata. Perciocché sono molte cose scritte e che dipoi si sono perdute, e molte altre sono state praticate e che vennero scritte dipoi. Ma sappiate che il vostro libro mentisce, perciocché abbiamo moltissime testimonianze da cui siamo assicurati essere stata praticata la confessione nei primitivi tempi della Chiesa. Per un cristiano dovrebbe bastare quanto leggiamo nel Vangelo e negli scritti e negli atti degli Apostoli. Nulladimeno per soprappiù posso assicurarvi che la storia Ecclesiastica è piena di questi esempi.

            A. Ascoltiamo questi esempi.

            C. Eccovene alcuni. S. Barnaba che fu compagno degli Apostoli e viveva nel primo secolo della Chiesa, dice in una lettera: «voi confesserete i vostri peccati.» S. Clemente {42 [186]} papa, che fu discepolo degli Apostoli, scrivendo ai fedeli di Corinto dice: È meglio all'uomo confessare i proprii peccati che indurare il suo cuore, siccome quelli, i quali eccitarono sedizioni contro a Mosè ministro di Dio.» Ed altrove: «Quando saremo partiti da questo mondo non havvi più luogo per noi nè alla confessione, nè alla penitenza.» Sul finir del secondo secolo Tertulliano, dottissimo ecclesiastico di Africa, scrive molte cose intorno alla confessione, e tra le altre dice: «Se rifuggi dalla confessione, medita nel tuo cuore l'inferno. Ma sapendo tu dopo il Battesimo esserci altri sussidi nella confessione, a che abbandoni la tua salvezza? perchè non prendi quel rimedio che sai poterli salvare?» Le medesime cose lasciarono scritte S. Ireneo vescovo di Lione, S. Zefirino sommo pontefice, S. Policarpo ed altri molti che fiorirono nel secondo secolo della Chiesa.

            A. Ma ciò che mi avete detto riguarda al primo e secondo secolo della Chiesa: ed io credo che non siasi più parlato di confessione nei secoli seguenti.

            C. L’essersene parlato nel I e nel II secolo non è forse motivo certo per conchiudere essere la confessione istituita da G. C. medesimo? Posso però accertarvi che nei {43 [187]} secoli posteriori di mano in mano si dilatava il cristianesimo, e moltiplicavansi gli scrittori ecclesiastici: venne viepiù conosciuta la pratica della confessione. Il solo Origène, che visse nel terzo secolo, tenne moltissimi ragionamenti sopra la confessione, in cui dimostra la sua divina istituzione, e la pratica costante nella Chiesa di dichiarare le proprie colpe al sacerdote. «La confessione dei peccati, dice egli, ha il merito della remissione. Imperciocché il demonio prevenuto nell'accusa non potrà più accusarti. I sacerdoti rimettono i peccati non di qualsiasi persona, ma de' buoni, cioè, che hanno buona volontà di mutar vita.» (V. Orig. omel. 3. 5. 4. 5).

            Il medesimo Origène dice altrove: «Siccome quelli che hanno lo stomaco sopraccarico di alimenti indigesti, rimangono oppressi, e se loro riesce di vomitare, restano all'istante sollevati; così il peccatore che nasconde e ritiene in sè le sue colpe, ne è intieramente oppresso e soffocato; ma divenga egli suo accusatore, confessi il suo stato, vomiti tosto il peccato. Abbiate soltanto cura di conoscere a qual medico dobbiate esporre la vostra infermità; un medico {44 [188]} che sappia farsi infermo cogl'infermi, piangere con quelli che piangono.»

            Per questo terzo secolo aggiungo ancora quanto dice S. Cipriano, il quale espone il modo di confessare le colpe ed il gran fervore con cui i cristiani del suo tempo confessavano i loro peccati; quindi continua: «confessi ciascuno di voi, ve ne prego, fratelli dilettissimi, confessi il suo peccato, mentre siete in vita, mentre è tempo per la confessione. La soddisfazione e la remissione fatta dal sacerdote è accetta a Dio.» (S. Cip. de Lapsis).

            Conchiudo questo trattenimento colle parole dì S. Ambrogio, il quale visse nel quarto secolo della Chiesa. Parlando egli della confessione scriveva: «noi dobbiamo assolutamente astenerci da ogni sorta di vizio, perchè non sappiamo se avremo tempo di confessarci a Dio ed al prete.» Ed altrove: È prescritto evidentissimamente dalla parola del Signore, che si dia la grazia del celeste Sacramento anche a quelli che sono colpevoli di gravissimo peccato, purchè di tutto cuore e con manifesta confessione del peccato ne facciano la penitenza. De poenit. c. 3. {45 [189]}

            Io mi accorgo, miei amici, che vi ho trattenuto forse troppo col recarvi le autorità de' padri e degli scrittori dei primi secoli. Ho creduto bene di ciò fare perchè conosciate quanto sian lontani dalla verità coloro, i quali dicono che nei primi secoli della Chiesa non si è mai parlato di confessione. Notate però, che vi sono ancora moltissime altre autorità che per brevità io tralascio; le quali sono tutte d'accordo nel magnificare la bontà di Dio, per avere istituito questo sacramento, pel gran vantaggio che gli uomini ne possono ricavare, e attestando in pari tempo la pratica non mai interrotta nei primi secoli della Chiesa.

 

 

VI. La confessione praticata dal IV secolo fino al Concilio Lateranese celebrato nel 1215.

 

            A. Mi fate veramente stupire, sig. Curato: pare che abbiate tutti i Santi Padri a memoria. Voi riferiste molti brani di Santi Padri, i quali si accordano tutti nell'attestare la costante pratica della confessione ne' primi secoli della Chiesa. {46 [190]}

            Tuttavia questo mio libro dice che niuno di quei Santi Padri, niuno di quegli antichi Solitarii, Martiri, Penitenti si è mai confessato.

            C. Rispondo parola per parola a quanto voi dite. Se gli antichi Padri parlano della confessione come un mezzo necessario per riconciliarsi con Dio, se espongono il modo con cui i Penitenti devono confessare le loro colpe, ed i Sacerdoti impartire l'assoluzione; è certo ed evidente che la confessione era praticata, altrimenti avrebbero date norme inutili e intorno a cose non esistenti.

            A. Questo è vero: ma intanto non si legge che gli antichi si confessassero: il mio libro dice precisamente che Giobbe e David non si confessavano ed erano gran Santi.

            C. Il vostro libro dicendo tali cose si burla della vostra buona fede. La confessione sacramentale fu istituita da Gesù Cristo perciò non poteva essere praticata da Giobbe e da Davidde che vissero oltre mille anni prima.

            A. Ma nemmeno i primi Santi della Chiesa si confessavano.

            C. Avete voi letto le vite di tutti i Santi?

            A. No certamente; sapete bene che ho poco tempo. {47 [191]}

            C. Dunque può essere che quelli, di cui non leggeste la vita, abbiano praticata la confessione. Altronde dovete notare che le vite di que' Santi non si scrivevano corredate di minute circostanze come si fa oggidì. Sceglievansi i principali e più luminosi tratti della loro vita, come la chiamata alla fede, le loro austerità, il loro martirio.

            Perciò fra le cose che non furono scritte può darsi, come lo è di fatti, che ci siano le loro confessioni. È forse scritto nella loro vita che facessero il segno della Santa Croce prima e dopo il cibo? offerissero a Dio i loro lavori?

            A. Non mi ricordo di averlo letto.

            C. Pure questo era l'uso costante de' primi Cristiani. Avete forse letto che facessero le loro preghiere mattina e sera?

            A. Nemmeno ciò mi ricordo di aver letto.

            C. Eppure tanto il segno della Santa Croce prima e dopo il cibo, quanto le preghiere del mattino e della sera erano le cose maggiormente praticate da quei Santi. E siccome dal non parlarsi di ciò nella lor vita non si può dire che eglino non pregassero, non offrissero le loro azioni, le loro pene, il loro riposo a Dio, così neppure dal silenzio della loro confessione {48 [192]} si può dedurre che essi non si confessassero. Debbo però notarvi due cose importantissime: la prima si è che in quei primi tempi le pratiche religiose si compivano in segreto a motivo della persecuzione. Perciò molte cose erano praticate, di cui non si scriveva parola. Inoltre quei fedeli Cristiani non avevano la facilità di potersi indirizzare ai preti a motivo dei rigori con cui erano cercati a morte. Perciò, ove non avessero potuto avere confessori, loro bastava il desiderio della Confessione congiunto ad un perfetto pentimento dei peccati. Chi ci ha detto che i Santi, di cui parliamo, non abbiano desiderato di confessarsi, se non potevano farlo? Notate in secondo luogo che i Santi Padri non solo ci lasciarono scritti che raccomandano la Confessione, ma riferiscono molti fatti di confessioni fatte nei tempi antichi.

            A. Se ci sono questi fatti, perchè non raccontarli subito? La quistione sarebbe stata finita.

            C. Ho voluto farvi ragionare sopra questi fatti per farvi notare i molti errori che contiene il vostro libro, e persuadervi che il non essere scritto nelle vite dei Santi, se si confessarono o no, nulla {49 [193]} prova contro alla pratica della confessione.

            A. Dunque recatemi alcuni esempi di confessioni fatte anticamente.

            C. Pei quattro primi secoli potrebbero bastare le testimonianze degli Apostoli e di quei Santi Padri, di cui vi ho poco fa parlato. Tuttavia voglio ancora riferirvi un fatto tale quale è raccontato da S. Ireneo, che fiorì nel secondo secolo, e fu discepolo di S. Policarpo, il quale conversò con S. Giovanni Evangelista, e però in tempi purissimi della Chiesa antica. Egli racconta come alcune donne sedotte da un eretico di nome Marco, volendo ritornare alla Chiesa di Dio, cogli altri errori confessarono anche questo. Racconta inoltre che una donna caduta eziandio in peccato dichiarò in confessione tutto l'avvenuto, anche ciò che era passato nel suo interno vale a dire i peccati di pensiero.

            Riferisce per ultimo, che molte povere donne ingannate da altri eretici fecero pure manifesta confessione dei loro peccati. Altre poi non osando ciò fare si ritirarono confuse, altre apostatarono pienamente, ed altre stettero esitanti tra l'uno e l'altro partito. Eccovi adunque {50 [194]} nel secondo secolo la Confessione già in uso, e però proveniente dal primo secolo. E lo stesso S. Ireneo ci fa notare che la confessione era distinta, vale a dire si confessavano i peccati di opere e di pensieri. Pei primi secoli troppo lungo sarebbe il dirne di più. Pei secoli seguenti, cioè dal quarto secolo in su, potrei dirvi come S. Agostino vescovo nell'Africa, S. Gioanni Grisostomo, S. Basilio ambidue vescovi nell'Asia, S. Girolamo e S. Ambrogio vescovo di Milano fecero molte prediche, e lasciarono parecchi trattati intorno al Sacramento della Penitenza, nei quali si parla a lungo del fervore dei Cristiani dei loro tempi, e della premura che avevano di accostarsi a questo Sacramento, appena si sentivano aggravati dal peccato. Parlano altresì delle penitenze, che s'imponevano ai penitenti, alle quali penitenze quei fervorosi fedeli di buon grado si sottomettevano per ottenere il perdono delle loro colpe. Ciò non ostante, quasi per ricrearci, voglio tesservi una serie di fatti particolari che dimostrino l'uso non interrotto della Confessione. Ai tempi di S. Gioanni Grisostomo gran numero di eretici lacerarono acerbamente la Chiesa, {51 [195]} ma a disinganno de' deboli e conforto dei buoni, ed anche per far ravveder i colpevoli molti furono da Dio terribilmente puniti. Uno di quegli infelici perturbatoci della Chiesa fu punito nella lingua sicchè divenne mutolo. Mosso da pentimento e colla lingua, perchè gonfia, non potendo articolare parola per confessar il suo peccato, lo scrisse sopra una tavoletta, soddisfacendo in tal guisa all'obbligo della Confessione praticato nella Chiesa per poter così riconciliarsi con Dio. Palladio Diacono. Vita di San Gioanni Grisostomo. A. Permettetemi un riflesso, sig. Curato: voi mi avete nominato S. Gio. Grisostomo ed appunto il mio libro cita questo santo come colui che condannò la Confessione; come va questo affare? Uno dice che questo Santo Dottore condannò la Confessione, l'altro mi dice che l'approva ...

            C. Il vostro libro poco fa diceva che nella Chiesa antica non si è mai parlato di Confessione; ora dice che S. Gio. Grisostomo condannò la Confessione. Quante contraddizioni contiene questo vostro libro.

            A. È adunque vero che S. Gioanni Grisostomo condannò la confessione?

            C. Tutto all'opposto, e posso assicurarvi {52 [196]} che questo santo fu unozelante difensore della sacramentale confessione. In un suo libro Del Sacerdozio egli loda la dignità dei sacerdoti, ed esalta particolarmente il potere che essi hanno di rimettere i peccati, potere che non hanno nè anco i Principi e gl'Imperatori della terra. Anzi dice precisamente che il potere di rimettere i peccati fu conferito ai Sacerdoti, ma non agli Angeli od agli Arcangeli. Egli medesimo era confessore molto benigno e accoglieva con gran bontà i penitenti.

            E di questa sua bontà e sollecitudine nel confessare sono testimoni i suoi medesimi nemici. Perciocché in un conciliabolo tenuto a Querco, fra le altre accuse gli eretici gli mossero questa: Che congedasse quei che peccavano dicendo così: Se hai nuovamente peccato, pentiti di nuovo, e quante volte peccherai, vieni da me ed io ti assolverò.

            Un dotto scrittore ecclesiastico di quei tempi, di nome Socrate, dopo di avere a lungo lodato lo zelo di questo santo, asserì che egli era solito d'incoraggiare i peccatori dicendo: ancorchè abbi peccato le mille volte accostati a confessarti. {53 [197]}

            Da ciò voi vedete quanta ignoranza o mala fede ci sia nell'autore del vostro libro. Si serve dell'autorità del più zelante confessore per fargli dire che egli disapprovava la confessione. Vi assicuro, miei cari, che questa ignoranza o mala fede, esiste in tutti i libri dei protestanti che scrivono contro al Sacramento della Confessione.

            A. Ma almeno credo che sia certo che s. Agostino non faccia parola della Confessione.

            C. Altro giuoco di mala fede o d'ignoranza dell'autore del vostro libro. S. Agostino era egli confessore ed incoraggiva i cristiani a non differire la penitenza dicendo fra le altre cose queste precise parole: Se il peccatore sarà ostinato fino all'ultimo della vita, non so se potrà ricevere la penitenza e confessare i suoi peccati a Dio, e al Sacerdote.

            A. Io non mi pensava che nei libri dei protestanti ci fosse tanta mala fede e tanta ignoranza. Adesso continuate quei fatti, che vi ho fatto interrompere per farmi dilucidare quanto riguarda S. Agostino e S. Gioanni Grisostomo.

            C. Continuerò a recarvi detti e fatti che dimostrano la pratica costante della Confessione {54 [198]} nella Chiesa Cattolica dai quattro primi secoli fino al Concilio lateranese.

            S. Girolamo, gran dottore di santa Chiesa e contemporaneo di s. Gioanni Grisostomo, per eccitare i cristiani alla confessione dice che il confessare la colpa è la seconda tavola dopo il naufragio. Vale a dire: chi dopo il battesimo cadde in gravi peccati, non ha più altro mezzo per ritornare in amicizia con Dio, se non la confessione. Secunda tabula post naufragium est culpam simpliciter confiteri.

            S. Ambrogio, di cui vi ho poco fa parlato, era assiduo nell'udire le confessioni dei fedeli. Quel gran vescovo non poteva ascoltare le confessioni senza spargere copiose lagrime; la qual cosa faceva che i medesimi penitenti piangessero con lui, e di ciò che udiva in confessione ne parlava solamente con Dio. (V. san Paolino).

            Il famoso Alarico sul principio del quinto secolo scrive ai giovani della scuola di san Martino in Francia, dimostrando la necessità della confessione, esortando vivamente quegli studenti a frequentare questo tanto utile Sacramento. {55 [199]}

            S. Eligio che tenne uno dei primi posti alla corte di Dagoberto re d'Italia, nel 630, pervenuto ad età avanzata volle tranquillare la sua coscienza; e fatto venire a lui un prete fece la confessione generale cominciando dalla sua fanciullezza in poi.

            L'Imperatore Carlo Magno verso l’anno 800 decretò che ci fosse un competente numero di cappellani destinati a provvedere ai bisogni spirituali delle truppe, e leggiamo che quei sacerdoti passavano spesso le notti intiere a confessare i soldati prima che venissero a battaglia.

            Nell'anno 870 Ildebordo, vescovo di Soissons, trasmise in iscritto una confessione generale ad Incmaro suo arcivescovo. Quel prelato lodò molto l'umiltà di quel servo di Dio, ma gli rispose che doveva ancora confessare i suoi peccati a viva voce ad un Sacerdote.

            Se non temessi di annoiarvi vorrei eziandio esporvi come i preti della Chiesa antica pregavano in maniera particolare nella messa per coloro che si erano da essi confessati. Vi erano i confessori dei Principi, dei Re, e degli Imperatori. Nel sesto secolo san Gioanni il Digiunatore, vescovo di Costantinopoli, ci ha lasciato {56 [200]} una formola d'interrogazione pei penitenti al tutto simile a quella che si legge nei nostri libri di divozione per l'esame di coscienza. Varii antichi Concili hanno stabilito che i Vescovi nella visita delle diocesi interrogassero, se tutti i fedeli si fossero confessati almeno una volta all'anno. Tutte le sette antiche orientali ancora superstiti, come sono i Nestoriani, gli Eutichiani, i Giacobitì, i Greci che da oltre dieci secoli sonosi separati dalla Chiesa Cattolica, tengono l'uso e la necessità di confessarsi al prete. (V. Renaudosio, Morino, Martenio, ed altri).

            A. Basta, basta, signor Curato, voi ci recitate tutta la storia Ecclesiastica, io non posso a meno di convenire con voi essere la confessione stata praticata nei primi tempi della Chiesa. Ma non so darmi pace come il mio libro, che mi assicura contenere la pura verità, mi dica che la confessione fu inventata dai preti circa mille anni sono.

            C. Voi avete già potuto conoscere come il vostro libro mentisca dicendo tali cose, perciocché, la confessione cominciò ad essere praticata ai tempi degli Apostoli mille ottocento anni fa. Dal tempo di Tertulliano e di Origène, i quali vissero {57 [201]} mille e seicent'anni prima di noi, e troviamo nella storia che i cristiani si sono sempre confessati, epperciò fu sempre obbligatoria la confessione sin dai tempi di Gesù Cristo.

 

 

VII. La confessione nel Concilio Lateranese e nel Concilio Tridentino.

 

            A. Un mio compagno mi ha fatto vedere un libro che dice la confessione essere stata stabilita nel secolo 13°,cinquecento cinquant’anni fa, nel Concilio di Laterano, e che solamente d'allora in poi fu imposto l'obbligo di confessarsi almeno una volta l'anno, e comunicarsi alla Pasqua di risurrezione: a parlare schiettamente io non saprei dire che cosa siasi trattato in questo Concilio.

            C. Se la confessione fu stabilita nel secolo decimoterzo, secondochè asserisce il libro del vostro compagno, come va che il vostro libro dice che fu inventata ottocento anni prima? Quando fu accusato Gesù Cristo, il Vangelo fa notare che i testimoni non erano d'accordo per dimostrare che mentivano. E voi per certo non ignorate che {58 [202]} la discordanza dei testimoni è ancora oggidì una prova della falsità di quanto viene asserito. Applicate questa osservazione ai vostri libri protestanti.

            A. Anch'io ho già osservato questo, e qualche volta ho detto tra me stesso: questi libri mi dicono che la confessione non fu istituita da Gesù Cristo; e intanto uno mi dice che fu istituita mille anni sono; un altro mi dice che lo fu cinquecento cinquant'anni prima di noi: ma se si sa con certezza una cosa non ci dovrebbe essere lo sbaglio di cinquecent'anni. Tuttavia ditemi, come va che tutto dì si viene citando il Concilio Laleranese?

            C. I protestanti vanno citando il Concilio di Laterano, e ciò fanno con mala fede e con desiderio d'ingannare; voglio che voi medesimo ne siate giudice.

            A. Sì, ma cominciatemi adire che cosa siasi trattato in questo Concilio di Laterano?

            C. Credo che nei vostri studi legali abbiate rilevato che per Concilio generale s'intende una riunione di vescovi legittimamente convocati, a cui sono invitati quelli di tutto il mondo cattolico. Il Papa presiede in persona o per mezzo dei suoi legati. In quelle adunanze si decidono le questioni risguardanti alla fede {59 [203]} ed al governo della Chiesa. La promessa fatta da Gesù Cristo di assistere la sua Chiesa tutti i giorni fino alla fine del mondo rende tali decisioni infallibili. Ora nel 1215 ebbe luogo una di queste radunanze generali di vescovi sotto la presidenza del Papa in Roma, in una chiesa dedicata a s. Gioanni, e situata in un quartiere chiamato Laterano, d'onde venne il nome Concilio di Laterano.

            A. Oh Deo gratias! ora comprendo onde è venuta la parola Laterano. Ebbene che cosa si trattò in quel Concilio? forse fu colà istituita la confessione?

            C. In quel Concilio non fu istituita la confessione, ma fu imposto ai Cristiani di confessarsi almeno una volta l'anno. In que' tempi, miei cari amici, erano molti cristiani, come pur troppo ce ne sono ai giorni nostri, i quali trascuravano di confessarsi esponendosi così a pericolo di eterna dannazione. Il Concilio, cioè i capi della Chiesa colà radunati, ordinarono a tutti i cristiani di confessarsi almeno una volta all'anno e comunicarsi alla Pasqua. Così che non istabilirono la confessione, la quale esisteva già prima di loro, ma stabilirono solamente l'obbligazione {60 [204]} di non lasciar passare un anno senza accostarsi al Sacramento della Penitenza e della Comunione. Che anzi fu aggiunta una pena a quelli che avessero trascurato tal comando della Chiesa, cioè che i trasgressori di tale precetto, lasciando passare un anno senza confessarsi e comunicarsi, non fossero più considerati come cristiani; e morendo senza dar segni di ravvedimento non erano più riconosciuti come cristiani dalla Chiesa; erano scomunicati e privati della sepoltura ecclesiastica.

            A. Adesso ho capito sopra quali ragioni si fondano coloro che dicono la confessione essere stata istituita nel Concilio Lateranese. Nulladimeno parmi di vedere qualche fondamento nella loro asserzione. In quel Concilio non fu stabilita la confessione, ma l'obbligo di confessarsi, dunque in certa maniera fu instituita la confessione medesima.

            C. Per farmi strada a dilucidare la vostra difficoltà rispondetemi a quanto vi dimando. Venticinque anni fa la giustizia fra di noi era amministrata?

            A. Chi ne dubita! Venticinque anni fa vi erano già i tribunali, i giudici e le pene stabilite contro ai colpevoli. {61 [205]}

            C. Il modo di amministrare la giustizia era quello stesso d'oggidì!

            A. Come avvocato posso rispondervi categoricamente. Si amministrava la giustizia ma in modo diverso; i processi erano più lunghi, più spendiosi, ed anche molto più complicate le questioni.

            C. Fino a quando durò tal maniera di amministrare la giustizia?

            A. Finché fu pubblicato il codice civile di Carlo Alberto.

            C. Prima di questo codice era amministrata la giustizia?

            A. Sì, ma si seguivano le norme stabilite dalle regie costituzioni.

            C. Direste voi che Carlo Alberto col suo codice ha inventata la giustizia e che prima di lui essa non esisteva?

            A. No certamente. Con quel codice non fu inventata la giustizia, ma furono stabilite norme per amministrarla.

            C. Ora siccome eranvi leggi e tribunali prima del codice civile, e che con esso non si fece altro che regolare l'ordine e l'amministrazione della giustizia; parimenti i Padri del Concilio di Laterano col loro comando non fecero che regolare e stabilire un mezzo più adattato per l'amministrazione del Sacramento {62 [206]} della Penitenza, imponendo a ciascun cristiano di confessarsi almeno una volta all'anno e comunicarsi alla Pascqua. Da quanto vi ho detto, amici miei, voi potete facilmente comprendere come la confessione sia sempre stata praticata nella Chiesa; nè trovarsi alcun tempo in cui i fedeli non si siano serviti di questo Sacramento come unico mezzo stabilito da Dio per ottenere il perdono dei peccati commessi dopo il battesimo.

            I protestanti più eruditi convengono coi cattolici intorno a questa verità. Leibnizio, dotto protestante degli ultimi tempi, non esita di affermare che la istituzione della confessione deve ripetersi dai tempi di G. C., che ne fu l'autore. Un altro protestante di nome Gibbone, dopo aver attentamente considerato ciò che si dice intorno alla pratica della confessione de' primi tempi, fu costretto a dichiarare: «L'uomo istrutto «non può resistere all'evidenza storica, «la quale stabilisce che la confessione «fu uno dei principali punti di credenza «della Chiesa in tutto il periodo dei «quattro primi secoli» cioè nel corso di quattrocento anni che seguirono dopo Gesù Cristo. {63 [207]}

            A. Ancora una cosa e poi vi lascio in pace. Non ho più alcun dubbio che la confessione siasi sempre praticata nella Chiesa; ma siccome più tardi celebrossi il Concilio Tridentino, in cui si trattò di quanto si praticava nella Chiesa, parmi che non si dovrebbe aver taciuto della confessione, tanto più che in quel tempo i protestanti parlavano molto contro a questo Sacramento.

            C. Comincio per dirvi che posto eziandio il silenzio del Concilio Tridentino su tale materia, quel Concilio approvando la dottrina della Chiesa, senza nulla rinnovare, approvava eziandio la pratica costante della Chiesa intorno al Sacramento della Confessione. Però io posso assicurarvi che nel Concilio Tridentino, così detto perchè tenuto nella città di Trento, si trattò molto della confessione.

            A. Che cosa adunque si è detto intorno alla confessione nel Concilio Tridentino?

            C. I Padri di quel Concilio, specialmente nella sessione decimaquarta, dopo di aver trattato di molte cose riguardanti al Sacramento della Penitenza, conchiusero così: «Se alcuno oserà di affermare che la confessione sacramentale non è necessaria, o non fu istituita dal Nostro Signor {64 [208]} G. C, o dirà che il modo di confessare i peccati segretamente al solo Sacerdote, siccome la Chiesa fin dai primi tempi ha sempre praticato e pratica ancora oggidì, o dirà la confessione non essere Sacramento istituito da Nostro Signor G. C, sia scomunicato: Anathema sit. (Sess., 14, Can. VI.)

            A. Come adunque regolarci per l'avvenire con coloro che torneranno a dirci che la confessione è stata inventata dai preti?

            C. Costoro debbono essere da noi compatiti nella loro ignoranza, quindi dobbiamo animarli ad istruirsi sopra una materia così importante, e se il tempo lo permette, far loro osservare come gli stessi gentili e pagani, e assai meglio gli ebrei ebbero sempre in uso la confessione, la quale fu da G. C. elevata alla dignità di Sacramento, praticata dai tempi degli Apostoli fino ai nostri giorni.

 

 

VIII. La confessione praticata presso ai gentili.

 

            A. Mi pare che vogliate partire.

            C. Vedo che si avvicina la notte, e temo {65 [209]} di avervi già forse troppo trattenuti col mio ragionamento.

            A. Avete cominciata l'impresa e dovete finirla. Vi lasciaste sfuggire alcune espressioni che mi paiono nuove. Diceste la confessione essere stata praticata dai gentili e dagli ebrei. Questa è una novità che mi sorprende.

            C. Se così vi piace, mi tratterrò ancora alquanto per appagarvi in questi vostri desideri. Per farvi comprendere come la confessione sia anche stata praticata presso ai gentili è bene riflettere che l'uomo, essendo da Dio creato per la virtù, prova grande soddisfazione quando pratica il bene; inoltre ha una coscienza che lo accompagna ovunque, e gli fa sentire i più vivi rimorsi, quando opera male, ed agisce contro alla legge della giustizia. L'uomo agitato dal rimorso della colpa conosce di aver offeso il Creatore, e l'unico conforto per lui si è un amico cui possa palesare i segreti del suo cuore per avere gli opportuni consigli, e così riconciliarsi colla Suprema Divina Maestà.

            Il bisogno pertanto di manifestare le cose che amareggiano il nostro cuore è naturale all'uomo, perciò è cosa naturale {66 [210]} agli stessi pagani la pratica della confessione.

            A. Questo appunto desidero di sapere, perciocché non mi ricordo di aver letto che qualcuno degli antichi filosofi ed oratori siansi confessati.

            C. Nei vostri studi avrete certamente osservato che per certi peccati si facevano pubbliche emendazioni e pubblici sacrifizi.

            A. Mi ricordo d'aver ciò letto degli antichi Romani, dei Greci e di altri popoli, ma questo non è confessione.

            C. A che tendevano quei riti e quei sacrifizi?

            A. Per espiare i loro peccati e placare lo sdegno degli dei.

            C. Quel mezzo di espiazione con cui palesavano i peccati non si può forse chiamare confessione che ha molta analogia con quella dei cristiani? Per esempio leggiamo presso i più antichi scrittori (come Erodoto, Omero, Virgilio) che dai tempi più remoti i Galli, ora Francesi, i Britanni, ora Inglesi, gli Italiani, i Greci, gli Egiziani, commesso appena un delitto, avevano obbligazione di fare alle loro divinità un sagrifizio piccolo o grande secondo la specie e la gravità del peccato. {67 [211]}

            Tale sagrifizio doveva compiersi per mano dei sacerdoti chiedendo umile perdono. Ovidio dice esplicitamente: I nostri antenati hanno sempre creduto che per mezzo detta purgazione ossia confessione potevasi cancellare ogni peccato ed ogni cagione di male:

            Omne nefas, omnemque mali purgamine causam

            Credebant nostri tollere posse senes.

 

Fastor. lib. II.

 

            A. Forsechè si danno esempi d'uomini gentili che siansi confessati?

            C. Se ne danno moltissimi. Racconta Plutarco del filosofo Pitagora, come egli non ammettesse alcun allievo nella sua scuola, se prima non facevagli una generale confessione di tutta la vita passata. Si legge pure che un certo Lisandro essendo andato a consultare un oracolo, che era una divinità dei gentili, il sacerdote che aveva cura del tempio gli comandò di confessare tultte le ingiustizie che egli aveva commesso nelle sue azioni. Al che rispose Lisandro: È questo ordine tuo, oppure ordine degli Dei? Soggiunse il sacerdote: Tale è l'ordine degli Dei. Il medesimo Plutarco riferisce altrove, che {68 [212]} un uomo volendo iniziarsi nei misteri sacerdotali fu obbligato dal sacerdote a fare la confessione dei peccati suoi.

            Se poi vogliamo fatti più recenti, li abbiamo nelle relazioni dei missionari. Raccontano essi che quei popoli, ignari affatto del cristianesimo, quando qualche misfatto aggrava loro la coscienza, vanno dai loro magi per confessare i loro peccati, e così consigliarsi sul modo di placare lo sdegno degli dei.

            A. Mi riescono veramente curiosi questi fatti: qualche cosa aveva già letto anch'io, ma non ci badava. Si vede proprio che i gentili avevano la confessione. Ma con queste loro confessioni potevano forse ottenere il perdono dei peccati?

            C. Con queste loro confessioni i gentili si credevano di ottenere il perdono dei peccati; ma la sbagliavano in ciò che i loro peccati oltraggiavano Iddio Creatore e supremo Signore, ed eglino chiedevano perdono alle loro divinità, le quali altro non erano che misere statue fatte dalle mani degli uomini. Perciò la loro confessione non poteva ottenere il perdono dei peccati. Tuttavia tali fatti dimostrano, che i gentili, o guidati dal solo lume della ragione o che abbiano tra di {69 [213]} loro conservato un piccolo raggio della rivelazione fatta ai loro padri, erano persuasi che gli uomini colla confessione avrebbero potuto ottenere il perdono dei peccati. Pertanto nella confessione dei pagani noi rileviamo due importanti verità: una profonda venerazione di tutti i popoli verso le persone consacrate al divin culto, cioè i sacerdoti; una costante persuasione che i sacerdoti fossero mediatori tra Dio e gli uomini, e che confessando loro le proprie colpe, gli uomini venissero riconciliati con Dio.

 

 

IX. La confessione praticata presso agli ebrei.

 

            A. Se la Confessione dei Gentili era cosa naturale fra gli uomini, pare che avrebbe dovuto essere maggiormente praticata presso agli Ebrei, i quali avevano i libri sacri contenenti la divina Rivelazione. Ma io non mi ricordo di aver letto in tutta la Bibbia che qualche ebreo o qualche giudeo siasi confessato.

            C. Forse voi, Andrea, avrete semplicemente letto qualche compendio della Storia Sacra; ma se leggeste il testo della Bibbia, {70 [214]} trovereste la confessione praticata presso agli Ebrei con assai più di vantaggio che non appresso ai Gentili. Questo apparisce dai sagrifizi che si facevano in pubblico in espiazione dei peccati commessi. (Vedi Bellarmino della penit. cap. 3).

            A. Ci sono riti, cerimonie, sagrifizi, espiazioni, lo so; ma credo che non si parli di confessione.

            C. Si parla propriamente di confessione. Aprite la Bibbia, leggete nel libro del Levitico cap. IV: colà troverete che Mosè dopo aver numerato parecchi casi in cui l'uomo avrebbe potuto peccare, dice queste precise parole: accadrà che taluno del popolo peccherà in alcuni di questi casi, e allora confesserà sopra di che ha mancato, ed offrirà il sacrifizio della sua colpa al Signore, e per opera del Sacerdote sarà mondato dal suo peccato.

            Nel libro de' Proverbi leggiamo che: chi nasconde i suoi peccati, non avrà bene, ma chi li confessa e li abbandona, otterrà misericordia; cap. XXVIII, v. 13.

            Potrei addurvi altri testi della Bibbia, ma questi mi paiono tanto chiari, che giudico inutile il riferirne di più.

            A. Non pare forse che le parole accennate vogliano significare la confessione da farsi {71 [215]} a Dio, piuttosto che quella da farsi al sacerdote?

            C. Troppo chiare mi sembrano queste parole: per opera del sacerdote sarà mondato dal suo peccato. Essere mondato per opera del sacerdote viene a significare due cose: che gli Ebrei confessavano i loro peccati ad un sacerdote, e che erano eziandio persuasi che il sacerdote fosse mediatore tra Dio e gli uomini, autorizzato ad ottenere loro da Dio medesimo il perdono.

            A. Se si fosse praticata la confessione presso agli Ebrei antichi, parmi che si praticherebbe ancora oggidì; ma io credo che presentemente niuno degli Ebrei vada a confessarsi.

            C. Fino alla venuta del Messia gli Ebrei praticarono la confessione nel modo accennato. Ma dopo la venuta dei Messia, quando al Pontefice della legge antica sottentrò il Pontefice eterno, il Figlio di Dio vivo, il Salvator nostro G. C. e stabilì una nuova Chiesa; quando, dico, gli Ebrei senza Pontefice, senza capo, vennero dispersi per le varie parti del mondo, allora caddero in moltissimi e madornali errori in fatto di religione, e segnatamente intorno alle cose che riguardano alla confessione. Tuttavia gli Ebrei dei nostri {72 [216]} tempi conservano ancora una specie di confessione sebbene ridicola.

            A. Diteci come si confessano gli Ebrei d'oggidì.

            C. Gli Ebrei de' nostri tempi quando si accorgono di essere colpevoli di qualche delitto, pensano di riconciliarsi con Dio con una preghiera, confessandosi in un angolo della sinagoga o delle proprie case, esclusa la presenza del sacerdote. Così quel popolo mentre conserva ancora i libri che contengono il precetto di confessare i peccati al sacerdote, affinchè per opera di Lui vengano rimessi, egli appoggiato alle strane favole di un libro che chiamano Talmud, trascura la parola di Dio per seguire i capricci degli uomini.

            Debbo però farvi notare che i più dotti Rabbini antichi e moderni vanno d'accordo sul precetto della Confessione, da farsi al sacerdote, tale quale fu comandata da Mosè. Sentite ciò che dice un dotto Rabbino di nome Maimonide accreditatissimo fra gli Ebrei. Chiunque avrà trasgredito i comandamenti della santa legge o per errore o per presunzione, allorchè pentito si convertirà del suo peccato è tenuto di fare la confessione. Chiunque farà l'offerta pel peccato commesso per {73 [217]} ignoranza o per malizia non otterrà il perdono della colpa fintanto che non abbia fatto la confessione orale. E chiunque è reo di morte, o condannato dal sinedrio (dal senato) alla flagellazione, non si rimette il peccato colla morte o colla flagellazione, se il penitente non fa la confessione. Così quel Rabbino interpreta le parole del Levitico da noi sopra riferite. (V. cap. 1, della Tesvuà.)

            Vi ho parlato volentieri della confessione praticata dagli antichi Pagani e dagli Ebrei, perchè così potrete sempre più notare l'ignoranza di coloro che dicono, la confessione essere stata un'invenzione introdotta nella Chiesa cattolica. Noi diciamo pertanto la confessione essere stata praticata in tutta l'antichità, specialmente presso agli Ebrei. Però la legge antica essendo una figura di quanto dovea compiersi alla venuta del Messia, era perciò riserbato a G. C. l'innalzare la confessione alla dignità di Sacramento; col quale Sacramento applicando alle anime nostre i meriti della sua passione e morte, ci ha somministrato un mezzo assai facile per ottenere il perdono dei peccati e conseguire la vita eterna. {74 [218]}

 

 

X. La confessione è un gran conforto al cristiano ed un mezzo efficace per fuggire il male e praticare il bene.

 

            A. Vi assicuro, sig. Curato, che io ammiro la vostra memoria e la vostra erudizione: io non saprei più che cosa opporre contro all'obbligo della Confessione. Solamente vi debbo dire, che a me riesce di gran peso l'andarmi a confessare. E ci sono alcuni miei compagni d'uffizio, i quali asseriscono essere per loro una vera tortura il confessarsi.

            C. Nelle cose stabilite da Dio non dobbiamo cercare ciò che pare grave al nostro intelletto; ma rispettare e venerare quanto Iddio ha stabilito per nostro bene. Perciocché essendo egli l'offeso e noi gli offensori non è giusto che ci sottoponiamo alle condizioni a lui benevise per rientrare in grazia sua? Per me poi vi assicuro che non capisco come la confessione possa essere una tortura; a meno che si voglia chiamare tortura quel rimedio che fa guarire un'infermità.

            A. Ciò non voglio supporre; perciocché sebbene {75 [219]} un rimedio sia di cattivo gusto, agiti molto il corpo, e produca dolorose sensazioni, nulla di meno trattandosi di guarire si prende comunque siasi.

            C. Applicate la similitudine della malattia corporale alla malattia spirituale. L'uomo pel peccato contrae un male che lo strascinerebbe alla morte eterna. L'unico rimedio per guarire da questa malattia è la confessione. Notate però bene che coloro i quali sono più assidui al Sacramento della confessione, sono appunto quelli che hanno vie più il cuore contento e vivono giorni di pace e di tranquillità. Al contrario quelli che chiamano tortura la confessione e che più di ogni altro avrebbero bisogno di confessarsi, recano poco disturbo ai confessori.

            A. Quelli che frequentano la confessione vivono allegri perchè non hanno peccati che pesino sull'anima; ma datemi un uomo che abbia una serie di peccati da confessare, come appunto è un cotale avvocato che vi parla, povero lui! che peso enorme sentirebbesi nel doverli manifestare!

            C. Questo peso, mio caro, è piuttosto immaginario che reale. Faccia costui la sua confessione, e poi vedrà da quale peso, da quali angoscie si sentirà liberato. Ho sentito {76 [220]} più volte uomini a dire che il giorno più bello, più felice di loro vita era stato quello in cui avevano aggiustate le cose di loro coscienza.

            A. Comunque sia, niuno può negarmi che la confessione sia un peso.

            C. Voi ripetete sempre le medesime cose. Volete voi dunque rigettare tutto ciò che pesa? Getterete via il danaro perchè pesa? Rifiuterete il cibo perchè pesa?

            A. No certamente, perchè il danaro è necessario per comperarci quanto ci occorre per la vita, e il cibo è necessario per vivere.

            C. Ma la confessione è necessaria per redimerci dalla sentenza di perdizione, per comperarci l'amicizia di Dio, e per acquistarci la vita eterna. La confessione è un cibo, un nutrimento indispensabile per la vita spirituale dell'anima, senza di che essa morrebbe e sarebbe eternamente perduta; onde possiamo dire che la confessione ben lungi dall'essere all'uomo una tortura, è piuttosto un balsamo salutare per le sue piaghe, un gran sollievo ai suoi mali. E una grande consolazione, quando agitato dai rimorsi della coscienza egli trova nella confessione un mezzo onde calmarsi gli affanni dell'anima e rassicurarsi di aver ristabilita la sua amicizia con Dio. {77 [221]}

            Che se taluno prova una qualche ripugnanza nel confessare le proprie colpe, ciò torna di grande vantaggio. Mette un ritegno a non commettere certi peccati, in cui l'uomo forse cadrebbe se non fosse di poi obbligato a manifestarli in confessione. Tale ripugnanza è già una penitenza che contribuisce assai ad avere un buon dolore dei peccati per chi sa vincersi e confessarli con sincerità.

            Altronde, cari amici, se ad un reo condannato a morte, nell'atto che sta per essere eseguita la sentenza, il Re mandasse un suo ministro a dirgli: «Se tu confessi schiettamente il tuo delitto a qualche tuo amico, sei immediatamente posto in libertà» forse ricuserebbe la proposta?

            A. Per non andare sulla forca io credo che farebbe una confessione generale in faccia a tutto il mondo.

            C. Questo colpevole siamo noi quando cadiamo in peccato mortale. Il Re è Dio, che manda i suoi Ministri, i Sacerdoti, a dire ai peccatori: Io vi assolvo dalla morte eterna, e vi restituisco in libertà e vi ridono l'amicizia col supremo Re del cielo e della terra; ed affinchè non dubitiate della mia asserzione ecco il decreto con cui io sono stato delegato per {78 [222]} eseguire questi ordini: quorum remiseritis peccata, remittuntur eis; quorum retinueritis, retenta sunt. (Joan. c. 20).

            A. Voi mi dite parole che mi convincono e mi persuadono sempre più dell'importanza della confessione; ma se è di tanta importanza la confessione, come va che i preti non si confessano?

            C. Chi vi disse che i preti non si confessano?

            A. lo non vidi mai alcun prete a confessarsi.

            C. Forse non capitaste mai trovarvi in Chiesa in circostanza che i preti si confessassero. Altronde i preti avendo molte occupazioni riguardanti al sacro loro ministero devono scegliere quei luoghi, quel tempo, quei confessori che loro riescono di maggior comodità. Ma ritenete bene che il precetto della confessione stringe tutti gli uomini del mondo, Monache, Frati, Preti, vescovi o cardinali, Generali d'armata, Principi, Re ed Imperatori, e lo stesso Sommo Pontefice, se vogliono ottenere il perdono dei loro peccati, non hanno altro mezzo fuori della confessione.

            Pietro. Il Papa! il Papa! ... E da chi andrà a confessarsi? {79 [223]}

            C. Il Papa medesimo va a confessarsi, e si confessa da un sacerdote; perchè un sacerdote approvato per udire le confessioni dei fedeli cristiani è in grado di confessare qualsiasi uomo della terra anche elevato alle più grandi dignità. Il Papa si confessa, e di Pio IX in particolare posso accertarvi che si confessa assai spesso ed anche più volte per settimana. Nè ciò deve farvi maraviglia. Perciocché la Confessione scancella i peccati e nel tempo stesso porge aiuto efficace a perseverare nel bene. Sicché vi sono molte persone pie, le quali per assicurarsi la via della salute, vanno assai spesso a confessarsi, quando anche la loro coscienza non li rimproveri di alcuna colpa. E ciò fanno per ottenere dal Signore grazie e benedizioni onde perseverare nel bene. Così fecero s. Carlo Borromeo, s. Francesco di Sales e tanti altri siccome attesta la storia.

            A. Tuttavia manifestare i miei segreti ad un uomo come sono io!

            C. Non è vero che il Confessore sia un uomo nel modo che dite voi. Se volete dire che sia un uomo composto di carne e di ossa pari a noi, vel concedo; ma non è certamente pari agli altri uomini {80 [224]} nella dignità di Ministro di Dio. Per farvi ben capire quanto vi dico, voglio servirmi di una similitudine. Il soldato che fa la guardia al palazzo del Re è simile agli altri uomini?

            A. In alcune cose è simile agli altri uomini, ma non in tutto?

            C. In che cosa è differente?

            A. È differente nelle divise che indossa, nelle armi che maneggia.

            C. Non in altre cose?

            A. E distinto anche in ciò che può usare le armi, e tenere lontano chi volesse entrare contro agli ordini ricevuti dal Sovrano.

            C. Volete dire che ha le divise, le armi, l'autorità di lasciar entrare o non lasciar entrare secondo gli ordini ricevuti.

            A. Appunto così.

            C. Facciamo ora l'applicazione. Il confessore sebbene sia simile agli altri uomini quando è nel tribunale di penitenza, tuttavia oltre le divise di ministro di Dio, è insignito di carattere sacerdotale, che lo costituisce in autorità di rimettere o ritenere i peccati. Dobbiamo piuttosto in ciò ammirare la bontà di Dio di aver destinato i Sacerdoti come Ministri degli ordini suoi e del perdono dei peccati. Perciocché se noi avessimo {81 [225]} dovuto confessare le nostre colpe ad un angelo mandato dal cielo, ne avremmo avuto terrore e spavento al pensare che quelli sono purissimi spiriti non soggetti ad alcuna miseria umana.

            A. Tutto va bene: quasi quasi mi risolvete di andarmi a confessare, nè saprei quale cosa opporre se non quella che si dice comunemente, cioè che quelli che si confessano sono peggiori degli altri. Così dice il mio libro.

            C. Miei cari amici, è questa un'espressione che i maligni pronunziano in discredito di nostra Santa Religione. Discorriamo alquanto sopra questo madornale sproposito. Asseriscono che coloro i quali si confessano spesso sono peggiori degli altri. Ditemi, sono gli uomini più onesti della società quelli che rubano, bestemmiano, maledicono, assassinano?

            A. Non dirò mai questo.

            C. Sono forse costoro che frequentano la Confessione?

            A. Nemmeno. Per lo più costoro o non vanno in chiesa, o vanno soltanto per avere occasione di tirare qualche borsa o togliere qualche fazzoletto.

            C. Quei cristiani che sparlano delle cose sante, violano i voti fatti a Dio, rinnegano {82 [226]} la loro religione per secondare le loro passioni, sono quelli che si confessano spesso?

            A. Io credo che tal razza di cristiani rechi poco disturbo ai confessori.

            C. Dunque secondo voi costoro non si confessano, e sono già uomini malvagi. Ditemi ancora: quei padri e quelle madri che non hanno cura della figliuolanza, passano il giorno festivo dandosi al bel tempo, mangiando, bevendo, giuocando, cagionando così scandalo e miseria nella famiglia, forsechè sono costoro assidui a confessarsi?

            A. Nemmeno potrò dir questo, perchè costoro appena conoscono la strada che conduce alla chiesa?

            C. Quelli poi che accudiscono i loro affari, vanno spesso in chiesa, si confessano e seguono gli avvisi del confessore; accudiscono la loro figliuolanza, si guardano dai disordini, amano il prossimo, non toccano la roba altrui, direste voi costoro peggiori degli altri?

            A. No certamente.

            C. Chiamereste voi peggiori, vale a dire più scostumati degli altri quelle giovani, quei giovanetti, tutti quei buoni cristiani che frequentano spessissimo e con esemplarità la confessione? {83 [227]}

            A. Costoro per lo più sanno neppure come si facciano i peccati.

            C. Ditemi ancora, tutti quelli che sono rinchiusi nelle carceri, quelli che di quando in quando sentite a dire essere condannati al patibolo, che propriamente voi chiamerete i peggiori, cioè i più malvagi degli uomini, erano forse cristiani fervorosi frequenti alla confessione?

            A. Basta, basta, signor Curato, avete ragione, sono cose che ho letto nel mio libro, che conosco sempre più essere una raccolta di spropositi. Mi sono accorto che i protestanti per sedurre i cattolici per prima cosa si mettono a sparlare della confessione, perchè se non riescono di allontanare i loro allievi dalla confessione, torna inutile ogni loro cura. Tuttavia io posso assicurarvi di aver conosciuto cristiani che si confessano spessissimo, e tengono una pessima condotta.

            C. Ciò può darsi perchè non avvi cosa buona e santa, di cui l'uomo non possa abusare; ma è sempre vera la regola generale che i migliori cristiani sono quelli che frequentano la confessione, perchè, come convenite anche voi, in generale si prova col fatto che i migliori e i più onesti uomini della società sono {84 [228]} quelli che frequentano la confessione; al contrario i più malvagi sono coloro che o non si confessano, o si confessano male.

            A. Mi pare però che in molti la facilità di ottenere il perdono dia ansa a commettere nuovi peccati.

            C. Se si desse l'assoluzione a tutti quelli che si presentano al tribunale di penitenza, forse la facilità di ottenere il perdono potrebbe dare ansa al peccato: ma dovete ritenere che il confessore non dà l'assoluzione se non quando scorge le dovute disposizioni nel penitente, tra le quali vi deve essere un fermo proponimento, cioè una sincera promessa di non offendere più Iddio in avvenire: p. es. chi avesse rubato non può ottenere la assoluzione senza che faccia una sincera promessa di non più rubare e di restituire il mal tolto; e spesso non si dà l'assoluzione finchè non siasi restituito intieramente ciò che si è rubato.

            Appunto a questo riguardo era solito a dire il dotto Silvio Pellico con un suo amico: «sono immensi i vantaggi» spirituali e temporali che apporta la» confessione! Quante famiglie rappacificate!» quanti giovani ricondotti a' loro genitori!» {85 [229]} quante risse impedite, quanti» furti riparati! e ciò tutto in grazia della» confessione.»

            «Spesso avviene che un povero prete» nel tribunale della penitenza impedisce» certi mali alla società che non potrebbe» fare una polizia con tutte le» sue indagini, neppure un Re con le «sue armate.» Così parlava della confessione quel filosofo veramente cristiano. Non dite più, amici miei, che la confessione è un peso od una tortura, dite piuttosto essere la confessione un conforto pei cuori afflitti e pei cristiani agitati dai rimorsi della colpa: essere un mezzo efficacissimo per allontanarci dal male, ed avviarci al bene; insomma essere la confessione un gran bene pell'uomo privato e per la pubblica società; ed essere il gran mezzo stabilito da Dio per riconciliarci colla suprema sua divina Maestà.

 

 

XI. Paterne accoglienze del confessore. Gran segreto della confessione.

 

 

            A. Ho già pensato più volte di andarmi {86 [230]} a confessare perchè alla fin dei conti son cattolico, e voglio vivere e morire nella religione cattolica; neppure vorrei differire la mia confessione fino al ponto della morte, quando uno è sforzato a confessarsi, perchè ciò che si fa per forza vale una scorza, dice il proverbio. Presto o tardi bisogna venire a questo punto. Ma che dirà il confessore in udire i mici pasticci! non sarà per farmi gravi rimproveri! Questo riflesso mi ha fatto differire l'esecuzione di tal mio divisamente.

            C. Niuna di queste cose vi trattenga dall'andarvi a confessare. Io posso assicurarvi, o caro Andrea, che il confessore non sarà sorpreso da alcuno stupore, nè sarà per fare alcun rimprovero; anzi egli vi accoglierà colla bontà di padre che vede il suo figlio ravveduto; vi accoglierà come giudice che conosce le vostre colpe, ma è autorizzato dal Re a condonarvi la pena meritata; vi accoglierà come un medico che si dà cura per un ammalato, e per cui tiene pronti rimedii efficaci onde guarirlo. Insomma andandovi a confessare e dichiarando con sincerità le vostre colpe, voi procurerete grandi consolazioni al confessore. {87 [231]}

            P. Volete forse dire che il confessore proverà piacere delle colpe commesse?

            C. Non dico che il confessore provi con solazione per le colpe commesse, ma prova la più grande consolazione nel vedere un'anima che rompe i legami con cui era vincolata dal demonio, vede che ritorna a Dio, vede che si prepara un abitatore di più pel paradiso, e gode nell'animo suo perchè egli è l'istrumento di cui la Provvidenza si serve per compiere un'azione così avventurosa.

            A. Dato che il confessore faccia buona accoglienza, non pare che si abbia a temere qualche rimprovero per quello che ha udito in confessione o forse forse che lo racconti ad altri?

            C. Niun timore vi prenda di ciò: il confessore non può parlare fuori di confessione nè con voi nè con altri di cose udite in confessione. Una legge naturale ecclesiastica e divina sotto a gravissime pene lo obbliga a tenere in rigorosissimo secreto tutto ciò che ha udito in confessione.

            A. Ciò va bene, ma se si trattasse di fare un buon contratto, o di qualche altro affare, credo che il confessore se ne possa servire, come difatti taluno si è già servito, siccome asserisce il mio libro. {88 [232]}

            C. Siamo di nuovo al vostro libro. Da quanto vi dissi potete già sapere qual conto dobbiate fare di ciò che in esso si contiene. Credetemi; se si trattasse non solo di fare un buon contratto, ma di guadagnare tutto il mondo, il confessore non può servirsi delle notizie avute in confessione; e questo è proibito sotto pena di peccato mortale, a cui vanno annesse pene severissime.

            A. Se si trattasse di salvare la vita propria, o l'onore, di far conoscere qualche società segreta, di svelare una rivoluzione non potrebbe il confessore servirsi di cose sapute in confessione?

            C. Quando anche si trattasse di liberar se stesso dalla morte e nel tempo stesso liberare tutti gli uomini da qualsiasi male, da qualsiasi rivoluzione, non potrebbe giammai servirsi di alcuna notizia avuta in confessione. Perchè questo segreto è rigorosamente comandato dalla legge naturale, divina ed ecclesiastica, che obbliga in ogni tempo e luogo senza eccezione. Ciò è comprovato eziandio dalla esperienza di diciotto secoli. Io potrei addurvi molti fatti per confermare quanto vi dico; quello di s. Giovanni Nepomuceno può valere per tutti. {89 [233]}

            Il Re di Boemia voleva obbligare questo santo a svelare alcune cose che supponea da lui udite in confessione dalla Regina; quel Re lo allettò con parole e con promesse; lo fece mettere in prigione e tormentare in tutte guise, e finalmente lo condannò ad una morte crudele; ma nulla mai potè cavare da quella bocca, che fu la bocca del primo martire del sigillo della confessione.

            A. Se non si è mai dato che il confessore abbia svelate cose udite in confessione, come va che il mio libro dice essere ciò avvenuto le tante volte?

            C. Vi ripeto che a quest'ora avete già potuto essere abbastanza convinto che il vostro libro è un impasto di menzogne. Invenzioni, calunnie, bugie tutto ivi è messo in opera purchè ridondi in discredito della confessione. Io posso però assicurarvi che sinora non si è mai dato e posso accertarvi che non si darà mai, che venga violato il sigillo della confessione. È un vero tratto della Divina Provvidenza che da G. G. fino a questi giorni non si possa addurre un fatto certo in proposito. Parecchi furono lusingati e richiesti in tempo di gravissime malattie, in tempo di frenesia, anzi alcuni preti per disgrazia {90 [234]} divenuti pazzi furono imprudentemente dimandati intorno a cose udite in confessione; ma il Signore dispose che nulla dicessero contro al sigillo sacramentale. Che più? lo stesso Lutero che pure era confessore, ed altri ecclesiastici che sgraziatamente apostatarono e rinunciarono al cattolicismo, sebbene costoro abbiano scritto e detto cose nefande contro alla religione, e contro alla confessione medesima, non mai giunsero a violare il segreto di questo sacramento. Anzi io son sicuro che il medesimo autore del vostro libro, che pure era prete e confessore, egli stesso non abbia mai rivelato, e spero che non verrà a tal punto di depravazione di rivelare alcuna cosa udita in confessione.

            A. Signor Curato, io comprendo e credo quello che mi dite, ma che siano poi tutte bugie i fatti che si raccontano di cose udite in confessione e di poi svelate?

            C. Caro amico, credetemi, finora non si può addurre un fatto certo contrario al sigillo della confessione. I malevoli dicono più cose per iscreditare questo Sacramento e vantano fatti di sigillo violato. Ma e con parole e con iscritti furono sempre sfidati a darci nome, cognome, {91 [235]} patria di un individuo cui sia ciò avvenuto. Finora niuno appagò questa universale aspettazione. Non è gran tempo che si presentò da me un saputello assicurandomi che egli aveva molti fatti a rimproverare su questo argomento, lo gli feci osservare che quand'anche avvenisse che qualche sacerdote tradisse il suo sacro ministero, non sarebbe punto diminuita la santità di questo Sacramento. Forsechè si possono chiamare profanatori gli Apostoli perchè ci fu un Giuda traditore? Notava di poi il mezzo provvidenziale usato da Dio per conservare un tal segreto. Ma egli insistendo sui fatti che egli diceva di sapere, io venni a questa proposta: se voi, gli dissi, o qualche vostro amico, mi potrete addurre un solo fatto di questo genere, ma che sia certo, io vi prometto cinquecento franchi. Apparecchiatemeli, soggiunse l'altro, sabato sarò da voi. Aspettate, ripigliai, ho già detto la medesima cosa ad altri e non vorrei che accadesse lo stesso a voi, cioè di non venirmi più a vedere. Verrò immancabilmente, conchiuse l'altro, vi do parola d'onore.

            A. Ebbene non è egli forse ritornato?

            C. Lo attendo da sui mesi e non è ritornato, {92 [236]} ed io credo che non verrà più perchè si trova nell'impossibilità di avere ciò che aveva promesso.

            A. Veramente quelli che ho udito tante volte a schiamazzare contro alla confessione mi adducevano sempre fatti vaghi, senza indicare il luogo, senza dire il nome del confessore e del penitente, e cominciano sempre i loro racconti con queste parole: ho sentito a dire.

            C. La qual cosa vien a significare che coloro non erano testimoni oculari, e che, se aveste loro dimandato, se gli espositori di que' fatti, li avevano uditi colle proprie orecchie, e veduti coi proprii occhi, non erano in grado di rispondere se non questo che anche eglino lo avevano sentito a dire.

            A. A parlare in tutta confidenza, signor Curato, io credo quanto mi affermate, e solo fui sbalordito di quanto si dice e si stampa nei libri e nei giornali. Del resto a proposito di quanto voi dite sul segreto della confessione mi ricordo di aver letto, che se uno andasse a confessarsi e dicesse che ha messo il veleno nelle ampolle destinate per la messa, il confessore non cangierebbe nè vino, né acqua, ma direbbe la messa come se {93 [237]} nulla fosse stato messo nelle ampolle, così esponendosi ad una certa morte.

            Mi ricordo pure d'un prete, mio compagno di scuola, che era andato a fare il vice-curato; e quello era veramente un buon prete! Quasi tutti andavano a confessarsi da lui. Ma quel poverino fu colto da febbri frenetiche e divenne pazzo. Un giorno eravamo parecchi amici insieme ed alcuni dimostravano compassione per lui, altri si trastullavano in udire le stravaganze che egli proferiva. Fu colà un impertinente che chiesegli se aveva udito una cotal cosa da una persona da lui confessata. - Lo credereste? Più volte interrogato non rispose mai parola. Ma l'altro instando nella dimanda, il prete senza dir nulla, dà di pìglio ad una sedia e in atto minaccioso va gridando; volete fare gli assassini? Ciò dicendo vibrò un colpo col quale poco mancò che rompesse la testa a chi aveva fatte tante importune dimande. - Ma non gli uscì mai di bocca una parola udita in confessione.

            C. Godo molto, che voi medesimo siate in grado di confermare coi fatti quanto vi dico sul sigillo della confessione. Dunque, miei cari, andate pur volentieri a confessarvi, {94 [238]} che il confessore non vi farà alcun rimprovero, nè giammai gli uscirà di bocca alcuna cosa udita nelle vostre confessioni.

            A. Ma quando il confessore ci vedrà non andrà almeno dicendo tra se stesso: costui mi ha confessato la tal cosa?

            C. Niun timor di ciò. Quella legge che stringe con massimo rigore al sigillo sacramentale, stringe egualmente i! prete a non fare alcun riflesso su ciò che ha udito; Perciò egli è obbligato di obliare quanto gli si dice in confessione. Quando poi vede il penitente non ravvisa più in lui che un amico leale, che usò con lui confidenza, e quanto più saranno strane le cose udite in confessione, tanto più grande sarà la tenerezza pel suo penitente, perchè in esso riconosce un infermo da lui guarito, un figlio ravveduto, una persona amica che gli confida ogni segreto del suo cuore.

            Altronde dovete notare che, eziandio umanamente parlando, il confessore non potrebbe ricordarsi di ciò che sente in confessione, attesa la moltitudine degli individui che a lui si prosentano, e la varietà delle cose che gli sono esposte. Ed io vi posso con tutta lealtà assicurare, che di quanti ho già confessato {95 [239]} nell'esercizio del mio ministero, non sarei in grado (anche volendo) di riferire una cosa sola all'individuo che me l'ha confidata. Perciò io dico a voi, o Andrea, e lo stesso dico ai vostri amici, che niuna cosa esce dal segreto sacramentale, niuna rimembranza rimane nel confessore di qualsiasi cosa udita in confessione.

 

 

XII. La confessione in punto di morte.

 

            A. Ammiro, sig. Curato, la ragionevolezza di quanto ci dite; convengo sulla necessità, utilità e segretezza della confessione, e vi assicuro che dopo quello che ci avete detto sulla necessità e segretezza di questo Sacramento, non saprei più come rifiutare di andarmi a confessare, tanto più che, a dirla schiettamente, avrei materia da raccontare al confessore. Ma io vo così ragionando tra me stesso: confessarmi e poi commettere gli stessi peccati non vorrei; d'altronde io conosco la mia fragilità, ed ho ragione di temere le medesime ricadute; perciò io ho divisato di aspettare al fin della vita a fare una buona confessione. Allora {96 [240]} poi mi confesserò, poi me ne morrò senza pericolo di ricadere nel peccato. Che ve ne sembra?

            C. In poche parole mi fate un mucchio di difficoltà, le quali in certa maniera mi eccitano al riso. Io vi risponderei di buon grado se la notte non mi avvisasse di recarmi frettolosamente a casa. Se così vi aggrada ritornerò altra volta.

            Germano. No, signor Curato, non partite: altrimenti interrompete il punto più importante della conversazione: non vi dia pena la notte, noi vi accompagneremo fino a casa.

            C. Giacchè così vi aggrada, io soddisfarò ancora alle difficoltà mosse dal signor Andrea. Voi mi dite, Andrea ...

            A. Io dico che non voglio andarmi a confessare e poi ricadere nei medesimi peccati.

            C. In ciò convengo. Perciocchè una delle più essenziali condizioni per fare una buona confessione si è un fermo proponimento di non più offendere Iddio in avvenire; nè questo proponimento si può dire fermo se non è efficace e non produce qualche mutazione di vita. Onde piuttosto di confessarci senza questo proponimento è meglio non andarci. Ma io {97 [241]} posso assicurarvi che se voi andate a confessarvi con buona volontà, e metterete in pratica gli avvisi del confessore, e se corrisponderete alla grazia che Iddio per certo non mancherà di comunicare all'anima vostra, voi non cadrete più in peccato. Che se mai non ostante ogni vostra precauzione ci cadeste nuovamente, sarebbe una pura disgrazia, cui voi potreste riparare tornandovi a confessare.

            A. Ma non è meglio aspettare in fine della vita? Allora non c'è più pericolo di ricadere.

            C. Quando sarà il fine di vostra vita?

            A. Io non so; ma certamente verrà.

            C. Certamente verrà; nol sapete, e nemmeno io lo so. Ma ditemi ancora: siete certo di aver tempo di confessarvi e comunicarvi in fine della vita?

            A. Io lo spero.

            C. Questa vostra speranza corre gravissimo rischio di esser delusa per mancanza di tempo. Il Signore dice a tutti: facciamo il bene mentre abbiamo tempo: Operemur bonum dum tempus habemus (Ad Gal. 10). Ci dice di conservare scrupolosamente il tempo: Fili, conserva tempus (Eccl. 4); perchè verrà l'ora che tu chiederai tempo, e Dio ti risponderà: {98 [242]} per te non v'è più tempo: tempus non erit amplius (Apoc. 13).

            A. Ma lasciamo da parte il dubbio che manchi il tempo; supponiamo che Dio non voglia mandarmi all'altro mondo con morte improvvisa; quindi io venga ammalato, mi corichi nel mio letto; e chi m'impedisce di confessarmi e comunicarmi?

            C. Per fare una buona confessione e una buona comunione bisogna che Dio vi conceda tempo per venire ammalato, tempo di una malattia alquanto lunga, che vi liberi da morte repentina ed improvvisa, che possiate farvi cescare un confessore; che questo confessore possa venire, e giunga ancora a tempo. Tutte queste cose sono indispensabili per fare allora una buona confessione. Chi vi assicura che Dio sia per concederle?

            A. Supponiamo che il Signore le voglia concedere.

            C. Anche supposto che il Signore voglia concedere tutte queste cose, ce ne mancano altre egualmente necessarie.

            A. Quali sarebbero?

            C. Oltre il tempo è necessaria la grazia. Senza questo aiuto della grazia di Dio noi non possiamo fare una buona confessione. {99 [243]} Da noi soli, cari amici, siamo nemmeno capaci di concepire un buon pensiero. Ogni cosa buona viene dal cielo: omne bonum desursum est, dice S. Giacomo (Ep. c. 1.) Tutte le grazie necessarie per la nostra eterna salute, il Signore ce le concede abbondantemente in tutto il corso di nostra vita mortale; ma non ci assicura di aspettarci in punto di morte. Altronde è certo che chi abusa della divina misericordia è indegno della divina misericordia, e si rende certamente indegno dei divini favori chi ne abusa finchè sta bene, aspettando poi di potersene approfittare in punto di morte.

            Infatti la Bibbia ci racconta come il Re Antioco sul finire della vita voleva pentirsi e prometteva ravvedimento; ma l'enorme abuso faito in vita delle grazie di Dio, lo rese indegno dei divini favori e morì disperato. Il Salvatore ci avvisa colla similitudine dell'albero infruttuoso. Aspettò che facesse frutto, e non avendone fatto, il giardiniere non ammise più alcuna dilazione. Pose la scure alla radice, lo tagliò, lo spezzò, lo consegnò alle flamine. Vera immagine di ciò che fa Iddio verso di chi aspetta a convertirsi in punto di morte.

            Perciò coloro che differiscono la loro {100 [244]} conversione in fine della vita hanno già gravissimi motivi di temere che si compiano in loro le minacce che Iddio fa a quelli che differiscono la conversione. Allora invocherai il mio aiuto, egli dice, ed io mi riderò di te. Invocabis me, et ego ridebo et subsannabo. (Proverb. 1.) Mi cercherete e non mi troverete, e morirete nel vostro peccato. Quoeretis me et non invenietis, et in peccato vestro moriemini. (Joan. 7.) E sarà quello il momento che il desiderio dei peccatori perirà. Desiderium peccatorum peribit. (Salm. 111.)

            A. Adagio, sig. Curato, voi ci spaventate tutti con queste minacce; parmi che voi mettiate l'uomo alla disperazione, quasi che il Signore gli voglia negare la grazia, quand'anche la chiami: mentre si dice che fintantochè c'è fiato c'è vita.

            C. Non voglio spaventarvi, ma solo esporvi una grande verità. Non dico che il Signore nieghi la grazia all'uomo mentre è in vita: io voglio solamente dire che l'abuso fatto della misericordia e della grazia di Dio, il tempo mal impiegato, o impiegato inutilmente, rendono l'uomo indegno di quei segnalati favori che in questi ultimi momenti sono indispensabili per fare una buona confessione. {101 [245]}

            A. Ma facciamo Iddio più buono e supponiamo che egli ci doni tempo e grazia, come possiamo sperare dalla sua infinita bontà. Che cosa ci manca per fare una buona Confessione con una buona Comunione e morir santamente?

            C. Le supposizioni che fate voi, caro Andrea, hanno già condotto, e conducono pur troppo tuttodì molti all'eterna dannazione. Ritenete essere cosa incertissima che il Signore doni tempo e grazia nei modo cho dite voi, ma supponendo ancora che Egli conceda l'uno e l'altra, pensate voi che nulla più ci manchi?

            A. Parmi che sì.

            C. Parmi di no. Per fare una buona confessione è necessario il tempo e la grazia, e queste due condizioni vengono dal Signore; ma è indispensabile una buona volontà dal canto nostro. La grazia di Dio è simile alla pioggia che cade nel campo. Il campo è il nostro cuore, il coltivatore del campo siamo noi medesimi. Siccome torna inutile la pioggia, ove il campo non sia coltivato, così rimane senza frutto la grazia di Dio ove noi non ci adopriamo di coltivarla nel nostro cuore con una volontà ferma e risoluta.

            A. Ma questa buona volontà v'è certamente. {102 [246]}

            C. Ma io temo grandemente che non ci sia.

            A. Chi può saper questo?

            C. L'esperienza ci ammaestra abbastanza intorno a quanto io vi dico. Se volete sapere qual conto si debba fare di questa buona volontà, cioè in qual conto si debbano tenere le confessioni fatte in punto di morte, osservate qual cangiamento succede in quelli che guariscono.

            G. Sig. Curato, avete ragione. Io conosco molti che si confessarono in punto di morte; e in quel momento pareva che si volessero fare tutti santi. Guariti dalla malattia ritornarono a parlare, fare, trattare come prima.

            A. Questo dimostra l'instabilità della mente umana.

            C. Questo dimostra che la conversione non era sincera. Noi dobbiamo giudicare della bontà dell'albero dalla bontà dei frutti; ex fructibus eorum cognoscetis eos, dice il Salvatore. (Matt. 7.) E se, la loro confessione produsse niun frutto, havvi non leggero motivo di temere che la confessione sia stata mal fatta.

            A. Se la buona volontà può tutto, perchè non potrà anche in quegli ultimi momenti confessarsi bene?

            C. Che sia possibile confessarsi bene anche {103 [247]} in punto di morte, ve lo concedo, ma che ciò accada ordinariamente, ve lo nego, eccetto che vogliate dire, che colui il quale non può portare un peso quando è sano e robusto, vogliate supporlo capace di portarlo quando è sfinito di forze ed oppresso da grave malattia.

            A. Io non dirò mai questo.

            C. Ora applicate da voi medesimo la similitudine alla coscienza dell'uomo gravemente infermo. Di fatto ditemi in grazia vostra, come può essere che un uomo sempre stato alieno da Dio, od almeno, non curante di lui, e de' Sacramenti in tutta la sua vita, possa poi ad un tratto, colle facoltà sue intellettuali così sfinite come io saranno in quel punto, rivolgersi totalmente a lui, ricevere colle debite disposizioni i Sacramenti, cioè abborrire il peccato sempre avuto così caro, abbracciare di tutto cuore la virtù fin allora quasi sconosciuta, e ciò tutto per principio d' amore? Gli esempi che riscontriamo nelle sacre scritture sono terribili. Al Re Saulle ed al Re Salomone mancò forse tempo o grazia per convertirsi?

            A. Costoro ebbero ambidue e tempo e grazia; anzi ottennero da Dio favori straordinari. {104 [248]}

            C. È vero; perciocchè furono scelti in mezzo al popolo per ordine di Dio, consacrati Re per ordine di Dio; furono Re assai lungo tempo, e ricolmi da Dio di grandi benedizioni. Pure a che fine furono condotti?

            A. Oh! è vero! l'uno finì con darsi volontariamente la morte, l'altro non so che fine abbia fatto.

            C. L'altro, cioè Salomone, cadde in gravissimi disordini fino a piegare il ginocchio ed offrire incenso alle false divinità, e morì in tale stato da lasciar gravissimo dubbio sulla sua eterna salvezza. Ora ditemi che cosa mancò a questi due Re per fare una buona morte?

            A. Io non saprei dirlo bene.

            C. Ve lo dirò io: loro mancò la buona volontà. Sono questi due terribili esempi che devono spaventare coloro che differiscono la loro conversione. Credetemi, egli è un fatto provato dall'esperienza di tutti i tempi che qualis vita, finis ita. Come si vive, si muore. Posto anche e tempo e grazia, nondimeno il male, i rimorsi del passato e del presente, l'abuso fatto della grazia di Dio, il demonio, che habens iram magnam (Apoc. 12.), farà ogni sforzo per farci continuare nel male, e quindi farci morire in peccato, queste cose opprimono {105 [249]} talmente l’infermo, gli perturbano in guisa l'intelletto, e accecano così la volontà, che l'uomo non vede più altro se non uno spaventevole avvenire, che lo fa esclamare: così, morte crudele, mi separi dal mondo! Siccine separas, amara mors! (1, Reg. 15.)

            A. Che non ci sia almeno almeno qualche esempio di uomini che siansi convertiti in fine della vita e siansi salvati?

            C. Sì, in tutta la storia della Sacra Bibbia no abbiamo uno, ma è solo: è quello del buon ladrone. Nello spazio di quattro mila anni, di tutti quelli che si convertirono in punto di morte, sappiamo di un solo che siasi davvero convertito e siasi salvato. E voi ben sapete in qual momento egli sia morto, e da chi sia stato confortato. Egli morì in un momento che il Salvatore dava la vita, e spargeva il suo sangue per salvare tutto il genere umano; in un momento che la bontà e la misericordia Divina toccava il grado supremo; in quell'ultimo momento uno dei due ladroni commosso e pentito si volse al moribondo Gesù dicendo: «abbi di me pietà.» Il Salvatore vedendo il pentimento di lui rispose: «oggi sarai meco in Paradiso.» (Luc. 23.) A questo proposito S. Agostino dice {106 [250]} che Iddio ha voluto che nella Sacra Bibbia fosse registrato il fatto di un solo affinchè l'uomo non disperi della misericordia divina, un solo affinchè niuno si lusinghi a differire la sua conversione in fine della vita.

            Del resto, miei cari, di tutti quelli che sono all'inferno posso assicurarvi che niuno voleva dannarsi, tutti avevano volontà di convertirsi prima di morire, ed intanto o sia loro mancata la grazia, o sia mancato il tempo, fatto sta che la loro volontà rimase inefficace ed ora sono dannati eternamente; e dal mezzo di quelle fiamme vanno gridando: - oh se ci fosse dato un po' di tempo per riconciliarci con Dio! Oh si daretur hora! - Ma loro si risponde per tutta l'eternità: «non vi è più tempo: tempus non erit amplius

            Amici, seguite il mio consiglio: se volete assicurare la vostra eterna salvezza, non differite di approfittare dei mezzi di salvezza stabiliti nel Sacramento della Confessione e Comunione; non differite la conversione. Si muore una volta sola, e dal morire bene o male dipende l'essere eternamente beato o eternamente dannato, e chi oggi non è preparato a morir bene, corre grave rischio di morir male. {107 [251]}

 

 

XIII. Esempio.

 

            C. Voglio terminare questa nostra conversazione con un fatto riguardante ad un personaggio amato e pregiato da tutti i buoni: egli è Silvio Pellico. Quest'uomo, conosciuto in tutta l'Europa pe' suoi scritti e per la sua pietà, nelle dure vicende della sua vita trovò sempre il suo conforto nella Confessione. Accadde che per affari politici egli fosse relegato a Spilbergo, che è una fortezza spaventosa dell'impero austriaco. Colà separato dagli amici, oppresso dalla sventura, quel grande ingegno pensa che è cristiano, che è cattolico, che c'è la confessione, e appunto nella confessione trova un conforto a' suoi mali. Ascoltato come egli prende a parlare del suo confessore e della confessione nel prezioso suo libro intitolato Le mie prigioni, capo 78.

            «A principio, per dir vero, io diffidava di lui (del confessore), io mi aspettava di vederlo volgere la finezza del suo ingegno ad indagini sconvenienti. In un prigioniero di Stato simile diffidenza è pur troppo {108 [252]} naturale; ma, oh quanto si resta sollevato allorchè svanisce, allorchè si scopre nell'interprete di Dio niun altro zelo che quello della causa di Dio e dell'umanità!

            «Egli aveva un modo a lui particolare ed efficacissimo di dar consolazioni. Io mi accusava, per esempio, di fremiti d'ira pei rigori della nostra carceraria disciplina. Ei moralizzava alquanto sulla virtù di soffrir con serenità e perdonando. Poi passava a dipingere con vivissima rappresentazione le miserie delle condizioni diverse della vita. Aveva molto vissuto in città ed in campagna, conosciuto grandi e piccoli, e meditato sulle umane ingiustizie; sapeva descrivere bene le passioni ed i costumi delle varie classi sociali. Dappertutto ei mi mostrava forti e deboli, calpestanti e calpestati; dappertutto la necessità di odiare i nostri simili, o di amarli per generosa indulgenza e per compassione. I casi che ei raccontava per rammemorarmi l'universalità della sventura, ed i buoni effetti che si possono trarre da questa, nulla aveano di singolare, erano anzi affatto ovvii; ma diceagli con parole così giuste, così potenti, che mi facevano fortemente sentire la deduzione da ricavarne.

            «Ah sì! ogni volta che io aveva udito {109 [253]} quegli amorevoli rimproveri e que' nobili consigli, io ardeva d'amore della virtù, io non aborriva più alcuno, io avrei data la vita pel minimo de' miei simili, io benediceva Dio d'avermi fitto uomo.

            «Ah! infelice chi ignora la sublimità della confessione! infelice chi per non parer volgare si crede obbligato di guardarla con ischerno. Non è vero che ognuno sapendo già che bisogna esser buono, sia inutile di sentirselo a dire; che bastino le proprie riflessioni ed opportune letture; no! la favella viva d'un uomo ha una possanza, che nè le letture nè le proprie riflessioni non hanno! l'anima ne è più scossa; le impressioni, che vi si fanno, sono più profonde. Nel fratello che parla, v'è una vita ed un'opportunità che sovente indarno si cercherebbero nei libri e nei nostri propri pensieri.»

            Fin qui Silvio Pellico.

            Nè alcuno pensi che quel grande ingegno, uscito di prigione, cangiasse modo di parlare o di operare. Conobbe il gran bene che è la confessione e la raccomandò e la praticò con assiduità in tutto il corso del viver suo. In una lettera ad un sacerdote suo amico, fra le altre {110 [254]} cose diceva: «V. S. si occupa molto «della gioventù e fa bene. Ne avrà «merito dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini «onesti della società. Ma ritenga che i «mezzi più efficaci per infondere nei «cuori cristiani la virtù sono la «confessione e comunione. Ella riporterà «copioso frutto delle sue fatiche, se si «adoprerà di far amare e praticare «questi due mezzi di salvezza. L'assicuro «che se mai non fossi nato cattolico, «il solo bene che riconosco nella «confessione sarebbe per me motivo «sufficiente per divenirlo quando anche «non vi l'osse altro motivo. Oh «fortunati quei popoli tra cui si pratica la «confessione; fortunati quei giovinetti «che cominciano a praticarla nella «prima loro età!»

            Nell'ultima sua malattia, che fatalmente il tolse di vita l'anno scorso (1854), i suoi conforti furono la contusione e comunione. Munito di questi due Sacramenti, soffrì il suo male da forte e fermo nelle promesse del Signore col riso sulle labbra spirò l'anima nel bacio del Signore dicendo: Mio Dio ... mio Salvatore ... gran Vergine Maria ... fate che io vi ami ora ed in eterno. {111 [255]}

            A. Signor Curato; le ragioni da voi addotte in conferma dell'istituzione divina della confessione, e dei grandi vantaggi, che da questa se ne ricavano, mi hanno, vel'assicuro, pienamente convinto; anzi il mio cuore fin d'ora è deciso di volerne approfittare. Ringrazierò sempre la divina Bontà per tanto beneficio concesso agli uomini e ringrazierò pur sempre voi, signor Curato, per la pazienza usata verso di me insanendomi e cavandomi fuori dagli errori, che offuscavano la mia mente. Gridi pur chi vuole contro la confessione, che io dirò ancora, che così si grida per non lasciare il peccato, e per sopprimere il rimorso della coscienza.

            C. Ogni ringraziamento sia al sommo Dio Datore d'ogni bene, e padre dei lumi, a cui fia onore e gloria per tutti i secoli. Il Signore vi benedica tutti, miei cari, buona notte a tutti. Addio.

 

 

Appendice sol libro intitolato: La Confessione saggio dogmatico storico.

 

            È un fatto che i protestanti non possono fare preda fra i cattolici senza prima allontanarli dalla pratica della confessione. Perciò in ogni tempo si adoperarono e si adoperano {112 [256]} tuttora accanitamente per combatterla. Tra quelli che in questi ultimi tempi si segnalarono nello scrivere e predicare contro la confessione fu Luigi Desanctis sacerdote romano. In giovanile età egli erasi iniziato nella via ecclesiastica; poi abbracciò lo stato religioso e visse alcuni anni tra i crociferi o Ministri degl’Infermi. In quest'Ordine ottenne di essere fatto parroco di una chiesa di Roma. Erasi già segnalato in alcune opere di zelo, quando gli saltò il grillo di passare allo stato matrimoniale.

            Ciò era incompatibile coi voti solenni che aveva fatto e collo stato sacerdotale. Cominciò a manifestare principii anticattolici. Fu avvisato, minacciato; egli divenne ostinato. Doveva essere sospeso dal sacro ministero quando egli troncando ogni indugio, si ribellò a quella religione che da lunga serie d'anni professava e predicava. Un abisso chiama un altro abisso; e una cosa ottima quando si corrompe diviene pessima. Il Desanctis non è più cattolico, abbandona lo stato sacerdotale, si ammoglia con una giovine protestante e diviene egli stesso protestante.

            Non contento del protestantismo si la valdese e riesce a divenire ministro di Pietro Valdo. Così colui che non volle ubbidire {113 [257]} al Papa che lo trattava da padre, è costretto di soggettarsi a novelli superiori che lo fanno loro schiavo e lo avviliscono in tutte guise e finiscono col licenziarlo dalla loro comunione e scomunicarlo con modi così indegni, che tali, come dice egli stesso, non gli furono mai usati dai cattolici. Licenziato così dai valdesi, egli cercasi un'altra religione e diviene evangelico, cioè s'unisce a quella setta che pretende di non ammettere altra credenza se non il vangelo puro, e interpretato come torna più a genio di ciascheduno. E poichè questa novella religione lo mise in relazione colla Società Evangelica italiana, che mi si assicura essere un vero massonismo, a questa si unì. Presentemente il Desanctis lavora per la Società Evangelica italiana, senza però sapere a quale Chiesa, a quale comunione di credenti appartenga.

            All'epoca che egli passò al protestantismo, quando (se ciò si può dire) era tutto infervorato per la novella religione, scrisse il famoso libro intitolato Saggio Dogmatico Storico intorno alla confessione. Quest'operetta che in tutto è un fascicolo di 115 paginette, racchiude tutti gli spropositi che gli increduli e gli eretici dissero contro alla confessione. Io l'ho voluto leggere attentamente da capo {114 [258]} a fondo; e sebbene provassi orrore per le nefandità ivi inserite, volli nondimeno meditarla attentamente e confrontarla cogli autori ivi citati.

            Io posso accertare il lettore cho qui non si scorge più nè ragione nè religione; è l'uomo in delirio che parla. Egli si paragona a S. Paolo; rigetta l'autorità di tutti i Padri, e pretende di seguire la religione dei Padri. Da G. C. fino alla pubblicazione, del suo libro niuno intese il vangelo fuori di lui; pare anzi, secondo lui, che quasi nemmeno G. C. l'abbia inteso a dovere. Tutti i papi, tutti i concilii, tutti i vescovi, tutti i preti confrontati con lui sono altrettanti bamboli che sanno nemmeno l'abicì delle scienze. Io credo che tra tutti quelli che l'inferno eccitò contro alla S. Chiesa di G. C., niuno ve ne sia che abbia scritto più empiamente e più scelleratamente. Nè ciò deve fare maraviglia, perchè, come dissi, la corruzione di una cosa ottima diventa pessima. Noto però che l'autore non ha niente di nuovo; perciò tutti gli errori ivi contenuti sono già stati le mille volte confutati. Egli nulla risponde alle ragioni altrui, che gli turerebbono la bocca, ma rivanga quanto da altri fu detto contro alla confessione e del suo aggiunge solo {115 [259]} parole vili e dispregevoli intorno alle cose più venerande, e specialmente contro alla sacramental confessione. E poichè valenti scrittori hanno già eziandio confutato ad uno ad uno gli errori che egli seppe accumulare nel suo libretto, così io nel decorso di queste conversazioni ho procurato solo di esporre e provare la verità che egli si sforza di abbattere. La qual cosa mentre prova e conferma la dottrina cattolica serve a far conoscere l'errore e la calunnia, e porgere al cristiano quei lumi e quegli avvisi necessari per guardarsi bene dal veleno sparso in quel libro. Laonde non mi fermo a far rilevare quell'astio infernale che in ogni pagina si manifesta contro alla Chiesa Cattolica, nè il modo indegno con cui conculca e profana le cose più sante della religione; io voglio limitarmi ad accennare alcune delle molte contraddizioni ivi contenute; perciocchè la contraddizione essendo un segno positivo dell'errore, ciò provato si comprenderà che quel libro è un impasto di spropositi destinati a lusingare gli incauti, e ad ingannare gli ignoranti. - Ecco adunque alcune contraddizioni che si leggono nel libro intitolato La Confessione, Saggia Dogmatico Storico.

            1o Egli vuole che ciascuno sia libero {116 [260]} nella interpretazione del vangelo, ma pretende che ciascuno debba seguire i suoi detti come norma infallibile.

            2° Egli nega l'autorità dei Padri della Chiesa, e tutto ciò che egli nega o ammette si sforza di appoggiarlo sull'autorità di questi santi Padri.

            3° Rigetta la confessione praticata nella Chiesa cattolica e intanto fa sperticati elogi alla confessione praticata dai protestanti.

            4° Dice che la confessione è stata invenzione di Innocenzo III, e altrove dice che la confessione è stata introdotta da S. Benedetto, cioè sei secoli prima di Papa Innocenzo III.

            5° Dice che la pratica della confessione nacque dodici secoli dopo gli Apostoli, cioè nel Concilio Lateranese quarto; e la stessa pratica la pone poi come introdotta dai vescovi provenienti da ordini monastici nei secoli sesto, settimo e ottavo, cioè molti secoli innanzi al Concilio Lateranese quarto.

            6o Egli dice che la confessione fu inventata da S. Benedetto, nel secolo sesto, e poi dice che la confessione fu condannata da Nettario vescovo di Costantinopoli nel secolo quarto; di maniera che la confessione sarebbe stata condannata due secoli prima che esistesse. {117 [261]}

            7° Dice che la confessione è stata in uso da S. Benedetto solo presso a' suoi monaci nel secolo sesto, e poi dice che la stessa confessione fu messa in uso ai tempi dell'imperatore Decio nel secolo terzo.

            8° Dice che la confessione fu dai preti introdotta nel popolo per dominarlo nel secolo sesto, settimo e ottavo; e poi dice che la stessa confessione fu introdotta presso al popolo all'epoca dei Novaziani nel secolo terzo.

            9° Disapprova la confessione perchè conduce all'immoralità e raccomanda quella dei protestanti, che egli medesimo conviene non essere un sacramento, nè avere un sigillo sacramentale.

            10° Protesta che egli non vuole nè protestantismo, nè luteranismo, nè calvinismo, ma che vuole condurre gli italiani al puro vangelo. Intanto si sforza di condurre al protestantismo e diviene egli stesso ministro protestante nella città di Torino.

            11o Nega la tradizione, e intanto più di due terzi del suo libro non contengono che cose tradizionali.

            Oltre a queste e moltissime altre contraddizioni sparse in quel libro, vi si incontrano eziandio cose che non si possono attribuire se non ad ignoranza crassa o a mala fede, per esempio: {118 [262]}

            1o Egli dice che le parole dette dal Salvatore: quorum remiseritis etc. con cui conferì il potere di rimettere i peccati, sono indirizzate alla turba dei fedeli; perciò secondo lui, uomini, donne, giovani e fanciulli sarebbero tutti egualmente confessori. Mentre il contesto del Vangelo, il medesimo senso letterale, l'interpretazione universale e costante di tutti i secoli riferiscono quelle parole ai soli Apostoli; siccome convengono i più dotti tra i protestanti (Vedi Rosenmullere e Kuinoel).

            Di più egli passa sotto silenzio tutto quello che in questo luogo potrebbe fare contro di lui.

            2° Per combattere la confessione egli dice che il Salvatore non ha mai confessato, senza badare che il Salvatore come Dio onnipotente e sapiente conosceva ogni segreta azione, ogni pensiero, epperciò poteva conoscere quelli che erano o non erano pentiti e dire come difatti diceva ai peccatori: remittuntur tibi peccata tua, vade in pace.

            3° Fa dire a S. Tommaso e al Bellarmino cose che eglino non hanno mai immaginato nè di dire nè di scrivere.

            4° Dice che S. Cipriano e S. Agostino morirono scomunicati senza confessarsi. {119 [263]} Dove egli abbia imparato questo fatto egli solo lo sa; niuno scrittore ecclesiastico ha mai fatto menzione di tale impenitenza finale di S. Agostino e di S. Cipriano.

            5° Egli dice che S. Benedetto introdusse la confessione tra suoi monaci nel secolo sesto, ed egli come prete avrebbe certa mente dovuto sapere che due secoli prima S. Basilio aveva già introdotto quest'uso tra le religiose, in maniera che queste dovevano propriamente confessarsi ad un prete; e S. Basilio dà le regole come ciò abbiasi a praticare.

            6° Egli cita molti santi Padri, tra cui S. Basilio, S. Giovanni Grisostomo, S. Ambrogio, S. Agostino, e si sforza di combattere la confessione coll'autorità di questi santi Dottori, mentre siamo fatti certi dalla storia ecclesiastica e dagli scritti dei medesimi Padri come essi fossero molto assidui e zelanti nell'assistere alle confessioni e raccomandassero caldamente ai cristiani di non trascurare la frequenza di questo Sacramento.

            7° Accusa la chiesa cattolica perchè proibisce la lettura della Bibbia, e questa è una calunnia; perciocchè non fu mai nè Papa, nè Santo Padre, nè Concilio, da cui siasi fatta tal proibizione. Anzi la Chiesa {120 [264]} Cattolica raccomandò mai sempre la lettura della Bibbia e particolarmente del Vangelo. Egli poi come prete cattolico avrebbe dovuto sapere come la Chiesa Cattolica raccomandi egualmente la lettura e la predicazione del Vangelo, Non minus est necessaria praedicatio evangelii, quam lectio. Canc. T. sess. cap. 2.

            Io potrei ancora addurre moltissimi passi che dimostrano le contraddizioni, la mala fede e l'ignoranza dell'autore. Ma basti quanto ho detto per far conoscere quanto sia infelice il cattolico che rinnega la propria religione; perciocchè l'intelletto dell'apostata diventa così oscurato e il cuore di lui così indurito, che o non più conosce o non vuole più conoscere la verità. La qual cosa mi riesce in parlicolar maniera dolorosa in questo caso; perciocchè da alcune, corrispondenze e da alcuni colloqui che taluno ebbe col Desanctis, mi risulta positivamente che non per motivi religiosi egli abbandonò il cattolicismo, e che per motivi affatto estranei alla religione continua a vivere nell'attuale sistema di credenza.

            Chi desiderasse una confutazione più copiosa del libro del Desanctis potrebbe leggere l'opera del monaco Belli fiorentino, quella del T. Negri torinese, quella del {121 [265]} parroco Casaccia biellese. Il protestantismo e la regola di fede; il catechismo intorno alla Chiesa cattolica. Lezione XII del P. Perrone.

 

 

Alcuni detti proferiti da celebri protestanti intorno alla confessione.

 

            I protestanti sul principio della loro separazione dalla Chiesa Cattolica ammettevano e praticavano la confessione. Più tardi, quando fu commesso a ciascuno di spiegare la Bibbia ad arbitrio, alcuni ammisero la confessione, altri la negarono. Però i più dotti protestanti convennero sempre sulla necessità della medesima.

            Lutero stesso nel suo piccolo catechismo dice: «Noi dobbiamo palesare al confessore i «peccati che conosciamo e sentiamo nel «nostro cuore.» In altro luogo dice: «Io sarei già stato da lungo tempo «strangolato, se non fossi stato sostenuto dalla «confessione.»

            L'inglese protestante William fa elogio di molte pratiche cattoliche; venendo poi a parlare della confessione si esprime cosi: «Egli è impossibile di stabilire la virtù, «la giustizia e la morale sopra basi «alquanto {122 [266]} solide (tant soit peu solides) senza «il tribunale della penitenza.»

 

(Lord Fitz William, Lettres Attiens.)

 

            Andrevo vescovo protestante dice: «è chiaro, che la confessione fatta solamente a Dio non può bastare dopo la istituzione di Gesù Cristo.»

            Il famoso medico Tissot, protestante, aveva notato che gli ammalati cattolici dopo essersi confessati mostravano in mezzo ai loro dolori una serenità ed una rassegnazione dolce e paziente che aiutava molto all'efficacia dei rimedi, pel che andava er sclamando: quanto mai è grande la potenza della confessione presso ai cattolici!

            Nell'anno 1839 un ministro protestante in una riunione di uomini dotti, essendosi venuto a parlare della confessione, non potè a meno di rendere questa testimonianza a favore del cattolicismo: «Mi sembra che basti entrare in se stesso per comprendere come la Chiesa Romana oltre alle grazie di cui è depositaria, oltre la sua divina autorità, ella trovi eziandio grandi conforti pei bisogni più segreti dell'anima nostra. Chi non rimira con occhio d'invidia il tribunale di penitenza? Chi, nell'amarezza del rimorso, e nell'incertezza del {123 [267]} perdono divino, chi non desidererebbe di udire una bocca, che colla potenza di G. C. gli possa dire: va in pace: i tuoi peccati sono perdonati!»

 

(Thèse de M. Naville ministre prot.).

            Si può dire che i più dotti protestanti d'oggidì approvano la confessione siccome è praticata presso ai cattolici. Valga per tutti la testimonianza di due soli: Montagne vescovo protestante lasciò scritto: «È riconosciuto che tutti i sacerdoti, ed i soli sacerdoti, hanno potere di rimettere i peccati, e che la confessione auriculare fatta ad un sacerdote è una pratica molto antica nella Chiesa.»

            L'altra autorità è del vescovo protestante Sparow: «La nostra confessione, egli dice, deve essere integra et perfecta e non finta. Noi dobbiamo confessare tutti i nostri peccati. Il cielo aspetta la sentenza del sacerdote: e il Signore o lega o scioglie ciò che il suo ministro ha legato o sciolto sopra la terra.» A questi due unisconsi parecchi altri insigni dottori protestanti moderni.

            Che più? la stessa liturgia anglicana generalmente seguita da tutti i pastori protestanti raccomanda la confessione soprattutto in punto di morte. Eccone le precise {124 [268]} parole: «Se l'ammalato sentesi la coscienza aggravata di qualche grave peccato sarà esortato a fare la confessione particolare dei suoi peccati. Dopo la confessione il prete gli darà l'assoluzione in questa maniera, purchè egli la dimandi con umiltà e con vero pentimento: Il nostro Signor Gesù Cristo che ha fato alla sua Chiesa la facoltà di assolvere tutti i peccatori, che sono veramente pentiti, e che credono in lui, ti voglia perdonare i tuoi peccati per la sua infinita misericordia. Ed io in virtù dell'autorità datami da lui, ti assolvo da tutti i tuoi peccati, nel nome del Padre, e del Figliuolo, e dello Spirito Santo. Così sia

 

(V. Lit. Angl. Rub).

 

            Alle accennate autorità de' protestanti se ne potrebbe aggiugnere una lunga serie di uomini increduli, i quali nei chiari intervalli della loro mente riconobbero la santità, l'utilità, e la divina istituzione della confessione. Per non eccedere i limiti della brevità richiesta da questi libretti, arrecheremo l'autorità di due dotti increduli, che si potrebbero chiamare i più empi degli uomini: Gian Giacomo Rousseau e Voltaire.

            Gian Giacomo Rousseau, uomo senza fede e senza legge, parlando della confessione {125 [269]} disse: «Quante restituzioni, quante riconciliazioni non ha ella mai fatto fare la confessione presso ai cattolici!»

            Voltaire in più cose peggiore di Rousseau e gran dispregiatore di ogni cosa sacra, tuttavia non poteva a meno di lodare la confessione sacramentale. Voleva che i suoi servitori andassero regolarmente a confessarsi, e preferiva di trattare con quelli che frequentavano la confessione. «La confessione, egli diceva, può considerarsi come il più gran freno de' delitti segreti.» Altrove diceva: «la Confessione è cosa eccellentissima, è un freno alla colpa. Nella più rimota antichità regnava l'uso di confessarsi nella celebrazione di tutti gli antichi misteri. Noi abbiamo imitato e santificato quella savia costumanza, ella è ottima per condurre i cuori ulcerati da odio al perdono. - (V. Encycl. T. 3).

 

            Egli medesimo in punto di morte non potè acquetar i suoi rimorsi senza dimandare la confessione. Potè cominciarla, ma ingannato dai suoi amici non potè terminarla e dovette morire tra i rimorsi e la disperazione. - (Baruel Storia del Giac.).

            Sopra la testimonianza di Voltaire intorno la confessione, Silvio Pellico ragiona così; {126 [270]}

            «Ciò di che Voltaire osa qui convenire, sarebbe vergogna che non fosse sentito da chi si onora di essere cristiano. Porgiamo ascolto alla coscienza, arrossiamo delle azioni che ci rimprovera, confessiamole per purificarci, e non cessiamo da questo santo lavacro sino alla fine dei nostri di. Sì, pentirci dei nostri fatti! la nostra vita debb'essere tutta di pentimento e d'aspirazione ad emendarci. Se al pentimento va congiunto un verace desiderio di ammenda, rida chi vuole, ma nulla vi può essere di più salutare, più sublime, più degno dell'uomo.»

 

(Doveri degli uomini cap. 17).

 


15 agosto 1943

Madre Pierina Micheli

Data memorabile! Nella Chiesa di Artò per la prima volta si svolse la cerimonia delle Vestizioni e Professioni delle Suore! La Chiesa preparata solennemente, come non mai fu vista. Al suono dell'organo le probande bianco vestite, seguite dalle Novizie entraro­no processionalmente e presero posto sull'altare. Incominciò il Santo Sacrificio. All'Offertorio, il canto del Veni Creator, e il nostro Vene­rato Padre incomincia la cerimonia della Vestizione... Rivolse al po­polo e alle Religiose parole calde, di unzione, mostrando la preziosità dell'atto che si andava compiendo. Canti e suoni si succedevano nella semplicità montanara, ma pur commovente!

Tutto riuscì nella pace del Signore, assisteva il R. Parroco e il R. Padre Fusarelli, Gesuita.

Sarebbe stato vero gaudio, se i continui bombardamenti non ci aves­sero tenuti angosciati, per la sorte di tante anime, giorni veramente tristi!

Nel pomeriggio, dopo aver assistito ai Vespri in Parrocchia, il nostro Padre impartì la Benedizione Eucaristica nella nostra Cappellina e ci rivolse ancora la Sua parola, che ci fa tanto bene. Giorni di grazie e di benedizioni! Il Signore aiuti a trarne frutti abbondanti di bene.