Liturgia delle Ore - Letture
Sabato della 11° settimana del tempo ordinario
Vangelo secondo Giovanni 2
1Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù.2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.3Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: "Non hanno più vino".4E Gesù rispose: "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora".5La madre dice ai servi: "Fate quello che vi dirà".
6Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili.7E Gesù disse loro: "Riempite d'acqua le giare"; e le riempirono fino all'orlo.8Disse loro di nuovo: "Ora attingete e portatene al maestro di tavola". Ed essi gliene portarono.9E come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l'acqua), chiamò lo sposo10e gli disse: "Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po' brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono".11Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
12Dopo questo fatto, discese a Cafàrnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli e si fermarono colà solo pochi giorni.
13Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.14Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco.15Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi,16e ai venditori di colombe disse: "Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato".17I discepoli si ricordarono che sta scritto: 'Lo zelo per la tua casa mi divora'.18Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: "Quale segno ci mostri per fare queste cose?".19Rispose loro Gesù: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere".20Gli dissero allora i Giudei: "Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?".21Ma egli parlava del tempio del suo corpo.22Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
23Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa molti, vedendo i segni che faceva, credettero nel suo nome.24Gesù però non si confidava con loro, perché conosceva tutti25e non aveva bisogno che qualcuno gli desse testimonianza su un altro, egli infatti sapeva quello che c'è in ogni uomo.
Primo libro dei Re 20
1Ben-Hadàd, re di Aram, radunò tutto il suo esercito; con lui c'erano trentadue re con cavalli e carri. Egli marciò contro Samaria per cingerla d'assedio ed espugnarla.2Inviò messaggeri in città ad Acab, re di Israele,3per dirgli: "Dice Ben-Hadàd: Il tuo argento e il tuo oro appartiene a me e le tue donne e i tuoi figli minori sono per me".4Il re di Israele rispose: "Sia come dici tu, signore re; io e quanto ho siamo tuoi".5Ma i messaggeri tornarono di nuovo e dissero: "Dice Ben-Hadàd, il quale ci manda a te: Mi consegnerai il tuo argento, il tuo oro, le tue donne e i tuoi figli.6Domani, dunque, a quest'ora, manderò i miei servi che perquisiranno la tua casa e le case dei tuoi servi; essi prenderanno e asporteranno quanto sarà prezioso ai loro occhi".7Il re di Israele convocò tutti gli anziani della regione, ai quali disse: "Sappiate e vedete come costui ci voglia far del male. Difatti mi ha mandato a chiedere anche le mie donne e i miei figli, dopo che io non gli avevo rifiutato il mio argento e il mio oro".8Tutti gli anziani e tutto il popolo dissero: "Non ascoltarlo e non consentire!".9Egli disse ai messaggeri di Ben-Hadàd: "Dite al re vostro signore: Quanto hai imposto prima al tuo servo lo farò, ma la nuova richiesta non posso soddisfarla". I messaggeri andarono a riferire la risposta.10Ben-Hadàd allora gli mandò a dire: "Gli dèi mi facciano questo e anche di peggio, se la polvere di Samaria basterà per riempire il pugno di coloro che mi seguono".11Il re di Israele rispose: "Riferitegli: Chi cinge le armi non si vanti come chi le depone".12Nell'udire questa risposta - egli stava insieme con i re a bere sotto le tende - disse ai suoi ufficiali: "Circondate la città!". Ed essi la circondarono.
13Ed ecco un profeta si avvicinò ad Acab, re di Israele, per dirgli: "Così dice il Signore: Vedi tutta questa moltitudine immensa? Ebbene oggi la metto in tuo potere; saprai che io sono il Signore".14Acab disse: "Per mezzo di chi?". Quegli rispose: "Così dice il Signore: Per mezzo dei giovani dei capi delle province". Domandò: "Chi attaccherà la battaglia?". Rispose: "Tu!".15Acab ispezionò i giovani dei capi delle province; erano duecentotrentadue. Dopo di loro ispezionò tutto il popolo, tutti gli Israeliti: erano settemila.16A mezzogiorno fecero una sortita. Ben-Hadàd stava bevendo sotto le tende insieme con i trentadue re suoi alleati.17Per primi uscirono i giovani dei capi delle province. Fu mandato ad avvertire Ben-Hadàd: "Alcuni uomini sono usciti da Samaria!".18Quegli disse: "Se sono usciti con intenzioni pacifiche, catturateli vivi; se sono usciti per combattere, catturateli ugualmente vivi".19Usciti dunque quelli dalla città, cioè i giovani dei capi delle province e l'esercito che li seguiva,20ognuno di loro uccise chi gli si fece davanti. Gli Aramei fuggirono, inseguiti da Israele. Ben-Hadàd, re di Aram, scampò a cavallo insieme con alcuni cavalieri.21Uscì quindi il re di Israele, che si impadronì dei cavalli e dei carri e inflisse ad Aram una grande sconfitta.
22Allora il profeta si avvicinò al re di Israele e gli disse: "Su, sii forte; sappi e vedi quanto dovrai fare, perché l'anno prossimo il re di Aram muoverà contro di te".
23Ma i servi del re di Aram dissero a lui: "Il loro Dio è un Dio dei monti; per questo ci sono stati superiori; forse se li attaccassimo in pianura, saremmo superiori a loro.24Eseguisci questo progetto: ritira i re, ognuno dal suo luogo, e sostituiscili con governatori.25Tu prepara un esercito come quello che hai perduto: cavalli come quei cavalli e carri come quei carri; quindi li attaccheremo in pianura e senza dubbio li batteremo". Egli ascoltò la loro proposta e agì in tal modo.
26L'anno dopo, Ben-Hadàd ispezionò gli Aramei, quindi andò ad Afek per attaccare gli Israeliti.27Gli Israeliti, organizzati e approvvigionati, mossero loro incontro, accampandosi di fronte; sembravano due greggi di capre, mentre gli Aramei inondavano il paese.
28Un uomo di Dio si avvicinò al re d'Israele e gli disse: "Così dice il Signore: Poiché gli Aramei hanno affermato: Il Signore è Dio dei monti e non Dio delle valli, io metterò in tuo potere tutta questa moltitudine immensa; così saprai che io sono il Signore".29Per sette giorni stettero accampati gli uni di fronte agli altri. Al settimo giorno si attaccò battaglia. Gli Israeliti in un giorno uccisero centomila fanti aramei.30I superstiti fuggirono in Afek, nella città, le cui mura caddero sui ventisettemila superstiti.
Ben-Hadàd fuggì; entrato in una casa, per nascondersi passava da una stanza all'altra.31I suoi ministri gli dissero: "Ecco, abbiamo sentito che i re di Israele sono re clementi. Indossiamo sacchi ai fianchi e mettiamoci corde sulla testa e usciamo incontro al re di Israele. Forse ti lascerà in vita".32Si legarono sacchi ai fianchi e corde sulla testa, quindi si presentarono al re di Israele e dissero: "Il tuo servo Ben-Hadàd dice: Su, lasciami in vita!". Quegli domandò: "È ancora vivo? Egli è mio fratello!".33Gli uomini vi scorsero un buon auspicio, si affrettarono a cercarne una conferma da lui. Dissero: "Ben-Hadàd è tuo fratello!". Quegli soggiunse: "Andate a prenderlo". Ben-Hadàd si recò da lui, che lo fece salire sul carro.34Ben-Hadàd gli disse: "Restituirò le città che mio padre ha prese a tuo padre; tu potrai disporre di mercati in Damasco come mio padre ne aveva in Samaria". Ed egli: "Io a questo patto ti lascerò andare". E concluse con lui l'alleanza e lo lasciò andare.
35Allora uno dei figli dei profeti disse al compagno per ordine del Signore: "Picchiami!". L'uomo si rifiutò di picchiarlo.36Quegli disse: "Poiché non hai obbedito alla voce del Signore, appena ti sarai separato da me, un leone ti ucciderà". Mentre si allontanava, incontrò un leone che l'uccise.37Quegli, incontrato un altro uomo, gli disse: "Picchiami!". E quegli lo percosse a sangue.38Il profeta andò ad attendere il re sulla strada, dopo essersi reso irriconoscibile con una benda agli occhi.39Quando passò il re, gli gridò: "Il tuo servo era nel cuore della battaglia, quando un uomo si staccò e mi portò un individuo dicendomi: Fa' la guardia a quest'uomo! Se ti scappa, la tua vita pagherà per la sua oppure dovrai sborsare un talento d'argento.40Mentre il tuo servo era occupato qua e là, quegli scomparve". Il re di Israele disse a lui: "La tua condanna è giusta; l'hai proferita tu stesso!".41Ma quegli immediatamente si tolse la benda dagli occhi e il re di Israele riconobbe che era uno dei profeti.42Costui gli disse: "Così dice il Signore: Perché hai lasciato andare libero quell'uomo da me votato allo sterminio, la tua vita pagherà per la sua, il tuo popolo per il suo popolo".43Il re di Israele se ne andò a casa amareggiato e irritato ed entrò in Samaria.
Salmi 78
1'Maskil. Di Asaf.'
Popolo mio, porgi l'orecchio al mio insegnamento,
ascolta le parole della mia bocca.
2Aprirò la mia bocca in parabole,
rievocherò gli arcani dei tempi antichi.
3Ciò che abbiamo udito e conosciuto
e i nostri padri ci hanno raccontato,
4non lo terremo nascosto ai loro figli;
diremo alla generazione futura
le lodi del Signore, la sua potenza
e le meraviglie che egli ha compiuto.
5Ha stabilito una testimonianza in Giacobbe,
ha posto una legge in Israele:
ha comandato ai nostri padri
di farle conoscere ai loro figli,
6perché le sappia la generazione futura,
i figli che nasceranno.
Anch'essi sorgeranno a raccontarlo ai loro figli
7perché ripongano in Dio la loro fiducia
e non dimentichino le opere di Dio,
ma osservino i suoi comandi.
8Non siano come i loro padri,
generazione ribelle e ostinata,
generazione dal cuore incostante
e dallo spirito infedele a Dio.
9I figli di Èfraim, valenti tiratori d'arco,
voltarono le spalle nel giorno della lotta.
10Non osservarono l'alleanza di Dio,
rifiutando di seguire la sua legge.
11Dimenticarono le sue opere,
le meraviglie che aveva loro mostrato.
12Aveva fatto prodigi davanti ai loro padri,
nel paese d'Egitto, nei campi di Tanis.
13Divise il mare e li fece passare
e fermò le acque come un argine.
14Li guidò con una nube di giorno
e tutta la notte con un bagliore di fuoco.
15Spaccò le rocce nel deserto
e diede loro da bere come dal grande abisso.
16Fece sgorgare ruscelli dalla rupe
e scorrere l'acqua a torrenti.
17Eppure continuarono a peccare contro di lui,
a ribellarsi all'Altissimo nel deserto.
18Nel loro cuore tentarono Dio,
chiedendo cibo per le loro brame;
19mormorarono contro Dio
dicendo: "Potrà forse Dio
preparare una mensa nel deserto?".
20Ecco, egli percosse la rupe e ne scaturì acqua,
e strariparono torrenti.
"Potrà forse dare anche pane
o preparare carne al suo popolo?".
21All'udirli il Signore ne fu adirato;
un fuoco divampò contro Giacobbe
e l'ira esplose contro Israele,
22perché non ebbero fede in Dio
né speranza nella sua salvezza.
23Comandò alle nubi dall'alto
e aprì le porte del cielo;
24fece piovere su di essi la manna per cibo
e diede loro pane del cielo:
25l'uomo mangiò il pane degli angeli,
diede loro cibo in abbondanza.
26Scatenò nel cielo il vento d'oriente,
fece spirare l'australe con potenza;
27su di essi fece piovere la carne come polvere
e gli uccelli come sabbia del mare;
28caddero in mezzo ai loro accampamenti,
tutto intorno alle loro tende.
29Mangiarono e furono ben sazi,
li soddisfece nel loro desiderio.
30La loro avidità non era ancora saziata,
avevano ancora il cibo in bocca,
31quando l'ira di Dio si alzò contro di essi,
facendo strage dei più vigorosi
e abbattendo i migliori d'Israele.
32Con tutto questo continuarono a peccare
e non credettero ai suoi prodigi.
33Allora dissipò come un soffio i loro giorni
e i loro anni con strage repentina.
34Quando li faceva perire, lo cercavano,
ritornavano e ancora si volgevano a Dio;
35ricordavano che Dio è loro rupe,
e Dio, l'Altissimo, il loro salvatore;
36lo lusingavano con la bocca
e gli mentivano con la lingua;
37il loro cuore non era sincero con lui
e non erano fedeli alla sua alleanza.
38Ed egli, pietoso, perdonava la colpa,
li perdonava invece di distruggerli.
Molte volte placò la sua ira
e trattenne il suo furore,
39ricordando che essi sono carne,
un soffio che va e non ritorna.
40Quante volte si ribellarono a lui nel deserto,
lo contristarono in quelle solitudini!
41Sempre di nuovo tentavano Dio,
esasperavano il Santo di Israele.
42Non si ricordavano più della sua mano,
del giorno che li aveva liberati dall'oppressore,
43quando operò in Egitto i suoi prodigi,
i suoi portenti nei campi di Tanis.
44Egli mutò in sangue i loro fiumi
e i loro ruscelli, perché non bevessero.
45Mandò tafàni a divorarli
e rane a molestarli.
46Diede ai bruchi il loro raccolto,
alle locuste la loro fatica.
47Distrusse con la grandine le loro vigne,
i loro sicomori con la brina.
48Consegnò alla grandine il loro bestiame,
ai fulmini i loro greggi.
49Scatenò contro di essi la sua ira ardente,
la collera, lo sdegno, la tribolazione,
e inviò messaggeri di sventure.
50Diede sfogo alla sua ira:
non li risparmiò dalla morte
e diede in preda alla peste la loro vita.
51Colpì ogni primogenito in Egitto,
nelle tende di Cam la primizia del loro vigore.
52Fece partire come gregge il suo popolo
e li guidò come branchi nel deserto.
53Li condusse sicuri e senza paura
e i loro nemici li sommerse il mare.
54Li fece salire al suo luogo santo,
al monte conquistato dalla sua destra.
55Scacciò davanti a loro i popoli
e sulla loro eredità gettò la sorte,
facendo dimorare nelle loro tende le tribù di Israele.
56Ma ancora lo tentarono,
si ribellarono a Dio, l'Altissimo,
non obbedirono ai suoi comandi.
57Sviati, lo tradirono come i loro padri,
fallirono come un arco allentato.
58Lo provocarono con le loro alture
e con i loro idoli lo resero geloso.
59Dio, all'udire, ne fu irritato
e respinse duramente Israele.
60Abbandonò la dimora di Silo,
la tenda che abitava tra gli uomini.
61Consegnò in schiavitù la sua forza,
la sua gloria in potere del nemico.
62Diede il suo popolo in preda alla spada
e contro la sua eredità si accese d'ira.
63Il fuoco divorò il fiore dei suoi giovani,
le sue vergini non ebbero canti nuziali.
64I suoi sacerdoti caddero di spada
e le loro vedove non fecero lamento.
65Ma poi il Signore si destò come da un sonno,
come un prode assopito dal vino.
66Colpì alle spalle i suoi nemici,
inflisse loro una vergogna eterna.
67Ripudiò le tende di Giuseppe,
non scelse la tribù di Èfraim;
68ma elesse la tribù di Giuda,
il monte Sion che egli ama.
69Costruì il suo tempio alto come il cielo
e come la terra stabile per sempre.
70Egli scelse Davide suo servo
e lo trasse dagli ovili delle pecore.
71Lo chiamò dal seguito delle pecore madri
per pascere Giacobbe suo popolo,
la sua eredità Israele.
72Fu per loro pastore dal cuore integro
e li guidò con mano sapiente.
Salmi 77
1'Al maestro del coro. Su "Iditum". Di Asaf. Salmo.'
2La mia voce sale a Dio e grido aiuto;
la mia voce sale a Dio, finché mi ascolti.
3Nel giorno dell'angoscia io cerco il Signore,
tutta la notte la mia mano è tesa e non si stanca;
io rifiuto ogni conforto.
4Mi ricordo di Dio e gemo,
medito e viene meno il mio spirito.
5Tu trattieni dal sonno i miei occhi,
sono turbato e senza parole.
6Ripenso ai giorni passati,
ricordo gli anni lontani.
7Un canto nella notte mi ritorna nel cuore:
rifletto e il mio spirito si va interrogando.
8Forse Dio ci respingerà per sempre,
non sarà più benevolo con noi?
9È forse cessato per sempre il suo amore,
è finita la sua promessa per sempre?
10Può Dio aver dimenticato la misericordia,
aver chiuso nell'ira il suo cuore?
11E ho detto: "Questo è il mio tormento:
è mutata la destra dell'Altissimo".
12Ricordo le gesta del Signore,
ricordo le tue meraviglie di un tempo.
13Mi vado ripetendo le tue opere,
considero tutte le tue gesta.
14O Dio, santa è la tua via;
quale dio è grande come il nostro Dio?
15Tu sei il Dio che opera meraviglie,
manifesti la tua forza fra le genti.
16È il tuo braccio che ha salvato il tuo popolo,
i figli di Giacobbe e di Giuseppe.
17Ti videro le acque, Dio,
ti videro e ne furono sconvolte;
sussultarono anche gli abissi.
18Le nubi rovesciarono acqua,
scoppiò il tuono nel cielo;
le tue saette guizzarono.
19Il fragore dei tuoi tuoni nel turbine,
i tuoi fulmini rischiararono il mondo,
la terra tremò e fu scossa.
20Sul mare passava la tua via,
i tuoi sentieri sulle grandi acque
e le tue orme rimasero invisibili.
21Guidasti come gregge il tuo popolo
per mano di Mosè e di Aronne.
Zaccaria 9
1Oracolo.
La parola del Signore è sulla terra di Cadràch
e si posa su Damasco,
poiché al Signore appartiene la perla di Aram
e tutte le tribù d'Israele;
2anche Amat sua confinante
e Sidòne, che è tanto saggia.
3Tiro si è costruita una fortezza
e vi ha accumulato argento come polvere
e oro come fango delle strade.
4Ecco, il Signore se ne impossesserà,
sprofonderà nel mare le sue ricchezze
ed essa sarà divorata dal fuoco.
5Ascalòna vedrà e ne sarà spaventata,
Gaza sarà in grandi dolori,
come anche Ekròn,
perché svanirà la sua fiducia;
scomparirà il re da Gaza
e Ascalòna rimarrà disabitata.
6Bastardi dimoreranno in Asdòd,
abbatterò l'orgoglio del Filisteo.
7Toglierò il sangue dalla sua bocca
e i suoi abomini dai suoi denti.
Diventerà anche lui un resto per il nostro Dio,
sarà come una famiglia in Giuda
ed Ekròn sarà simile al Gebuseo.
8Mi porrò come sentinella per la mia casa
contro chi va e chi viene,
non vi passerà più l'oppressore,
perché ora io stesso sorveglio con i miei occhi.
9Esulta grandemente figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso,
umile, cavalca un asino,
un puledro figlio d'asina.
10Farà sparire i carri da Èfraim
e i cavalli da Gerusalemme,
l'arco di guerra sarà spezzato,
annunzierà la pace alle genti,
il suo dominio sarà da mare a mare
e dal fiume ai confini della terra.
11Quanto a te, per il sangue dell'alleanza con te,
estrarrò i tuoi prigionieri dal pozzo senz'acqua.
12Ritornate alla cittadella, prigionieri della speranza!
Ve l'annunzio fino da oggi:
vi ripagherò due volte.
13Tendo Giuda come mio arco,
Èfraim come un arco teso;
ecciterò i tuoi figli, Sion, contro i tuoi figli, Grecia,
ti farò come spada di un eroe.
14Allora il Signore comparirà contro di loro,
come fulmine guizzeranno le sue frecce;
il Signore darà fiato alla tromba
e marcerà fra i turbini del mezzogiorno.
15Il Signore degli eserciti li proteggerà:
divoreranno e calpesteranno le pietre della fionda,
berranno il loro sangue come vino,
ne saranno pieni come bacini, come i corni dell'altare.
16Il Signore loro Dio
in quel giorno salverà come un gregge il suo popolo,
come gemme di un diadema
brilleranno sulla sua terra.
17Quali beni, quale bellezza!
Il grano darà vigore ai giovani
e il vino nuovo alle fanciulle.
Prima lettera ai Corinzi 16
1Quanto poi alla colletta in favore dei fratelli, fate anche voi come ho ordinato alle Chiese della Galazia.2Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte ciò che gli è riuscito di risparmiare, perché non si facciano le collette proprio quando verrò io.3Quando poi giungerò, manderò con una mia lettera quelli che voi avrete scelto per portare il dono della vostra liberalità a Gerusalemme.4E se converrà che vada anch'io, essi partiranno con me.
5Verrò da voi dopo aver attraversato la Macedonia, poiché la Macedonia intendo solo attraversarla;6ma forse mi fermerò da voi o anche passerò l'inverno, perché siate voi a predisporre il necessario per dove andrò.7Non voglio vedervi solo di passaggio, ma spero di trascorrere un po' di tempo con voi, se il Signore lo permetterà.8Mi fermerò tuttavia a Èfeso fino a Pentecoste,9perché mi si è aperta una porta grande e propizia, anche se gli avversari sono molti.10Quando verrà Timòteo, fate che non si trovi in soggezione presso di voi, giacché anche lui lavora come me per l'opera del Signore.11Nessuno dunque gli manchi di riguardo; al contrario, accomiatatelo in pace, perché ritorni presso di me: io lo aspetto con i fratelli.12Quanto poi al fratello Apollo, l'ho pregato vivamente di venire da voi con i fratelli, ma non ha voluto assolutamente saperne di partire ora; verrà tuttavia quando gli si presenterà l'occasione.
13Vigilate, state saldi nella fede, comportatevi da uomini, siate forti.14Tutto si faccia tra voi nella carità.15Una raccomandazione ancora, o fratelli: conoscete la famiglia di Stefana, che è primizia dell'Acaia; hanno dedicato se stessi a servizio dei fedeli;16siate anche voi deferenti verso di loro e verso quanti collaborano e si affaticano con loro.17Io mi rallegro della visita di Stefana, di Fortunato e di Acàico, i quali hanno supplito alla vostra assenza;18essi hanno allietato il mio spirito e allieteranno anche il vostro. Sappiate apprezzare siffatte persone.
19Le comunità dell'Asia vi salutano. Vi salutano molto nel Signore Àquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa.20Vi salutano i fratelli tutti. Salutatevi a vicenda con il bacio santo.
21Il saluto è di mia mano, di Paolo.22Se qualcuno non ama il Signore sia anàtema. 'Maranà tha': vieni, o Signore!23La grazia del Signore Gesù sia con voi.24Il mio amore con tutti voi in Cristo Gesù!
Capitolo XXI: La compunzione del cuore
Leggilo nella Biblioteca 1. Se vuoi fare qualche progresso conservati nel timore di Dio, senza ambire a una smodata libertà; tieni invece saldamente a freno i tuoi sensi, senza lasciarti andare a una stolta letizia. Abbandonati alla compunzione di cuore, e ne ricaverai una vera devozione. La compunzione infatti fa sbocciare molte cose buone, che, con la leggerezza di cuore, sogliono subitamente disperdersi. E' meraviglia che uno possa talvolta trovare piena letizia nella vita terrena, se considera che questa costituisce un esilio e se riflette ai tanti pericoli che la sua anima vi incontra. Per leggerezza di cuore e noncuranza dei nostri difetti spesso non ci rendiamo conto dei guai della nostra anima; anzi, spesso ridiamo stoltamente, quando, in verità, dovremmo piangere. Non esiste infatti vera libertà, né santa letizia, se non nel timore di Dio e nella rettitudine di coscienza. Felice colui che riesce a liberarsi da ogni impaccio dovuto a dispersione spirituale, concentrando tutto se stesso in una perfetta compunzione. Felice colui che sa allontanare tutto ciò che può macchiare o appesantire il suo spirito. Tu devi combattere da uomo: l'abitudine si vince con l'abitudine. Se impari a non curarti della gente, questa lascerà che tu attenda tranquillamente a te stesso. Non portare dentro di te le faccende degli altri, non impicciarti neppure di quello che fanno le persone più in vista; piuttosto vigila sempre e in primo luogo su di te, e rivolgi il tuo ammonimento particolarmente a te stesso, prima che ad altre persone, anche care. Non rattristarti se non ricevi il favore degli uomini; quello che ti deve pesare, invece, è la constatazione di non essere del tutto e sicuramente nella via del bene, come si converrebbe a un servo di Dio e a un monaco pieno di devozione.
2. E' grandemente utile per noi, e ci dà sicurezza di spirito, non ricevere molte gioie in questa vita; particolarmente gioie materiali. Comunque, è colpa nostra se non riceviamo consolazioni divine o ne proviamo raramente; perché non cerchiamo la compunzione del cuore e non respingiamo del tutto le vane consolazioni che vengono dal di fuori. Riconosci di essere indegno della consolazione divina, e meritevole piuttosto di molte sofferenze, Quando uno è pienamente compunto in se stesso, ogni cosa di questo mondo gli appare pesante e amara. L'uomo retto, ben trova motivo di pianto doloroso. Sia che rifletta su di sé o che vada pensando agli altri, egli comprende che nessuno vive quaggiù senza afflizioni; e quanto più severamente si giudica, tanto maggiormente si addolora. Sono i nostri peccati e i nostri vizi a fornire materia di giusto dolore e di profonda compunzione; peccato e vizi dai quali siamo così avvolti e schiacciati che raramente riusciamo a guardare alle cose celesti. Se il nostro pensiero andasse frequentemente alla morte, più che alla lunghezza della vita, senza dubbio ci emenderemmo con maggior fervore. Di più, se riflettessimo nel profondo del cuore alle sofferenze future dell'inferno e del purgatorio, accetteremmo certamente fatiche e dolori, e non avremmo paura di un duro giudizio. Invece queste cose non penetrano nel nostro animo; perciò restiamo attaccati alle dolci mollezze, restiamo freddi e assai pigri. Spesso, infatti, è sorta di spirituale povertà quella che facilmente invade il nostro misero corpo. Prega dunque umilmente il Signore che ti dia lo spirito di compunzione; e di', con il profeta: nutrimi, o Signore, "con il pane delle lacrime; dammi, nelle lacrime, copiosa bevanda" (Sal 79,6).
LIBRO UNDICESIMO
La Trinità - Sant'Agostino
Leggilo nella BibliotecaVestigio della Trinità nell’uomo esteriore
1. 1. Non c’è dubbio per nessuno che, come l’uomo interiore è dotato di intelligenza, l’uomo esteriore è dotato di sensibilità corporea. Sforziamoci dunque, se è possibile, di indagare anche nell’uomo esteriore qualche vestigio della Trinità. Non che anche questo sia immagine di Dio 1 allo stesso modo che lo è l’uomo interiore, perché lo mostra chiaramente l’affermazione dell’Apostolo, il quale dichiara che l’uomo interiore si rinnova nella conoscenza di Dio, secondo l’immagine di colui che l’ha creato 2, e in un altro passo dice ancora: Anche se l’uomo esteriore si corrompe, l’uomo interiore tuttavia si rinnova di giorno in giorno 3. In questo uomo che si corrompe cerchiamo dunque, per quanto ci è possibile, una effigie della Trinità, se non più espressiva, almeno forse più facile da riconoscersi. Infatti non invano anche questo è chiamato uomo, perché in esso vi è una qualche rassomiglianza con l’uomo interiore. A motivo della nostra condizione di esseri mortali e carnali noi trattiamo le cose visibili in maniera più facile e, in qualche modo, più familiare che non le realtà intelligibili, sebbene quelle siano esterne, queste interne, quelle sensibili al corpo, queste intelligibili allo spirito, e benché noi stessi non siamo anime sensibili, cioè corporee, ma intelligibili, perché siamo vita; tuttavia, come ho detto, la nostra familiarità con i corpi è divenuta così grande e la nostra attenzione, per uno strano scivolamento verso questi corpi, si proietta talmente all’esterno che, una volta che sia tolta dall’incertezza del mondo corporeo, per fissarsi, con una conoscenza molto più certa e stabile, nello spirito, fugge di nuovo verso i corpi e cerca la sua quiete là donde ha tratto origine la sua debolezza. Occorre adattarsi a questa infermità in modo che, quando ci sforziamo di discernere in modo più accessibile le realtà interiori spirituali e proporle con maggior facilità, prendiamo delle analogie dalle realtà esterne e corporee. Dunque l’uomo esteriore, dotato di sensi corporei, percepisce i corpi con i sensi. Questa sensibilità corporea, come è facile vedere, si suddivide in cinque sensi: la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto, il tatto. Sarebbe troppo lungo, e superfluo d’altra parte, interrogare ciascuno di questi cinque sensi circa l’oggetto della nostra ricerca. Ciò che infatti ci rivela uno di essi, vale anche per gli altri. Pertanto ricorriamo di preferenza alla testimonianza della vista. Questo infatti è il senso corporeo più nobile e il più vicino, sebbene sia di tutt’altro ordine, alla visione dello spirito.
Primo vestigio: trinità della visione
2. 2. Quando dunque vediamo un corpo, dobbiamo considerare e distinguere, cosa del resto assai facile, tre elementi. Anzitutto la cosa stessa che vediamo, sia una pietra, sia una fiamma o qualsiasi altro oggetto che si può vedere con gli occhi, realtà che certamente poteva già esistere anche prima che noi la vedessimo. In secondo luogo la visione, che non esisteva prima che la presenza dell’oggetto provocasse la sensazione. In terzo luogo ciò che tiene lo sguardo centrato sull’oggetto percepito, per il tempo in cui lo percepiamo, cioè l’attenzione dell’anima. Tra questi tre elementi dunque non solo esiste una manifesta distinzione, ma essi sono di natura differente. Il primo, il corpo visibile, è di tutt’altra natura che il senso della vista il cui incontro con l’oggetto produce la visione; e come il senso la stessa visione, la quale che altro è se non il senso in quanto informato dall’oggetto sentito? Sebbene, una volta tolto l’oggetto visibile, la visione non sussista più e una visione sia impossibile, se non c’è un corpo visibile, tuttavia il corpo che informa il senso della vista, quando questo stesso corpo è veduto, e la forma che questo corpo imprime nel senso, forma che è chiamata visione, non appartengono affatto alla stessa sostanza. Il corpo può sussistere indipendente dalla vista, a parte, nella sua propria natura; invece il senso che era già nel vivente, anche prima che esso vedesse ciò che poteva vedere, per il suo incontro con qualche oggetto visibile, o la visione prodotta nel senso per azione del corpo visibile, quando questo è già in contatto con il senso ed è percepito; il senso dunque o la visione, cioè il senso non informato dall’esterno o il senso informato dall’esterno appartiene alla natura dell’essere vivente, che è tutt’altra dal corpo percepito con la vista; perché questo oggetto informa il senso non perché esista come senso, ma perché abbia origine la visione. Infatti, se il senso non esistesse in noi anche prima che gli sia presentato l’oggetto visibile, non differiremmo dai ciechi quando, nell’oscurità o con gli occhi chiusi, non vediamo nulla. Ora noi differiamo da essi in questo che, anche quando non vediamo, abbiamo la facoltà di vedere, facoltà chiamata senso, mentre essi non l’hanno e non per altro sono chiamati ciechi, se non perché ne sono privi. Così pure l’attenzione dell’anima che tiene fisso il senso sull’oggetto che vediamo e che unisce l’uno all’altro, differisce per natura non soltanto dall’oggetto percepito (in quanto questa è anima, quello è corpo), ma anche dallo stesso senso e dalla visione, perché questa attenzione appartiene solo all’anima, mentre il senso della vista non per altro si chiama senso corporeo se non in quanto precisamente gli occhi stessi sono organi del corpo; e benché un corpo senza vita non senta, l’anima tuttavia, unita al corpo, sente per mezzo di uno strumento corporeo chiamato senso. Questo senso, allorché qualcuno diviene cieco, si estingue, per effetto di una sofferenza fisica, ma l’anima rimane la stessa e la sua attenzione, dopo la perdita della vista, non dispone più di un senso corporeo; essa non può più vedere congiungendo il senso all’oggetto esterno, né fissare lo sguardo sull’oggetto veduto. Tuttavia con gli stessi suoi sforzi testimonia che la perdita del senso non ha potuto né distruggerla né diminuirla. Infatti rimane in essa intatto un certo desiderio di vedere, sia che possa farlo, sia che non lo possa. Dunque questi tre elementi: il corpo che è veduto, la visione stessa, l’attenzione che unisce l’uno all’altra, sono manifestamente distinti, non soltanto per le loro proprietà rispettive, ma anche per la differenza di natura.
L’oggetto visibile imprime negli occhi la sua immagine
2. 3. In questo processo, sebbene il senso non provenga dal corpo veduto, ma dal corpo del soggetto dotato di sensazione e di vita - il corpo con il quale l’anima, in una maniera che le è propria, è in una misteriosa consonanza -, tuttavia è il corpo veduto che genera la visione, cioè è esso che informa il senso, cosicché non c’è più soltanto il senso, che anche nell’oscurità può restare intatto, finché gli occhi rimangono incolumi, ma c’è anche il senso informato, che si chiama visione. Dunque la visione è generata dall’oggetto visibile ma non da esso solo: occorre che ci sia anche uno che vede. Perciò la visione è generata dall’oggetto visibile e dal soggetto che vede; al soggetto che vede appartengono il senso della vista e l’attenzione con cui guarda e vede, mentre l’informazione del senso, che è chiamata visione, è impressa soltanto dal corpo veduto, cioè, da un oggetto visibile; se si toglie questa non rimane alcuna forma, che era inerente al senso mentre era presente l’oggetto veduto, ma rimane il senso che esisteva anche prima che percepisse cosa alcuna. Così l’acqua conserva il vestigio di un corpo fintantoché le è presente il corpo che pone in essa la sua impronta, ma se lo si toglie, non vi rimane traccia, sebbene rimanga l’acqua, che esisteva anche prima che ricevesse la forma di quel corpo. Perciò non possiamo dire che l’oggetto visibile generi il senso: genera tuttavia la forma che è come una sua somiglianza e che si produce nel senso quando, con la vista, percepiamo qualcosa. Ma non è lo stesso senso che ci permette di distinguere la forma del corpo che vediamo e la forma da essa prodotta nel senso del soggetto che vede, perché è così intima la loro unione, che non lascia luogo ad alcuna distinzione. È invece attraverso la ragione che possiamo concludere che la sensazione sarebbe del tutto impossibile se non si producesse nel nostro senso una certa similitudine del corpo percepito. Infatti, quando si applica alla cera un sigillo, non si può dire che non vi si produca alcuna immagine, per il motivo che essa non si può discernere, se non dopo la separazione. Ma perché la cera, una volta separata dal sigillo, conserva un’impronta visibile, ci persuadiamo facilmente che esisteva già nella cera l’impronta impressa dal sigillo, anche prima che esso ne fosse separato. Ma se applichiamo un sigillo ad un elemento liquido, una volta che lo si è tolto, non vi resta alcuna immagine; nondimeno la ragione non dovrebbe non comprendere che la forma del sigillo, da esso impressa, esisteva nel liquido, prima che si togliesse l’anello. Questa forma si deve distinguere da quella che è nell’anello; essa ne è il prodotto, essa che non esisterà più una volta tolto l’anello, benché rimanga nell’anello la forma che ha prodotto l’altra. Così del senso della vista non si può dire che non possiede l’immagine del corpo veduto, fintantoché lo percepisce, per il fatto che una volta che si toglie il corpo, l’immagine non resta. Con questo paragone si può, sebbene con molta difficoltà, convincere gli spiriti più tardi che si forma nel nostro senso un’immagine dell’oggetto visibile, quando lo vediamo, e che questa forma è la visione.
Il fatto è spiegato con un esempio
2. 4. Ma coloro che, per caso, hanno fatto l’esperienza che ricorderò, non proveranno tanta fatica in questa ricerca. Molto spesso, quando, per un certo tempo, abbiamo tenuto gli occhi fissi su qualche luce e poi li chiudiamo, crediamo di vedere passare davanti al nostro sguardo dei colori brillanti e vari che si succedono gli uni agli altri e che, sempre meno risplendenti, finiscono con lo scomparire del tutto. Bisogna ben comprendere che essi sono come tenue vestigio di quella forma impressa nel senso, al momento in cui il corpo luminoso si offriva alla vista e che a poco a poco, quasi gradualmente, variando, scompare. Se noi, per caso, contemplavamo le inferriate delle finestre di uno stabile, esse ci sono apparse spesso con determinati colori; è chiaro che questa affezione si era impressa nel nostro senso per opera dell’oggetto che contemplavamo. Essa esisteva dunque anche quando noi contemplavamo l’oggetto ed era pure più chiara e più viva, ma intimamente unita alla forma di quell’oggetto al punto da non poterne essere in alcun modo distinta: e questa era la visione. Anzi, quando la fiamma di una lampada è in qualche modo divenuta doppia, perché si sono fatti disgiungere i raggi visuali, c’è una doppia visione, sebbene sia una sola la cosa vista. Il fatto è che i raggi, emessi da ciascun occhio, sono impressionati separatamente fino a quando non li si lascia convergere insieme e congiuntamente sul corpo da vedere affinché, da due visioni, scaturisca un solo sguardo. Ecco perché, se noi chiudiamo un occhio, non vediamo più due fiamme, ma una sola, com’è in realtà. Perché, chiudendo l’occhio sinistro, cessiamo di vedere l’immagine di destra e, inversamente, perché chiudendo l’occhio destro, vediamo scomparire quella di sinistra? Sarebbe troppo lungo e superfluo per il problema che stiamo trattando cercarne la ragione e discuterne 4. Per il problema in questione ci basti affermare che, se non si producesse nel senso nostro un’immagine del tutto simile alla cosa che vediamo, non si duplicherebbe l’immagine della fiamma secondo il numero degli occhi, quando si adotta un certo modo di guardare, capace di far divergere i raggi che dovrebbero invece convergere. Infatti in qualsiasi modo un occhio sia diretto, impressionato, distorto, se l’altro è chiuso, è del tutto impossibile vedere doppio un oggetto unico.
Ciò che concorre alla visione differisce per natura, ma converge nell’unità
2. 5. Stando così le cose 5, ricordiamo come questi tre elementi, sebbene siano di diversa natura, si compongano in una specie di unità: voglio dire la forma del corpo visto, la sua immagine impressa nel senso, cioè la visione o il senso informato, e la volontà dell’anima che applica il senso all’oggetto sensibile e tiene la visione fissa su di esso. Il primo di questi elementi, cioè l’oggetto visibile, non appartiene alla natura dell’essere animato, eccetto nel caso in cui guardiamo il nostro corpo. L’altro invece gli appartiene, nel senso che l’immagine si produce nel corpo e, per mezzo del corpo, nell’anima; infatti si produce nel senso che, senza il corpo e senza l’anima, non esiste. Il terzo poi appartiene all’anima soltanto, perché è la volontà. Ora, per quanto differenti siano questi tre elementi per la loro sostanza, si fondono tuttavia in un’unità così perfetta che appena l’intervento del giudizio della ragione permette di distinguere i primi due, cioè la forma del corpo veduto e la sua immagine che si produce nel senso, ossia la visione. La volontà poi possiede tanta forza di urtare questi due, che applica il senso alla cosa vista per informarlo e, una volta informato, lo tiene fissato su di essa. E, se tale è, il suo impeto, che possa venir chiamato amore o concupiscenza o passione, giunge persino a turbare in modo veemente tutto il corpo animato e, se non trova la resistenza di una materia troppo inerte e resistente, fa assumere al corpo una forma o un colore simili a quelli dell’oggetto. Si può vedere il corpicciolo di un camaleonte variare, con estrema facilità, secondo i colori che vede. Poiché, presso gli altri animali, la massa corporea non si presta facilmente a questi cambiamenti, sono i piccoli nati che manifestano, nella maggior parte dei casi, i desideri delle loro madri, rivelando ciò che esse hanno contemplato con grande piacere. Infatti quanto più sono teneri e, per così dire, malleabili gli embrioni ai loro inizi, con tanta maggiore efficacia e duttilità si conformano all’intenzione dell’anima della madre, intenzione che in tale anima è diventata immagine ad opera del corpo che essa ha contemplato con cupidigia. Si potrebbero ricordare innumerevoli esempi, ma basta uno, tratto dalle Scritture, degno pienamente di fede: quello di Giacobbe, il quale, per ottenere che le sue pecore e le sue capre generassero dei figli di colori variegati, pose davanti ad esse, negli abbeveratoi, verghe di vari colori, affinché, bevendo, li vedessero nel periodo in cui avevano concepito 6.
Secondo vestigio: trinità del ricordo
3. 6. Ma l’anima razionale non vive secondo la sua natura, quando vive secondo la trinità dell’uomo esteriore, cioè quando si volge verso gli oggetti che informano dall’esterno il senso corporeo, non con la volontà lodevole che li riferisca a qualcosa di utile, ma con la turpe concupiscenza che ve la tiene strettamente attaccata. Perché, anche dopo la scomparsa della forma del corpo che era percepito corporalmente, resta di esso nella memoria una similitudine, verso cui la volontà può di nuovo volgere lo sguardo dell’anima, per informarlo dall’interno, come prima il senso veniva informato dall’esterno dall’oggetto sensibile. E così si produce una trinità, formata dalla memoria, dalla visione interna e dalla volontà che unisce l’una all’altra. Quando questi tre elementi si uniscono (coguntur) in un solo tutto, questa riunione (coactus) fa sì che questo tutto si chiami con il nome di pensiero (cogitatio). Non c’è più ora fra questi tre elementi diversità di sostanza. Non c’è più infatti quel corpo sensibile, del tutto diverso dalla natura dell’essere animato; né vi è il senso corporeo che viene informato affinché si produca la visione, né la volontà stessa si adopera più a mettere il senso in contatto con l’oggetto sensibile per informarlo e a tenervelo fissato una volta che è informato. Ma alla forma del corpo esteriormente percepito con il senso, succede la memoria che conserva quella forma di cui, per mezzo del senso corporeo, l’anima si è impregnata; in luogo della visione che si produceva all’esterno, quando il senso era informato dal corpo sensibile, si ha una visione interiore simile, quando il ricordo conservato nella memoria informa lo sguardo dell’anima e si pensa a dei corpi assenti; quanto alla volontà, allo stesso modo che per informare il senso lo metteva in contatto con l’oggetto corporeo e, una volta informato, ve lo teneva unito, così volge lo sguardo dell’anima, che evoca il ricordo, verso la memoria, affinché l’immagine conservata nella memoria informi questo sguardo e si produca nel pensiero una visione simile. Ma, come la ragione ci permetteva di distinguere la forma visibile che informava il senso corporeo dalla sua similitudine, che si produceva nel senso informato, perché ci fosse la visione (poiché la loro unione era così stretta che, senza la ragione, si sarebbero considerate una sola identica realtà), la stessa cosa vale per la visione immaginativa, quando l’anima pensa alla forma del corpo già veduto, in quanto è costituita dall’immagine del corpo conservata dalla memoria e da quella, originata dalla prima, che viene formata nello sguardo dell’anima che evoca il ricordo; tuttavia sembra che non vi sia che una sola ed identica realtà, al punto che non vi si possono scoprire due elementi se non con il giudizio della ragione, con la quale comprendiamo che una cosa è ciò che rimane nella memoria, anche quando si pensa ad una cosa diversa, altra cosa l’immagine che evoca il ricordo, quando ritorniamo alla nostra memoria e vi troviamo questa forma. Se questa forma non ci fosse più, la dimenticanza sarebbe di tale natura che ogni ricordo sarebbe del tutto impossibile. Se poi lo sguardo di colui che evoca questo ricordo non fosse informato ad opera di questa realtà conservata nella memoria, non si potrebbe realizzare in alcun modo la visione del pensiero. Ma l’unione di queste due realtà, cioè dell’immagine che è conservata dalla memoria e dell’espressione che se ne forma nello sguardo di colui che evoca il ricordo, poiché sono somigliantissime, fa sì che esse appaiano come una sola realtà. Ma quando lo sguardo del pensiero si sia distolto da quella immagine e abbia cessato di guardare l’immagine che vedeva nella memoria, non resterà nulla della forma che si era impressa in esso e sarà informato dal ricordo verso cui si sarà volto perché abbia origine un nuovo pensiero. Tuttavia nella memoria resta il ricordo abbandonato verso cui lo sguardo si possa volgere, quando vogliamo evocarlo, e ad opera del quale sia informato per questo stesso suo volgersi e così si formi una certa unità con il principio informante.
Compito della volontà
4. 7. Ma quella volontà che porta e riporta di qua, di là, per informarlo, lo sguardo e, una volta informato, lo tiene unito al suo oggetto, se si concentra tutta intera sull’immagine interiore e se distoglierà del tutto lo sguardo dell’anima dalla presenza dei corpi che stanno attorno ai nostri sensi e dagli stessi sensi corporei, e lo volgerà pienamente all’immagine che si vede internamente, la somiglianza della forma corporea, espressa dalla memoria, prende un tale rilievo che nemmeno la stessa ragione riesce a distinguere se si tratti di un corpo esterno, realmente percepito, o del pensiero che se ne ha internamente. Infatti talvolta gli uomini, affascinati o atterriti da una rappresentazione troppo viva delle cose visibili, si sono messi a pronunciare improvvisamente delle parole, come se si trovassero realmente nel vivo di quelle azioni o passioni. E ricordo di aver sentito raccontare da un tale che egli era solito farsi una rappresentazione così viva e, per così dire, talmente materiale di un corpo femminile, che la sensazione di essere ad esso unito come in modo carnale, giungeva al punto di provocargli l’emissione di seme. Tanta è la forza che ha l’anima di agire sul suo corpo, e tanto il suo potere di modificare e cambiare 7 il comportamento di questa veste corporale, che essa si può paragonare ad un uomo che, dopo aver indossato un abito, sia inseparabile da questa veste. A questo stesso genere di affezioni appartiene il gioco di immagini che avviene in noi durante il sonno. Ma occorre distinguere bene il caso in cui, essendo i sensi assopiti, come nel sonno, o soffrendo di un turbamento organico, come nella follia, o essendo in qualche modo alienati, come accade agli indovini ed ai profeti, l’attenzione dell’anima si porta necessariamente sulle immagini che le sono presentate o dalla memoria o da qualche altra forza occulta, attraverso una mescolanza di rappresentazioni spirituali ugualmente appartenenti ad una sostanza spirituale, dall’altro caso in cui, come accade talvolta ad uomini sani ed in stato di veglia, la volontà, tutta presa dal pensiero, si distoglie dai sensi, e informa lo sguardo dell’anima di diverse immagini di oggetti sensibili, in modo tale che si abbia l’impressione di percepire gli oggetti sensibili stessi. Queste impressioni immaginative non si producono solo quando la volontà, spinta dal desiderio, fissa la sua attenzione su tali immagini interiori, ma anche quando, volendo evitarle e difendersene, l’anima si vede forzata a contemplare ciò che non vorrebbe vedere. Perciò non solo il desiderio, ma anche il timore, fissa il senso sulle cose sensibili o lo sguardo dell’anima sulle immagini degli oggetti sensibili perché ne sia informato. Ecco perché, quanto più sono violenti il desiderio o il timore, lo sguardo è informato in maniera tanto più nitida, sia che esso senta perché informato ad opera di un corpo situato nello spazio, sia che pensi perché informato ad opera dell’immagine di un corpo presente nella memoria. Dunque ciò che un corpo esteso è in rapporto al senso, l’immagine del corpo presente alla memoria è in rapporto allo sguardo dell’anima e, ciò che è la visione di colui che guarda in rapporto alla forma del corpo ad opera della quale il senso è informato, lo è la visione di colui che pensa in rapporto all’immagine del corpo fissata nella memoria, ad opera della quale è informato lo sguardo dell’anima; infine ciò che è l’attenzione della volontà in rapporto all’unione dell’oggetto percepito e della visione in modo che si formi di tre elementi una specie di unità (benché questi elementi siano di diversa natura) questa stessa attenzione della volontà è in rapporto all’unione dell’immagine del corpo presente alla memoria e della visione del pensiero, cioè della forma che prende lo sguardo dell’anima ripiegandosi sulla memoria, in modo che ci sia anche qui una certa unità di tre elementi, questa volta non più distinti per diversità di natura, ma appartenenti ad una sola ed identica sostanza, perché tutto questo è interiore e tutto è una sola anima.
La trinità dell’uomo esteriore non è immagine di Dio
5. 8. Così come, una volta scomparse la forma e l’apparenza del corpo, la volontà non vi può applicare il senso della vista, allo stesso modo una volta che l’oblio ha distrutto l’immagine presente alla memoria la volontà non ha più dove volgere lo sguardo dell’anima perché ne sia informato ad opera del ricordo. Tuttavia, poiché il potere dell’anima giunge fino a rappresentarsi non solo delle cose dimenticate, ma anche delle cose di cui non ha mai avuto percezione né esperienza, aumentando, diminuendo, cambiando, accostando a suo piacimento i ricordi che non sono scomparsi, essa spesso immagina un oggetto sotto una certa forma mentre sa che esso non l’ha, o ignora se l’ha. In questo caso deve guardarsi dalla menzogna che inganni gli altri, o dalla illusione che inganni essa stessa. Una volta evitati questi due mali, questi fantasmi dell’immaginazione non apportano alcun nocumento all’anima, come non le apportano alcun nocumento le cose sperimentate con i sensi e conservate dalla memoria, se non sono desiderate con cupidigia qualora siano utili, e se non si evitano disonestamente, se sono dannose. Ma quando la volontà, a scapito di beni migliori, si diletta con avidità di queste cose, essa si contamina e così le è funesto il pensarvi quando sono presenti, più funesto ancora quando sono assenti. Si vive dunque male e in maniera non conforme alla propria natura, quando si vive secondo la trinità dell’uomo esteriore. Perché è il desiderio di far uso delle cose sensibili e corporee che genera anche quella stessa trinità che, sebbene se le immagini all’interno, tuttavia si rappresenta delle cose esteriori. Nessuno infatti potrebbe far uso, anche onestamente, di questi beni, se la memoria non conservasse le immagini degli oggetti percepiti; e se la parte più nobile della volontà non abita in una regione più alta e più interiore e, se quella stessa parte della volontà che è in contatto, all’esterno, con i corpi, o all’interno, con le loro immagini, non mette in rapporto tutto ciò che in essi si trova ad una vita migliore e più vera, e non si riposa in quel fine intuendo il quale giudica come vadano compiute queste cose, che altro facciamo noi se non ciò che ci proibisce di fare l’Apostolo, che dice: Non vogliate conformarvi a questo secolo 8? Pertanto non è questa trinità l’immagine di Dio 9, perché si produce nell’anima attraverso il senso del corpo, avendo cioè origine dalla creatura più imperfetta, la creatura corporea, alla quale l’anima è superiore. Ma tuttavia la dissomiglianza non è assoluta: che cosa c’è infatti che, secondo il suo genere e la sua natura, non abbia una rassomiglianza con Dio, se Dio ha fatto ogni cosa molto buona 10, precisamente perché Egli è bontà somma? Dunque, in quanto ogni essere è buono, possiede, sebbene molto imperfetta, una certa rassomiglianza con il sommo Bene; e, se è naturale, essa è retta e ordinata; se invece viziosa, essa è turpe e perversa. Infatti, perfino nei loro peccati, le anime, con una libertà orgogliosa, pervertita e, per così dire, servile, non cercano altro che una certa rassomiglianza con Dio 11. Così nemmeno i nostri primi genitori avrebbero potuto consentire al peccato se non fosse stato loro detto: Sarete come dèi 12. Certamente non tutto ciò che nelle creature è, in qualche modo, simile a Dio, si ha da chiamare anche immagine di Lui; ma quella sola alla quale Egli solo è superiore. Perché l’immagine che è espressione diretta di Lui è quella tra la quale e Lui stesso non si interpone alcuna creatura.
Le relazioni fra i tre elementi della prima trinità
5. 9. Di quella visione dunque - cioè di quella forma che si produce nel senso del soggetto che vede - è, in qualche modo, come genitrice la forma del corpo da cui ha origine. Ma questa non è tuttavia la sua vera genitrice e perciò nemmeno quella è la vera sua prole, infatti non è totalmente generata da essa, perché concorre qualcosa d’altro, oltre all’oggetto, perché la visione si formi da esso, e cioè il senso del soggetto che vede. Ecco perché amare l’oggetto è follia 13. La volontà che unisce l’uno all’altro, come il generante al generato, è dunque più spirituale di ciascuno di essi. Infatti il corpo percepito non è affatto spirituale. La visione invece, prodotta dal senso, possiede in sé un elemento spirituale, perché senza l’anima non potrebbe aver luogo. Ma essa non è totalmente spirituale, perché, ciò che è informato, è il senso corporeo. La volontà che unisce l’uno all’altro è dunque manifestamente, come ho detto, più spirituale, e perciò essa è, in questa trinità, come il primo annuncio della persona dello Spirito. Ma essa è più prossima al senso informato che al corpo che informa. Infatti il senso appartiene all’essere animato (animantis) e la volontà appartiene all’anima (animae), non alle pietre o a qualche altro corpo percepito. Dunque non procede da quello che in qualche modo si può considerare come padre, ma nemmeno da questa, che si può considerare in qualche modo come prole, intendo dalla visione o forma che si trova nel senso. Infatti, prima che la visione si producesse, la volontà esisteva già, essa che applica il senso, perché ne sia informato, al corpo da percepire: ma non c’era ancora la compiacenza. Come avrebbe potuto infatti essere oggetto di compiacenza, ciò che ancora non era stato visto? La compiacenza è la volontà in riposo. Perciò non possiamo affermare né che la volontà è in qualche modo la prole della visione, perché esisteva già prima della visione, né che essa ne è in qualche modo la genitrice, perché la visione non dalla volontà ma dal corpo percepito trae la sua forma ed espressione.
Il fine vero della volontà
6. 10. Forse possiamo dire a ragione che, almeno in questo caso preciso, la visione è il fine e il riposo della volontà. Infatti non perché vede ciò che voleva vedere, ne consegue che non voglia null’altro. Non è dunque nel modo più assoluto la volontà umana, che non ha per fine se non la beatitudine 14, ma, in questo caso preciso, è la volontà divenuta momentaneamente volontà di vedere questa sola cosa, che ha per fine soltanto la visione, la riferisca o no a qualche altra cosa. Se infatti la volontà non riferirà la visione ad altra cosa, ma ha soltanto voluto vedere, non sarà necessario dimostrare come sia la visione il fine della volontà: è una cosa evidente. Se invece la riferirà ad altra cosa, allora vuole certamente un’altra cosa e così non sarà più semplice volontà di vedere o se è volontà di vedere, non è volontà di vedere questa cosa. È ciò che accade quando uno, per esempio, vuole vedere una cicatrice per provare che c’è stata una ferita, o vuol vedere una finestra per guardare, attraverso la finestra, i passanti. Tutti questi atti di volontà ed altri simili hanno i loro propri fini, che sono riferiti al fine di quella volontà in virtù della quale vogliamo vivere beati 15 e giungere a quella vita che non si riferisca ad altra cosa, ma che basti essa stessa di per sé a colui che la ama. La volontà di vedere ha dunque come fine la visione, e la volontà di vedere questa cosa ha come fine la visione di questa cosa. Così la volontà di vedere una cicatrice, tende al suo fine, cioè alla visione della cicatrice, e ciò che è al di fuori non la riguarda, perché la volontà di provare che ci fu una ferita è un’altra volontà che, sebbene vincolata alla prima, ha come fine di provare l’esistenza della ferita. E la volontà di vedere la finestra ha come fine la visione della finestra; perché è un’altra la volontà di osservare i passanti attraverso la finestra, volontà che, legata alla prima, ha come fine la visione dei passanti. Rette sono queste volontà e tutte ben unite tra loro, se è buona la volontà alla quale tutte si riferiscono; se invece questa è cattiva, tutte sono cattive. E perciò la connessione delle volontà rette è una specie di itinerario di ascesa alla beatitudine, itinerario che si compie, per così dire, con passi sicuri. Al contrario, l’intricarsi delle volontà cattive e sviate è un legame che incatena chi fa il male, perché sia gettato nelle tenebre esteriori 16. Beati dunque coloro che con le loro opere e i loro costumi cantano il cantico delle ascensioni 17; e guai a coloro che trascinano i loro peccati come una lunga corda 18. Questo riposo della volontà, che chiamiamo fine, è paragonabile, se viene riferito a sua volta ad altra cosa, al riposo del piede nel camminare, quando lo si posa per permettere all’altro piede di appoggiarsi quando si avanza camminando. Se poi qualcosa piace al punto che la volontà vi si riposi con qualche compiacenza, non è tuttavia il fine al quale si tende, ma è rapportato ad un altro fine; appaia non come la patria per il cittadino, ma come una sosta, o una tappa per il viaggiatore.
Le relazioni fra i tre elementi della seconda trinità
7. 11. La seconda trinità, è vero, è più interiore di quella che risiede nelle cose sensibili e nei sensi, ma tuttavia da qui trae la sua origine. Non è più il corpo esteriore che informa il senso corporeo, ma la memoria che informa lo sguardo dell’anima, una volta che si è fissata in essa l’immagine del corpo percepito esteriormente; questa immagine presente alla memoria noi chiamiamo quasi genitrice di quella che si produce nell’immaginazione del soggetto che pensa. Essa esisteva infatti nella memoria anche prima che fosse pensata da noi, come il corpo esisteva nello spazio anche prima che fosse percepito per produrre la visione. Ma quando si pensa, l’immagine, che la memoria conserva, si riproduce nello sguardo del soggetto pensante e tramite il ricordo si forma quell’immagine che è quasi la prole di quella che la memoria conserva. Ma tuttavia né questa è vera genitrice, né quella è vera prole. Perché lo sguardo dell’anima che è informato ad opera della memoria, quando ricordando pensiamo qualcosa, non procede da quella forma che ricordiamo d’aver vista; senza dubbio sarebbe impossibile ricordarci di quelle cose, se non le avessimo viste, ma lo sguardo dell’anima, che è informato ad opera del ricordo, esisteva anche prima che vedessimo il corpo di cui ci ricordiamo; a maggior ragione esisteva prima che se ne fissasse l’immagine nella memoria. Sebbene dunque la forma che si produce nello sguardo del soggetto che ricorda provenga da quella che è immanente alla memoria, tuttavia lo sguardo non trae da essa la sua origine, ma esisteva prima di ciò. Ne consegue così che, se quella non è vera genitrice, nemmeno questa è prole. Ma quella, che è quasi genitrice, e questa, che è quasi prole, suggeriscono qualcosa a partire da cui si possono vedere in maniera più certa e sicura delle realtà più interiori e più vere.
7. 12. È ora più difficile discernere bene se la volontà che unisce la visione alla memoria non abbia con qualcuna delle due un rapporto di paternità e di filiazione. Ciò che rende difficile questa distinzione è la parità e l’eguaglianza di natura e di sostanza. Infatti qui non accade come nella conoscenza di un oggetto esterno, dove è facile distinguere il senso informato e il corpo sensibile e la volontà dall’uno e dall’altro, a motivo della differenza di natura che oppone tra loro tutti questi tre elementi, come abbiamo sufficientemente spiegato prima. Sebbene la trinità, di cui ora si tratta, sia stata introdotta dall’esterno nell’anima, tuttavia si attua nell’interno e nessuno dei suoi elementi è estraneo alla natura dell’anima stessa. In qual maniera dunque si può dimostrare che la volontà non è quasi genitrice, neppure quasi prole, né dell’immagine corporea contenuta nella memoria, né di quella che quando ricordiamo ne è l’espressione, dato che la volontà nell’atto di pensare unisce l’una all’altra in modo tale che appaia un qualcosa di singolare ed unico, i cui elementi non si possono discernere se non con la ragione? E bisogna rilevare anzitutto che non potrebbe esistere la volontà di ricordare, se non conservassimo nelle profondità più riposte della memoria tutta o in parte la cosa che vogliamo ricordare. Infatti quando ci siamo dimenticati in modo totale ed assoluto di una cosa, non ha origine nemmeno la volontà di ricordarla, perché di qualsiasi cosa che vogliamo ricordare, ci ricordiamo già che essa esiste o esisteva nella nostra memoria. Per esempio, se voglio ricordare che cosa abbia mangiato ieri sera a cena, mi ricordo già che ho cenato, o se questo ricordo mi sfugge ancora, mi ricordo almeno qualche circostanza relativa all’ora di cena; non foss’altro, almeno, mi ricordo il giorno di ieri, la parte del giorno in cui si ha l’abitudine di cenare, e che cosa sia cenare. Perché se non mi ricordassi niente di simile, non potrei voler ricordare che cosa abbia mangiato ieri a cena. Da queste cose si può comprendere che la volontà di ricordare procede dalle immagini contenute nella memoria, alle quali vengono ad aggiungersi quelle che ne sono l’espressione nella visione che produce l’evocazione del ricordo, cioè essa procede dall’unione tra la cosa che ricordiamo e la visione che ne scaturisce nello sguardo del pensiero, quando evochiamo il ricordo. La stessa volontà che unisce questi due elementi ne esige un terzo, che è, in qualche modo, vicino e prossimo a colui che ricorda. Vi sono dunque tante trinità di questo genere, quanti sono gli atti di ricordare, perché è impossibile alcun ricordo se non ci sono questi tre elementi: ciò che è latente nella memoria anche prima che lo si pensi, ciò che si produce nel pensiero quando lo si guarda, e la volontà che unisce l’uno all’altro e che, terzo termine, aggiungentesi agli altri due, fa dell’insieme un tutto compiuto. A meno che non si voglia vedere qui una sola trinità generica, così da chiamare una unità generica tutte le forme corporee latenti nella memoria, e poi un’altra unità la visione generale dell’anima che tali cose ricorda e pensa, all’unione delle quali due unità si aggiunge la volontà unificante, come terzo elemento, in modo che da questi tre termini si formi un tutto unico.
Memoria ed immaginazione
8. 12. Ma poiché l’occhio dell’anima non può abbracciare con un solo sguardo tutto insieme ciò che la memoria ritiene, si alternano di volta in volta, cedendo il posto e succedendosi le trinità degli atti di pensiero, e così ha origine questa trinità innumerevolmente numerosa: non infinita tuttavia, se non si supera il numero delle cose racchiuse nella memoria. Infatti, a partire dal momento in cui ciascuno ha cominciato a sentire i corpi grazie all’uno o all’altro dei sensi corporei, anche se potesse aggiungervi tutto ciò che ha dimenticato, il numero dei ricordi sarebbe fisso e determinato, ancorché innumerevole. Noi infatti chiamiamo innumerevoli non solo le cose infinite, ma anche le quantità finite che superano la nostra capacità di contare.
8. 13. A partire da queste riflessioni si può rilevare in maniera un po’ più chiara che una cosa è ciò che è tenuto occulto nella memoria, altra cosa ciò che se ne esprime nel pensiero dell’uomo che ricorda, sebbene, quando si verifica la loro unione, sembrino costituire una cosa unica ed identica, perché non possiamo ricordarci delle forme corporee, se non in base al numero, all’intensità e al modo delle nostre sensazioni; infatti è a partire dal senso corporeo che l’anima si impregna di queste forme incidendole nella memoria: tuttavia tutte quelle visioni di coloro che pensano hanno certo come punto di partenza queste cose che sono presenti nella memoria, ma si moltiplicano e si diversificano in maniera innumerevole e veramente infinita. Io ricordo un sole solo, perché non ne ho visto che uno, come è in realtà, ma, se lo voglio, ne immagino due, o tre, o quanti ne voglio, ma il mio sguardo che ne pensa molti è informato ad opera della stessa memoria che me ne fa ricordare uno solo. Le dimensioni del sole che ricordo, sono identiche a quelle di quel sole che ho visto. Perché se me lo ricordo maggiore o minore di quello che ho visto, non mi ricordo più ciò che ho visto, e dunque non me ne ricordo. Ma poiché me ne ricordo, lo ricordo con le dimensioni identiche alle dimensioni di quello che ho visto, ma posso a mio piacimento rappresentarmelo sia maggiore che minore. Ed ancora, lo ricordo come l’ho visto, ma me lo rappresento in movimento come mi piace, immobile dove mi piace, veniente dal luogo che voglio, dirigentesi verso il luogo che voglio. Rappresentarmelo anche quadrato è in mio potere, sebbene lo ricordi rotondo e posso rappresentarmelo con qualsiasi colore, benché non abbia mai visto un sole verde, e perciò non me lo possa ricordare così. Ciò che vale per il sole, si può affermare per le altre cose. Ora, poiché queste forme delle cose sono corporee e sensibili, l’anima erra quando ritiene che esse esistano esteriormente nella stessa maniera in cui essa se le rappresenta interiormente, sia quando sono scomparse all’esterno, e sono ancora conservate nella memoria, sia anche quando ce ne formiamo un’immagine diversa da quella che ricordiamo, basandoci non sulla fedeltà del ricordo ma sul gioco della rappresentazione.
8. 14. Si potrebbe obiettare che molto spesso crediamo a coloro che ci narrano delle cose vere, che essi stessi hanno percepito con i loro sensi. Poiché il semplice udire la narrazione di queste cose provoca in noi la rappresentazione, non sembra che lo sguardo dell’anima faccia ritorno sulla memoria per produrre le visioni della rappresentazione. Non è infatti secondo i nostri ricordi che le pensiamo, ma secondo la narrazione di un altro; allora sembra che qui non si realizzi quella trinità di elementi, che esiste quando la forma latente nella memoria e la visione di colui che ricorda sono uniti da un terzo elemento: la volontà. Infatti non ciò che era latente nella mia memoria, ma ciò che odo, penso, quando mi si narra qualcosa. Non parlo qui delle parole che sento pronunciare, perché qualcuno non creda che io sia uscito dal mio argomento per alludere alla trinità che si realizza esteriormente nelle cose sensibili e nei sensi; no, ciò a cui penso sono le immagini corporee che colui che narra suggerisce con le sue parole, con i suoni; immagini che penso, evidentemente, non basandomi sui miei ricordi, ma su ciò che odo raccontare. Tuttavia, nemmeno in questo caso, se si considera la cosa con maggior diligenza, si superano i limiti della memoria. Infatti non potrei nemmeno comprendere colui che narra, se le cose di cui parla, supponendo anche che le udissi per la prima volta unite in una stessa narrazione, non rispondessero tuttavia, prese singolarmente, ad un ricordo generico. Colui che, per esempio, mi parla nella sua narrazione di un monte spoglio di foreste o popolato di ulivi, lo narra a me che ho nella memoria le immagini dei monti, delle foreste e degli ulivi; se me le fossi dimenticate non comprenderei assolutamente che cosa dice e perciò non potrei pensare ciò che dice nella sua narrazione. Così chiunque pensi delle cose corporee, sia che lui stesso si crei l’immagine di qualche oggetto, sia che oda o legga la narrazione di cose passate o l’annuncio di cose future 19, ricorre alla sua memoria per trovarvi la misura e la regola di tutte le forme che il suo pensiero contempla. Infatti nessuno può assolutamente pensare né un colore, né una forma corporea che non ha mai visto, né un suono che mai ha udito, né un sapore che non ha mai gustato, né un odore che non ha mai sentito, né un contatto corporeo che non ha mai provato. Se dunque nessuno può pensare qualcosa di corporeo senza averlo sentito, perché lo stesso ricordo di un oggetto corporeo suppone la percezione sensibile, ne consegue che, come i corpi lo sono della percezione, la memoria è la misura del pensiero. Infatti il corpo riceve la forma dal corpo che sentiamo e dal senso la riceve la memoria; dalla memoria poi lo sguardo di colui che pensa.
Compito della volontà
8. 15. La volontà infine come applica il senso al corpo così applica la memoria al senso e lo sguardo di colui che pensa alla memoria. Ma questa volontà che ravvicina queste cose e le congiunge, è essa stessa che anche le distingue e le separa. Ma è con un movimento del corpo che essa separa i sensi corporei dagli oggetti sensibili per impedire la percezione di qualcosa o per interromperla, come accade quando distogliamo gli occhi da ciò che non vogliamo vedere e li chiudiamo, come le orecchie se si tratta di suoni, le narici se si tratta di odori. Così pure chiudendo la bocca o sputando fuori qualcosa che vi teniamo, ci manteniamo lontani dai sapori. Così anche per quanto concerne il tatto, ci distanziamo dal corpo che non vogliamo toccare; se già lo toccavamo, lo gettiamo lontano e lo respingiamo. È dunque con un movimento del corpo che la volontà impedisce l’unione del senso corporeo con gli oggetti sensibili. Essa lo impedisce nella misura in cui lo può, perché, quando per la nostra condizione inferiore e mortale essa in questa sua azione patisce delle difficoltà, ne consegue una sofferenza corporea, cosicché non le resta che il ricorso alla pazienza. La volontà invece distoglie la memoria dal senso quando, fissando altrove l’attenzione, non le permette di unirsi agli oggetti presenti. È un’esperienza facile a farsi quando, avendo il pensiero intento ad altra cosa, ci pare di non aver udito qualcuno che parla in nostra presenza. Ma non è vero; noi infatti abbiamo udito, ma non ricordiamo, perché le parole non facevano che scivolare attraverso le orecchie, essendo rivolta altrove l’attenzione della volontà, che ordinariamente le incide nella memoria. Sarebbe più giusto dire, quando accade qualcosa di simile: "Non ricordiamo", invece che: "Non abbiamo udito". Infatti lo stesso accade a coloro che leggono; a me stesso accade assai di frequente di terminare la lettura di una pagina o di una lettera senza sapere che cosa abbia letto e di ricominciare da capo. Essendo intenta altrove l’attenzione della volontà, la memoria non si è applicata al senso del corpo, come invece il senso si è applicato alle lettere. Così quelli che camminano, avendo la volontà intenta ad altre cose, non sanno per dove siano passati; tuttavia se non avessero visto non avrebbero camminato, o avrebbero camminato a tastoni con maggiore attenzione, soprattutto se fossero avanzati in luoghi sconosciuti; ma, poiché hanno camminato senza difficoltà, hanno visto di certo. In quanto però, mentre la loro vista era in contatto con i luoghi che attraversavano, la loro memoria non era unita al senso, non hanno potuto assolutamente ricordare ciò che hanno visto, anche soltanto un istante prima. Si vede dunque che voler distogliere lo sguardo dell’anima da ciò che è contenuto nella memoria equivale a non pensarlo.
L’ordine delle quattro forme della conoscenza sensibile
9. 16. Dunque in questa analisi, che a partire dalla forma corporea giunge fino alla forma che si produce nello sguardo del pensiero, abbiamo scoperto quattro forme nate quasi gradualmente l’una dall’altra; la seconda dalla prima, la terza dalla seconda, la quarta dalla terza. Dalla forma del corpo percepito, nasce quella che si produce nel senso di colui che vede; da essa quella che si produce nella memoria; da quest’ultima quella che si produce nello sguardo del pensiero. Perciò la volontà, a tre riprese, unisce dei termini che sono in qualche modo nel rapporto di generante e generato; in un primo momento la forma del corpo con quella che questa genera nel senso corporeo; in un secondo momento questa seconda con quella da essa prodotta nella memoria; in un terzo momento infine questa con quella da questa generata nello sguardo di colui che pensa l’oggetto. Ma l’unione intermedia - la seconda -, sebbene più prossima, non è altrettanto simile alla prima come lo è alla terza. Vi sono infatti due visioni: l’una di chi sente, l’altra di chi pensa. Ora perché possa esistere la visione del pensiero, nasce nella memoria, prodotta dalla visione del senso, una certa similitudine, verso cui si volge, nel pensare, lo sguardo dell’anima, come nel vedere si volge verso il corpo lo sguardo degli occhi. Ecco perché ho voluto menzionare due trinità in questo genere di realtà; una, quando la visione di colui che pensa è informata dal corpo; un’altra, quando la visione di colui che pensa è informata dalla memoria. Non ho voluto menzionare la trinità intermedia, perché ordinariamente non si dice che c’è visione, quando si affida alla memoria la forma che si produce nel senso di colui che vede. In tutti questi momenti tuttavia la volontà non appare che come elemento di unione di due elementi che sono, in qualche modo, in rapporto di generante e generato, e perciò da qualunque fonte proceda non si può chiamare né generante né generata.
L’immaginazione
10. 17. Ma se non ci ricordiamo che di ciò che abbiamo percepito, né pensiamo se non ciò che ricordiamo, perché molto spesso pensiamo cose false, mentre non sono falsi i nostri ricordi di ciò che abbiamo percepito? Il motivo va ricercato nel fatto che la volontà, che ha la funzione di unire e separare le realtà di questo genere, come mi sono sforzato di dimostrare per quanto ho potuto, conduce a suo piacimento lo sguardo di chi pensa, per informarlo attraverso i ricordi latenti della memoria e, al fine di fargli pensare delle cose che non sono nella memoria a partire da quelle che vi si trovano, lo spinge a prendere un elemento di qui, un altro di là. Questi elementi riuniti in una sola visione costituiscono un tutto che si giudica falso, perché o non esiste al di fuori, nella natura delle cose corporee, o non è espressione del ricordo latente nella memoria, dato che non ci ricordiamo di aver percepito qualcosa di simile. Chi infatti ha mai visto un cigno nero? Dunque non c’è nessuno che ricorda un cigno nero, ma chi non può pensarlo? È facile infatti rivestire quella figura, che conosciamo per averla vista, di colore nero, che noi abbiamo ugualmente visto in altri corpi; e, poiché abbiamo visto l’uno e l’altro, dell’uno e dell’altro abbiamo il ricordo. Non ho il ricordo di un uccello quadrupede, perché non l’ho mai visto, ma mi è molto facile farmene una rappresentazione immaginaria, quando alla forma di un volatile, quale l’ho vista, aggiungo altri due piedi, quali ne ho ugualmente visti 20. Perciò, quando pensiamo unite delle caratteristiche che ricordiamo di aver percepito separate, ci sembra di non pensare qualcosa che corrisponda al ricordo della nostra memoria; e tuttavia, facendo questo, agiamo sotto la guida della memoria, dalla quale attingiamo tutti gli elementi che, ad arbitrio, congiungiamo in maniera molteplice e varia. Così non pensiamo nemmeno dei corpi con dimensioni che non abbiamo mai visto, senza l’aiuto della memoria. Infatti quanto grande è lo spazio che può abbracciare lo sguardo, sviluppandosi nella grandezza dell’universo, altrettanto estendiamo le dimensioni dei corpi, quando li pensiamo più grandi possibile. La ragione va oltre, ma l’immaginazione non la segue, come quando la ragione proclama l’infinità del numero che nessuna visione di chi pensa le cose corporee può attingere. La stessa ragione ci insegna che sono divisibili all’infinito anche i corpuscoli più piccoli; tuttavia quando giungiamo a quei corpi così sottili e minuti di cui ci ricordiamo per averli visti, non possiamo immaginare particelle più piccole e più esigue, sebbene la ragione prosegua la sua opera di divisione. Così gli oggetti corporei che pensiamo, non possono essere che quelli di cui ci ricordiamo o quelli formati a partire da questi di cui ci ricordiamo.
Numero, peso e misura
11. 18. Ma poiché possono essere pensati numerose volte dei ricordi che sono impressi una sola volta nella memoria, sembra che la misura appartenga alla memoria, il numero invece alla visione. Perché, sebbene la moltitudine di tali visioni sia innumerevole, ciascuna di esse tuttavia trova nella memoria un limite insuperabile che la misura. La misura appare dunque nella memoria, nelle visioni il numero; così c’è nei corpi visibili una certa misura su cui si regola, un gran numero di volte, il senso di coloro che li vedono, e un solo oggetto informa lo sguardo di molti che lo guardano, cosicché anche un solo uomo, perché ha due occhi, può vedere molto spesso una duplice immagine di uno stesso oggetto, come sopra abbiamo mostrato. In questi oggetti dunque che danno origine alla visione, vi è una specie di misura, invece nelle visioni stesse il numero. A sua volta la volontà che congiunge, ordina questi elementi e li unisce in una certa unità, e che, riposandovisi, non fissa il desiderio di percepire e di pensare se non sugli oggetti da cui prendono forma le visioni, è simile al peso. Perciò anche in tutti gli altri esseri si incontrano questi tre attributi: misura, numero e peso 21. Per il momento ho dimostrato, come ho potuto, e con gli argomenti che ho potuto trovare, che la volontà che unisce l’oggetto visibile e la visione in una specie di rapporto di generante e generato, sia nella sensazione, sia nel pensiero, non si può chiamare né genitrice né prole. È dunque tempo di cercare questa stessa trinità nell’uomo interiore, e a partire da questo uomo animale e carnale che è chiamato esteriore, e del quale ho parlato così a lungo, tendere verso le realtà interiori 22. Dove speriamo di trovare l’immagine di Dio 23 riflesso della sua Trinità, se Dio stesso aiuta i nostri sforzi, Lui che, come le cose stesse mostrano, e la stessa Scrittura santa attesta, ha ordinato ogni cosa con misura, numero e peso 24.
1 - Gn 1, 26-27; 9, 6; Sap 2, 23; Eccli 17, 1.
2 - Col 3, 10.
3 - 2 Cor 4, 16.
4 - Cf. Platone, Tim. 45b-d; Aristotele, De sensu 431 b; Plotino, Enn. 4, 5, 2; Agostino, De Gen. ad litt. 4, 34; 12, 16: NBA, IX/2.
5 - Cicerone, In Catil. 1, 5, 10.
6 - Cf. Gn 30, 37-41.
7 - Cf. Cicerone, De orat. 3, 45, 177; Orat. part. 7, 23.
8 - Rm 12, 2.
9 - Cf. Gn 1, 26.27; 9, 6; Sap 2, 23; Eccli 17, 1.
10 - Eccli 39, 21; Gn 1, 31; Mc 7, 37.
11 - Cf. Gn 5, 1; 1, 26; Gc 3, 9.
12 - Gn 3, 5.
13 - Cf. Agostino, Retract. 2, 41, 2: NBA, II.
14 - Cf. Agostino, De b. vita 2, 10: NBA, III/1; C. Acad. 1, 2, 5: NBA, III/1; De lib. arb. 2, 9, 27ss.: NBA, III/2; De mor. Eccl. cath. 1, 3, 4: NBA, XIII/1; Confess. 10, 20, 29 - 21, 31: NBA, I; De civ. Dei 10, 1: NBA, V/1; Retract. 1, 14: NBA, II; C. Iul. op. imp. 6, 26: NBA, XVIII; Ep. 104, 4, 12: NBA, XXI/2; Cicerone, Tuscul. 5, 10, 28.
15 - Seneca, Vit. beat. 1, 1.
16 - Mt 8, 12; 22, 13; 25, 30.
17 - Sal 119-133.
18 - Is 5, 18.
19 - Cf. Girolamo, In Hiez. 9, 30, 20-26.
20 - Agostino, Retract. 2, 15, 2: NBA, II.
21 - Cf. Sap 11, 21.
22 - Cf. 2 Cor 4, 16.
23 - Cf. Gn 1, 27; 9, 6; Sap 2, 23; Eccli 17, 1.
24 - Sap 11, 21.
14 - Si spiegano le forme ed i modi delle visioni divine
La mistica Città di Dio - Libro secondo - Suor Maria d'Agreda
Leggilo nella Biblioteca612. Anche se è operata dallo Spirito Santo, la grazia delle visioni divine, delle rivelazioni e delle estasi - non parlo della visione beatifica - si distingue dalla grazia giustificante e dalle virtù che santificano e perfezionano l'anima nelle sue azioni. Siccome non tutti i giusti ed i santi hanno necessariamente visioni o rivelazioni divine, si prova che la santità e le virtù possono stare senza questi doni. Da ciò consegue anche che le rivelazioni non si devono misurare in base alla santità e alla perfezione di quelli che le ricevono, ma alla volontà di Dio che le concede a chi più gli piace 1 quando conviene e nel grado in cui la sua sapienza le distribuisce, operando sempre con peso e misura, per i fini che vuole raggiungere nella sua Chiesa. Dio può comunicare visioni e rivelazioni maggiori e più alte al meno santo, e minori al maggiore. Anzi, può concedere il dono della profezia, con gli altri doni dati gratuitamente, a persone non sante; alcune estasi possono anche avere origine da una causa che non sia precisamente virtù della volontà. Quindi, quando si confronta l'eccellenza dei profeti, non si parla della santità, che solo Dio può ponderare, ma della luce della profezia e del modo di riceverla; da questo si può giudicare quale sia più o meno elevato, secondo differenti ragioni. Il principio su cui si fonda questo insegnamento è che la carità e le virtù che rendono santi e perfetti quelli che le hanno appartengono alla volontà, mentre le visioni, le rivelazioni ed anche alcune estasi riguardano l'intelletto, la cui perfezione non santifica l'anima.
613. Sebbene la grazia delle visioni divine sia distinta dalla santità e dalle virtù, per cui possono separarsi, la volontà e provvidenza divina molte volte le unisce secondo il fine ed il motivo che ha nel comunicare questi doni gratuiti delle rivelazioni particolari. Di fatto, alcune volte le ordina al beneficio pubblico e comune della Chiesa, come dice l'Apostolo. Questo accadde ai profeti che, ispirati da Dio con rivelazioni dello Spirito Santo e non di loro propria immaginazione, parlarono e profetizzarono per noi i misteri della redenzione e della legge evangelica. Quando le rivelazioni e visioni sono di questa specie non è necessario che siano congiunte con la santità, poiché Balaam fu profeta e non era santo. Tuttavia la Provvidenza divina volle, come più conveniente ed opportuno, che ordinariamente i profeti fossero santi, per non depositare facilmente e spesso lo spirito di profezia e le rivelazioni divine in vasi immondi - benché in qualche caso particolare Dio lo facesse come onnipotente - ed anche perché alla verità divina ed al suo insegnamento avrebbe derogato molto la cattiva vita dello strumento, oltre che per molte altre ragioni.
614. Altre volte le rivelazioni e visioni divine non sono tanto generali e non sono indirizzate immediatamente al bene comune, ma a quello particolare di chi le riceve. Come le prime sono effetto dell'amore che Dio ebbe ed ha per la sua Chiesa, così queste rivelazioni particolari hanno per causa l'amore speciale con cui Dio ama l'anima alla quale le comunica per istruirla e sollevarla ad un più alto grado di amore e perfezione. Mediante queste rivelazioni lo spirito della sapienza attraverso le età entra nelle anime sante per formare amici di Dio e profeti. Come ne è causa efficiente l'amore divino tutto speciale verso alcune anime, così ne sono causa finale ed effetto la santità, la purezza e l'amore delle medesime anime; il beneficio di queste rivelazioni e visioni, poi, è il mezzo con il quale si ottiene tutto questo.
615. Non voglio dire con ciò che le rivelazioni e visioni divine siano necessarie ed assolutamente indispensabili per rendere santi e perfetti, perché molti lo sono con altri mezzi senza questi benefici. Se, però, è verissimo che dipende solo dalla volontà divina concedere o negare ai giusti questi doni particolari, da parte nostra e da parte del Signore ci sono alcune ragioni, che conosciamo, per le quali è opportuno che sua Maestà li comunichi tanto frequentemente a molti suoi servi. La prima tra le altre è che da parte della creatura ignorante il modo più proporzionato e conveniente, affinché si innalzi alle cose eterne, si introduca in esse e si spiritualizzi per giungere alla perfetta unione con il sommo Bene, è la luce soprannaturale circa i misteri e gli arcani dell'Altissimo, che viene comunicata mediante particolari rivelazioni, visioni ed illuminazioni che l'anima riceve nella solitudine e nell'estasi; per questo il Signore stesso la invita con ripetute promesse e carezze. Di questi misteri è piena la sacra Scrittura, in particolare il Cantico dei Cantici.
616. La seconda ragione è da parte del Signore, perché l'amore è impaziente e non sopporta indugio nel comunicare i suoi beni e segreti all'amato e all'amico. Non vi chiamo più servi [...]; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi, disse agli Apostoli il Maestro della verità eterna. Di Mosè, poi, si dice che Dio parlava con lui come con un amico. Anche i santi Patriarchi e Profeti non ricevettero dallo Spirito divino solamente le rivelazioni generali, ma anche molte altre particolari e private, a testimonianza dell'amore che Dio portava loro, come si rileva dalla richiesta di Mosè, quando lo pregò che gli lasciasse vedere la sua faccia. A questo accennano pure i titoli che l'Altissimo dona alle anime elette, chiamandole con il nome di sposa, amica, colomba, sorella, perfetta, diletta, bella ed in altri modi. Tutti questi titoli, benché esprimano la forza dell'amore divino ed i suoi effetti, significano meno di ciò che il supremo Re fa con quelli che vuole così onorare, perché solo questo Signore ha il potere di fare tutto quello che vuole e sa volere come sposo, come amico, come padre e come infinito e sommo bene, senza restrizione né misura.
617. Questa verità non perde il suo credito perché non è intesa dalla sapienza carnale o perché alcune anime, infatuate da tale sapienza, si sono lasciate ingannare con alcune visioni e rivelazioni false dall'angelo di Satana mascherato da angelo di luce. Questo danno non solo fu molto frequente nelle donne per la loro ignoranza e le loro passioni, ma anche in molti uomini in apparenza forti ed istruiti; però, in tutti nacque da una cattiva radice. Non parlo di quelli che con diabolica ipocrisia hanno finto rivelazioni, visioni ed estasi false, senza averle, ma di quelli che con inganno le hanno patite e ricevute dal demonio, benché non senza grave colpa e consenso. Dei primi si può dire che cercano di ingannare e dei secondi che al principio sono ingannati, perché il serpente antico, che li conosce non mortificati nelle passioni e sa i loro sensi interiori poco esercitati nella conoscenza delle cose divine, introduce in loro con sottilissima astuzia una nascosta presunzione di essere molto favoriti da Dio e toglie loro il timore umile, gonfiandoli con vana curiosità di cose sublimi e rivelazioni ed inducendoli a desiderare di avere visioni estatiche e di distinguersi particolarmente in questi favori. Per questo aprono la porta al demonio ed egli entra a riempirli di errori e di illusioni, intorpidendo loro i sensi con una confusa tenebra interiore, cosicché non intendono né conoscono più cosa divina né vera se non qualcuna che il nemico presenta loro per dare credito ai suoi inganni e per coprire il suo veleno.
618. Questo pericoloso inganno si previene temendo con umiltà, non desiderando sapere cose alte e non valutando il proprio profitto nel tribunale appassionato del proprio giudizio e della propria prudenza, ma rimettendolo a Dio ed ai suoi ministri e confessori dotti, che esaminano bene l'intenzione; non vi è dubbio, infatti, che così si conoscerà se l'anima desidera questi favori per virtù e perfezione o per la gloria esteriore degli uomini. Più sicuro, però, è non desiderarli mai e temere sempre il pericolo, che è grande in tutti i tempi e maggiore al principio. La devozione e le dolcezze sensibili - supposto che vengano dal Signore, perché talvolta il demonio le imita - non sono mandate da sua Maestà perché l'anima è capace del cibo solido dei più grandi segreti e favori, ma come alimento da fanciulli, affinché essa più efficacemente si ritiri dai vizi rigettando ciò che è sensibile e non perché immagini di essere assai avanzata nelle virtù, dato che anche i rapimenti che risultano da meraviglia suppongono più ignoranza che amore. Quando, però, l'amore arriva ad essere estatico, fervoroso, ardente, pronto, vivace, inaccessibile, intollerante di altra cosa fuori di quello che ama e con ciò acquista dominio su ogni affetto umano, allora l'anima si trova disposta per ricevere la luce delle rivelazioni e delle visioni divine; e tanto più vi si dispone quanto meno le brama, illuminata da questa luce divina che la fa credere indegna anche di minori benefici. Gli uomini sapienti non devono meravigliarsi che le donne siano state tanto favorite da Dio con questi doni, perché esse sono ferventi nell'amore, perché Dio sceglie ciò che è più debole come testimone più sicuro del suo potere ed anche perché esse non hanno conoscenza della teologia come gli uomini dotti, se non l'infonde loro l'Altissimo, per illuminare il loro debole ed ignorante giudizio.
619. Intesa questa dottrina - quando non vi fossero state in Maria santissima altre speciali ragioni - conosceremo che le divine rivelazioni e visioni comunicatele dall'Altissimo furono più alte, ammirabili, frequenti e divine di quelle che diede a tutto il resto dei santi. Questi doni, come anche gli altri, si devono misurare con la sua dignità, santità e purezza e con l'amore che suo Figlio e tutta la beatissima Trinità portavano a lei che era madre del Figlio, figlia del Padre e sposa dello Spirito Santo. Con questi titoli le venivano comunicati gli influssi di Dio, essendo Cristo Signore nostro e sua Madre con infinito eccesso più amati che tutto il resto dei santi angeli e uomini. Ricondurrò le visioni divine che ebbe la nostra sovrana Regina a cinque gradi o generi e di ciascuno riferirò quello che potrò, come mi è stato manifestato.
Visione chiara dell'essenza divina concessa a Marta santissima
620. La prima e più elevata visione fu quella beatifica dell'essenza divina. Mentre era viatrice, Maria la ebbe chiaramente e di passaggio molte volte, che enumererò dal principio di questa Storia, nei tempi e nelle occasioni in cui ella ricevette questo beneficio, che è il maggiore che una creatura possa ricevere. Quanto agli altri santi, alcuni Dottori dubitano se nella carne mortale siano arrivati a vedere Dio in modo chiaro ed intuitivo; ma, lasciando da parte le opinioni circa gli altri, non vi può essere dubbio quanto alla Regina del cielo, a cui si farebbe ingiuria misurandola con la regola comune agli altri santi. Molti favori e grazie maggiori di quelle che in loro erano possibili ebbero luogo di fatto nella Madre della grazia; e la visione beatifica è possibile, almeno di passaggio, nei viatori, qualunque ne sia il modo. La prima disposizione che si ricerca nell'anima che deve vedere il volto di Dio è la grazia santificante in grado molto perfetto e non ordinario. Quella che l'anima santissima di Maria aveva dal primo istante fu sovrabbondante e con tanta pienezza che eccedeva la grazia dei supremi serafini. Per vedere Dio, ad essa si deve accompagnare una grande purezza nelle facoltà, in modo che non rimanga in esse traccia o effetto alcuno della colpa. Allo stesso modo un vaso in cui si dovesse porre un liquido purissimo, se ne avesse contenuto uno impuro, dovrebbe prima essere lavato, pulito e purificato bene, per non farvi restare più alcun odore. Poiché dal peccato e dai suoi effetti - soprattutto di quelli attuali - l'anima resta come infetta e contaminata, e quindi sproporzionata ed incapace di unirsi con la Bontà infinita in visione chiara ed amore beatifico, prima deve essere lavata e purificata in maniera che non le restino traccia, odore o sapore di peccati, né vizi, né inclinazione per essi. Ciò non si intende solo degli effetti dei peccati mortali, ma anche delle macchie che lasciano i peccati veniali; anch'essi causano nell'anima la loro particolare bruttezza, come se - a nostro modo di intendere - un cristallo purissimo venisse toccato dal fiato, che subito lo appanna e rende opaco. Tutto, insomma, si deve purificare e rinnovare per vedere Dio chiaramente.
621. Oltre a questa purezza, che è come negazione di macchia, se la natura di colui che deve vedere Dio beatificamente si trova corrotta per la colpa originale, è necessario purificare l'impulso che orienta al peccato in modo che il primo sia soppresso o tenuto a freno, come se la creatura non lo avesse. Essa, infatti, quando vede Dio, non deve avere principio né causa prossima che la inclini al peccato o ad imperfezione alcuna, poiché al libero arbitrio deve essere diventato come impossibile tutto ciò che ripugna alla somma santità e bontà. Da questo e da quanto dirò in seguito si conoscerà la difficoltà di questa disposizione, mentre l'anima vive nella carne mortale. La ragione che io comprendo per cui questo altissimo beneficio deve essere concesso con molto ritegno, e non senza grande causa e molto riguardo, è che nella creatura soggetta al peccato vi sono due sproporzioni e distanze immense, se si compara con la natura divina. L'una consiste nel fatto che Dio è invisibile, infinito, atto purissimo e semplicissimo, mentre la creatura è corporea, terrena, corruttibile e grossolana. L'altra è quella causata dal peccato, che è lontano senza misura dalla somma Bontà. Questa sproporzione e distanza è maggiore della prima, ma si devono togliere entrambe perché possano unirsi estremi tanto lontani quali sono Dio e la creatura, pervenendo questa a congiungersi nel modo supremo con la divinità e ad assimilarsi a Dio stesso, vedendolo e godendolo come egli è.
622. La Regina del cielo aveva tutta questa disposizione di purezza e mancanza di colpa o imperfezione in grado più alto che gli stessi angeli, perché non la toccarono né il peccato originale né quello attuale né gli effetti di alcuno di essi. La grazia e protezione divine poterono in lei per questo più di quanto poté negli angeli la natura, in virtù della quale essi erano liberi dal contrarre difetti. Per questa parte Maria santissima non aveva sproporzione alcuna né ostacolo dovuto a colpa che la ritardasse dal vedere Dio. Per l'altra parte poi, oltre ad essere immacolata, la sua grazia nel primo istante superava quella degli angeli e dei santi ed i suoi meriti erano proporzionati ad essa; nel primo atto, infatti, ella meritò più di tutti loro con i più efficaci ed ultimi atti che fecero per arrivare alla visione beatifica della quale godono. Conforme a ciò, se riguardo agli altri santi è giusto che sia loro differito il premio della gloria, che meritano, finché arrivi il termine della' loro vita mortale e con esso anche il momento di riceverlo, non può parere contro giustizia che con Maria santissima non s'intenda così rigorosamente questa legge, ma con lei l'Altissimo abbia altra provvidenza, per cui l'ebbe mentre viveva nella carne mortale. L'amore della beatissima Trinità non poteva sopportare tanta dilazione verso questa Signora da stare senza manifestarsi a lei molte volte, tanto più che ella lo meritava più di tutti gli angeli, i serafini ed i santi, che con minore grazia e con meno meriti godevano del sommo bene. Oltre a questa ragione ve n'era un'altra per cui era opportuno che la Divinità le si manifestasse chiaramente, cioè l'essere stata eletta come Madre di Dio, per cui conveniva che conoscesse con l'esperienza e con l'anticipata fruizione il tesoro della divinità infinita che doveva vestire di carne mortale e portare nel suo grembo verginale, affinché in seguito sapesse trattare il suo Figlio santissimo come Dio vero, della cui vista aveva già goduto.
623. L'anima, pur con tutta la purezza e l'integrità di cui si è detto, aggiunta anche la grazia che la santifica, non è ancora proporzionata e pronta per la visione beatifica. Le mancano altre disposizioni ed altri effetti divini, che la Regina del cielo riceveva quando godeva di questo beneficio e di cui tanto più avrebbe bisogno qualunque altra anima alla quale fosse elargito questo favore nella carne mortale. Trovandosi dunque l'anima limpida e santificata, come ho detto, viene ritoccata dall'Altissimo come con un fuoco spiritualissimo, che la riscalda e raffina come fa il fuoco materiale con l'oro, nel modo in cui Isaia fu purificato dai serafini. Questo beneficio opera due effetti nell'anima: l'uno è che la spiritualizza separandola da - a nostro modo di intendere - ciò che è impuro e terreno in lei e nell'unione con il corpo materiale; l'altro è che riempie tutta l'anima di una nuova luce, che scaccia oscurità e tenebre, come il chiarore dell'aurora dissipa la notte. Questa nuova luce resta in suo possesso, lasciandola illuminata e piena di nuovi splendori di questo fuoco. Ad essa seguono altri effetti nell'anima. Di fatto, se ha o ha avuto colpe, le piange con incomparabile dolore di contrizione, talmente grande che non può arrivarvi altro dolore umano, perché tutti, a paragone di quello che qui si sente, sono poco penosi. Quindi, subito sente un altro effetto di questa luce, cioè la purificazione dell'intelletto da tutte le immagini di cose terrene e visibili o sensibili, acquistate per mezzo dei sensi; queste, infatti, sono d'impedimento all'intelletto per vedere chiaramente il sommo spirito della Divinità. È, quindi, necessario purificarlo e sgombrarlo da quelle immagini e raffigurazioni terrene che lo occupano, impedendogli non solo la visione chiara ed intuitiva di Dio, ma anche quella astrattiva, per la quale èugualmente necessario che sia purificato.
624. Nell'anima purissima della nostra Regina, non avendo ella colpe da piangere, queste illuminazioni e purificazioni producevano soltanto gli altri effetti, cominciando ad elevare e proporzionare la natura stessa, affinché non stesse così distante dal fine ultimo e non percepisse gli effetti dei sensi e la dipendenza dal corpo. Allo stesso tempo, causavano in quell'anima candidissima nuovi sentimenti e moti di umiliazione per la conoscenza di se stessa, cioè del niente della creatura comparata con il Creatore e con i suoi benefici; per questo il suo cuore infiammato si muoveva a molti altri atti eroici di virtù. Il beneficio di una tale luce produrrebbe simili effetti in altre anime, se Dio la comunicasse loro per disporle alle visioni della sua divinità.
625. La nostra ignoranza potrebbe giudicare che le disposizioni già riferite bastino per arrivare alla visione beatifica; ma non è così, perché si richiede un'altra qualità o luce più divina, prima del lumen gloriae. Questa nuova purificazione è simile a quelle che ho riferito, ma differisce negli effetti, perché solleva l'anima ad uno stato più alto e sereno, dove con maggiore tranquillità sente una pace dolcissima, che non percepiva nello stato delle disposizioni e purificazioni anteriori. In esse, infatti, si sente ancora qualche pena ed amarezza delle colpe, se ci sono state, o un tedio della stessa natura terrena e vile, effetti non conciliabili con lo stato in cui l'anima si trova così vicina ed assimilata alla somma felicità. Mi pare che le prime purificazioni servano per mortificare e questa, di cui sto parlando, per vivificare e sanare la natura; l'Altissimo fa come il pittore, che prima delinea l'immagine, poi subito le dà i primi colori in abbozzo e quindi gli ultimi per farla uscire alla luce.
626. A compimento di tutte queste purificazioni e disposizioni, con i loro stupendi effetti, Dio comunica l'ultima, che è il lumen gloriae. Questa luce eleva, conforta e finisce di proporzionare l'anima affinché possa vedere e godere Dio beatificamente. Solo in essa le si manifesta la Divinità, la quale altrimenti non può essere veduta da creatura alcuna. La natura da sola non può giungere al conseguimento di tale luce e disposizione, né alla visione di Dio, perché tutto ciò supera le sue forze.
627. Con tutta questa bellezza di ornamenti era preparata colei che era Sposa dello Spirito Santo, Figlia del Padre e Madre del Figlio per entrare nel talamo della Divinità, quando veniva ammessa a godere di passaggio della sua vista e fruizione intuitiva. Poiché tutti questi benefici corrispondevano alla sua dignità ed alle sue grazie, non può essere compreso da ragione o pensiero creato - tanto meno da quello di una donna ignorante come sono io - quanto sublimi e divine fossero nella nostra Regina queste illuminazioni; molto meno, poi, si può ponderare e misurare il godimento di quell'anima santissima, superiore al gaudio più sublime dei supremi serafini e santi. Se di qualunque giusto, sia pure il minore tra quelli che godono Dio, è verità infallibile che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo quelle cose che Dio ha preparato, che sarà per i santi più grandi? E se lo stesso Apostolo che disse questo confessò di non poter esprimere quello che aveva ascoltato, che dirà la nostra limitatezza della Santa dei santi e madre di colui che è la gloria dei santi? Dopo l'anima del suo Figlio santissimo, che era insieme uomo e Dio vero, ella fu colei che negli infiniti mari e recessi della Divinità vide e conobbe il maggior numero di misteri arcani. A lei più che a tutti i beati furono aperti i tesori infiniti e le ampiezze dell'eternità di quell'oggetto inaccessibile che né principio né fine possono limitare. Lì questa città di Dio fu riempita di gioia ed allagata dal torrente della Divinità, che la inondò a tal punto con l'impeto della sua sapienza e grazia che queste la spiritualizzarono e divinizzarono.
Visione astrattiva di Dio che aveva Maria santissima
628. Il secondo genere di visioni di Dio che ebbe la Regina del cielo fu quello astrattivo, che è molto differente da quello intuitivo e ad esso inferiore; per questo era più frequente, benché non quotidiano od incessante. L'Altissimo comunica questa conoscenza o visione non scoprendosi in se stesso immediatamente all'intelletto creato, ma mediante qualche velo o certe immagini nelle quali si manifesta. Essendoci una separazione fra l'oggetto e l'intelletto, questa vista è molto inferiore alla visione chiara intuitiva e non mostra la presenza reale, anche se la contiene intellettualmente con condizioni inferiori. Benché la creatura sappia che si trova vicina alla Divinità ed in lei scopra gli attributi, le perfezioni e quei segreti divini che come in uno specchio volontario Dio vuole mostrarle e manifestarle, non sente né conosce nel sommo modo possibile la sua presenza, né la gode a soddisfazione ed a sazietà.
629. Tuttavia questo beneficio è grande, raro e, dopo la visione chiara, il maggiore. Benché non richieda il lumen gloriae, essendo sufficiente la luce delle immagini, né occorra l'ultima disposizione e purificazione alla quale segue il lumen gloriae, tutte quelle antecedenti, che precedono la visione chiara, sono necessarie anche per questa, perché con essa l'anima entra negli atri della casa del Signore Dio eterno. Gli effetti di questa visione sono ammirabili perché, oltre allo stato nel quale l'anima si trova già così innalzata sopra se stessa, la inebria di una ineffabile soavità e dolcezza, con la quale l'infiamma dell'amore divino e la trasforma in esso, causandole una tale dimenticanza e un tale distacco da tutto ciò che è terreno e da se stessa che non vive più in sé, ma in Cristo, e Cristo in lei. Inoltre, da questa visione le resta una luce che, se ella non la perdesse per sua negligenza o tiepidezza o per qualche colpa, la guiderebbe sempre al più alto grado della perfezione, insegnandole le più sicure vie dell'eternità. Così, sarebbe per lei come il fuoco perpetuo del santuario e come la luce della città di Dio.
630. Questa visione divina causava questi ed altri effetti nella nostra sovrana Regina in grado così eminente che io non posso spiegare il mio concetto con termini ordinan. Ci lascia però intendere qualcosa il considerare lo stato di quell'anima purissima, dove non era impedimento di tiepidezza, né ostacolo dovuto a colpa, né trascuratezza, né dimenticanza, né negligenza, né ignoranza, né una minima inavvertenza; anzi, era piena di grazia, ardente nell'amore, diligente nell'operare, costante ed incessante nel lodare il Creatore, sollecita ed alacre nel dargli gloria e disposta totalmente in modo che il braccio dell'Onnipotente operasse in lei senza incontrare contraddizione o difficoltà alcuna. Ebbe il beneficio di questo genere di visione nel primo istante della sua concezione, come ho detto a suo luogo, ed in seguito molte altre volte nel corso della sua vita santissima, come anche ho già detto in parte ed in parte dirò più avanti.
Visioni e rivelazioni intellettuali di Maria santissima
631. Il terzo genere di visioni o rivelazioni divine che ebbe Maria santissima fu quello intellettuale. Sebbene la conoscenza o visione astrattiva di Dio si possa chiamare anch'essa rivelazione intellettuale, io le dono un altro posto tutto suo e più alto, per due ragioni. L'una è che il suo oggetto è unico e supremo tra le cose intelligibili, mentre queste più comuni rivelazioni intellettuali hanno molti e vari oggetti, perché si estendono a cose materiali e spirituali, nonché alle verità ed ai misteri intelligibili. L'altra ragione è che la visione astrattiva dell'essenza divina viene prodotta per mezzo di immagini altissime, infuse e soprannaturali di quell'oggetto infinito. La comune rivelazione e visione intellettuale, invece, alcune volte si forma per mezzo di immagini degli oggetti rivelati infuse nell'intelletto, mentre altre volte queste non sono necessarie per intendere tutto, perché possono servire quelle dell'immaginazione o fantasia della persona che ha la visione; con esse l'intelletto, illuminato con nuova luce e virtù soprannaturale, può intendere i misteri che Dio gli rivela. Così accadde a Giuseppe in Egitto ed a Daniele in Babilonia. Anche Davide ebbe questo genere di rivelazioni. Dopo la conoscenza di Dio, è il modo di visione più nobile e sicuro, perché né i demoni né gli stessi angeli buoni possono infondere questa luce soprannaturale nell'intelletto, benché possano muovere le immagini per mezzo della fantasia.
632. Questa forma di rivelazione intellettuale fu comune ai Profeti santi dell'antico e del nuovo Testamento, perché la luce della profezia perfetta, come essi ebbero, va a terminare nella comprensione di qualche mistero. Senza questa luce intellettuale non sarebbero stati profeti in modo perfetto né avrebbero parlato profeticamente; per questo, infatti, non basta fare profezie. Così, Caifa ed i soldati che non vollero dividere la tunica di Cristo Signore nostro, benché mossi da impulso divino, non erano perfettamente profeti, perché non parlavano profeticamente, cioè con luce divina e comprensione del mistero. È' vero che anche i profeti santi e perfettamente tali, che si chiamavano veggenti per la luce interiore con la quale contemplavano i segreti nascosti, potevano fare qualche azione profetica senza conoscere i misteri che comprendeva o senza conoscerne qualcuno; ma in quell'azione non erano tanto perfettamente profeti quanto in quelle nelle quali profetizzavano con comprensione soprannaturale. Questa rivelazione intellettuale ha molti gradi, ma non è questo il luogo per spiegarli. E benché il Signore la possa comunicare da sola, senza carità o grazia e senza le virtù, di solito è accompagnata da esse, come avveniva nei Profeti, negli Apostoli e negli altri giusti, quando Dio manifestava loro come ad amici i suoi segreti, e come ancora succede quando le rivelazioni intellettuali sono dirette al maggior bene di chi le riceve, come si è detto sopra. Per questo, tali rivelazioni ricercano una disposizione molto buona nell'anima che deve essere sollevata ad esse ed ordinariamente Dio non le comunica se non quando l'anima si trova quieta, in pace, distaccata dagli affetti terreni e con le facoltà ben ordinate per ottenere gli effetti di questa luce divina.
633. Nella Regina del cielo queste rivelazioni intellettuali furono molto differenti da quelle dei santi e dei profeti, perché sua Altezza le aveva continue, quando non godeva di altre visioni di Dio più alte. Oltre a ciò, lo splendore e l'estensione di questa luce intellettuale ed i suoi effetti furono incomparabili in Maria santissima, perché conobbe più misteri, verità e segreti dell'Altissimo che tutti i santi Patriarchi, Profeti ed Apostoli e più che gli stessi angeli tutti insieme, conoscendo ogni cosa con maggiore profondità, chiarezza, stabilità e sicurezza. Con essa penetrava dallo stesso essere di Dio e dai suoi attributi fino alla minima delle sue opere e creature, senza che le rimanesse celato niente in cui non conoscesse la partecipazione della grandezza del Creatore e la sua divina disposizione e provvidenza. Per questo, solo Maria santissima poté dire pienamente che il Signore le aveva manifestato le cose invisibili e nascoste della sua sapienza, come affermò il Profeta. Non è possibile riferire gli effetti che queste rivelazioni intellettuali causavano nella sovrana Signora, ma tutta questa Storia servirà a spiegarli. Queste visioni nelle altre anime sono di ammirabile utilità e profitto, perché illuminano altamente l'intelletto, infiammano con incredibile ardore la volontà, disingannano, staccano, sollevano e spiritualizzano la creatura. Talvolta pare che anche lo stesso corpo terreno e pesante si alleggerisca e si assottigli, emulando santamente l'anima. La Regina del cielo in questo genere di visioni ebbe un altro privilegio che riferirò nel capitolo seguente.
Visioni immaginarie della Regina del cielo Maria santissima
634. Occupano il quarto posto le visioni immaginarie. Esse si formano per mezzo di immagini sensibili, causate o mosse nell'immaginazione o fantasia, le quali rappresentano gli oggetti in modo materiale e sensitivo, come cosa che si guarda con gli occhi del corpo, si ascolta, si tocca o si gusta. Sotto questa forma di visioni i profeti dell'antico Testamento - particolarmente Ezechiele, Daniele e Geremia - manifestarono grandi misteri che l'Altissimo rivelò loro per mezzo di esse. In simili visioni l'evangelista Giovanni scrisse la sua Apocalisse. Per la parte che hanno di sensitivo e corporeo, sono inferiori alle precedenti; per questo il demonio le può contraffare quanto alla rappresentazione, muovendo le immagini della fantasia, ma non le imita quanto alla verità egli che è padre della menzogna. Queste visioni si devono molto schivare, esaminandole con la dottrina certa dei santi e dei maestri, perché se il demonio conosce qualche vivo desiderio di esse nelle anime che si dedicano all'orazione ed alla devozione, se Dio lo permette, le ingannerà facilmente. Anzi, per quanto detestassero il pericolo di queste visioni, i santi stessi furono assaliti con esse dal demonio travestito da angelo di luce, come sta scritto nelle loro vite per nostra istruzione e ammonimento.
635. Dove queste visioni e rivelazioni immaginarie furono ricevute senza pericolo alcuno, con tutta sicurezza e con ogni qualità divina, fu in Maria santissima, la cui luce interiore non poteva venire oscurata né attaccata da tutta l'astuzia del serpente. La nostra Regina ebbe molte visioni di questo genere. In esse le furono manifestate molte opere che il suo Figlio santissimo faceva quando stava lontano da lei, come diremo nel corso della sua vita. Per visione immaginaria conobbe anche molte altre creature e misteri nelle occasioni in cui era necessario, secondo la volontà e la dispensazione dell'Altissimo. Siccome, poi, questo beneficio e gli altri che la Principessa del cielo riceveva avevano fini altissimi, in ordine tanto alla sua santità, purezza e merito quanto al bene della Chiesa in cui questa madre della grazia era maestra e cooperatrice della redenzione, gli effetti di queste visioni e della loro comprensione erano ammirabili e portavano sempre incomparabili frutti di gloria dell'Altissimo ed aumento di nuovi doni e nuove grazie nell'anima santissima di Maria. Dirò quanto suole succedere nelle altre creature con queste visioni parlando di quelle corporee, perché di queste due specie si deve formare uno stesso giudizio.
Visioni divine corporee di Maria santissima
636. L'ultimo e quinto grado delle visioni e rivelazioni è quello che avviene per mezzo dei sensi corporali esteriori; per questo, tali visioni si chiamano corporee. Possono succedere in due maniere. L'una è propriamente e veramente corporea, cioè quando con corpo reale e dotato di peso si presenta alla vista o al tatto qualche cosa dell'altra vita, come Dio, un angelo, un santo, il demonio, un'anima o altro. Si forma a tale scopo, per opera e virtù degli angeli buoni o cattivi, qualche corpo immateriale ed apparente, il quale, benché non sia corpo naturale e vero di colui che rappresenta, è veramente un corpo di aria condensata con le sue dimensioni quantitative. Ci può essere un altra maniera di visione corporea più impropria e come illusoria del senso della vista, cioè quando non è corpo reale quello che si vede, ma sono certe immagini di corpo, di colore e simili, che un angelo può causare negli occhi alterando l'aria circostante. Colui che le riceve giudica di vedere qualche corpo reale presente, mentre esso non c'èì e ci sono solo immagini con le quali si altera la vista con un inganno ad essa impercettibile. Questo genere di visioni illusorie non è proprio degli angeli buoni né delle apparizioni divine, anche se è possibile che lo sia e tale poté essere la voce che udì Samuele. Ordinariamente, però, le simula il demonio per quello che contengono di inganno, specialmente per gli occhi. Per questo, come anche perché la Regina non ebbe questo tipo di visioni, parlerò soltanto di quelle veramente corporali, che ella aveva.
637. Nella Scrittura si trovano molte visioni corporee avute dai Santi e dai Patriarchi. Adamo vide Dio rappresentato dall'angelo, Abramo i tre angeli, Mosè il roveto e molte volte il Signore stesso. Hanno avuto molte volte visioni corporee ed immaginarie anche dei peccatori, come Caino e Baldassar; che vide la mano sul muro. Tra le visioni immaginarie, il Faraone ebbe quella delle vacche e Nabucodonosor quella dell'albero 35 e della statua; ed altre simili si trovano nelle divine Scritture. Da questo si conosce che per queste visioni corporee ed immaginarie non si ricerca santità in colui che le riceve. È vero, però, che chi ha qualche visione immaginaria o corporea senza ottenere luce su di essa non si chiama profeta; la visione non è perfetta rivelazione in colui che vede o riceve solo le immagini sensitive, ma in colui che ne ha anche la comprensione, che, come disse Daniele, è necessaria nella visione. Così furono profeti Giuseppe e lo stesso Daniele, ma non il Faraone, Baldassar e Nabucodonosor. Come visione, poi, sarà più elevata ed eccellente quella che verrà con comprensione più grande ed alta, anche se quanto a ciò che appare sono superiori quelle che rappresentano Dio e la sua Madre santissima, e dopo quelle dei santi secondo i loro gradi.
638. Per ricevere visioni corporee è certo che i sensi si devono trovare disposti. Quanto a quelle immaginarie, molte volte Dio le manda in sogno, come fece con il santissimo Giuseppe sposo di Maria purissima, con i re Magi, con il Faraone e con altri. A volte si possono ricevere anche stando nei sensi corporali, perché essi non disturbano. Il modo più comune e connaturale a queste visioni ed a quelle intellettuali, però> è che Dio le comunichi in qualche estasi o rapimento dai sensi esteriori, perché allora le facoltà interiori si trovano più raccolte e disposte per la comprensione delle cose sublimi e divine, anche se i sensi esteriori sono soliti essere di minore impedimento nelle visioni intellettuali che in quelle immaginarie, perché queste sono più vicine all'esteriore di quelle dell'intelletto. Per questa ragione, quando le rivelazioni intellettuali sono immagini infuse o quando l'affetto non ci toglie i sensi, si ricevono molte volte altissime rivelazioni di misteri grandi e soprannaturali senza perdere i sensi.
639. Nella Regina del cielo questo succedeva molte volte e quasi frequentemente, perché, sebbene avesse molte estasi per la visione beatifica - per la quale sono sempre necessarie nei viatori - ed anche per alcune visioni intellettuali ed immaginarie, ordinariamente rimaneva nei suoi sensi; tuttavia, in tale stato aveva rivelazioni più alte che non tutti i Santi ed i Profeti nelle loro maggiori estasi, nelle quali videro tanti misteri. Neppure per le visioni immaginarie i sensi esteriori disturbavano la nostra grande Regina, perché il suo grande cuore e la sua estesa sapienza non venivano arrestati dagli effetti di ammirazione o di amore che sono soliti rapire i sensi in tutti gli altri Santi e Profeti. Che sua Maestà abbia avuto visioni corporee degli angeli risulta dall'annunciazione del santo arcangelo Gabriele. Sebbene, poi, nel corso della sua vita santissima gli Evangelisti non ne accennino altre, il giudizio prudente e cattolico non può dubitarne, poiché la Regina dei cieli e degli angeli doveva essere servita dai suoi vassalli, come in seguito diremo spiegando il continuo ossequio che le facevano quelli della sua custodia ed altri in forma corporale e visibile ed in modo diverso, come si vedrà nel capitolo seguente.
640. Le altre anime devono essere molto circospette e guardinghe in questo genere di visioni corporali, perché sono soggette a pericolosi inganni ed illusioni del serpente antico. Chi non ne avrà mai desiderio eviterà gran parte del pericolo. Se, poi, trovandosi l'anima scevra da questo e da altri affetti sregolati, le accadrà qualche visione corporale o immaginaria, si trattenga molto dal credere e dall'eseguire ciò che vuole la visione, perché sarebbe segno molto cattivo. È proprio del demonio il volere subito, senza riflessione e consiglio, che vi si dia credito e si ubbidisca; non suggeriscono questo gli angeli santi, come maestri di ubbidienza, verità, prudenza e santità. Altri indizi e segni per conoscere la sicurezza e verità o l'inganno di queste visioni si ricavano dalla loro causa e dai loro effetti; ma non mi trattengo in questo, per non allontanarmi dal mio intento e perché mi rimetto ai dottori e maestri.
Insegnamento della Regina del cielo
641. Figlia mia, la luce che hai ricevuto in questo capitolo ti offre una norma certa su cui regolarti nelle visioni e rivelazioni del Signore. Consiste in due cose. L'una nel sottoporle con cuore umile e sincero al giudizio ed all'esame dei tuoi padri spirituali e superiori, domandando all'Altissimo con viva fede che dia loro luce, affinché intendano la sua volontà divina ed in tutto te la insegnino. L'altra sta nel tuo intimo e consiste nel considerare attentamente gli effetti che le visioni e rivelazioni producono, per discernerle con prudenza e senza inganno. Se chi opera in esse è la virtù divina sentirai, infatti, che questa, infiammandoti di amore casto e riverente verso l'Altissimo, ti muoverà e indurrà a prendere coscienza della tua bassezza, a detestare la vanità terrena, a desiderare il disprezzo delle creature, a patire con allegrezza, ad amare la croce e portarla con cuore coraggioso e magnanimo, a desiderare l'ultimo posto, ad amare chi ti perseguiterà, a temere il peccato ed aborriilo anche se molto leggero, ad aspirare a ciò che c'è di più puro, perfetto e raffinato nella virtù, a contrastare le tue inclinazioni, ad unirti al sommo e vero Bene. Questi saranno segni infallibili che è veramente l'Altissimo che ti visita per mezzo delle sue rivelazioni, insegnandoti ciò che c'è di più santo nella legge cristiana ed il modo più perfetto di imitare lui e me.
.642. Per non tralasciare di mettere in pratica questo insegnamento che la benignità dell'Altissimo ti offre, carissima, non dimenticarlo mai e non perdere di vista il beneficio che egli ti ha fatto istruendoti con tanto amore e tanta tenerezza. Rinuncia ad ogni attenzione e consolazione umana, ai diletti ed ai piaceri che il mondo ti offre. Resisti con forte risolutezza a tutto ciò che chiedono le inclinazioni terrene, benché siano cose lecite e piccole, perché io voglio che tu, voltando le spalle a qualunque cosa sensibile, ami solo il patire. Ti hanno insegnato, ti insegnano e ti insegneranno questa scienza e filosofia divina le visite dell'Altissimo, per mezzo delle quali tu sentirai la forza del fuoco divino, che non si deve mai estinguere in te per tua colpa o tiepidezza. Sta' attenta, dilata il tuo cuore e cingiti di fortezza per ricevere e per operare cose grandi. Non venire meno alla fede in queste ammonizioni, ma credile costantemente, apprezzale e scrivile nel tuo cuore con umile affetto e con stima nell'intimo della tua anima, come inviate dal tuo Sposo che è fedelissimo e come donate da me che sono la tua Maestra e signora.
13 DICEMBRE.
Suor Maria della Croce
Nelle vostre azioni non cercate di far piacere a nessuno, se non al buon
Dio. Per Lui dovete far tutto, senza rispetto umano né mai stancarvi;
inoltre voi sapete quel che Nostro Signore vi ha raccomandato 25 volte
al giorno. Se amate veramente il buon Dio, in quei momenti Egli non vi
negherà nulla di quanto Gli chiederete... Sì, siete misera, è vero,
umiliatevi, Gesù però non sempre concede le sue grazie ai più santi.
Preparatevi sempre con grande diligenza alla santa Comunione, alla
confessione, all'ufficio divino; in una parola, a tutto ciò che ha per
fine un'unione più grande con Nostro Signore. ... Tuttavia dovrebbe
riuscirvi molto meno difficile che non a tante altre il vedere Gesù
sempre presente nel vostro cuore; dopo le grazie che vi ha concesso a
tal riguardo, non dovreste trovar difficoltà a raccogliervi!
Vi ho già detto che il buon Dio cerca nel mondo anime che Lo amino, ma
con amore di fanciullo, con tenerezza rispettosa, è vero, ma cordiale.
Ebbene, di codeste anime non ne trova! Il loro numero è più piccolo di
quanto si creda. Si restringe troppo il Cuore del buon Dio. Si considera
troppo grande il buon Gesù da poterLo accostare e l'amore che si ha per
Lui è freddo. Il rispetto infine degenera in una certa indifferenza. So
che non tutte le anime riescono a comprendere codesto amore che Nostro
Signore richiede; ma voi, cui Gesù lo ha fatto comprendere, risarciteLo
di tale indifferenza, di tale freddezza. ChiedeteGli che allarghi il
vostro cuore affinché possa contenere molto amore. Con le vostre
tenerezze e le rispettose familiarità che Gesù vi permette, potete
riparare quel che non a tutti è dato comprendere. Fatelo e soprattutto
amate molto!
Non stancatevi mai di lavorare! Ricominciate ogni giorno come se non
aveste fatto ancor nulla! Questa continua rinunzia alla propria volontà
ed ai propri comodi, al proprio modo di vedere, è un lungo martirio ben
meritorio e bene accetto al buon Dio.
II buon Dio vi vuole straordinaria, non quanto all'esteriore, bensì
quanto all'interiore. Egli richiede da voi un'unione sì grande che
bisogna che giungiate a non perderLo mai di vista, neppure nel fervore
delle vostre occupazioni.