Sotto il Tuo Manto

Lunedi, 21 luglio 2025 - San Lorenzo da Brindisi (Letture di oggi)

"Bellezza del cielo è la gloria delle stelle, gloria che illumina il mondo" (Eccli 43,10). Queste parole mettono in risalto la purezza della natività  di Maria. Come ogni stella si distingue dalle altre per il suo splendore, così la natività  della beata Vergine Maria si distingue da quella di tutti gli altri santi. La natività  di Maria riempì di luce il mondo, che prima era coperto dalla caligine e dall'ombra della morte. (Sant'Antonio di Padova)

Liturgia delle Ore - Letture

Sabato della 11° settimana del tempo ordinario (San Luigi Gonzaga)

Per questa Liturgia delle Ore è disponibile sia la versione del tempo corrente che quella dedicata alla memoria di un Santo. Per cambiare versione, clicca su questo collegamento.
Questa sezione contiene delle letture scelte a caso, provenienti dalle varie sezioni del sito (Sacra Bibbia e la sezione Biblioteca Cristiana), mentre l'ultimo tab Apparizioni, contiene messaggi di apparizioni a mistici o loro scritti. Sono presenti testi della Valtorta, Luisa Piccarreta, don Stefano Gobbi e testimonianze di apparizioni mariane riconosciute.

Vangelo secondo Giovanni 8

1Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi.2Ma all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava.3Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo,4gli dicono: "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.5Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?".6Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.7E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei".8E chinatosi di nuovo, scriveva per terra.9Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo.10Alzatosi allora Gesù le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?".11Ed essa rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù le disse: "Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più".

12Di nuovo Gesù parlò loro: "Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita".

13Gli dissero allora i farisei: "Tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera".14Gesù rispose: "Anche se io rendo testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove vengo e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado.15Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno.16E anche se giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato.17Nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera:18orbene, sono io che do testimonianza di me stesso, ma anche il Padre, che mi ha mandato, mi dà testimonianza".19Gli dissero allora: "Dov'è tuo padre?". Rispose Gesù: "Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio".20Queste parole Gesù le pronunziò nel luogo del tesoro mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora giunta la sua ora.
21Di nuovo Gesù disse loro: "Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire".22Dicevano allora i Giudei: "Forse si ucciderà, dal momento che dice: Dove vado io, voi non potete venire?".23E diceva loro: "Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo.24Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che io sono, morirete nei vostri peccati".25Gli dissero allora: "Tu chi sei?". Gesù disse loro: "Proprio ciò che vi dico.26Avrei molte cose da dire e da giudicare sul vostro conto; ma colui che mi ha mandato è veritiero, ed io dico al mondo le cose che ho udito da lui".27Non capirono che egli parlava loro del Padre.28Disse allora Gesù: "Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo.29Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite".30A queste sue parole, molti credettero in lui.

31Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: "Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli;32conoscerete la verità e la verità vi farà liberi".33Gli risposero: "Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?".34Gesù rispose: "In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato.35Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre;36se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero.37So che siete discendenza di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova posto in voi.38Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro!".39Gli risposero: "Il nostro padre è Abramo". Rispose Gesù: "Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo!40Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l'ha fatto.41Voi fate le opere del padre vostro". Gli risposero: "Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!".42Disse loro Gesù: "Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato.43Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole,44voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna.45A me, invece, voi non credete, perché dico la verità.46Chi di voi può convincermi di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete?47Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio".
48Gli risposero i Giudei: "Non diciamo con ragione noi che sei un Samaritano e hai un demonio?".49Rispose Gesù: "Io non ho un demonio, ma onoro il Padre mio e voi mi disonorate.50Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca e giudica.51In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte".52Gli dissero i Giudei: "Ora sappiamo che hai un demonio. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: "Chi osserva la mia parola non conoscerà mai la morte".53Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere?".54Rispose Gesù: "Se io glorificassi me stesso, la mia gloria non sarebbe nulla; chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: "È nostro Dio!",55e non lo conoscete. Io invece lo conosco. E se dicessi che non lo conosco, sarei come voi, un mentitore; ma lo conosco e osservo la sua parola.56Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò".57Gli dissero allora i Giudei: "Non hai ancora cinquant'anni e hai visto Abramo?".58Rispose loro Gesù: "In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono".59Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.


Secondo libro dei Maccabei 5

1In questo periodo di tempo Antioco organizzò la seconda spedizione in Egitto.2Sopra tutta la città per circa quaranta giorni apparivano cavalieri che correvano per l'aria con auree vesti, armati di lance roteanti e di spade sguainate,3e schiere di cavalieri disposti a battaglia e attacchi e scontri vicendevoli e trambusto di scudi e selve di aste e lanci di frecce e bagliori di bardature d'oro e corazze d'ogni specie.4Per questo tutti pregarono che l'apparizione fosse di buon augurio.
5Essendosi diffusa la falsa notizia che Antioco era passato all'altra vita, Giàsone, prendendo con sé non meno di mille uomini, sferrò un assalto alla città. Si accese la lotta sulle mura e, quando la città era ormai presa, Menelao si rifugiò nell'acròpoli.6Giàsone fece strage dei propri concittadini senza pietà, non comprendendo che un successo contro i propri connazionali era il massimo insuccesso, e credendo di riportare trofei sui nemici e non sulla propria gente.7Non riuscì però ad impadronirsi del potere e alla fine, conscio della vergogna del tradimento, corse di nuovo a rifugiarsi nell'Ammanìtide.8Da ultimo incontrò una pessima sorte. Imprigionato presso Areta, re degli Arabi, fuggendo poi di città in città, perseguitato da tutti e odiato come traditore delle leggi, riguardato con orrore come carnefice della patria e dei concittadini, fu spinto in Egitto;9colui che aveva mandato in esilio numerosi figli della sua patria morì presso gli Spartani, fra i quali si era ridotto quasi a cercare riparo in nome della comunanza di stirpe.10E ancora, colui che aveva lasciato insepolta una moltitudine di gente, finì non pianto da alcuno, privo di esequie ed escluso dal sepolcro dei suoi padri.
11Quando il re venne a conoscenza di questi fatti, concluse che la Giudea stava ribellandosi. Perciò tornando dall'Egitto, furioso come una belva, prese la città con le armi12e diede ordine ai soldati di colpire senza risparmio quanti capitavano e di uccidere quelli che si rifugiavano nelle case.13Vi fu massacro di giovani e di vecchi, sterminio di uomini, di donne e di fanciulli, stragi di fanciulle e di bambini.14Ottantamila in quei tre giorni furono spacciati, quarantamila nel corso della lotta e in numero non inferiore agli uccisi furono quelli venduti schiavi.
15Non sazio di questo, Antioco osò entrare nel tempio più santo di tutta la terra, avendo a guida quel Menelao che si era fatto traditore delle leggi e della patria,16e afferrò con empie mani gli arredi sacri; quanto dagli altri re era stato deposto per l'abbellimento e lo splendore del luogo e per segno d'onore, egli lo saccheggiò con le sue mani sacrileghe.
17Antioco si inorgoglì, non comprendendo che il Signore si era sdegnato per breve tempo a causa dei peccati degli abitanti della città e per questo c'era stato l'abbandono di quel luogo.18Se il popolo non si fosse trovato implicato in molti peccati, come era avvenuto per Eliodòro, mandato dal re Seleuco a ispezionare la camera del tesoro, anche costui al suo ingresso sarebbe stato colpito da flagelli e sarebbe stato distolto dalla sua audacia.19Ma il Signore aveva eletto non già il popolo a causa di quel luogo, ma quel luogo a causa del popolo.20Perciò anche il luogo, dopo essere stato coinvolto nelle sventure piombate sul popolo, da ultimo ne condivise i benefici; esso, che per l'ira dell'Onnipotente aveva sperimentato l'abbandono, per la riconciliazione del grande Sovrano fu ripristinato in tutta la sua gloria.
21Antioco dunque portando via dal tempio milleottocento talenti d'argento, fece ritorno in fretta ad Antiochia, convinto nella sua superbia di aver reso navigabile la terra e transitabile il mare, per effetto del suo orgoglio.22Egli lasciò sovrintendenti per opprimere la nazione: in Gerusalemme Filippo, frigio di stirpe, ma nei modi più barbaro di chi l'aveva nominato;23sul Garizim Andronìco; oltre a loro Menelao, il quale più degli altri era altezzoso con i concittadini, nutrendo una ostilità dichiarata contro i Giudei.
24Mandò poi il misarca Apollonio con un esercito di ventiduemila uomini, e con l'ordine di uccidere quanti erano in età adulta e di vendere le donne e i fanciulli.25Costui, giunto a Gerusalemme e fingendo intenzioni pacifiche, si tenne quieto fino al giorno sacro del sabato. Allora sorpresi i Giudei in riposo, comandò ai suoi una parata militare26e trucidò quanti uscivano per assistere alla festa; poi, scorrendo con gli armati per la città, mise a morte un gran numero di persone.
27Ma Giuda, chiamato anche Maccabeo, che faceva parte di un gruppo di dieci, si ritirò nel deserto, vivendo tra le montagne alla maniera delle fiere insieme a quelli che erano con lui; e vivevano cibandosi di alimenti erbacei, per non contrarre contaminazione.


Salmi 136

1Alleluia.

Lodate il Signore perché è buono:
perché eterna è la sua misericordia.
2Lodate il Dio degli dèi:
perché eterna è la sua misericordia.
3Lodate il Signore dei signori:
perché eterna è la sua misericordia.

4Egli solo ha compiuto meraviglie:
perché eterna è la sua misericordia.
5Ha creato i cieli con sapienza:
perché eterna è la sua misericordia.
6Ha stabilito la terra sulle acque:
perché eterna è la sua misericordia.
7Ha fatto i grandi luminari:
perché eterna è la sua misericordia.
8Il sole per regolare il giorno:
perché eterna è la sua misericordia;
9la luna e le stelle per regolare la notte:
perché eterna è la sua misericordia.

10Percosse l'Egitto nei suoi primogeniti:
perché eterna è la sua misericordia.
11Da loro liberò Israele:
perché eterna è la sua misericordia;
12con mano potente e braccio teso:
perché eterna è la sua misericordia.

13Divise il mar Rosso in due parti:
perché eterna è la sua misericordia.
14In mezzo fece passare Israele:
perché eterna è la sua misericordia.
15Travolse il faraone e il suo esercito nel mar Rosso:
perché eterna è la sua misericordia.

16Guidò il suo popolo nel deserto:
perché eterna è la sua misericordia.
17Percosse grandi sovrani
perché eterna è la sua misericordia;
18uccise re potenti:
perché eterna è la sua misericordia.
19Seon, re degli Amorrei:
perché eterna è la sua misericordia.

20Og, re di Basan:
perché eterna è la sua misericordia.
21Diede in eredità il loro paese;
perché eterna è la sua misericordia;
22in eredità a Israele suo servo:
perché eterna è la sua misericordia.

23Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi:
perché eterna è la sua misericordia;
24ci ha liberati dai nostri nemici:
perché eterna è la sua misericordia.
25Egli dà il cibo ad ogni vivente:
perché eterna è la sua misericordia.

26Lodate il Dio del cielo:
perché eterna è la sua misericordia.


Salmi 139

1'Al maestro del coro. Di Davide. Salmo.'

Signore, tu mi scruti e mi conosci,
2tu sai quando seggo e quando mi alzo.
Penetri da lontano i miei pensieri,
3mi scruti quando cammino e quando riposo.
Ti sono note tutte le mie vie;
4la mia parola non è ancora sulla lingua
e tu, Signore, già la conosci tutta.
5Alle spalle e di fronte mi circondi
e poni su di me la tua mano.
6Stupenda per me la tua saggezza,
troppo alta, e io non la comprendo.

7Dove andare lontano dal tuo spirito,
dove fuggire dalla tua presenza?
8Se salgo in cielo, là tu sei,
se scendo negli inferi, eccoti.
9Se prendo le ali dell'aurora
per abitare all'estremità del mare,
10anche là mi guida la tua mano
e mi afferra la tua destra.
11Se dico: "Almeno l'oscurità mi copra
e intorno a me sia la notte";
12nemmeno le tenebre per te sono oscure,
e la notte è chiara come il giorno;
per te le tenebre sono come luce.

13Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
14Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo.

15Non ti erano nascoste le mie ossa
quando venivo formato nel segreto,
intessuto nelle profondità della terra.
16Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i miei giorni erano fissati,
quando ancora non ne esisteva uno.
17Quanto profondi per me i tuoi pensieri,
quanto grande il loro numero, o Dio;
18se li conto sono più della sabbia,
se li credo finiti, con te sono ancora.

19Se Dio sopprimesse i peccatori!
Allontanatevi da me, uomini sanguinari.
20Essi parlano contro di te con inganno:
contro di te insorgono con frode.
21Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano
e non detesto i tuoi nemici?
22Li detesto con odio implacabile
come se fossero miei nemici.
23Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,
provami e conosci i miei pensieri:
24vedi se percorro una via di menzogna
e guidami sulla via della vita.


Daniele 6

1Volle Dario costituire nel suo regno centoventi sàtrapi e ripartirli per tutte le province.2A capo dei sàtrapi mise tre governatori, di cui uno fu Daniele, ai quali i sàtrapi dovevano render conto perché nessun danno ne3soffrisse il re. Ora Daniele era superiore agli altri governatori e ai sàtrapi, perché possedeva uno spirito eccezionale, tanto che il re pensava di metterlo a capo di tutto il suo regno.4Perciò tanto i governatori che i sàtrapi cercavano il modo di trovar qualche pretesto contro Daniele nell'amministrazione del regno.5Ma non potendo trovare nessun motivo di accusa né colpa, perché egli era fedele e non aveva niente da farsi rimproverare,6quegli uomini allora pensarono: "Non possiamo trovare altro pretesto per accusare Daniele, se non nella legge del suo Dio".
7Perciò quei governatori e i sàtrapi si radunarono presso il re e gli dissero: "Re Dario, vivi per sempre!8Tutti i governatori del regno, i magistrati, i sàtrapi, i consiglieri e i capi sono del parere che venga pubblicato un severo decreto del re secondo il quale chiunque, da ora a trenta giorni, rivolga supplica alcuna a qualsiasi dio o uomo all'infuori di te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni.9Ora, o re, emana il decreto e fallo mettere per iscritto, perché sia irrevocabile, come sono le leggi di Media e di Persia, che non si possono mutare".10Allora il re Dario fece scrivere il decreto.

11Daniele, quando venne a sapere del decreto del re, si ritirò in casa. Le finestre della sua stanza si aprivano verso Gerusalemme e tre volte al giorno si metteva in ginocchio a pregare e lodava il suo Dio, come era solito fare anche prima.
12Allora quegli uomini accorsero e trovarono Daniele che stava pregando e supplicando il suo Dio.13Subito si recarono dal re e gli dissero riguardo al divieto del re: "Non hai tu scritto un decreto che chiunque, da ora a trenta giorni, rivolga supplica a qualsiasi dio o uomo, all'infuori di te, re, sia gettato nella fossa dei leoni?". Il re rispose: "Sì. Il decreto è irrevocabile come lo sono le leggi dei Medi e dei Persiani".
14"Ebbene - replicarono al re - Daniele, quel deportato dalla Giudea, non ha alcun rispetto né di te, re, né del tuo decreto: tre volte al giorno fa le sue preghiere".
15Il re, all'udir queste parole, ne fu molto addolorato e si mise in animo di salvare Daniele e fino al tramonto del sole fece ogni sforzo per liberarlo.
16Ma quegli uomini si riunirono di nuovo presso il re e gli dissero: "Sappi, re, che i Medi e i Persiani hanno per legge che qualunque decreto firmato dal re è irrevocabile".

17Allora il re ordinò che si prendesse Daniele e si gettasse nella fossa dei leoni. Il re, rivolto a Daniele, gli disse: "Quel Dio, che tu servi con perseveranza, ti possa salvare!".18Poi fu portata una pietra e fu posta sopra la bocca della fossa: il re la sigillò con il suo anello e con l'anello dei suoi grandi, perché niente fosse mutato sulla sorte di Daniele.19Quindi il re ritornò alla reggia, passò la notte digiuno, non gli fu introdotta alcuna donna e anche il sonno lo abbandonò.20La mattina dopo il re si alzò di buon'ora e sullo spuntar del giorno andò in fretta alla fossa dei leoni.21Quando fu vicino, chiamò: "Daniele, servo del Dio vivente, il tuo Dio che tu servi con perseveranza ti ha potuto salvare dai leoni?".22Daniele rispose: "Re, vivi per sempre.23Il mio Dio ha mandato il suo angelo che ha chiuso le fauci dei leoni ed essi non mi hanno fatto alcun male, perché sono stato trovato innocente davanti a lui; ma neppure contro di te, o re, ho commesso alcun male"

24Il re fu pieno di gioia e comandò che Daniele fosse tirato fuori dalla fossa. Appena uscito, non si riscontrò in lui lesione alcuna, poiché egli aveva confidato nel suo Dio.25Quindi, per ordine del re, fatti venire quegli uomini che avevano accusato Daniele, furono gettati nella fossa dei leoni insieme con i figli e le mogli. Non erano ancor giunti al fondo della fossa, che i leoni furono loro addosso e stritolarono tutte le loro ossa.

26Allora il re Dario scrisse a tutti i popoli, nazioni e lingue, che abitano tutta la terra: "Pace e prosperità.27Per mio comando viene promulgato questo decreto: In tutto l'impero a me soggetto si onori e si tema il Dio di Daniele,

perché egli è il Dio vivente,
che dura in eterno;
il suo regno è tale che non sarà mai distrutto
e il suo dominio non conosce fine.
28Egli salva e libera,
fa prodigi e miracoli in cielo e in terra:
egli ha liberato Daniele dalle fauci dei leoni".

29Questo Daniele prosperò durante il regno di Dario e il regno di Ciro il Persiano.


Prima lettera a Timoteo 3

1È degno di fede quanto vi dico: se uno aspira all'episcopato, desidera un nobile lavoro.2Ma bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare,3non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro.4Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità,5perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?6Inoltre non sia un neofita, perché non gli accada di montare in superbia e di cadere nella stessa condanna del diavolo.7È necessario che egli goda buona reputazione presso quelli di fuori, per non cadere in discredito e in qualche laccio del diavolo.

8Allo stesso modo i diaconi siano dignitosi, non doppi nel parlare, non dediti al molto vino né avidi di guadagno disonesto,9e conservino il mistero della fede in una coscienza pura.10Perciò siano prima sottoposti a una prova e poi, se trovati irreprensibili, siano ammessi al loro servizio.11Allo stesso modo le donne siano dignitose, non pettegole, sobrie, fedeli in tutto.12I diaconi non siano sposati che una sola volta, sappiano dirigere bene i propri figli e le proprie famiglie.13Coloro infatti che avranno ben servito, si acquisteranno un grado onorifico e una grande sicurezza nella fede in Cristo Gesù.

14Ti scrivo tutto questo, nella speranza di venire presto da te;15ma se dovessi tardare, voglio che tu sappia come comportarti nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità.16Dobbiamo confessare che grande è il mistero della pietà:

Egli si manifestò nella carne,
fu giustificato nello Spirito,
apparve agli angeli,
fu annunziato ai pagani,
fu creduto nel mondo,
fu assunto nella gloria.


Capitolo XXXV: In questa vita, nessuna certezza di andar esenti da tentazioni

Leggilo nella Biblioteca

1. O figlio, giammai, in questa vita, sarai libero dall'inquietudine: finché avrai vita, avrai bisogno d'essere spiritualmente armato. Ti trovi tra nemici e vieni assalito da destra e da sinistra. Perciò, se non farai uso, da una parte e dall'altra, dello scudo della fermezza, non tarderai ad essere ferito. Di più, se non terrai il tuo animo fisso in me, con l'unico proposito di tutto soffrire per amor mio, non potrai reggere l'ardore della lotta e arrivare al premio dei beati. Tu devi virilmente passare oltre ogni cosa, e avere braccio valido contro ogni ostacolo: "la manna viene concessa al vittorioso" (Ap 2,17), mentre una miseria grande è lasciata a chi manca di ardore.  

2. Se vai cercando la tua pace in questa vita, come potrai giungere alla pace eterna? Non a una piena di tranquillità, ma a una grande sofferenza ti devi preparare. Giacché la pace vera non la devi cercare in terra, ma nei cieli; non negli uomini, o nelle altre creature, ma soltanto in Dio. Tutto devi lietamente sopportare, per amore di Dio: fatiche e dolori; tentazioni e tormenti; angustie, miserie e malanni; ingiurie, biasimi e rimproveri; umiliazioni e sbigottimenti; ammonizioni e critiche sprezzanti. Cose, queste, che aiutano nella via della virtù e costituiscono una prova per chi si è posto al servizio di Cristo; cose, infine, che preparano la corona del cielo. Ché una eterna ricompensa io darò un travaglio di breve durata; e una gloria senza fine, per una umiliazione destinata a passare.  

3. Forse tu credi di poter sempre avere le consolazioni spirituali a tuo piacimento? Non ne ebbero sempre neppure i miei santi; i quali soffrirono, invece, tante difficoltà e tentazioni di ogni genere e grandi desolazioni. Sennonché, con la virtù della sopportazione, essi si tennero sempre ritti, confidando più in Dio che in se stessi; consci che "le sofferenze del momento presente non sono nulla a confronto della conquista della gloria futura" (Rm 8,18). O vuoi tu avere subito quello che molti ottennero a stento, dopo tante lacrime e tante fatiche? "Aspetta il Signore, comportati da uomo" (Sal 26,14), e fatti forza; non disperare, non disertare. Disponiti, invece, fermamente, anima e corpo, per la gloria di Dio. Strabocchevole sarà la mia ricompensa. Io sarò con te in ogni tribolazione.


La Santa Regola

San Benedetto da Norcia - San Benedetto da Norcia

Leggilo nella Biblioteca

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73

Prologo


Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno,

in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell'obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l'ignavia della disobbedienza.

Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugni le fortissime e valorose armi dell'obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore.

Prima di tutto chiedi a Dio con costante e intensa preghiera di portare a termine quanto di buono ti proponi di compiere,

affinché, dopo averci misericordiosamente accolto tra i suoi figli, egli non debba un giorno adirarsi per la nostra indegna condotta.

Bisogna dunque servirsi delle grazie che ci concede per obbedirgli a ogni istante con tanta fedeltà da evitare, non solo che egli giunga a diseredare i suoi figli come un padre sdegnato,

ma anche che, come un sovrano tremendo, irritato dalle nostre colpe, ci condanni alla pena eterna quali servi infedeli che non lo hanno voluto seguire nella gloria.

Alziamoci, dunque, una buona volta, dietro l'incitamento della Scrittura che esclama: "E' ora di scuotersi dal sonno!"

e aprendo gli occhi a quella luce divina ascoltiamo con trepidazione ciò che ci ripete ogni giorno la voce ammonitrice di Dio:

" Se oggi udrete la sua voce, non indurite il vostro cuore!"

e ancora: " Chi ha orecchie per intendere, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese!".

E che dice? " Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore di Dio.

Correte, finché avete la luce della vita, perché non vi colgano le tenebre della morte".

Quando poi il Signore cerca il suo operaio tra la folla, insiste dicendo:

"Chi è l'uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici?".

Se a queste parole tu risponderai: "Io!", Dio replicherà:

"Se vuoi avere la vita, quella vera ed eterna, guarda la tua lingua dal male e le tue labbra dalla menzogna. Allontanati dall'iniquità, opera il bene, cerca la pace e seguila".

Se agirete così rivolgerò i miei occhi verso di voi e le mie orecchie ascolteranno le vostre preghiere, anzi, prima ancora che mi invochiate vi dirò: "Ecco sono qui!".

Fratelli carissimi, che può esserci di più dolce per noi di questa voce del Signore che ci chiama?

Guardate come nella sua misericordiosa bontà ci indica la via della vita!

Armati dunque di fede e di opere buone, sotto la guida del Vangelo, incamminiamoci per le sue vie in modo da meritare la visione di lui, che ci ha chiamati nel suo regno.

Se, però, vogliamo trovare dimora sotto la sua tenda, ossia nel suo regno, ricordiamoci che è impossibile arrivarci senza correre verso la meta, operando il bene.

Ma interroghiamo il Signore, dicendogli con le parole del profeta: "Signore, chi abiterà nella tua tenda e chi dimorerà sul tuo monte santo?".

E dopo questa domanda, fratelli, ascoltiamo la risposta con cui il Signore ci indica la via che porta a quella tenda:

"Chi cammina senza macchia e opera la giustizia;

chi pronuncia la verità in cuor suo e non ha tramato inganni con la sua lingua;

chi non ha recato danni al prossimo, né ha accolto l'ingiuria lanciata contro di lui";

chi ha sgominato il diavolo, che malignamente cercava di sedurlo con le sue suggestioni, respingendolo dall'intimo del proprio cuore e ha impugnato coraggiosamente le sue insinuazioni per spezzarle su Cristo al loro primo sorgere;

gli uomini timorati di Dio, che non si insuperbiscono per la propria buona condotta e, pensando invece che quanto di bene c'è in essi non è opera loro, ma di Dio,

lo esaltano proclamando col profeta: "Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria!".

Come fece l'apostolo Paolo, che non si attribuì alcun merito della sua predicazione, ma disse:" Per grazia di Dio sono quel che sono"

e ancora: "chi vuole gloriarsi, si glori nel Signore".

Perciò il Signore stesso dichiara nel Vangelo: "Chi ascolta da me queste parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sulla roccia.

E vennero le inondazioni e soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia".

Dopo aver concluso con queste parole il Signore attende che, giorno per giorno, rispondiamo con i fatti alle sue sante esortazioni.

Ed è proprio per permetterci di correggere i nostri difetti che ci vengono dilazionati i giorni di questa vita

secondo le parole dell'Apostolo: "Non sai che con la sua pazienza Dio vuole portarti alla conversione?"

Difatti il Signore misericordioso afferma: "Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva".

Dunque, fratelli miei, avendo chiesto al Signore a chi toccherà la grazia di dimorare nella sua tenda, abbiamo appreso quali sono le condizioni per rimanervi, purché sappiamo comportarci nel modo dovuto.

Perciò dobbiamo disporre i cuori e i corpi nostri a militare sotto la santa obbedienza.

Per tutto quello poi, di cui la nostra natura si sente incapace, preghiamo il Signore di aiutarci con la sua grazia.

E se vogliamo arrivare alla vita eterna, sfuggendo alle pene dell'inferno,

finche c'è tempo e siamo in questo corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutte queste buone azioni,

dobbiamo correre e operare adesso quanto ci sarà utile per l'eternità.

Bisogna dunque istituire una scuola del servizio del Signore

nella quale ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di gravoso;

ma se, per la correzione dei difetti o per il mantenimento della carità, dovrà introdursi una certa austerità, suggerita da motivi di giustizia,

non ti far prendere dallo scoraggiamento al punto di abbandonare la via della salvezza, che in principio è necessariamente stretta e ripida.

Mentre invece, man mano che si avanza nella vita monastica e nella fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall'indicibile sovranità dell'amore.

Così, non allontanandoci mai dagli insegnamenti di Dio e perseverando fino alla morte nel monastero in una fedele adesione alla sua dottrina, partecipiamo con la nostra sofferenza ai patimenti di Cristo per meritare di essere associati al suo regno.



Capitolo I - Le varie categorie di monaci


E' noto che ci sono quattro categorie di monaci.

La prima è quella dei cenobiti, che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate.

La seconda è quella degli anacoreti o eremiti, ossia di coloro che non sono mossi dall'entusiastico fervore dei principianti, ma sono stati lungamente provati nel monastero,

dove con l'aiuto di molti hanno imparato a respingere le insidie del demonio;

quindi, essendosi bene addestrati tra le file dei fratelli al solitario combattimento dell'eremo, sono ormai capaci, con l'aiuto di Dio, di affrontare senza il sostegno altrui la lotta corpo a corpo contro le concupiscenze e le passioni.

La terza categoria di monaci, veramente detestabile è formata dai sarabaiti: molli come piombo, perché non sono stati temprati come l'oro nel crogiolo dell'esperienza di una regola,

costoro conservano ancora le abitudini mondane, mentendo a Dio con la loro tonsura.

A due a due, a tre a tre o anche da soli, senza la guida di un superiore, chiusi nei loro ovili e non in quello del Signore, hanno come unica legge l'appagamento delle proprie passioni,

per cui chiamano santo tutto quello che torna loro comodo, mentre respingono come illecito quello che non gradiscono.

C'è infine una quarta categoria di monaci, che sono detti girovaghi, perché per tutta la vita passano da un paese all'altro, restando tre o quattro giorni come ospiti nei vari monasteri,

sempre vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola, peggiori dei sarabaiti sotto ogni aspetto.

Ma riguardo alla vita sciagurata di tutti costoro è preferibile tacere piuttosto che parlare.

Lasciamoli quindi da parte e con l'aiuto del Signore occupiamoci dell'ordinamento della prima categoria, ossia quella fortissima e valorosa dei cenobiti.

Capitolo II - L'Abate


Un abate degno di stare a capo di un monastero deve sempre avere presenti le esigenze implicite nel suo nome, mantenendo le proprie azioni al livello di superiorità che esso comporta.

Sappiamo infatti per fede che in monastero egli tiene il posto di Cristo, poiché viene chiamato con il suo stesso nome,

secondo quanto dice l'Apostolo: "Avete ricevuto lo Spirito di figli adottivi, che vi fa esclamare: Abba, Padre!"

Perciò l'abate non deve insegnare, né stabilire o ordinare nulla di contrario alle leggi del Signore,

anzi il suo comando e il suo insegnamento devono infondere nelle anime dei discepoli il fermento della santità.

Si ricordi sempre che nel tremendo giudizio di Dio dovrà rendere conto tanto del suo insegnamento, quanto dell'obbedienza dei discepoli

e sappia che il pastore sarà considerato responsabile di tutte le manchevolezze che il padre di famiglia avrà potuto riscontrare nel gregge.

D'altra parte è anche vero che, se il pastore avrà usato ogni diligenza nei confronti di un gregge irrequieto e indocile, cercando in tutti i modi di correggerne la cattiva condotta,

verrà assolto nel divino giudizio e potrà ripetere con il profeta al Signore: "Non ho tenuto la tua giustizia nascosta in fondo al cuore, ma ho proclamato la tua verità e la tua salvezza; essi tuttavia mi hanno disprezzato, ribellandosi contro di me".

E allora la giusta punizione delle pecore ribelli sarà la morte, che avrà finalmente ragione della loro ostinazione.

Dunque, quando uno assume il titolo di Abate deve imporsi ai propri discepoli con un duplice insegnamento,

mostrando con i fatti più che con le parole tutto quello che è buono e santo: in altri termini, insegni oralmente i comandamenti del Signore ai discepoli più sensibili e recettivi, ma li presenti esemplificati nelle sue azioni ai più tardi e grossolani.

Confermi con la sua condotta che bisogna effettivamente evitare quanto ha presentato ai discepoli come riprovevole, per non correre il rischio di essere condannato dopo aver predicato agli altri

e di non sentirsi dire dal Signore per i suoi peccati: "Come ti arroghi di esporre i miei precetti e di avere sempre la mia alleanza sulla bocca, tu che hai in odio la disciplina e ti getti le mie parole dietro le spalle?"

e ancora: "Tu che vedevi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, non ti sei accorto della trave nel tuo".

Si guardi dal fare preferenze nelle comunità:

non ami l'uno piò dell'altro, a eccezione di quello che avrà trovato migliore nella condotta e nell'obbedienza:

non anteponga un monaco proveniente da un ceto elevato a uno di umili origini, a meno che non ci sia un motivo ragionevole per stabilire una tale precedenza.

Ma se, per ragioni di giustizia, riterrà di dover agire così lo faccia per chiunque; altrimenti ciascuno conservi il proprio posto,

perché, sia il servo che il libero, tutti siamo una cosa sola in Cristo e, militando sotto uno stesso Signore, prestiamo un eguale servizio. Infatti, "dinanzi a Dio non ci sono parzialità"

e una cosa sola ci distingue presso di lui: se siamo umili e migliori degli altri nelle opere buone.

Quindi l'abate ami tutti allo stesso modo, seguendo per ciascuno una medesima regola di condotta basata sui rispettivi meriti.

Per quanto riguarda poi la direzione dei monaci, bisogna che tenga presente la norma dell'apostolo: "Correggi, esorta, rimprovera"

e precisamente, alternando i rimproveri agli incoraggiamenti, a seconda dei tempi e delle circostanze, sappia dimostrare la severità del maestro insieme con la tenerezza del padre.

In altre parole, mentre deve correggere energicamente gli indisciplinati e gli irrequieti, deve esortare amorevolmente quelli che obbediscono con docilità a progredire sempre più. Ma è assolutamente necessario che rimproveri severamente e punisca i negligenti e coloro che disprezzano la disciplina.

Non deve chiudere gli occhi sulle eventuali mancanze, ma deve stroncarle sul nascere, ricordandosi della triste fine di Eli, sacerdote di Silo.

Riprenda, ammonendoli una prima e una seconda volta, i monaci più docili e assennati,

ma castighi duramente i riottosi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti, appena tentano di trasgredire, ben sapendo che sta scritto: "Lo stolto non si corregge con le parole"

e anche: "Battendo tuo figlio con la verga, salverai l'anima sua dalla morte".

L'abate deve sempre ricordarsi quel che è e come viene chiamato, nella consapevolezza che sono maggiori le esigenze poste a colui al quale è stato affidato di più.

Bisogna che prenda chiaramente coscienza di quanto sia difficile e delicato il compito che si è assunto di dirigere le anime e porsi al servizio dei vari temperamenti, incoraggiando uno, rimproverando un altro e correggendo un terzo:

perciò si conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza, in modo che, invece di aver a lamentare perdite nel gregge affidato alle sue cure, possa rallegrarsi per l'incremento del numero dei buoni.

Soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle anime, di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà terrene, transitorie e caduche,

ma pensi sempre che si è assunto l'impegno di dirigere delle anime, di cui un giorno dovrà rendere conto

e non cerchi una scusante nelle eventuali difficoltà economiche, ricordandosi che sta scritto :"Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in soprappiù"

e anche: "Nulla manca a coloro che lo temono".

Sappia inoltre che chi si assume l'impegno di dirigere le anime deve prepararsi a renderne conto

e stia certo che, quanti sono i monaci di cui deve prendersi cura, tante solo le anime di cui nel giorno del giudizio sarà ritenuto responsabile di fronte a Dio, naturalmente oltre che della propria.

Così nel continuo timore dell'esame a cui verrà sottoposto il pastore riguardo alle pecore che gli sono state affidate mentre si preoccupa del rendiconto altrui, si fa più attento al proprio

e corregge i suoi personali difetti, aiutando gli altri a migliorarsi con le sue ammonizioni.

Capitolo III - La consultazione della comunità


Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l'abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l'affare in oggetto.

Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più opportuno.

Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore.

I monaci poi esprimano il loro parere con tutta umiltà e sottomissione, senza pretendere di imporre a ogni costo le loro vedute;

comunque la decisione spetta all'abate e, una volta che questi avrà stabilito ciò che è più conveniente, tutti dovranno obbedirgli.

D'altra parte, come è doveroso che i discepoli obbediscano al maestro, così è bene che anche lui predisponga tutto con prudenza ed equità.

Dunque in ogni cosa tutti seguano come maestra la Regola e nessuno osi allontanarsene.

Nessun membro della comunità segua la volontà propria,

né si azzardi a contestare sfacciatamente con l'abate, dentro o fuori del monastero.

Chi si permette un simile contegno, sia sottoposto alle punizioni previste dalla Regola.

L'abate però dal canto suo operi tutto col timor di Dio e secondo le prescrizioni della Regola, ben sapendo che di tutte le sue decisioni dovrà certamente rendere conto a Dio, giustissimo giudice.

Se poi in monastero si devono trattare questioni di minore importanza, si serva solo del consiglio dei più anziani,

come sta scritto: "Fa' tutto col consiglio e dopo non avrai a pentirtene".

Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere


Prima di tutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze;

poi il prossimo come se stesso.

Quindi non uccidere,

non commettere adulterio,

non rubare,

non avere desideri illeciti,

non mentire;

onorare tutti gli uomini,

e non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi.

Rinnegare completamente se stesso. per seguire Cristo;

mortificare il proprio corpo,

non cercare le comodità,

amare il digiuno.

Soccorrere i poveri,

vestire gli ignudi,

visitare gli infermi,

seppellire i morti ;

alleviare tutte le sofferenze,

consolare quelli che sono nell'afflizione.

Rendersi estraneo alla mentalità del mondo;

non anteporre nulla all'amore di Cristo.

Non dare sfogo all'ira,

non serbare rancore,

non covare inganni nel cuore,

non dare un falso saluto di pace,

non abbandonare la carità.

Non giurare per evitare spergiuri,

dire la verità con il cuore e con la bocca,

non rendere male per male,

non fare torti a nessuno, ma sopportare pazientemente quelli che vengono fatti a noi;

amare i nemici,

non ricambiare le ingiurie e le calunnie, ma piuttosto rispondere con la benevolenza verso i nostri offensori,

sopportare persecuzioni per la giustizia.

Non essere superbo,

non dedito al vino,

né vorace,

non dormiglione,

né pigro;

non mormoratore,

né maldicente.

Riporre in Dio la propria speranza,

attribuire a Lui e non a sé quanto di buono scopriamo in noi,

ma essere consapevoli che il male viene da noi e accettarne la responsabilità.

Temere il giorno del giudizio,

tremare al pensiero dell'inferno,

anelare con tutta l'anima alla vita eterna,

prospettarsi sempre la possibilità della morte.

Vigilare continuamente sulle proprie azioni,

essere convinti che Dio ci guarda dovunque.

Spezzare subito in Cristo tutti i cattivi pensieri che ci sorgono in cuore e manifestarli al padre spirituale.

Guardarsi dai discorsi cattivi o sconvenienti,

non amare di parlar molto,

non dire parole leggere o ridicole,

non ridere spesso e smodatamente.

Ascoltare volentieri la lettura della parola di Dio,

dedicarsi con frequenza alla preghiera;

in questa confessare ogni giorno a Dio con profondo dolore le colpe passate

e cercare di emendarsene per l'avvenire.

Non appagare i desideri della natura corrotta,

odiare la volontà propria,

obbedire in tutto agli ordini dell'abate, anche se - Dio non voglia! - questi agisse diversamente da come parla, ricordando quel precetto del Signore:" Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno".

Non voler esser detto santo prima di esserlo, ma diventare veramente tale, in modo che poi si possa dirlo con più fondamento.

Adempiere quotidianamente i comandamenti di Dio.

Amare la castità,

non odiare nessuno,

non essere geloso,

non coltivare l'invidia,

non amare le contese,

fuggire l'alterigia

e rispettare gli anziani,

amare i giovani,

pregare per i nemici nell'amore di Cristo,

nell'eventualità di un contrasto con un fratello, stabilire la pace prima del tramonto del sole.

E non disperare mai della misericordia di Dio.

Ecco, questi sono gli strumenti dell'arte spirituale!

Se li adopereremo incessantemente di giorno e di notte e li riconsegneremo nel giorno del giudizio, otterremo dal Signore la ricompensa promessa da lui stesso:

"Né occhio ha mai visto, né orecchio ha udito, né mente d'uomo ha potuto concepire ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano".

L'officina poi in cui bisogna usare con la massima diligenza questi strumenti è formata dai chiostri del monastero e dalla stabilità nella propria famiglia monastica.



Capitolo V - L'obbedienza


Il segno più evidente dell'umiltà è la prontezza nell'obbedienza.

Questa è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di Cristo

e, a motivo del servizio santo a cui si sono consacrati o anche per il timore dell'inferno e in vista della gloria eterna,

appena ricevono un ordine dal superiore non si concedono dilazioni nella sua esecuzione, come se esso venisse direttamente da Dio.

E' di loro che il Signore dice: " Appena hai udito, mi hai obbedito"

mentre rivolgendosi ai superiori dichiara: "Chi ascolta voi, ascolta me".

Quindi, questi monaci, che si distaccano subito dalle loro preferenze e rinunciano alla propria volontà,

si liberano all'istante dalle loro occupazioni, lasciandole a mezzo, e si precipitano a obbedire, in modo che alla parola del superiore seguano immediatamente i fatti.

Quasi allo stesso istante, il comando del maestro e la perfetta esecuzione del discepolo si compiono di comune accordo con quella velocità che è frutto del timor di Dio:

così in coloro che sono sospinti dal desiderio di raggiungere la vita eterna.

Essi si slanciano dunque per la via stretta della quale il Signore dice: "Angusta è la via che conduce alla vita";

perciò non vivono secondo il proprio capriccio né seguono le loro passioni e i loro gusti, ma procedono secondo il giudizio e il comando altrui; rimangono nel monastero e desiderano essere sottoposti a un abate.

Senza dubbio costoro prendono a esempio quella sentenza del Signore che dice: "Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato".

Ma questa obbedienza sarà accetta a Dio e gradevole agli uomini, se il comando ricevuto verrà eseguito senza esitazione, lentezza o tiepidezza e tantomeno con mormorazioni o proteste,

perché l'obbedienza che si presta agli uomini è resa a Dio, come ha detto lui stesso: "Chi ascolta voi, ascolta me".

I monaci dunque devono obbedire con slancio e generosità, perché "Dio ama chi dà lietamente".

Se infatti un fratello obbedisce malvolentieri e mormora, non dico con la bocca, ma anche solo con il cuore,

pur eseguendo il comando, non compie un atto gradito a Dio, il quale scorge 1a mormorazione nell'intimo della sua coscienza;

quindi, con questo comportamento, egli non si acquista alcun merito, anzi, se non ripara e si corregge, incorre nel castigo comminato ai mormoratori.

Capitolo VI - L'amore del silenzio


Facciamo come dice il profeta: "Ho detto: Custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone".

Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti in vista della pena riserbata al peccato!

Dunque l'importanza del silenzio è tale che persino ai discepoli perfetti bisogna concedere raramente il permesso di parlare, sia pure di argomenti buoni, santi ed edificanti, perché sta scritto:

"Nelle molte parole non eviterai il peccato"

e altrove: "Morte e vita sono in potere della lingua".

Se infatti parlare e insegnare é compito del maestro, il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare.

Quindi, se bisogna chiedere qualcosa al superiore, lo si faccia con grande umiltà e rispettosa sottomissione.

Escludiamo poi sempre e dovunque la trivialità, le frivolezze e le buffonerie e non permettiamo assolutamente che il monaco apra la bocca per discorsi di questo genere.

Capitolo VII - L'umiltà


La sacra Scrittura si rivolge a noi, fratelli, proclamando a gran voce: "Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato".

Così dicendo, ci fa intendere che ogni esaltazione è una forma di superbia,

dalla quale il profeta mostra di volersi guardare quando dice: "Signore, non si è esaltato il mio cuore, né si è innalzato il mio sguardo, non sono andato dietro a cose troppo grandi o troppo alte per me".

E allora? "Se non ho nutrito sentimenti di umiltà, se il mio cuore si è insuperbito, tu mi tratterai come un bimbo svezzato dalla propria madre".

Quindi, fratelli miei, se vogliamo raggiungere la vetta più eccelsa dell'umiltà e arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste, a cui si ascende attraverso l'umiliazione della vita presente,

bisogna che con il nostro esercizio ascetico innalziamo la scala che apparve in sogno a Giacobbe e lungo la quale questi vide scendere e salire gli angeli.

Non c'è dubbio che per noi quella discesa e quella salita possono essere interpretate solo nel senso che con la superbia si scende e con l'umiltà si sale.

La scala così eretta, poi, è la nostra vita terrena che, se il cuore è umile, Dio solleva fino al cielo;

noi riteniamo infatti che i due lati della scala siano il corpo e l'anima nostra, nei quali la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico per cui bisogna salire.

Dunque il primo grado dell'umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione,

si tengono costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di continuo all'inferno, in cui gli empi sono puniti per i loro peccati, e alla vita eterna preparata invece per i giusti.

In altre parole, mentre si astiene costantemente dai peccati e dai vizi dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi e della volontà propria, come pure dai desideri della carne,

l'uomo deve prendere coscienza che Dio lo osserva a ogni istante dal cielo e che, dovunque egli si trovi, le sue azioni non sfuggono mai allo sguardo divino e sono di continuo riferite dagli angeli.

E' ciò che ci insegna il profeta, quando mostra Dio talmente presente ai nostri pensieri da affermare: "Dio scruta le reni e i cuori"

come pure: "Dio conosce i pensieri degli uomini".

Poi aggiunge: "Hai intuito di lontano i miei pensieri"

e infine: "Il pensiero dell'uomo sarà svelato dinanzi a te".

Quindi, per potersi coscienziosamente guardare dai cattivi pensieri, bisogna che il monaco vigile e fedele ripeta sempre tra sé: "Sarò senza macchia dinanzi a lui, solo se mi guarderò da ogni malizia".

Ci è poi vietato di fare la volontà propria, dato che la Scrittura ci dice: "Allontanati dalle tue voglie"

e per di più nel Pater chiediamo a Dio che in noi si compia la sua volontà.

Perciò ci viene giustamente insegnato di non fare la nostra volontà, evitando tutto quello di cui la Scrittura dice: "Ci sono vie che agli uomini sembrano diritte, ma che si sprofondano negli abissi dell'inferno"

e anche nel timore di quanto è stato affermato riguardo ai negligenti: "Si sono corrotti e sono divenuti spregevoli nella loro dissolutezza".

Quanto poi alle passioni della nostra natura decaduta, bisogna credere ugualmente che Dio è sempre presente, secondo il detto del profeta: "Ogni mio desiderio sta davanti a te".

Dobbiamo quindi guardarci dalle passioni malsane, perché la morte è annidata sulla soglia del piacere.

Per questa ragione la Scrittura prescrive: "Non seguire le tue voglie".

Se dunque "gli occhi di Dio scrutano i buoni e i cattivi"

e se "il Signore esamina attentamente i figli degli uomini per vedere se vi sia chi abbia intelletto e cerchi Dio",

se a ogni momento del giorno e della notte le nostre azioni vengono riferite al Signore dai nostri angeli custodi,

bisogna, fratelli miei, che stiamo sempre in guardia per evitare che un giorno Dio ci veda perduti dietro il male e isteriliti, come dice il profeta nel salmo e,

pur risparmiandoci per il momento, perché è misericordioso e aspetta la nostra conversione, debba dirci in avvenire: "Hai fatto questo e ho taciuto".

Il secondo grado dell'umiltà è quello in cui, non amando la propria volontà, non si trova alcun piacere nella soddisfazione dei propri desideri,

ma si imita il Signore, mettendo in pratica quella sua parola, che dice: "Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato".

Cosa" pure un antico testo afferma: "La volontà propria procura la pena, mentre la sottomissione conquista il premio".

Terzo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco per amore di Dio si sottomette al superiore in assoluta obbedienza, a imitazione del Signore, del quale l'Apostolo dice: "Fatto obbediente fino alla morte".

Il quarto grado dell'umiltà è quello del monaco che, pur incontrando difficoltà, contrarietà e persino offese non provocate nell'esercizio dell'obbedienza, accetta in silenzio e volontariamente la sofferenza

e sopporta tutto con pazienza, senza stancarsi né cedere secondo il monito della Scrittura: " Chi avrà sopportato sino alla fine questi sarà salvato".

E ancora: "Sia forte il tuo cuore e spera nel Signore".

E per dimostrare come il servo fedele deve sostenere per il Signore tutte le possibili contrarietà, esclama per bocca di quelli che patiscono: "Ogni giorno per te siamo messi a morte, siamo trattati come pecore da macello".

Ma con la sicurezza che nasce dalla speranza della divina retribuzione, costoro soggiungono lietamente: "E di tutte queste cose trionfiamo in pieno, grazie a colui che ci ha amato",

mentre altrove la Scrittura dice: "Ci hai provato, Signore, ci hai saggiato come si saggia l'argento col fuoco; ci hai fatto cadere nella rete, ci hai caricato di tribolazioni".

E per indicare che dobbiamo assoggettarci a un superiore, prosegue esclamando: "Hai posto degli uomini sopra il nostro capo".

Quei monaci, però, adempiono il precetto del Signore, esercitando la pazienza anche nelle avversità e nelle umiliazioni, e, percossi su una guancia, presentano l'altra, cedono anche il mantello a chi strappa loro di dosso la tunica, quando sono costretti a fare un miglio di cammino ne percorrono due,

come l'Apostolo Paolo sopportano i falsi fratelli e ricambiano con parole le offese e le ingiurie.

Il quinto grado dell'umiltà consiste nel manifestare con un'umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell'animo o le colpe commesse in segreto,

secondo l'esortazione della Scrittura, che dice: "Manifesta al Signore la tua via e spera in lui".

E anche: "Aprite l'animo vostro al Signore, perché è buono ed eterna è la sua misericordia",

mentre il profeta esclama: "Ti ho reso noto il mio peccato e non ho nascosto la mia colpa.

Ho detto: "confesserò le mie iniquità dinanzi al Signore" e tu hai perdonato la malizia del mio cuore".

Il sesto grado dell'umiltà è quello in cui il monaco si contenta delle cose più misere e grossolane e si considera un operaio incapace e indegno nei riguardi di tutto quello che gli impone l'obbedienza,

ripetendo a se stesso con il profeta: "Sono ridotto a nulla e nulla so; eccomi dinanzi a te come una bestia da soma, ma sono sempre con te".

Il settimo grado dell'umiltà consiste non solo nel qualificarsi come il più miserabile di tutti, ma nell'esserne convinto dal profondo del cuore,

umiliandosi e dicendo con il profeta: "Ora io sono un verme e non un uomo, l'obbrobrio degli uomini e il rifiuto della plebe";

"Mi sono esaltato e quindi umiliato e confuso"

e ancora: "Buon per me che fui umiliato, perché imparassi la tua legge".

L'ottavo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non fa nulla al di fuori di ciò a cui lo sprona la regola comune del monastero e l'esempio dei superiori e degli anziani.

Il nono grado dell'umiltà è proprio del monaco che sa dominare la lingua e, osservando fedelmente il silenzio, tace finché non è interrogato,

perché la Scrittura insegna che "nelle molte parole non manca il peccato"

e che "l'uomo dalle molte chiacchiere va senza direzione sulla terra".

Il decimo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non è sempre pronto a ridere, perché sta scritto: "Lo stolto nel ridere alza la voce".

L'undicesimo grado dell'umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e seriamente, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole assennate, senza alzare la voce,

come sta scritto: "Il saggio si riconosce per la sobrietà nel parlare".

Il dodicesimo grado, infine, è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore,

in quanto durante l'Ufficio divino, in coro, nel monastero, nell'orto, per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi;

e, considerandosi sempre reo per i propri peccati, si vede già dinanzi al tremendo giudizio di Dio,

ripetendo continuamente in cuor suo ciò che disse, con gli occhi fissi a terra il pubblicano del Vangelo: "Signore, io, povero peccatore, non sono degno di alzare gli occhi al cielo".

E ancora con il profeta: "Mi sono sempre curvato e umiliato".

Una volta ascesi tutti questi gradi dell'umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore;

per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi naturalmente, grazie all'abitudine, tutto quello che prima osservava con una certa paura;

in altre parole non più per timore dell'inferno, ma per timore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù.

Sono questi i frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si degnerà di rendere manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai peccati.





Capitolo VIII - L'Ufficio divino nella notte


Durante la stagione invernale, cioè dal principio di novembre sino a Pasqua, secondo un calcolo ragionevole, la sveglia sia verso le due del mattino,

in modo che il sonno si prolunghi un po' oltre la mezzanotte e tutti si possano alzare sufficientemente riposati.

Il tempo che rimane dopo l'Ufficio vigilare venga impiegato dai monaci, che ne hanno bisogno, nello studio del salterio o delle lezioni.

Da Pasqua, invece, sino al suddetto inizio di novembre, l'orario venga disposto in modo tale che, dopo un brevissimo intervallo nel quale i fratelli possono uscire per le necessità della natura, l'Ufficio vigiliare sia seguito immediatamente dalle Lodi, che devono essere recitate al primo albeggiare.

Capitolo IX - I salmi dell'Ufficio notturno


Nel suddetto periodo invernale si dica prima di tutto per tre volte il versetto: "Signore, apri le mie labbra e la mia bocca annunzierà la tua lode",

a cui si aggiunga il salmo 3 con il Gloria;

dopo di questo il salmo 94 cantato con l'antifona oppure lentamente.

Quindi segua l'inno e poi sei salmi con le antifone,

finiti i quali e detto il versetto, l'abate dia la benedizione e, mentre tutti stanno seduti ai rispettivi posti, i fratelli leggano a turno dal lezionario posto sul leggio tre lezioni, intercalate da responsori cantati.

Due responsori si cantino senza il Gloria, ma dopo la terza lezione il cantore lo intoni

e allora tutti subito si alzino in piedi per l'onore e la riverenza dovuti alla Santa Trinità.

Quanto ai libri da leggere nell'Ufficio vigilare, siano tutti di autorità divina, sia dell'antico che del nuovo Testamento, compresi i relativi commenti, scritti da padri di sicura fama e genuina fede cattolica.

Dopo queste tre lezioni con i rispettivi responsori, seguano gli altri sei salmi da cantare con l'Alleluia

e dopo questi una lezione tratta dalle lettere di S. Paolo, da recitarsi a memoria, il versetto, la prece litanica, cioè il Kyrie eleison,

e così si metta fine all'Ufficio vigilare.

Capitolo X - L'Ufficio notturno dell'estate


Da Pasqua fino al principio di novembre si mantenga lo stesso numero di salmi, che è stato prescritto sopra;

eccetto che, a causa della brevità delle notti, non si leggano le lezioni dal lezionario, ma, invece di tre, se ne reciti a memoria una sola dell'antico Testamento seguita da un responsorio breve;

tutto il resto si svolga, come è già stato prescritto, cioè nell'Ufficio vigiliare non si dicano mai meno di dodici salmi, senza contare i salmi 3 e 94.

Capitolo XI - L'Ufficio notturno nelle Domeniche


Per l'Ufficio vigilare della domenica ci si alzi un po' prima.

Anche in questo caso si osservi un determinato ordine, cioè, dopo aver cantato sei salmi come abbiamo stabilito sopra ed essersi seduti tutti ordinatamente ai propri posti, si leggano sul lezionario quattro lezioni con i relativi responsori, secondo quanto abbiamo già detto;

solo al quarto responsorio il cantore intoni il Gloria e allora tutti si alzino subito in piedi con riverenza.

A queste lezioni seguano per ordine altri sei salmi con le antifone come i precedenti e il versetto.

Quindi si leggano di nuovo altre quattro lezioni con i propri responsori, secondo le norme precedenti.

Poi si recitino tre cantici, tratti dai libri dei Profeti a scelta dell'abate, che si devono cantare con l'Alleluia.

Detto quindi il versetto, con la benedizione dell'abate si leggano altre quattro lezioni del nuovo Testamento nel modo gi indicato.

Dopo il quarto responsorio l'abate intoni l'inno Te Deum laudamus,

finito il quale lo stesso abate legga la lezione dai Vangeli, mentre tutti stanno in piedi con la massima reverenza.

Al termine di questa lettura tutti rispondano Amen, poi l'abate prosegua immediatamente con l'inno Te decet laus e, recitata la preghiera di benedizione, si incomincino le lodi.

Quest'ordine dell'Ufficio vigiliare della domenica dev'essere mantenuto in ogni stagione, tanto d'estate che d'inverno,

salvo il caso deprecabile in cui i monaci si alzassero più tardi, nella quale circostanza bisognerà abbreviare le lezioni e i responsori.

Si stia però bene attenti che ciò non avvenga; ma se dovesse accadere, il responsabile di una simile negligenza ne faccia in coro degna riparazione a Dio.

Capitolo XII - Le lodi


Alle Lodi della domenica, prima di tutto si dica il salmo 66 tutto di seguito, senza antifona,

quindi il salmo 50 con l'Alleluia,

poi il 117 e il 62

quindi il cantico dei tre fanciulli nella fornace (il Benedicite), i salmi di lode, una lezione dell'Apocalisse a memoria, il responsorio, l'inno, il versetto, il cantico del Vangelo (il Benedictus) e la prece litanica con cui si finisce.

Capitolo XIII - Le lodi nei giorni feriali


Nei giorni feriali le Lodi si celebrino nel modo seguente:

si dica il salmo 66 senza antifona, recitandolo lentamente in modo che tutti possano essere presenti per il salmo 50, che deve dirsi con l'antifona.

Dopo di questi, si dicano altri due salmi secondo la consuetudine e cioè

al lunedì i salmi 5 e 35,

al martedì il 42 e il 56,

al mercoledì il 63 e il 64,

al giovedì l'87 e l'89,

al venerdì il 75 e il 91

e al sabato il 142 con il cantico del Deuteronomio, diviso in due parti dal Gloria.

In tutti gli altri giorni poi si dica il cantico profetico proprio di quel giorno, secondo l'uso della Chiesa romana.

Quindi seguano i salmi di lode, una breve lezione dell'Apostolo a memoria, il responsorio, l'inno, il versetto, il cantico del Vangelo, la prece litanica e così si termina.

Ma l'Ufficio delle Lodi e del Vespro non si chiuda mai senza che, secondo l'uso stabilito, alla fine, tra l'attenzione di tutti, il superiore reciti il Pater per le offese alla carità fraterna che avvengono di solito nella vita comune,

in modo che i presenti possano purificarsi da queste colpe, grazie all'impegno preso con la stessa preghiera nella quale dicono: "Rimetti a noi, come anche noi rimettiamo".

Nelle altre Ore, invece, si dica ad alta voce solo l'ultima parte del Pater, a cui tutti rispondano: "Ma liberaci dal male".

Capitolo XIV - L'Ufficio vigilare nelle feste dei Santi


Nelle feste dei Santi e in tutte le solennità si proceda come abbiamo stabilito per la domenica,

ad eccezione dei salmi, delle antifone e delle lezioni, che saranno proprie di quel giorno; si segua però l'ordine già fissato.

Capitolo XV - Quando si deve dire l'alleluia


L'Alleluia si dica sempre dalla santa Pasqua fino a Pentecoste, tanto nei salmi che nei responsori;

da Pentecoste poi sino al principio della Quaresima lo si dica soltanto negli ultimi sei salmi dell'Ufficio notturno.

Ma in tutte le domeniche che cadano fuori del tempo quaresimale i cantici, le Lodi, Prima, Terza, Sesta e Nona si dicano con l'Alleluia, mentre il Vespro avrà le antifone proprie.

I responsori, invece, non si dicano mai con l'Alleluia, se non da Pasqua a Pentecoste.

Capitolo XVI - La celebrazione dei divini Offici durante le ore del giorno


"Sette volte al giorno ti ho lodato", dice il profeta.

Questo sacro numero di sette sarà adempiuto da noi, se assolveremo i doveri del nostro servizio alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e Compieta,

perché proprio di queste ore diurne il profeta ha detto: "Sette volte al giorno ti ho lodato".

Infatti nelle Vigilie notturne lo stesso profeta dice: "Nel mezzo della notte mi alzavo per lodarti".

Dunque in queste ore innalziamo lodi al nostro Creatore "per le opere della sua giustizia" e cioè alle lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e a Compieta e di notte alziamoci per celebrare la sua grandezza.

Capitolo XVII - Salmi delle ore del giorno


Abbiamo già stabilito l'ordine della salmodia per l'Ufficio notturno e per le Lodi; adesso provvediamo per le altre Ore.

All'ora di Prima si dicano tre salmi separatamente, ciascuno con il proprio Gloria

e l'inno della stessa Ora segua il versetto Deus in adiutorium prima di iniziare i salmi.

Finiti i tre salmi, si reciti una sola lezione, il versetto, il Kyrie eleison e le preci finali.

A Terza, a sesta e a Nona si celebri l'Ufficio secondo lo stesso ordine e cioè il versetto iniziale, gli inni delle rispettive Ore, tre salmi, la lezione, il versetto, il Kyrie eleison e le preci finali.

Se la comunità fosse numerosa, si salmeggi con le antifone, altrimenti si recitino i salmi tutti di seguito.

L'Ufficio del Vespro comprenda quattro salmi con le antifone,

dopo i quali si reciti la lezione, quindi il responsorio, l'inno, il versetto, il cantico del Vangelo, il Kyrie e il Pater, a cui segue il congedo.

Compieta, infine, consista in tre salmi di seguito, senza antifona,

ai quali segua l'inno della medesima ora, una sola lezione, il versetto, il Kyrie eleison e la benedizione con cui si conclude.

Capitolo XVIII - L'ordine dei salmi nelle ore del giorno


Prima di tutto si dica il versetto: "O Dio, vieni in mio soccorso; Signore, affrettati ad aiutarmi", il Gloria e poi l'inno di ciascuna Ora.

A Prima della domenica si dicano quattro strofe del salmo 118;

alle altre Ore, cioè a Terza, Sesta e Nona, si dicano tre strofe per volta dello stesso salmo.

A Prima del lunedì si recitino tre salmi e cioè il salmo 1, il 2 e il 6;

e così nei giorni successivi fino alla domenica si dicano di seguito tre salmi fino al 19, in modo però che il 9 e il 17 si dividano in due.

Così le vigilie domenicali cominceranno sempre con il salmo 20.

A Terza, Sesta e Nona del lunedì si dicano le ultime nove strofe del salmo 118, tre per ciascuna Ora.

Esaurito questo salmo in due giorni, cioè alla domenica e al lunedì,

a Terza, Sesta e Nona del martedì si recitino rispettivamente tre salmi dal 119 al 127, cioè in tutto nove salmi.

Questi vengano sempre ripetuti allo stesso modo nelle medesime Ore fino alla domenica, lasciando però invariati gli inni, le lezioni e i versetti per tutte le Ore della settimana,

in modo che alla domenica si cominci sempre dal salmo 118.

Il Vespro poi si celebri ogni giorno con il canto di quattro salmi,

dal 109 fino al 147;

eccettuando quelli che sono riservati alle altre Ore, cioè i salmi 117-127, 133 e 142,

tutti gli altri si dicano a Vespro.

E poiché vengono a mancare tre salmi, si dividano i più lunghi del gruppo indicato, ossia il 138, il 143 e il 144.

Il 116, invece, che è il più breve, venga unito al 115.

Stabilito così l'ordine della salmodia vespertina, tutto il resto, cioè la lezione, il responsorio, l'inno, il versetto e il cantico, si dica come abbiamo disposto sopra.

A Compieta, infine, si ripetano tutti i giorni gli stessi salmi e cioè il 4, il 90 e il 133.

Una volta fissato l'ordine della salmodia di tutti i salmi rimanenti vengano distribuiti in parti uguali nei sette Uffici notturni,

dividendo quelli più lunghi e assegnandone dodici per notte.

Ci teniamo però ad avvertire che, se qualcuno non trovasse conveniente tale distribuzione dei salmi, li disponga pure come meglio crede,

purché badi bene di fare in modo che in tutta la settimana si reciti l'intero salterio di centocinquanta salmi e con l'Ufficio vigiliare della domenica si ricominci sempre da capo.

Infatti i monaci, che in una settimana salmeggiano meno dell'intero salterio con i cantici consueti, danno prova di grande indolenza e fiacchezza nel servizio a cui sono consacrati,

dato che dei nostri padri si legge che in un sol giorno adempivano con slancio e fervore quanto è augurabile che noi tiepidi riusciamo a eseguire in una settimana.

Capitolo XIX - La partecipazione interiore all'Ufficio divino


Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto e che "gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi",

ma dobbiamo crederlo con assoluta certezza e senza la minima esitazione, quando prendiamo parte all'Ufficio divino.

Perciò ricordiamoci sempre di quello che dice il profeta: "Servite il Signore nel timore"

e ancora: "Lodatelo degnamente"

e ancora: " Ti canterò alla presenza degli angeli".

Consideriamo dunque come bisogna comportarsi alla presenza di Dio e dei suoi Angeli

e partecipiamo alla salmodia in modo tale che l'intima disposizione dell'animo si armonizzi con la nostra voce.

Capitolo XX - La riverenza nella preghiera


Se quando dobbiamo chiedere un favore a qualche personaggio, osiamo farlo solo con soggezione e rispetto,

quanto più dobbiamo rivolgere la nostra supplica a Dio, Signore di tutte le cose, con profonda umiltà e sincera devozione.

Bisogna inoltre sapere che non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la purezza del cuore e la compunzione che strappa le lacrime.

Perciò la preghiera dev'essere breve e pura, a meno che non venga prolungata dall'ardore e dall'ispirazione della grazia divina.

Ma quella che si fa in comune sia brevissima e quando il superiore dà il segno, si alzino tutti insieme.

Capitolo XXI - I decani del monastero


Se la comunità è abbastanza numerosa, si scelgano in essa alcuni monaci di buon esempio e di santa vita per costituirli decani;

essi vigileranno premurosamente, secondo le leggi di Dio e gli ordini dell'abate sui gruppi di dieci fratelli affidati alle loro rispettive cure.

Come decani devono essere eletti quei monaci con i quali l'abate possa tranquillamente condividere i suoi pesi

e in tale scelta non bisogna tener conto dell'ordine di anzianità, ma regolarsi solo in considerazione della condotta esemplare e della scienza delle cose di Dio.

Se poi fra questi decani ce ne fosse qualcuno che, montato un po' in superbia, dovesse essere ripreso, sia rimproverato una prima, una seconda e una terza volta e, se non vorrà correggersi,

venga sostituito con un altro veramente degno.

La stessa cosa stabiliamo per il priore.

Capitolo XXII - Il dormitorio dei monaci


Ciascun monaco dorma in un letto proprio

e ne riceva la fornitura conforme alle consuetudini monastiche e secondo quanto disporrà l'abate.

Se è possibile dormano tutti nello stesso locale, ma se il numero rilevante non lo permette, riposino a dieci o venti per ambiente insieme con gli anziani incaricati della sorveglianza.

Nel dormitorio rimanga sempre accesa una lampada fino al mattino.

Dormano vestiti, con ai fianchi semplici cinture o corde, senza portare coltelli appesi al lato mentre riposano, per non ferirsi nel sonno.

Così i monaci siano sempre pronti e, appena dato il segnale, alzandosi senza indugio si affrettino a prevenirsi vicendevolmente per l'Ufficio divino, ma sempre con la massima gravità e modestia.

I più giovani non abbiano i letti vicini, ma alternati con quelli dei più anziani.

Quando poi si alzano per l'Ufficio divino, si esortino garbatamente a vicenda per prevenire le scuse degli assonnati.

Capitolo XXIII - La scomunica per le colpe


Se qualche fratello si dimostrerà ribelle o disobbediente o superbo o mormoratore, o assumerà un atteggiamento di ostilità e di disprezzo nei confronti di qualche punto della santa Regola o degli ordini dei superiori,

questi lo rimproverino una prima e una seconda volta in segreto, secondo il precetto del Signore.

Se non si migliorerà, venga ripreso pubblicamente di fronte a tutti.

Ma nel caso che anche questo provvedimento si dimostri inefficace, sia scomunicato, purché sia in grado di valutare la portata di una tale punizione.

Se invece difetta di una sufficiente sensibilità, sia sottoposto al castigo corporale.

Capitolo XXIV - La misura della scomunica


La scomunica e, in genere, la punizione disciplinare dev'essere proporzionata alla gravità della colpa

e ciò è di competenza dell'abate.

Però il monaco che avrà commesso mancanze meno gravi sia escluso dalla mensa comune.

Il trattamento inflitto a chi viene escluso dalla mensa è il seguente: in coro non intoni salmo, né antifona, né reciti lezioni fino a quando non avrà riparato alle sue mancanze;

mangi da solo dopo la comunità,

sicché se, per esempio, i monaci pranzano all'ora di Sesta, egli mangi a Nona; se pranzano a Nona, egli a Vespro,

fino a quando avrà ottenuto il perdono con una conveniente riparazione.

Capitolo XXV - Le colpe più gravi


Il monaco colpevole di mancanze più gravi sia invece sospeso oltre che dalla mensa anche dal coro.

Nessuno lo avvicini per fargli compagnia o parlare di qualsiasi cosa.

Attenda da solo al lavoro che gli sarà assegnato e rimanga nel lutto della penitenza, consapevole della terribile sentenza dell'apostolo che dice:

"Costui è stato consegnato alla morte della carne, perché la sua anima sia salva nel giorno del Signore".

Prenda il suo cibo da solo nella quantità e nell'ora che l'abate giudicherà più conveniente per lui;

non sia benedetto da chi lo incontra e non si benedica neppure il cibo che gli viene dato.

Capitolo XXVI - Rapporti dei confratelli con gli scomunicati


Se qualche monaco oserà avvicinare in qualche modo un fratello scomunicato, o parlare con lui, o inviargli un messaggio, senza l'autorizzazione dell'abate,

incorra nella medesima punizione.

Capitolo XXVII - La sollecitudine dell'abate per gli scomunicati


L'abate deve prendersi cura dei colpevoli con la massima sollecitudine, perché "non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati".

Perciò deve agire come un medico sapiente, inviando in qualità di amici fidati dei monaci anziani e prudenti

che quasi inavvertitamente confortino il fratello vacillante e lo spingano a un'umile riparazione, incoraggiandolo perché "non sia sommerso da eccessiva tristezza",

in altre parole "gli usi maggiore carità", come dice l'Apostolo "e tutti preghino per lui".

Bisogna che l'abate sia molto vigilante e si impegni premurosamente con tutta l'accortezza e la diligenza di cui è capace per non perdere nessuna delle pecorelle a lui affidate.

Sia pienamente cosciente di essersi assunto il compito di curare anime inferme e non di dover esercitare il dominio sulle sane

e consideri con timore il severo oracolo del profeta per bocca del quale il Signore dice: "Ciò che vedevate pingue lo prendevate; ciò invece che era debole lo gettavate via".

Imiti piuttosto la misericordia del buon Pastore che, lasciate sui monti le novantanove pecore, andò alla ricerca dell'unica che si era smarrita

ed ebbe tanta compassione della sua debolezza che si degnò di caricarsela sulle sue sacre spalle e riportarla così all'ovile.

Capitolo XXVIII - La procedura nei confronti degli ostinati


Se un monaco, già ripreso più volte per una qualsiasi colpa, non si correggerà neppure dopo la scomunica, si ricorra a una punizione ancor più severa e cioè al castigo corporale.

Ma se neppure così si emenderà o - non sia mai! - montato in superbia pretenderà persino di difendere il suo operato, l'abate si regoli come un medico provetto,

ossia, dopo aver usato i linimenti e gli unguenti delle esortazioni, i medicamenti delle Scritture divine e, infine, la cauterizzazione della scomunica e le piaghe delle verghe,

vedendo che la sua opera non serve a nulla, si affidi al rimedio più efficace e cioè alla preghiera sua e di tutta la comunità

per ottenere dal Signore che tutto può la salvezza del fratello.

Se, però, nemmeno questo tentativo servirà a guarirlo, l'abate, metta mano al ferro del chirurgo, secondo quanto dice l'apostolo: "Togliete di mezzo a voi quel malvagio"

e ancora: "Se l'infedele vuole andarsene, vada pure",

perché una pecora infetta non debba contagiare tutto il gregge.

Capitolo XXIX - La riammissione dei fratelli che hanno lasciato il monastero


Il monaco, che, dopo aver lasciato per propria colpa il monastero, volesse ritornarvi, prometta anzitutto di correggersi definitivamente dalla colpa per la quale è uscito

e a questa condizione sia ricevuto all'ultimo posto per provare la sua umiltà.

Se poi uscisse di nuovo sia riammesso fino alla terza volta, ma sappia che in seguito gli sarà negata ogni possibilità di ritorno.

Capitolo XXX - La correzione dei ragazzi


Ogni età e intelligenza dev'essere trattata in modo adeguato.

Perciò i bambini e gli adolescenti e quelli che non sono in grado di comprendere la gravità della scomunica,

quando commettono qualche colpa siano puniti con gravi digiuni o repressi con castighi corporali, perché si correggano.

Capitolo XXXI - Il cellerario del monastero


Come cellerario del monastero si scelga un fratello saggio, maturo, sobrio, che non ecceda nel mangiare e non abbia un carattere superbo, turbolento, facile alle male parole, indolente e prodigo,

ma sia timorato di Dio e un vero padre per la comunità.

Si prenda cura di tutto e di tutti.

Non faccia nulla senza il permesso dell'abate

ed esegua fedelmente gli ordini ricevuti.

Non dia ai fratelli motivo di irritarsi e,

se qualcuno di loro avanzasse pretese assurde, non lo mortifichi sprezzantemente, ma sappia respingere la richiesta inopportuna con ragionevolezza e umiltà.

Custodisca l'anima sua, ricordandosi sempre di quella sentenza dell'apostolo che dice: "Chi avrà esercitato bene il proprio ministero, si acquisterà un grado onorevole".

Si interessi dei malati, dei ragazzi, degli ospiti e dei poveri con la massima diligenza, ben sapendo che nel giorno del giudizio dovrà rendere conto di tutte queste persone affidate alle sue cure.

Tratti gli oggetti e i beni del monastero con la reverenza dovuta ai vasi sacri dell'altare

e non tenga nulla in poco conto.

Non si lasci prendere dall'avarizia né si abbandoni alla prodigalità, ma agisca sempre con criterio e secondo le direttive dell'abate.

Soprattutto sia umile e se non può concedere quanto gli è stato richiesto, dia almeno una risposta caritatevole,

perché sta scritto: "Una buona parola vale più del migliore dei doni".

Si interessi solo delle incombenze che gli ha affidato l'abate, senza ingerirsi in quelle da cui lo ha escluso.

Distribuisca ai fratelli la porzione di vitto prestabilita senza alterigia o ritardi, per non dare motivo di scandalo, ricordandosi di quello che toccherà, secondo la divina promessa, a "chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli".

Se la comunità fosse numerosa, gli si concedano degli aiuti con la cui collaborazione possa svolgere serenamente il compito che gli è stato assegnato.

Nelle ore fissate si distribuisca quanto si deve dare e si chieda quello che si deve chiedere,

in modo che nella casa di Dio non ci sia alcun motivo di turbamento o di malcontento.

Capitolo XXXII - Gli arnesi e gli oggetti del monastero


Per la cura di tutto quello che il monastero possiede di arnesi, vesti o qualsiasi altro oggetto l'abate scelga dei monaci su cui possa contare a motivo della loro vita virtuosa

e affidi loro i singoli oggetti nel modo che gli sembrerà più opportuno, perché li custodiscano e li raccolgano.

Tenga l'inventario di tutto, in maniera che, quando i vari monaci si succedono negli incarichi loro assegnati, egli sappia che cosa dà e che cosa riceve.

Se poi qualcuno trattasse con poca pulizia o negligenza le cose del monastero, venga debitamente rimproverato;

nel caso che non si corregga, sia sottoposto alle punizioni previste dalla Regola.

Capitolo XXXIII - Il "vizio" della proprietà


Nel monastero questo vizio dev'essere assolutamente stroncato fin dalle radici,

sicché nessuna si azzardi a dare o ricevere qualche cosa senza il permesso dell'abate,

né pensi di avere nulla di proprio, assolutamente nulla, né un libro, né un quaderno o un foglio di carta e neppure una matita,

dal momento che ai monaci non è più concesso di disporre liberamente neanche del proprio corpo e della propria volontà,

ma bisogna sperare tutto il necessario dal padre del monastero e non si può tenere presso di sé alcuna cosa che l'abate che l'abate non abbia dato o permesso.

"Tutto sia comune a tutti", come dice la Scrittura, e "nessuno dica o consideri propria qualsiasi cosa".

Se poi si scoprisse qualcuno che si compiace in questo pessimo vizio, bisognerà rimproverarlo una prima e una seconda volta

e, nel caso che non si corregga, infliggergli il dovuto castigo.

Capitolo XXXIV - La distribuzione del necessario


"Si distribuiva a ciascuno proporzionatamente al bisogno", si legge nella Scrittura.

Con questo non intendiamo che si debbano fare preferenze - Dio ce ne liberi! - ma che si tenga conto delle eventuali debolezze;

quindi chi ha meno necessità, ringrazi Dio senza amareggiarsi,

mentre chi ha maggiori bisogni, si umili per la propria debolezza, invece di montarsi la testa per le attenzioni di cui è fatto oggetto

e così tutti i membri della comunità staranno in pace.

Soprattutto bisogna evitare che per qualsiasi motivo faccia la sua comparsa il male della mormorazione, sia pure attraverso una parola o un gesto.

E, nel caso che se ne trovi colpevole qualcuno, sia punito con maggior rigore.

Capitolo XXXV - Il servizio della cucina


I fratelli si servano a vicenda e nessuno sia dispensato dal servizio della cucina, se non per malattia o per un impegno di maggiore importanza,

perché così si acquista un merito più grande e si accresce la carità.

Ma i più deboli siano provveduti di un aiuto, in modo da non dover compiere questo servizio di malumore;

anzi, è bene che, in generale, tutti abbiano degli aiuti in corrispondenza alla grandezza della comunità e alle condizioni locali.

In una comunità numerosa il cellerario sia dispensato dal servizio della cucina, come anche i fratelli che, secondo quanto abbiamo già detto, sono occupati in compiti di maggiore utilità,

ma tutti gli altri si servano a vicenda con carità.

Al sabato il monaco che termina il suo turno settimanale, faccia le pulizie.

Si lavino gli asciugatoi usati dai fratelli per le mani e i piedi.

Tanto il monaco che finisce il servizio, quanto quello che lo comincia, lavino i piedi a tutti.

Il primo consegni puliti e intatti al cellerario tutti gli utensili di cui si è servito nel proprio turno.

A sua volta il cellerario li affidi al fratello che entra in servizio, in modo da sapere quello che dà e quello che riceve.

Un'ora prima del pranzo, ciascuno dei monaci di turno in cucina riceva, oltre la quantità di cibo stabilita per tutti, un po' di pane e di vino,

per poter poi all'ora del pranzo servire i propri fratelli senza lamentele né grave disagio;

ma nei giorni festivi aspettino fino al termine della celebrazione eucaristica.

Alla domenica, subito dopo le Lodi, quelli che iniziano e quelli che terminano il servizio della cucina si inginocchino in coro davanti a tutti, chiedendo che preghino per loro.

Chi ha finito il proprio turno reciti il versetto: "Sii benedetto, Signore Dio, che mi hai aiutato e mi hai consolato".

E quando lo avrà ripetuto tre volte e avrà ricevuto la benedizione, continui il fratello che gli succede nel servizio, dicendo: "O Dio, vieni in mio soccorso; Signore, affrettati ad aiutarmi";

anche questo versetto sarà ripetuto tre volte da tutti, dopo di che il fratello riceverà la benedizione e inizierà il suo turno.

Capitolo XXXVI - I fratelli infermi


L'assistenza agli infermi deve avere la precedenza e la superiorità su tutto, in modo che essi siano serviti veramente come Cristo in persona,

il quale ha detto di sé: "Sono stato malato e mi avete visitato",

e: "Quello che avete fatto a uno di questi piccoli, lo avete fatto a me".

I malati però riflettano, a loro volta, che sono serviti per amore di Dio e non opprimano con eccessive pretese i fratelli che li assistono,

ma comunque bisogna sopportarli con grande pazienza, poiché per mezzo loro si acquista un merito più grande.

Quindi l'abate vigili con la massima attenzione perché non siano trascurati sotto alcun riguardo.

Per i monaci ammalati ci sia un locale apposito e un infermiere timorato di Dio, diligente e premuroso.

Si conceda loro l'uso dei bagni, tutte le volte che ciò si renderà necessario a scopo terapeutico; ai sani, invece, e specialmente ai più giovani venga consentito più raramente.

I malati più deboli avranno anche il permesso di mangiare carne per potersi rimettere in forze; però, appena ristabiliti, si astengano tutti dalla carne come al solito.

Ma la più grande preoccupazione dell'abate deve essere che gli infermi non siano trascurati dal cellerario e dai fratelli che li assistono, perché tutte le negligenze commesse dai suoi discepoli ricadono su di lui.

Capitolo XXXVII - I vecchi e i ragazzi


Benché la stessa natura umana sia portata alla compassione per queste due età, dei vecchi, cioè, e dei ragazzi, bisogna che se ne interessi anche l'autorità della Regola.

Si tenga sempre conto della loro fragilità e, per quanto riguarda i cibi, non siano affatto obbligati all'austerità della Regola,

Ma, con amorevole indulgenza, si conceda loro un anticipo sulle ore fissate per i pasti.

Capitolo XXXVIII - La lettura in refettorio


Alla mensa dei monaci non deve mai mancare la lettura, né è permesso di leggere a chiunque abbia preso a caso un libro qualsiasi, ma bisogna che ci sia un monaco incaricato della lettura, che inizi il suo compito alla domenica.

Dopo la Messa e la comunione, il lettore che entra in funzione si raccomandi nel coro alle preghiere dei fratelli, perché Dio lo tenga lontano da ogni tentazione di vanità;

e tutti ripetano per tre volte il versetto: "Signore apri le mie labbra e la mia bocca annunzierà la tua lode", che è stato intonato dal lettore stesso,

il quale, dopo aver ricevuta così la benedizione, potrà iniziare il proprio turno.

Nel refettorio regni un profondo silenzio, in modo che non si senta alcun bisbiglio o voce, all'infuori di quella del lettore.

I fratelli si porgano a vicenda il necessario per mangiare e per bere, senza che ci sia bisogno di chiedere nulla.

Se poi proprio occorresse qualche cosa, invece che con la voce, si chieda con un leggero rumore che serva da richiamo.

E nessuno si permetta di fare delle domande sulla lettura o su qualsiasi altro argomento, per non offrire occasione di parlare,

a meno che il superiore non ritenga opportuno di dire poche parole di edificazione.

Prima di iniziare la lettura, il monaco di turno prenda un po' di vino aromatico, sia per rispetto alla santa Comunione, sia per evitare che il digiuno gli pesi troppo,

e poi mangi con i fratelli che prestano servizio in cucina e in refettorio.

Però i monaci non devono leggere e cantare tutti secondo l'ordine di anzianità, ma questo incarico va affidato solo a coloro che sono in grado di edificare i propri ascoltatori.

Capitolo XXXIX - La misura del cibo


Volendo tenere il debito conto delle necessità individuali, riteniamo che per il pranzo quotidiano fissato - a seconda delle stagioni - dopo Sesta o dopo Nona, siano sufficienti due pietanze cotte,

in modo che chi eventualmente non fosse in condizioni di prenderne una, possa servirsi dell'altra.

Dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne aggiunga una terza.

Quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia quando c'è un solo pasto, che quando c'è pranzo e cena.

In quest'ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per distribuirlo a cena.

Nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più gravoso del solito, se l'abate lo riterrà opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un piccolo supplemento,

purché si eviti assolutamente ogni abuso e il monaco si guardi dall'ingordigia.

Perché nulla è tanto sconveniente per un cristiano, quanto gli eccessi della tavola,

come dice lo stesso nostro Signore: "State attenti che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo".

Quanto poi ai ragazzi più piccoli, non si serva loro la medesima porzione, ma una quantità minore, salvaguardando in tutto la sobrietà.

Tutti infine si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi, a eccezione dei malati molto deboli.

Capitolo XL - La misura del vino


"Ciascuno ha da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro"

ed è questo il motivo per cui fissiamo la quantità del vitto altrui con una certa perplessità.

Tuttavia, tenendo conto della cagionevole costituzione dei più gracili, crediamo che a tutti possa bastare un quarto di vino a testa.

Quanto ai fratelli che hanno ricevuto da Dio la forza di astenersene completamente, sappiano che ne riceveranno una particolare ricompensa.

Se però le esigenze locali o il lavoro o la calura estiva richiedessero una maggiore quantità, sia in facoltà del superiore concederla, badando sempre a evitare la sazietà e ancor più l'ubriachezza.

Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci almeno d'accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà, ma più moderatamente,

perché "il vino fa apostatare i saggi".

I monaci poi che risiedono in località nelle quali è impossibile procurarsi la suddetta misura, ma se ne trova solo una quantità molto minore o addirittura nulla, benedicano Dio e non mormorino:

è questo soprattutto che mi preme di raccomandare, che si guardino dalla mormorazione.

Capitolo XLI - L'orario dei pasti


Dalla santa Pasqua fino a Pentecoste i fratelli pranzino all'ora di Sesta, cioè a mezzogiorno, e cenino la sera.

Invece da Pentecoste in poi, per tutta l'estate, se non sono impegnati nei lavori agricoli o sfibrati dalla calura estiva, al mercoledì e al venerdì digiunino sino all'ora di Nona, cioè fin dopo le 14

e negli altri giorni pranzino all'ora di Sesta.

Ma nel caso che abbiano da lavorare nei campi o che il caldo sia eccessivo, potranno pranzare tutti i giorni alle 12, secondo quanto stabilirà paternamente l'abate.

Così questi regoli e disponga tutto in modo che le anime si salvino e i monaci possano compiere il proprio dovere senza un motivo fondato di mormorazione.

Dal 14 settembre fino all'inizio della Quaresima pranzino sempre all'ora di Nona.

Durante la Quaresima, poi, fino a Pasqua pranzino all'ora di Vespro:

questo Ufficio però dev'essere celebrato a un'ora tale da non aver bisogno di accendere il lume durante il pranzo e poter terminare mentre è ancora giorno.

Anzi, in ogni stagione, sia l'ora del pranzo che quella della cena devono essere fissate in maniera che tutto si possa fare con la luce del sole.

Capitolo XLII - Il silenzio dopo compieta


I monaci devono custodire sempre il silenzio con amore, ma soprattutto durante la notte.

Perciò in ogni periodo dell'anno, sia di digiuno oppure no, si procederà nel modo seguente:

se non si digiuna, appena alzati da cena, i monaci si riuniscano tutti insieme e uno di loro legga le Conferenze o le Vite dei Padri o qualche altra opera di edificazione,

ma non i primi sette libri della Bibbia e neppure quelli dei Re, perché ai temperamenti impressionabili non fa bene ascoltare a quell'ora i suddetti testi scritturistici, che però si dovranno leggere in altri momenti;

se invece fosse giorno di digiuno, dopo la celebrazione dei Vespri e un breve intervallo, vadano direttamente alla lettura di cui abbiamo parlato

e leggano quattro o cinque pagine o quanto è consentito dal tempo a disposizione,

perché durante questo intervallo della lettura possano radunarsi tutti, compresi quelli che fossero eventualmente stati occupati in qualche incombenza.

Quando saranno tutti riuniti, dicano insieme Compieta, all'uscita dalla quale non sia più permesso ad alcuno di pronunciare una parola.

Chiunque sia colto a trasgredire questa regola del silenzio venga severamente punito,

eccetto il caso in cui sopraggiungano degli ospiti o l'abate abbia dato un ordine a un monaco;

ma anche in questa eventualità bisogna procedere con la massima gravità e il debito riserbo.

Capitolo XLIII - La puntualità nell'Ufficio divino e in refettorio


All'ora dell'Ufficio divino, appena si sente il segnale, lasciato tutto quello che si ha tra le mani, si accorra con la massima sollecitudine,

ma nello stesso tempo con gravità, per non dare adito alla leggerezza.

In altre parole non si anteponga nulla all'opera di Dio".

Se qualcuno arriva all'Ufficio notturno dopo il Gloria del salmo 94, che proprio per questo motivo vogliamo sia cantato molto lentamente e con pause, non occupi il proprio posto nel coro,

ma si metta all'ultimo o in quella parte che l'abate avrà destinato per questi negligenti, perché siano veduti da lui e da tutti,

e vi rimanga fino a quando, al termine del l'Ufficio divino, avrà riparato dinanzi a tutta la comunità con una penitenza.

Abbiamo ritenuto opportuno far rimanere questi ritardatari all'ultimo posto o in un canto, perché si correggano almeno per la vergogna di essere visti da tutti.

Se, infatti, rimanessero fuori del coro, ci potrebbe essere qualcuno che ritorna a dormire o si siede fuori o si mette a chiacchierare, dando così occasione al demonio;

è bene invece che entrino, in modo da non perdere tutto l'Ufficio e correggersi per l'avvenire.

Nelle Ore del giorno, invece, il monaco che arriva all'Ufficio divino dopo il versetto o il Gloria del primo salmo, che segue lo stesso versetto, si metta all'ultimo posto, secondo la norma precedente,

e non si permetta di unirsi al coro dei fratelli che salmeggiano, fino a che non avrà riparato, a meno che l'abate gliene dia il permesso con il suo perdono;

ma anche in questo caso il ritardatario dovrà riparare la sua mancanza.

Per quanto riguarda il refettorio, chi non arriva prima del versetto in modo che tutti uniti dicano il versetto stesso, preghino e poi siedano insieme a mensa,

se la mancanza è dovuta a negligenza o cattiva volontà, sia rimproverato fino a due volte.

Ma se ancora non si corregge, sia escluso dalla mensa comune

e mangi da solo, separato dalla comunità e senza la sua razione di vino, fino a che non abbia riparato e si sia corretto.

Lo stesso castigo sia inflitto al monaco che non si trovi presente al versetto che si recita dopo il pranzo.

Nessuno poi si permetta di mangiare o di bere qualcosa prima dell'ora stabilita.

Ma il monaco che non avesse accettato ciò che gli era stato offerto dal superiore, quando desidererà quello che ha rifiutato in precedenza o altro, non ottenga assolutamente nulla fino a che non dimostri di essersi debitamente corretto.

Capitolo XLIV - La riparazione degli scomunicati


Il monaco che per colpe gravi è stato escluso dal coro e della mensa comune, al termine dell'Ufficio divino si prostri in silenzio davanti alla porta del coro,

rimanendo lì disteso con la faccia a terra dinanzi a tutti quelli che escono

e continui a fare in questo modo fino a quando l'abate non giudichi che ha sufficientemente riparato.

Quando poi sarà chiamato dall'abate, si getti ai piedi di lui e di tutti i fratelli per chiedere le loro preghiere.

Allora, se l'abate vorrà, potrà essere riammesso in coro al suo posto o a quello designato dallo stesso abate,

senza permettersi, però, di recitare un salmo, una lezione o altro, a meno che l'abate glielo ordini.

Inoltre al termine di tutte le Ore dell'Ufficio divino, si prostri a terra lì dove si trova

e faccia così la sua riparazione, finché l'abate non metterà fine a questa penitenza.

Quelli, invece, che per colpe più leggere sono stati esclusi solo dalla mensa, facciano penitenza in coro per il tempo stabilito dall'abate

e la ripetano fin tanto che questi li benedica e dica: Basta!

Capitolo XLV - La riparazione per gli errori commessi in coro


Se un monaco commette un errore mentre recita un salmo, un responsorio, un'antifona o una lezione e non si umilia davanti a tutti con una penitenza, sia sottoposto a una punizione più severa,

perché non ha voluto correggersi umilmente dell'errore commesso per negligenza.

Nel caso dei ragazzi, invece, per una colpa di questo genere si ricorra al castigo corporale.

Capitolo XLVI - La riparazione per le altre mancanze


Se, mentre è impegnato in un qualsiasi lavoro in cucina, in dispensa, nel proprio servizio, nel forno, nell'orto, in qualche attività o si trova in un altro luogo qualunque, un monaco commette uno sbaglio,

rompe o perde un oggetto o incorre comunque in una mancanza

e non si presenta subito all'abate e alla comunità per riparare spontaneamente e confessare la propria colpa,

sarà sottoposto a una punizione più severa, quando il fatto verrà reso noto da altri.

Ma se il movente segreto del peccato fosse nascosto nell'intimo della coscienza, lo manifesti solo all'abate o a qualche monaco anziano,

che sappia curare le miserie proprie e altrui senza svelarle e renderle di pubblico dominio.

Capitolo XLVII - Il segnale per l'Ufficio divino


Bisogna che l'abate si assuma personalmente il compito di dare il segnale per l'Ufficio divino, oppure lo affidi a un monaco diligente in modo che tutto avvenga regolarmente nelle ore fissate.

L'intonazione dei salmi e delle antifone, secondo l'ordine prestabilito, spetta, dopo l'abate, ai monaci appositamente designati.

E nessuno si permetta di cantare o di leggere all'infuori di chi è capace di farlo in maniera da edificare i suoi ascoltatori;

inoltre questo compito dev'essere svolto con umiltà, gravità e reverenza e solo dietro incarico dell'abate.

Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano


L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio.

Quindi pensiamo di regolare gli orari di queste due attività fondamentali nel modo seguente:

da Pasqua fino al 14 settembre, al mattino verso le 5 quando escono da Prima, lavorino secondo le varie necessità fino alle 9;

dalle 9 fino all'ora di Sesta si dedichino allo studio della parola di Dio.

Dopo l'Ufficio di Sesta e il pranzo, quando si alzano da tavola, riposino nei rispettivi letti in assoluto silenzio e, se eventualmente qualcuno volesse leggere per proprio conto, lo faccia in modo da non disturbare gli altri.

Si celebri Nona con un po' di anticipo, verso le 14, e poi tutti riprendano il lavoro assegnato dall'obbedienza fino all'ora di Vespro.

Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino,

perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli.

Tutto però si svolga con discrezione, in considerazione dei più deboli.

Dal 14 settembre, poi, fino al principio della Quaresima, si applichino allo studio fino alle 9,

quando celebreranno l'ora di Terza, dopo la quale tutti saranno impegnati nei rispettivi lavori fino a Nona, e cioè alle 14.

Al primo segnale di Nona, ciascuno interrompa il proprio lavoro per essere pronto al suono del secondo segnale.

Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei salmi.

Durante la Quaresima leggano dall'alba fino alle 9 inoltrate e poi lavorino in conformità agli ordini ricevuti fino verso le 4 pomeridiane.

In quei giorni di Quaresima ciascuno riceva un libro dalla biblioteca e lo legga ordinatamente da cima a fondo.

I suddetti libri devono essere distribuiti all'inizio della Quaresima.

E per prima cosa bisognerà incaricare uno o due monaci anziani di fare il giro del monastero nelle ore in cui i fratelli sono occupati nello studio,

per vedere se per caso ci sia qualche monaco indolente, che, invece di dedicarsi allo studio, perda, tempo oziando e chiacchierando e quindi, oltre a essere improduttivo per sé, distragga anche gli altri.

Se si trovasse - non sia mai! - un fratello che si comporta in questo modo, sia rimproverato una prima e una seconda volta,

ma se non si corregge, gli si infligga una punizione prevista dalla Regola, in modo da incutere anche negli altri un salutare timore.

Non è neppure permesso che un monaco si trovi con un altro fuori del tempo stabilito.

Anche alla domenica si dedichino tutti allo studio della parola di Dio, a eccezione di quelli destinati ai vari servizi.

Ma se ci fosse qualcuno tanto negligente e fannullone da non volere o poter studiare o leggere, gli si dia qualche lavoro da fare, perché non rimanga in ozio.

Infine ai monaci infermi o cagionevoli si assegni un lavoro o un'attività che non li lasci nell'inazione e nello stesso tempo non li sfinisca per l'eccessiva fatica, spingendoli ad andarsene,

poiché l'abate ha il dovere di tener conto della loro debolezza.

Capitolo XLIX - La quaresima dei monaci


Anche se è vero che la vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale,

visto che questa virtù è soltanto di pochi, insistiamo particolarmente perché almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della propria vita,

profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le negligenze degli altri periodi dell'anno.

E questo si realizza degnamente, astenendosi da ogni peccato e dedicandosi con impegno alla preghiera accompagnata da lacrime di pentimento, allo studio della parola di Dio, alla compunzione del cuore e al digiuno.

Perciò durante la Quaresima aggiungiamo un supplemento al dovere ordinario del nostro servizio, come, per es., preghiere particolari, astinenza nel mangiare o nel bere,

in modo che ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio "con la gioia dello Spirito Santo" qualche cosa di più di quanto deve già per la sua professione monastica;

si privi cioè di un po' di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo e attenda la santa Pasqua con l'animo fremente di gioioso desiderio.

Ma anche ciò che ciascuno vuole offrire personalmente a Dio dev'essere prima sottoposto umilmente all'abate e poi compiuto con la sua benedizione e approvazione,

perché tutto quello che si fa senza il permesso dell'abate sarà considerato come presunzione e vanità, anziché come merito.

Perciò si deve far tutto con l'autorizzazione dell'abate.

Capitolo L - I monaci che lavorano lontano o sono in viaggio


I fratelli, che lavorano molto lontano e non possono essere presenti in coro nell'ora fissata per l'Ufficio divino,

se l'impossibilità in cui si trovano è stata effettivamente accettata dall'abate,

recitino pure l'Ufficio divino sul posto di lavoro, mettendosi in ginocchio per la reverenza dovuta a Dio.

Così pure quelli, che sono mandati in viaggio, non lascino passare le ore stabilite per l'Ufficio, ma lo recitino come meglio possono e non trascurino l'adempimento del dovere inerente al loro sacro servizio.

Capitolo LI - I monaci che si recano nelle vicinanze


Il monaco, che viene mandato fuori per qualche commissione e conta di tornare in monastero nella stessa giornata, non si permetta di mangiare fuori, anche se viene pregato con insistenza da qualsiasi persona,

a meno che l'abate non gliene abbia dato il permesso.

Se contravverrà a questa prescrizione, sarà scomunicato.

Capitolo LII - La chiesa del monastero


La chiesa sia quello che dice il suo nome, quindi in essa non si faccia né si riponga altro.

Alla fine dell'Ufficio divino escano tutti in perfetto silenzio e con grande rispetto per Dio,

in modo che, se un monaco volesse rimanere a pregare. privatamente, non sia impedito dall'indiscrezione altrui.

Se, però, anche in un altro momento qualcuno desidera pregare per proprio conto, entri senz'altro e preghi, non a voce alta, ma con lacrime e intimo ardore.

Perciò, come abbiamo detto, chi non intende dedicarsi all'orazione si guardi bene dal trattenersi in chiesa dopo la celebrazione del divino Ufficio, per evitare che altri siano disturbati dalla sua presenza.

Capitolo LIII - L'accoglienza degli ospiti


Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: "Sono stato ospite e mi avete accolto"

e a tutti si renda il debito onore, ma in modo particolare ai nostri confratelli e ai pellegrini.

Quindi, appena viene annunciato l'arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore;

per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui, scambiandosi la pace.

Questo bacio di pace non dev'essere offerto prima della preghiera per evitare le illusioni diaboliche.

Nel saluto medesimo si dimostri già una profonda umiltà verso gli ospiti in arrivo o in partenza,

adorando in loro, con il capo chino o il corpo prostrato a terra, lo stesso Cristo, che così viene accolto nella comunità.

Dopo questo primo ricevimento, gli ospiti siano condotti a pregare e poi il superiore o un monaco da lui designato si siedano insieme con loro.

Si legga all'ospite un passo della sacra Scrittura, per sua edificazione, e poi gli si usino tutte le attenzioni che può ispirare un fraterno e rispettoso senso di umanità.

Se non è uno dei giorni in cui il digiuno non può essere violato, il superiore rompa pure il suo digiuno per far compagnia all'ospite,

mentre i fratelli continuino a digiunare come al solito.

L'abate versi personalmente l'acqua sulle mani degli ospiti per la consueta lavanda;

lui stesso, poi, e tutta la comunità lavino i piedi a ciascuno degli ospiti

e al termine di questo fraterno servizio dicano il versetto: "Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, nel mezzo del tuo Tempio".

Specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo in modo tutto particolare e, d'altra parte, l'imponenza dei ricchi incute rispetto già di per sé.

La cucina dell'abate e degli ospiti sia a parte, per evitare che i monaci siano disturbati dall'arrivo improvviso degli ospiti, che non mancano mai in monastero.

Il servizio di questa cucina sia affidato annualmente a due fratelli, che sappiano svolgerlo come si deve.

A costoro si diano anche degli aiuti, se ce n'è bisogno, perché servano senza mormorare, ma, a loro volta, quando hanno meno da fare, vadano a lavorare dove li manda l'obbedienza.

E non solo in questo caso, ma nei confronti di tutti i fratelli impegnati in qualche particolare servizio del monastero, si segua un tale principio

e cioè che, se occorre, si concedano loro degli aiuti, mentre, una volta terminato il proprio lavoro, essi devono tenersi disponibili per qualsiasi ordine.

Così pure la foresteria, ossia il locale destinato agli ospiti, sia affidata a un monaco pieno di timor di Dio:

in essa ci siano dei letti forniti di tutto il necessario e la casa di Dio sia governata con saggezza da persone sagge.

Nessuno, poi, a meno che ne abbia ricevuto l'incarico, prenda contatto o si intrattenga con gli ospiti,

ma se qualcuno li incontra o li vede, dopo averli salutati umilmente come abbiamo detto e aver chiesta la benedizione, passi oltre, dichiarando di non avere il permesso di parlare con gli ospiti.

Capitolo LIV - La distribuzione delle lettere e dei regali destinati ai singoli monaci


Senza il consenso dell'abate nessun monaco può ricevere dai suoi parenti o da qualunque altra persona lettere, oggetti di devozione o altri piccoli regali e neanche farne a sua volta o scambiarli con i confratelli.

E anche se i parenti gli mandassero qualche dono, non si permetta di accettarlo, senza averne prima informato l'abate.

Ma questi, anche nel caso che dia il suo consenso per ricevere il dono, può sempre assegnarlo a chi vuole

e il monaco a cui era destinato non deve farsi di questo un motivo di afflizione, per non dare occasione al diavolo.

Se poi qualcuno si provasse a comportarsi diversamente, sia sottoposto ai castighi dalla Regola.

Capitolo LV - Gli abiti e le calzature dei monaci


Bisogna dare ai monaci degli abiti adatti alle condizioni e al clima della località in cui abitano,

perché nelle zone fredde si ha maggiore necessità di coprirsi e in quelle calde di meno:

il giudizio al riguardo è di competenza dell'abate.

Comunque riteniamo che nei climi temperati bastino per ciascun monaco una tonaca e una cocolla,

quest'ultima di lana pesante per l'inverno e leggera o lisa per l'estate;

inoltre lo scapolare per il lavoro e come calzature, scarpe e calze.

Quanto al colore e alla qualità di tutti questi indumenti, i monaci non devono attribuirvi eccessiva importanza, accontentandosi di quello che si può trovare sul posto ed è più a buon mercato.

L'abate però stia attento alla misura degli abiti, in modo che non siano troppo corti, ma della taglia di chi li indossa.

I monaci che ricevono gli indumenti nuovi, restituiscano i vecchi, che devono essere riposti nel guardaroba per poi distribuirli ai poveri.

Infatti a ogni monaco bastano due cocolle e due tonache per potersi cambiare la notte e per lavarle;

il di più è superfluo e dev'essere eliminato.

Anche le calze e qualsiasi altro oggetto usato dev'essere restituito, quando ne viene assegnato uno nuovo.

I monaci, che sono mandati in viaggio, ricevano dal guardaroba gli indumenti occorrenti, che restituiranno poi lavati al ritorno.

Anche le cocolle e le tonache per il viaggio siano un po' migliori di quelle portate usualmente; gli interessati le prendano in consegna dal guardaroba, quando partono, e le restituiscano al ritorno.

Per la fornitura dei letti poi bastino un pagliericcio, una coperta di grossa tela, un coltrone e un cuscino di paglia o di crine.

I letti, però, devono essere frequentemente ispezionati dall'abate, per vedere se non ci sia nascosta qualche piccola proprietà personale.

E se si scoprisse qualcuno in possesso di un oggetto che non ha ricevuto dall'abate, sia sottoposto a una gravissima punizione.

Ma, per strappare fin dalle radici questo vizio della proprietà, l'abate distribuisca tutto il necessario

e cioè: cocolla, tonaca, calze, scarpe, cintura, coltello, ago, fazzoletti e il necessario per scrivere, in modo da togliere ogni pretesto di bisogno.

In questo, però, deve sempre tener presente quanto è detto negli Atti degli Apostoli e cioè che "Si dava a ciascuno secondo le sue necessità".

Quindi prenda in considerazione le particolari esigenze dei più deboli, anziché la malevolenza degli invidiosi.

Comunque, in tutte le sue decisioni si ricordi del giudizio di Dio.

Capitolo LVI - La mensa dell'abate


L'abate mangi sempre in compagnia degli ospiti e dei pellegrini.

Ma quando gli ospiti sono pochi, può chiamare alla sua mensa i monaci che vuole.

Sarà bene tuttavia lasciare uno o due monaci anziani con la comunità per il mantenimento della disciplina.

Capitolo LVII - I monaci che praticano un'arte o un mestiere

Se in monastero ci sono dei fratelli esperti in un'arte o in un mestiere, li esercitino con la massima umiltà, purché l'abate lo permetta.

Ma se qualcuno di loro monta in superbia, perché gli sembra di portare qualche utile al monastero,

sia tolto dal suo lavoro e non gli sia più concesso di occuparsene, a meno che rientri in se stesso, umiliandosi, e l'abate non glielo permetta di nuovo.

Se poi si deve vendere qualche prodotto del lavoro di questi monaci, coloro, che sono stati incaricati di trattare l'affare, si guardino bene da qualsiasi disonestà.

Si ricordino sempre di Anania e Safira, per non correre il rischio che la morte, subita da quelli nel corpo,

colpisca le anime loro e di tutte le persone, che hanno comunque defraudato le sostanze del monastero.

Però nei prezzi dei suddetti prodotti non deve mai insinuarsi l'avarizia,

ma bisogna sempre venderli un po' più a buon mercato dei secolari

"affinché in ogni cosa sia glorificato Dio".

Capitolo LVIII - Norme per l'accettazione dei fratelli


Quando si presenta un aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità,

ma, come dice l'Apostolo: "Provate gli spiriti per vedere se vengono da Dio".

Quindi, se insiste per entrare e per tre o quattro giorni dimostra di saper sopportare con pazienza i rifiuti poco lusinghieri e tutte le altre difficoltà opposte al suo ingresso, perseverando nella sua richiesta,

sia pure accolto e ospitato per qualche giorno nella foresteria.

Ma poi si trasferisca nel locale destinato ai novizi, perché vi ricevano la loro formazione, vi mangino e vi dormano.

Ad essi venga inoltre preposto un monaco anziano, capace di conquistare le anime, con l'incarico di osservarli molto attentamente.

In primo luogo bisogna accertarsi se il novizio cerca veramente Dio, se ama l'Ufficio divino, l'obbedienza e persino le inevitabili contrarietà della vita comune.

Gli si prospetti tutta la durezza e l'asperità del cammino che conduce a Dio.

Se darà sicure prove di voler perseverare nella sua stabilità, dopo due mesi gli si legga per intero questa Regola

e gli si dica: "Ecco la legge sotto la quale vuoi militare; se ti senti di poterla osservare, entra; altrimenti, va' pure via liberamente".

Se persisterà ancora nel suo proposito, sia ricondotto nel suddetto locale dei novizi e si metta la sua pazienza alla prova in tutti i modi possibili.

Passati sei mesi, gli si legga di nuovo la Regola, perché prenda coscienza dell'impegno che sta per assumersi.

E se continua a perseverare, dopo altri quattro mesi, gli si legga ancora una volta la stessa Regola.

Se allora, dopo aver seriamente riflettuto, prometterà di essere fedele in tutto e di obbedire a ogni comando, sia pure accolto nella comunità,

ma sappia che anche l'autorità della Regola gli vieta da quel giorno di uscire dal monastero

e di sottrarsi al giogo della disciplina monastica che, in una così prolungata deliberazione, ha avuto la possibilità di accettare o rifiutare liberamente.

Al momento dell'ammissione faccia in coro, davanti a tutta la comunità, solenne promessa di stabilità, conversione continua e obbedienza,

al cospetto di Dio e di tutti i suoi santi, in modo da essere pienamente consapevole che, se un giorno dovesse comportarsi diversamente, sarà condannato da Colui del quale si fa giuoco.

Di tale promessa stenda un documento sotto forma di domanda, rivolta ai Santi, le cui reliquie sono conservate nella chiesa, e all'abate presente.

Scriva di suo pugno il suddetto documento o, se non è capace, lo faccia scrivere da un altro, dietro sua esplicita richiesta, e lo firmi con un segno, deponendolo poi sull'altare con le proprie mani.

Una volta depositato il documento sull'altare, il novizio intoni subito il versetto: "Accoglimi, Signore, secondo la tua promessa e vivrò; e non deludermi nella mia speranza".

Tutta la comunità ripeta per tre volte lo stesso versetto, aggiungendovi alla fine il Gloria.

Poi il novizio si prostri ai piedi di ciascuno dei fratelli per chiedergli di pregare per lui e da quel giorno sia considerato come un membro della comunità.

Se possiede dei beni materiali, li distribuisca in precedenza ai poveri o li doni al monastero con un atto ufficiale senza riservare per sé la minima proprietà,

ben sapendo che da quel giorno in poi non sarà più padrone neanche del proprio corpo.

Quindi, subito dopo, sia spogliato in coro delle vesti che indossa e rivestito dell'abito monastico.

Ma gli indumenti di cui si è spogliato devono essere conservati nel guardaroba,

in modo che, se in seguito dovesse - Dio non voglia!- cedere alla suggestione diabolica e lasciare il monastero, sia mandato via senza l'abito monastico.

Non gli si restituisca invece la domanda che l'abate ha ritirato dall'altare, ma sia conservata in monastero.

Capitolo LIX - I piccoli oblati


Se qualche persona facoltosa volesse offrire il proprio figlio a Dio nel monastero e il ragazzo è ancora piccino, i genitori stendano la domanda di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente

e l'avvolgano nella tovaglia dell'altare insieme con l'oblazione della Messa e la mano del bimbo, offrendolo in questo modo.

Per quanto riguarda poi i loro beni, o nella domanda suddetta promettano di non dargli mai nulla, né direttamente né per interposta persona, né in qualsiasi altro modo, e neanche di dargli mai l'occasione di procurarsi qualche sostanza,

oppure, se non intendono regolarsi secondo questa prassi e desiderano offrire qualche cosa al monastero per la salute dell'anima loro,

facciano donazione dei beni che vogliono regalare al monastero, riservandosene, se credono, l'usufrutto.

Così si precludano tutte le vie, in modo da non lasciare al ragazzo alcun miraggio da cui possa esser tratto in inganno e - Dio non voglia! - in perdizione, come ci ha insegnato l'esperienza.

La stessa procedura seguano anche i meno abbienti.

Quanto a coloro che non possiedono proprio nulla, facciano semplicemente la domanda e offrano il loro figlioletto con l'oblazione della Messa, alla presenza di testimoni.

Capitolo LX - I sacerdoti aspiranti alla vita monastica


Se qualche sacerdote chiede di essere ammesso nel monastero, non bisogna affrettarsi troppo ad accogliere la sua richiesta.

Ma se continua a insistere in questa preghiera, sappia che dovrà osservare tutta la disciplina della Regola,

senza la minima attenuazione, in modo che gli si possa dire con la Scrittura: "Amico, che sei venuto a fare?".

Gli si conceda tuttavia di prender posto dopo l'abate, di dare la benedizione e di recitare le preci finali, purché l'abate disponga così;

altrimenti non pretenda assolutamente nulla, anzi sia per tutti un esempio di umiltà, ben sapendo di essere soggetto alla disciplina della Regola.

E se per caso nella comunità si dovesse trattare dell'assegnazione delle cariche o di qualche altro affare,

occupi il posto che gli spetta corrispondentemente al suo ingresso in monastero e non quello che gli è stato concesso in considerazione della sua dignità sacerdotale.

Se poi qualche chierico, spinto dallo stesso desiderio, volesse essere aggregato alla comunità, sia assegnato a un posto di un certo riguardo,

ma sempre a condizione che prometta anche lui l'osservanza della Regola e la propria stabilità.

Capitolo LXI - L'accoglienza dei monaci forestieri


Se un monaco forestiero, giunto di lontano, vuole abitare nel monastero in qualità di ospite

e si dimostra soddisfatto delle consuetudini locali,

accontentandosi con semplicità di quello che trova, senza disturbare la comunità con le sue pretese, sia accolto per tutto il tempo che desidera.

Nel caso poi che egli rilevi qualche inconveniente o dia qualche suggerimento, l'abate si chieda se il Signore non lo abbia mandato proprio per questo.

E se in seguito vorrà fissare la sua stabilità nel monastero, non si opponga un rifiuto a questa sua richiesta, tanto più che durante la sua permanenza si è avuto modo di studiarne il comportamento.

Se però, quando era ospite si è dimostrato pieno di pretese e di difetti, non solo non dev'essere aggregato alla comunità,

ma bisogna dirgli garbatamente di andarsene per evitare che le sue miserie contagino anche gli altri.

Invece, se non merita di essere allontanato, non sia accolto e incorporato nella comunità solo nel caso che ne faccia domanda,

ma sia addirittura invitato a rimanere, perché gli altri possano trarre profitto dal suo esempio

e perché dappertutto si serve il medesimo Signore e si milita sotto lo stesso Re.

Anzi, se l'abate lo ritiene degno, può anche assegnargli un posto un po' elevato.

E non solamente un monaco, ma anche coloro che appartengono all'ordine sacerdotale o al chiericato, l'abate può destinare a un posto superiore a quello corrispondente al loro ingresso in monastero, se ha notato che la condotta lo merita.

Si guardi però sempre dall'ammettere stabilmente nella sua comunità un monaco proveniente da un monastero conosciuto, senza il consenso e le lettere commendatizie del suo abate,

perché sta scritto: "Non fare agli altri quello che non vuoi che sia fatto a te".

Capitolo LXII - I sacerdoti del monastero


Se un abate desidera che uno dei suoi monaci sia ordinato sacerdote o diacono per il servizio della comunità scelga in essa un fratello degno di esercitare tali funzioni.

Ma il monaco ordinato si guardi dalla vanità e dalla superbia

e non creda di poter fare altro che quello che gli ordina l'abate, tenendo sempre presente che d'ora in poi dovrà essere maggiormente sottomesso alla disciplina.

Né col pretesto del sacerdozio trascuri l'obbedienza alla Regola o la disciplina, ma anzi progredisca sempre più nelle vie di Dio.

Conservi sempre il posto che gli spetta in corrispondenza del suo ingresso in monastero,

tranne che per il ministero dell'altare, oppure nel caso che la scelta della comunità o la volontà dell'abate l'abbiano promosso in considerazione della sua vita esemplare.

Sappia però che deve osservare la disciplina prestabilita per i decani e i superiori.

Se avrà la presunzione di agire diversamente, non sia più trattato come un sacerdote, ma come un ribelle.

E nell'eventualità che, dopo essere stato ammonito non si correggesse, si chiami a testimonio anche il vescovo.

Ma se neanche allora si emendasse e le sue colpe diventassero sempre più evidenti, sia espulso dal monastero,

purché però sia stato così ostinato da non volersi sottomettere e obbedire alla Regola.

Capitolo LXIII - L'ordine della comunità


Nella comunità ognuno conservi il posto che gli spetta secondo la data del suo ingresso o l'esemplarità della sua condotta o la volontà dell'abate.

Bisogna però che quest'ultimo non metta lo scompiglio nel gregge che gli è stato affidato, prendendo delle disposizioni ingiuste come se esercitasse un potere assoluto,

ma pensi sempre che dovrà rendere conto a Dio di tutte le sue decisioni e azioni.

Dunque i monaci si succedano nel bacio di pace e nella comunione, nell'intonare i salmi e nei posti in coro, secondo l'ordine stabilito dall'abate o a essi spettante.

E in nessuna occasione l'età costituisca un criterio distintivo o pregiudizievole per stabilire i posti,

perché Samuele e Daniele, quando erano ancora fanciulli, giudicarono gli anziani.

Quindi, a eccezione di quelli che, come abbiamo già detto, l'abate avrà promosso per ragioni superiori o degradato per motivi fondati, tutti gli altri occupino sempre i posti determinati dalla data del rispettivo ingresso,

in modo che il monaco, arrivato - per esempio - in monastero alle 9, sappia di essere più giovane di quello arrivato alle 8, quale che sia la sua età e dignità.

Per quanto riguarda i ragazzi, invece, si osservi in tutto e per tutto la relativa disciplina.

I più giovani, dunque, trattino con riguardo i più anziani, che a loro volta li ricambino con amore.

Anche quando si chiamano tra loro, nessuno si permetta di rivolgersi all'altro con il solo nome,

ma gli anziani diano ai giovani l'appellativo di "fratello" e i giovani usino per gli anziani quello di "reverendo padre", come espressione del loro rispetto filiale.

L'abate poi sia chiamato "signore" e "abate", non perché si sia arrogato da sé un tale titolo, ma in onore e per amore di Cristo del quale sappiamo per fede che egli fa le veci.

Da parte sua, però, rifletta sull'onore che gli viene tributato e se ne dimostri degno.

Dovunque i fratelli si incontrano, il più giovane chieda la benedizione al più anziano;

quando passa un monaco anziano, il più giovane si alzi e gli ceda il posto, guardandosi bene dal rimettersi a sedere prima che l'anziano glielo permetta,

in modo che si realizzi quanto è scritto: "Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore".

I ragazzi più piccoli e i giovanetti occupino in coro e in refettorio i posti loro spettanti secondo la Regola:

ma fuori di lì siano sorvegliati e tenuti dappertutto sotto la disciplina, finché non avranno raggiunto un età più matura.

Capitolo LXIV - L'elezione dell'abate


Nell'elezione dell'abate bisogna seguire il principio di scegliere il monaco che tutta la comunità ha designato concordemente nel timore di Dio, oppure quello prescelto con un criterio più saggio da una parte sia pur piccola di essa.

Il futuro abate dev'essere scelto in base alla vita esemplare e alla scienza soprannaturale, anche se fosse l'ultimo della comunità.

Se invece, - non sia mai! - la comunità eleggesse, sia pure di comune accordo, una persona consenziente ai suoi abusi,

e il vescovo della diocesi o gli abati o i fedeli delle vicinanze ne venissero comunque a conoscenza

devono impedire in tutti i modi che il complotto di quegli sciagurati abbia il sopravvento e nominare un degno ministro della casa di Dio,

ben sapendo che ne riceveranno una grande ricompensa, mentre invece sarebbero colpevoli, se non se ne curassero.

Il nuovo eletto, poi, pensi sempre al carico che si è addossato e a chi dovrà rendere conto del suo governo

e sia consapevole che il suo dovere è di aiutare, piuttosto che di comandare.

Bisogna quindi che sia esperto nella legge di Dio per possedere la conoscenza e la materia da cui trarre "cose nuove e antiche", intemerato, sobrio, comprensivo

e faccia "trionfare la misericordia sulla giustizia", in modo da meritare un giorno lo stesso trattamento per sé.

Detesti i vizi, ma ami i suoi monaci.

Nelle stesse correzioni agisca con prudenza per evitare che, volendo raschiare troppo la ruggine, si rompa il vaso:

diffidi sempre della propria fragilità e si ricordi che "non bisogna spezzare la canna già incrinata".

Con questo non intendiamo che l'abate debba permettere ai difetti di allignare, ma che li sradichi - come abbiamo già detto - con prudenza e carità, nel modo che gli sembrerà più conveniente per ciascuno,

e cerchi di essere più amato che temuto.

Non sia turbolento e ansioso, né esagerato e ostinato, né invidioso e sospettoso, perché così non avrebbe mai pace;

negli stessi ordini sia previdente e riflessivo e, tanto se il suo comando riguarda il campo spirituale, quanto se si riferisce a un interesse temporale, proceda con discernimento e moderazione,

tenendo presente la discrezione del santo patriarca Giacobbe, che diceva: "Se affaticherò troppo i miei greggi, moriranno tutti in un giorno".

Seguendo questo e altri esempi di quella discrezione che è la madre di tutte le virtù, disponga ogni cosa in modo da stimolare le generose aspirazioni dei forti, senza scoraggiare i deboli.

E soprattutto osservi e faccia osservare integramente la presente Regola

per potersi sentir dire dal Signore, al termine della sua onesta gestione, le parole udite dal servo fedele, che a tempo debito distribuì il frumento ai suoi compagni:

"In verità vi dico: - dichiara Gesù - gli diede potere su tutti i suoi beni".

Capitolo LXV - Il priore del monastero


Accade spesso che la nomina del priore dia origine a gravi scandali,

perché alcuni, gonfiati da un maligno spirito di superbia e convinti di essere altrettanti abati, si attribuiscono indebitamente un potere assoluto, fomentando litigi, creando divisioni nelle comunità,

specialmente in quei monasteri nei quali il priore viene nominato dallo stesso vescovo o dagli stessi abati a cui spetta l'elezione dell'abate.

E' facile rendersi conto dell'assurdità di una simile procedura, con cui si dà motivo al priore di insuperbirsi fin dal primo momento della sua nomina,

perché la considerazione di questo stato di cose può insinuare in lui l'idea di non essere più soggetto all'autorità dell'abate.

"Tu pure - dirà a se stesso - sei stato nominato da quelli che hanno eletto l'abate".

Di qui nascono invidie, liti, maldicenze, rivalità, divisioni e disordini di ogni genere,

per cui, mentre l'abate e il priore sono in disaccordo, le loro anime vengono necessariamente a trovarsi in pericolo a motivo di questo contrasto

e i loro sudditi, parteggiando per l'uno o per l'altro, vanno in perdizione.

La responsabilità di questa perniciosa situazione ricade principalmente sugli autori di tanto disordine.

Quindi, per la tutela della pace e della carità ci è sembrato necessario far dipendere l'ordinamento del monastero unicamente dalla volontà del suo abate.

E, se è possibile, tutte le attività del monastero siano regolate - come abbiamo già stabilito in precedenza - per mezzo di decani, secondo quanto disporrà l'abate,

in modo che, ripartendo l'autorità fra varie persone, non si dia motivo a uno solo di insuperbirsi.

Ma se le condizioni locali lo esigono o la comunità lo chiede umilmente e con ragioni fondate e l'abate lo giudica opportuno,

nomini egli stesso priore quel monaco che avrà scelto con il consiglio di fratelli timorati di Dio.

Il priore, da parte sua, esegua con reverenza gli ordini del suo abate e non faccia nulla contro la volontà o le disposizioni di lui,

perché quanto più è stato elevato al di sopra degli altri, tanto maggior impegno deve dimostrare nell'osservanza delle prescrizioni della Regola.

Se poi questo priore si rivelerà pieno di difetti o, lusingato dalla vanità, monterà in superbia o darà prova manifesta di disprezzare la santa Regola, sia ammonito a voce per quattro volte,

ma, nel caso che non si corregga, si prenda nei suoi confronti il provvedimento disciplinare previsto dalla Regola.

Se neppure così si ravvederà, sia deposto dalla carica di priore e sostituito da un altro che ne sia degno.

E se in seguito non intenderà starsene quieto e sottomesso in comunità, sia addirittura espulso dal monastero.

Ma l'abate, da parte sua, si ricordi sempre che un giorno dovrà rendere conto a Dio di tutte le sue decisioni, per evitare che la fiamma dell'invidia e della gelosia gli divori l'anima.

Capitolo LXVI - I portinai del monastero


Alla porta del monastero sia destinato un monaco anziano e assennato, che sappia ricevere e riportare le commissioni e sia abbastanza maturo da non disperdersi, andando in giro a destra e a sinistra.

Questo portinaio deve avere la sua residenza presso la porta, in modo che le persone che arrivano trovino sempre un monaco pronto a rispondere.

Quindi, appena qualcuno bussa o un povero chiede la carità, risponda: "Deo gratias!" Oppure: "Benedicite!"

e con tutta la delicatezza che ispira il timor di Dio venga incontro alle richieste del nuovo arrivato, dimostrando una grande premura e un'ardente carità.

Lo stesso portinaio, se ha bisogno di aiuto, sia coadiuvato da un fratello più giovane.

Il monastero, poi, dev'essere possibilmente organizzato in modo che al suo interno si trovi tutto l'occorrente, ossia l'acqua, il mulino, l'orto e i vari laboratori,

per togliere ai monaci ogni necessità di girellare fuori, il che non giova affatto alle loro anime.

Infine vogliamo che questa Regola sia letta spesso in comunità, perché nessuno possa giustificarsi con il pretesto dell'ignoranza.

Capitolo LXVII - I monaci mandati in viaggio


I monaci, che sono mandati in viaggio, si raccomandino alle preghiere di tutti i confratelli e dell'abate;

e nell'orazione conclusiva dell'Ufficio divino si ricordino sempre tutti gli assenti.

Quelli, poi, che rientrano, nel giorno stesso del loro ritorno si prostrino in coro al termine di tutte le Ore canoniche,

implorando dalla comunità una preghiera per riparare le mancanze eventualmente commesse durante il viaggio, guardando o ascoltando qualcosa di male o perdendosi in chiacchiere.

E nessuno si permetta di riferire ad altri quello che ha visto o udito fuori del monastero, perché questo sarebbe veramente rovinoso.

Se poi qualcuno si provasse a farlo, sia sottoposto al castigo previsto dalla Regola.

Allo stesso modo sia punito chi osasse oltrepassare i confini del monastero o andare in qualunque luogo o fare qualsiasi cosa, sia pur minima, senza il consenso dell'abate.

Capitolo LXVIII - Le obbedienze impossibili


Anche se a un monaco viene imposta un'obbedienza molto gravosa, o addirittura impossibile a eseguirsi, il comando del superiore dev'essere accolto da lui con assoluta sottomissione e soprannaturale obbedienza.

Ma se proprio si accorgesse che si tratta di un carico, il cui peso è decisamente superiore alle sue forze, esponga al superiore i motivi della sua impossibilità con molta calma e senso di opportunità,

senza assumere un atteggiamento arrogante, riluttante o contestatore.

Se poi, dopo questa schietta e umile dichiarazione, l'abate restasse fermo nella sua convinzione, insistendo nel comando, il monaco sia pur certo che per lui è bene così

e obbedisca per amore di Dio, confidando nel Suo aiuto.

Capitolo LXIX - Divieto di arrogarsi le difese dei confratelli


Bisogna evitare in tutti i modi che per qualsiasi motivo un monaco si provi a difendere un altro o ad assumerne in certo modo la protezione,

anche se ci fosse tra loro un qualsiasi vincolo di parentela.

I monaci si guardino assolutamente da un simile abuso, che può costituire una pericolosissima occasione di disordini o di scandali.

Se qualcuno trasgredisse queste norme, sia punito con la massima severità.

Capitolo LXX - Divieto di arrogarsi la riprensione dei confratelli


Nel monastero si deve sopprimere decisamente ogni occasione di arbitri e di soprusi;

perciò dichiariamo che non è permesso ad alcuno di infliggere la scomunica o un castigo corporale a un confratello, senza l'autorizzazione dell'abate.

I colpevoli di tale trasgressione siano rimproverati alla presenza dell'intera comunità, affinché anche gli altri ne abbiano timore.

I ragazzi, però, rimangano fino a quindici anni sotto la disciplina e l'oculata vigilanza di tutti,

ma sempre con grande moderazione e buon senso.

Chi poi si arrogasse una qualsiasi autorità sugli adulti, senza il comando dell'abate, o si inquietasse irragionevolmente con i ragazzi, sia sottoposto alla punizione prevista dalla Regola,

perché sta scritto: "Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te".

Capitolo LXXI - L'obbedienza fraterna


La virtù dell'obbedienza non dev'essere solo esercitata da tutti nei confronti dell'abate, ma bisogna anche che i fratelli si obbediscano tra loro,

nella piena consapevolezza che è proprio per questa via dell'obbedienza che andranno a Dio.

Dunque, dopo aver dato l'assoluta precedenza al comando dell'abate o dei superiori da lui designati, a cui non permettiamo che si preferiscano ordini privati,

per il resto i più giovani obbediscano ai confratelli più anziani con la massima carità e premura.

Se qualcuno dà prova di un carattere litigioso sia debitamente corretto.

Se poi un monaco viene comunque rimproverato dall'abate o da qualsiasi anziano per un qualunque motivo

o si accorge semplicemente che un anziano è sdegnato o anche leggermente alterato nei suoi riguardi,

si inginocchi subito dinanzi a lui, senza la minima esitazione, e rimanga così per riparare, finché la benedizione dell'altro non sani quel lieve dissenso.

Se qualcuno si rifiutasse altezzosamente di farlo, sia sottoposto a un castigo corporale e, se si ostina in questo atteggiamento di ribellione, sia scacciato dal monastero.

Capitolo LXXII - Il buon zelo dei monaci


Come c'è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all'inferno,

così ce n'è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna.

Ed è proprio in quest'ultimo che i monaci devono esercitarsi con la più ardente carità

e cioè: si prevengano l'un l'altro nel rendersi onore;

sopportino con grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali;

gareggino nell'obbedirsi scambievolmente;

nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma piuttosto ciò che giudica utile per gli altri;

si portino a vicenda un amore fraterno e scevro da ogni egoismo;

temano filialmente Dio;

amino il loro abate con sincera e umile carità;

non antepongano assolutamente nulla a Cristo,

che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.

Capitolo LXXIII - La modesta portata di questa regola


Abbiamo abbozzato questa Regola con l'intenzione che, mediante la sua osservanza nei nostri monasteri, riusciamo almeno a dar prova di possedere una certa rettitudine di costumi e di essere ai primordi della vita monastica.

Del resto, chi aspira alla pienezza di quella vita dispone degli insegnamenti dei santi Padri, il cui adempimento conduce all'apice della perfezione.

C'è infatti una pagina, anzi una parola, dell'antico o del nuovo Testamento, che non costituisca una norma esattissima per la vita umana?.

O esiste un'opera dei padri della Chiesa che non mostri chiaramente la via più rapida e diretta per raggiungere l'unione con il nostro Creatore?

E le Conferenze, le Istituzioni e le Vite dei Padri, come anche la Regola del nostro santo padre Basilio,

che altro sono per i monaci fervorosi e obbedienti se non mezzi per praticare la virtù?

Ma per noi, svogliati, inosservanti e negligenti, ciò è motivo di vergogna e di confusione.

Chiunque tu sia, dunque, che con sollecitudine e ardore ti dirigi verso la patria celeste, metti in pratica con l'aiuto di Cristo questa modestissima Regola, abbozzata come una semplice introduzione,

e con la grazia di Dio giungerai finalmente a quelle più alte cime di scienza e di virtù, di cui abbiamo parlato sopra. Amen.


Capitolo X: La santa Comunione non va tralasciata con leggerezza

Libro IV: Libro del sacramento del corpo di Cristo - Tommaso da Kempis

Leggilo nella Biblioteca

Voce del Diletto

1. A questa sorgente della grazia e della misericordia divina, a questa sorgente della bontà e di ogni purezza devi ricorrere frequentemente, fino a che tu non riesca a guarire dalle tue passioni e dai tuoi vizi; fino a che tu non ottenga di essere più forte e più vigilante contro tutte le tentazioni e gli inganni del diavolo. Questi, il nemico, ben sapendo quale sia il beneficio e il rimedio grande insito nella santa Comunione, tenta in ogni modo e in ogni momento di ostacolare, per quanto può, le anime fedeli e devote, distogliendole da essa. Taluni, infatti, quando vogliono prepararsi alla santa Comunione, subiscono i più forti assalti del demonio. Lo spirito del male - come è detto nel libro di Giobbe (1,6; 2,1) - viene in mezzo ai figli di Dio, per turbarli, con la consueta sua perfidia, e per renderli troppo timorosi e perplessi, finché non abbia affievolito il loro slancio o abbia loro strappato, di forza, la fede: nella speranza che essi lascino del tutto la Comunione o vi si accostino con poco fervore. Ma non ci si deve curare per nulla delle sue astuzie e delle sue suggestioni, per quanto turpi e terrorizzanti, Su di lui bisogna ritorcere le immaginazioni che provengono da lui. Va disprezzato e deriso, quel miserabile. Per quanti assalti egli compia e per quante agitazioni egli susciti, la santa Comunione non deve essere tralasciata. Talora avviene che siano di ostacolo alla Comunione persino una eccessiva preoccupazione di essere sufficientemente devoti e una certa angustia dubbiosa sul confessarsi. Ma tu agisci secondo il consiglio dei saggi, tralasciando ansie e scrupoli, che costituiscono impedimento alla grazia divina e distruggono lo spirito di devozione. Non lasciare la santa Comunione, per ogni piccola difficoltà o stanchezza. Ma va subito a confessarti e perdona di cuore agli altri ogni offesa ricevuta; che se tu hai offeso qualcuno e chiedi umilmente scusa, il Signore prontamente avrà misericordia di te.

2. Che giova ritardare tanto la confessione o rimandare la santa Comunione? Purificati al più presto; sputa subito il veleno; corri a prendere il rimedio: ti sentirai meglio che se tu avessi differito tutto ciò. Se oggi, per una piccola cosa, rinunci, domani forse accadrà qualcosa di più grave: così ti potrebbe essere impossibile per lungo tempo, la Comunione e potresti diventare ancora più indegno. Scuotiti al più presto dalla stanchezza e dall'inerzia, in cui oggi ti trovi: non serve a nulla restare a lungo nell'ansietà e tirare avanti nel turbamento, separandoti, in tal modo, per questi quotidiani ostacoli, dalle cose divine. Anzi è molto dannoso rimandare tanto la Comunione, perché ciò suole anche ingenerare grave torpore. Avviene persino - cosa ben dolorosa - che taluni, nella loro tiepidezza e leggerezza, accettino di buon grado questi ritardi della confessione, e desiderino di ritardare così la santa Comunione, proprio per non essere obbligati a una più severa custodia di sé. Oh!, come è scarso l'amore, come è fiacca la devozione di coloro che rimandano tanto facilmente la Comunione. E come è felice e caro a Dio colui che vive in modo da custodire la sua coscienza in una tale limpidezza da essere pronto e pieno di desiderio di comunicarsi anche ogni giorno, se gli fosse consentito e se potesse farlo senza essere criticato. Se uno qualche volta si astiene dalla Comunione per umiltà, o per un giusto impedimento, gli va data lode, a causa del suo rispettoso timore. Se invece fa questo per una sorta di torpore, che si è insinuato in lui, deve scuotersi e agire, quanto gli è possibile: il Signore aderirà al suo desiderio, grazie alla buona volontà, alla quale Dio guarda in modo speciale.

3. Se, invece, uno è trattenuto da ragioni valide, ma avrà la buona volontà e la devota intenzione di comunicarsi, costui non mancherà dei frutti del Sacramento. Giacché ognuno che abbia spirito di devozione può, in ogni giorno e in ogni ora, darsi salutarmente, senza che alcuno glielo impedisca, alla comunione spirituale con Cristo; pur dovendo, in certi giorni e nel tempo stabilito, con reverente affetto, prendere sacramentalmente in cibo il corpo del suo Redentore, mirando più a dare lode e onore a Dio che ad avere consolazione per sé. Infatti questo invisibile ristoro dell'anima, che è la comunione spirituale, si ha ogni volta che uno medita con devozione il mistero dell'incarnazione e della passione di Cristo, accendendosi di amore per lui. Chi si prepara soltanto perché è imminente il giorno festivo, o perché la consuetudine lo sospinge, è per lo più tutt'altro che pronto. Beato colui che si offre a Dio in sacrificio ogni qualvolta celebra la Messa o si comunica.  

4. Nel celebrare, non essere né troppo prolisso né troppo frettoloso; ma osserva il ragionevole uso, comune a coloro con i quali ti trovi a vivere. Non devi, infatti, ingenerare in altri fastidio e noia; devi mantenere invece la via consueta, secondo la volontà dei superiori, e badare più all'utile degli altri, che alla tua devozione e al tuo sentimento.


UN'ANIMA È SENZA MACCHIA SOLO SE IO VIVO IN ESSA A.N.A. 133 Febbraio 1995

Catalina Rivas

Gesù

Se tu non avessi limitazioni, Io te le darei. L'importante è che tu Mi ami sempre. Se è così, Io non vedrò le tue mancanze e i tuoi peccati, poiché l'amore Mi rende cieco... Tu sarai sempre imperfetta e se Io aspettassi che tu sia del tutto pura, non potrei mai amarti...

La tua unica preoccupazione deve essere quella di amarmi. Non lavorare per essere una santa, questo lascialo a Me. La tua sola preoccupazione deve essere quella di amarmi e di credere fermamente nel Mio Amore. Così riceverai le Mie Grazie e, in ogni momento, la tua anima sarà piena di gioia.

Figlia Mia, un'anima è pura solo se Io vivo in essa. La sola cosa a cui Io non posso resistere è l'amore. Nell'amare te, Io posso amare Me stesso e in Me il Padre... Se sei occupata con qualcosa che non é Mio, Io non posso parlarti.

L'essenza dell'unione con Me, è sapere che Io sono per l'anima e che l'anima è per Me. Non devi pensare che Io con te faccio un'eccezione. Io verso la Mia Grazia in abbondanza su tutte le anime. L'unico compito che avete, è riconoscerla.

Figlia Mia, quando ti feriranno, pensa che Io lo sapevo e che l'ho permesso. Accetta e perdona, poiché devi umiliarti per altri peccati. Non raccontare neppure il tuo dolore. La Mia Grazia, la Mia pienezza si manifesterà sulla tua famiglia, non rimarranno dubbi negli esseri sui quali espando il Mio Spirito... Fortifica i tuoi e purificali con il Mio Sangue.

Qui cercami sempre, in questo Sacramento, trono del Mio Amore, luogo di riposo e di pace, dimora della gioia e della consolazione. Renditi meritevole di vedere con la Mia stessa Luce - questa luce nella quale Io abito - di occuparti instancabilmente di Me e di dilettarti con le meraviglie che Io opero in compagnia del Padre e dello Spirito Santo. Comunicati in questo Sacramento con Me, da Cuore a cuore, nella pienezza della soavità.

Voglio riempirti, perché tu viva unicamente di Me e per Me.