Liturgia delle Ore - Letture
Giovedi della 5° settimana del tempo di Avvento e Natale
Vangelo secondo Matteo 18
1In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: "Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?".2Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse:3"In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli.4Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli.
5E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me.
6Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare.7Guai al mondo per gli scandali! È inevitabile che avvengano scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!
8Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno.9E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco.
10Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli.11È venuto infatti il Figlio dell'uomo a salvare ciò che era perduto.
12Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta?13Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite.14Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli.
15Se il tuo fratello commette una colpa, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello;16se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché 'ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni'.17Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano.18In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo.
19In verità vi dico ancora: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà.20Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro".
21Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: "Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?".22E Gesù gli rispose: "Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.
23A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi.24Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti.25Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito.26Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa.27Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito.28Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi!29Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito.30Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.
31Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto.32Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato.33Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?34E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto.35Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello".
Primo libro di Samuele 17
1I Filistei radunarono di nuovo l'esercito per la guerra e si ammassarono a Soco di Giuda e si accamparono tra Soco e Azeka, a Efes-Dammìm.2Anche Saul e gli Israeliti si radunarono e si accamparono nella valle del Terebinto e si schierarono a battaglia di fronte ai Filistei.3I Filistei stavano sul monte da una parte e Israele sul monte dall'altra parte e in mezzo c'era la valle.
4Dall'accampamento dei Filistei uscì un campione, chiamato Golia, di Gat; era alto sei cubiti e un palmo.5Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo.6Portava alle gambe schinieri di bronzo e un giavellotto di bronzo tra le spalle.7L'asta della sua lancia era come un subbio di tessitori e la lama dell'asta pesava seicento sicli di ferro; davanti a lui avanzava il suo scudiero.8Egli si fermò davanti alle schiere d'Israele e gridò loro: "Perché siete usciti e vi siete schierati a battaglia? Non sono io Filisteo e voi servi di Saul? Scegliete un uomo tra di voi che scenda contro di me.9Se sarà capace di combattere con me e mi abbatterà, noi saremo vostri schiavi. Se invece prevarrò io su di lui e lo abbatterò, sarete voi nostri schiavi e sarete soggetti a noi".10Il Filisteo aggiungeva: "Io ho lanciato oggi una sfida alle schiere d'Israele. Datemi un uomo e combatteremo insieme".11Saul e tutto Israele udirono le parole del Filisteo; ne rimasero colpiti ed ebbero grande paura.
12Davide era figlio di un Efratita da Betlemme di Giuda chiamato Iesse, che aveva otto figli. Al tempo di Saul, quest'uomo era anziano e avanti negli anni.13I tre figli maggiori di Iesse erano andati con Saul in guerra. Di questi tre figli, che erano andati in guerra, il maggiore si chiamava Eliab, il secondo Abìnadab, il terzo Samma.14Davide era ancor giovane quando i tre maggiori erano partiti dietro Saul.15Egli andava e veniva dal seguito di Saul e badava al gregge di suo padre in Betlemme.
16Il Filisteo avanzava mattina e sera; continuò per quaranta giorni a presentarsi.17Ora Iesse disse a Davide suo figlio: "Prendi su per i tuoi fratelli questa misura di grano tostato e questi dieci pani e portali in fretta ai tuoi fratelli nell'accampamento.18Al capo di migliaia porterai invece queste dieci forme di cacio. Informati della salute dei tuoi fratelli e prendi la loro paga.19Saul con essi e tutto l'esercito di Israele sono nella valle del Terebinto a combattere contro i Filistei".20Davide si alzò di buon mattino: lasciò il gregge alla cura di un guardiano, prese la roba e partì come gli aveva ordinato Iesse. Arrivò all'accampamento quando le truppe uscivano per schierarsi e lanciavano il grido di guerra.21Si disposero in ordine Israele e i Filistei: schiera contro schiera.22Davide si tolse il fardello e l'affidò al custode dei bagagli, poi corse tra le file e domandò ai suoi fratelli se stavano bene.23Mentre egli parlava con loro, ecco il campione, chiamato Golia, il Filisteo di Gat, uscì dalle schiere filistee e tornò a dire le sue solite parole e Davide le intese.24Tutti gli Israeliti, quando lo videro, fuggirono davanti a lui ed ebbero grande paura.
25Ora un Israelita disse: "Vedete quest'uomo che avanza? Viene a sfidare Israele. Chiunque lo abbatterà, il re lo colmerà di ricchezze, gli darà in moglie sua figlia ed esenterà la casa di suo padre da ogni gravame in Israele".26Davide domandava agli uomini che stavano attorno a lui: "Che faranno dunque all'uomo che eliminerà questo Filisteo e farà cessare la vergogna da Israele? E chi è mai questo Filisteo non circonciso per insultare le schiere del Dio vivente?".27Tutti gli rispondevano la stessa cosa: "Così e così si farà all'uomo che lo eliminerà".28Lo sentì Eliab, suo fratello maggiore, mentre parlava con gli uomini, ed Eliab si irritò con Davide e gli disse: "Ma perché sei venuto giù e a chi hai lasciato quelle poche pecore nel deserto? Io conosco la tua boria e la malizia del tuo cuore: tu sei venuto per vedere la battaglia".29Davide rispose: "Che ho dunque fatto? Non si può fare una domanda?".30Si allontanò da lui, si rivolse a un altro e fece la stessa domanda e tutti gli diedero la stessa risposta.
31Sentendo le domande che faceva Davide, pensarono di riferirle a Saul e questi lo fece venire a sé.
32Davide disse a Saul: "Nessuno si perda d'animo a causa di costui. Il tuo servo andrà a combattere con questo Filisteo".33Saul rispose a Davide: "Tu non puoi andare contro questo Filisteo a batterti con lui: tu sei un ragazzo e costui è uomo d'armi fin dalla sua giovinezza".34Ma Davide disse a Saul: "Il tuo servo custodiva il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge.35Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la preda dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l'afferravo per le mascelle, l'abbattevo e lo uccidevo.36Il tuo servo ha abbattuto il leone e l'orso. Codesto Filisteo non circonciso farà la stessa fine di quelli, perché ha insultato le schiere del Dio vivente".37Davide aggiunse: "Il Signore che mi ha liberato dalle unghie del leone e dalle unghie dell'orso, mi libererà anche dalle mani di questo Filisteo". Saul rispose a Davide: "Ebbene va' e il Signore sia con te".38Saul rivestì Davide della sua armatura, gli mise in capo un elmo di bronzo e gli fece indossare la corazza.39Poi Davide cinse la spada di lui sopra l'armatura, ma cercò invano di camminare, perché non aveva mai provato. Allora Davide disse a Saul: "Non posso camminare con tutto questo, perché non sono abituato". E Davide se ne liberò.
40Poi prese in mano il suo bastone, si scelse cinque ciottoli lisci dal torrente e li pose nel suo sacco da pastore che gli serviva da bisaccia; prese ancora in mano la fionda e mosse verso il Filisteo.
41Il Filisteo avanzava passo passo, avvicinandosi a Davide, mentre il suo scudiero lo precedeva.42Il Filisteo scrutava Davide e, quando lo vide bene, ne ebbe disprezzo, perché era un ragazzo, fulvo di capelli e di bell'aspetto.43Il Filisteo gridò verso Davide: "Sono io forse un cane, perché tu venga a me con un bastone?". E quel Filisteo maledisse Davide in nome dei suoi dèi.44Poi il Filisteo gridò a Davide: "Fatti avanti e darò le tue carni agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche".45Davide rispose al Filisteo: "Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l'asta. Io vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d'Israele, che tu hai insultato.46In questo stesso giorno, il Signore ti farà cadere nelle mie mani. Io ti abbatterò e staccherò la testa dal tuo corpo e getterò i cadaveri dell'esercito filisteo agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche; tutta la terra saprà che vi è un Dio in Israele.47Tutta questa moltitudine saprà che il Signore non salva per mezzo della spada o della lancia, perché il Signore è arbitro della lotta e vi metterà certo nelle nostre mani".48Appena il Filisteo si mosse avvicinandosi incontro a Davide, questi corse prontamente al luogo del combattimento incontro al Filisteo.49Davide cacciò la mano nella bisaccia, ne trasse una pietra, la lanciò con la fionda e colpì il Filisteo in fronte. La pietra s'infisse nella fronte di lui che cadde con la faccia a terra.50Così Davide ebbe il sopravvento sul Filisteo con la fionda e con la pietra e lo colpì e uccise, benché Davide non avesse spada.51Davide fece un salto e fu sopra il Filisteo, prese la sua spada, la sguainò e lo uccise, poi con quella gli tagliò la testa. I Filistei videro che il loro eroe era morto e si diedero alla fuga.
52Si levarono allora gli uomini d'Israele e di Giuda alzando il grido di guerra e inseguirono i Filistei fin presso Gat e fino alle porte di Ekron. I Filistei caddero e lasciarono i loro cadaveri lungo la via fino a Saaràim, fino a Gat e fino ad Ekron.53Quando gli Israeliti furono di ritorno dall'inseguimento dei Filistei, saccheggiarono il loro campo.54Davide prese la testa del Filisteo e la portò a Gerusalemme. Le armi di lui invece le pose nella sua tenda.
55Saul, mentre guardava Davide uscire incontro al Filisteo, aveva chiesto ad Abner capo delle milizie: "Abner, di chi è figlio questo giovane?". Rispose Abner: "Per la tua vita, o re, non lo so".56Il re soggiunse: "Chiedi tu di chi sia figlio quel giovinetto".57Quando Davide tornò dall'uccisione del Filisteo, Abner lo prese e lo condusse davanti a Saul mentre aveva ancora in mano la testa del Filisteo.58Saul gli chiese: "Di chi sei figlio, giovane?". Rispose Davide: "Di Iesse il Betlemmita, tuo servo".
Proverbi 15
1Una risposta gentile calma la collera,
una parola pungente eccita l'ira.
2La lingua dei saggi fa gustare la scienza,
la bocca degli stolti esprime sciocchezze.
3In ogni luogo sono gli occhi del Signore,
scrutano i malvagi e i buoni.
4Una lingua dolce è un albero di vita,
quella malevola è una ferita al cuore.
5Lo stolto disprezza la correzione paterna;
chi tiene conto dell'ammonizione diventa prudente.
6Nella casa del giusto c'è abbondanza di beni,
sulla rendita dell'empio incombe il dissesto.
7Le labbra dei saggi diffondono la scienza,
non così il cuore degli stolti.
8Il sacrificio degli empi è in abominio al Signore,
la supplica degli uomini retti gli è gradita.
9La condotta perversa è in abominio al Signore;
egli ama chi pratica la giustizia.
10Punizione severa per chi abbandona il retto sentiero,
chi odia la correzione morirà.
11Gl'inferi e l'abisso sono davanti al Signore,
tanto più i cuori dei figli dell'uomo.
12Lo spavaldo non vuol essere corretto,
egli non si accompagna con i saggi.
13Un cuore lieto rende ilare il volto,
ma, quando il cuore è triste, lo spirito è depresso.
14Una mente retta ricerca il sapere,
la bocca degli stolti si pasce di stoltezza.
15Tutti i giorni son brutti per l'afflitto,
per un cuore felice è sempre festa.
16Poco con il timore di Dio
è meglio di un gran tesoro con l'inquietudine.
17Un piatto di verdura con l'amore
è meglio di un bue grasso con l'odio.
18L'uomo collerico suscita litigi,
il lento all'ira seda le contese.
19La via del pigro è come una siepe di spine,
la strada degli uomini retti è una strada appianata.
20Il figlio saggio allieta il padre,
l'uomo stolto disprezza la madre.
21La stoltezza è una gioia per chi è privo di senno;
l'uomo prudente cammina diritto.
22Falliscono le decisioni prese senza consultazione,
riescono quelle prese da molti consiglieri.
23È una gioia per l'uomo saper dare una risposta;
quanto è gradita una parola detta a suo tempo!
24Per l'uomo assennato la strada della vita è verso l'alto,
per salvarlo dagli inferni che sono in basso.
25Il Signore abbatte la casa dei superbi
e rende saldi i confini della vedova.
26Sono in abominio al Signore i pensieri malvagi,
ma gli sono gradite le parole benevole.
27Sconvolge la sua casa chi è avido di guadagni disonesti;
ma chi detesta i regali vivrà.
28La mente del giusto medita prima di rispondere,
la bocca degli empi esprime malvagità.
29Il Signore è lontano dagli empi,
ma egli ascolta la preghiera dei giusti.
30Uno sguardo luminoso allieta il cuore;
una notizia lieta rianima le ossa.
31L'orecchio che ascolta un rimprovero salutare
avrà la dimora in mezzo ai saggi.
32Chi rifiuta la correzione disprezza se stesso,
chi ascolta il rimprovero acquista senno.
33Il timore di Dio è una scuola di sapienza,
prima della gloria c'è l'umiltà.
Salmi 105
1Alleluia.
Lodate il Signore e invocate il suo nome,
proclamate tra i popoli le sue opere.
2Cantate a lui canti di gioia,
meditate tutti i suoi prodigi.
3Gloriatevi del suo santo nome:
gioisca il cuore di chi cerca il Signore.
4Cercate il Signore e la sua potenza,
cercate sempre il suo volto.
5Ricordate le meraviglie che ha compiute,
i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca:
6voi stirpe di Abramo, suo servo,
figli di Giacobbe, suo eletto.
7È lui il Signore, nostro Dio,
su tutta la terra i suoi giudizi.
8Ricorda sempre la sua alleanza:
parola data per mille generazioni,
9l'alleanza stretta con Abramo
e il suo giuramento ad Isacco.
10La stabilì per Giacobbe come legge,
come alleanza eterna per Israele:
11"Ti darò il paese di Cànaan
come eredità a voi toccata in sorte".
12Quando erano in piccolo numero,
pochi e forestieri in quella terra,
13e passavano di paese in paese,
da un regno ad un altro popolo,
14non permise che alcuno li opprimesse
e castigò i re per causa loro:
15"Non toccate i miei consacrati,
non fate alcun male ai miei profeti".
16Chiamò la fame sopra quella terra
e distrusse ogni riserva di pane.
17Davanti a loro mandò un uomo,
Giuseppe, venduto come schiavo.
18Gli strinsero i piedi con ceppi,
il ferro gli serrò la gola,
19finché si avverò la sua predizione
e la parola del Signore gli rese giustizia.
20Il re mandò a scioglierlo,
il capo dei popoli lo fece liberare;
21lo pose signore della sua casa,
capo di tutti i suoi averi,
22per istruire i capi secondo il suo giudizio
e insegnare la saggezza agli anziani.
23E Israele venne in Egitto,
Giacobbe visse nel paese di Cam come straniero.
24Ma Dio rese assai fecondo il suo popolo,
lo rese più forte dei suoi nemici.
25Mutò il loro cuore
e odiarono il suo popolo,
contro i suoi servi agirono con inganno
26Mandò Mosè suo servo
e Aronne che si era scelto.
27Compì per mezzo loro i segni promessi
e nel paese di Cam i suoi prodigi.
28Mandò le tenebre e si fece buio,
ma resistettero alle sue parole.
29Cambiò le loro acque in sangue
e fece morire i pesci.
30Il loro paese brulicò di rane
fino alle stanze dei loro sovrani.
31Diede un ordine e le mosche vennero a sciami
e le zanzare in tutto il loro paese.
32Invece delle piogge mandò loro la grandine,
vampe di fuoco sul loro paese.
33Colpì le loro vigne e i loro fichi,
schiantò gli alberi della loro terra.
34Diede un ordine e vennero le locuste
e bruchi senza numero;
35divorarono tutta l'erba del paese
e distrussero il frutto del loro suolo.
36Colpì nel loro paese ogni primogenito,
tutte le primizie del loro vigore.
37Fece uscire il suo popolo con argento e oro,
fra le tribù non c'era alcun infermo.
38L'Egitto si rallegrò della loro partenza
perché su di essi era piombato il terrore.
39Distese una nube per proteggerli
e un fuoco per illuminarli di notte.
40Alla loro domanda fece scendere le quaglie
e li saziò con il pane del cielo.
41Spaccò una rupe e ne sgorgarono acque,
scorrevano come fiumi nel deserto,
42perché ricordò la sua parola santa
data ad Abramo suo servo.
43Fece uscire il suo popolo con esultanza,
i suoi eletti con canti di gioia.
44Diede loro le terre dei popoli,
ereditarono la fatica delle genti,
45perché custodissero i suoi decreti
e obbedissero alle sue leggi.
Alleluia.
Gioele 2
1Suonate la tromba in Sion
e date l'allarme sul mio santo monte!
Tremino tutti gli abitanti della regione
perché viene il giorno del Signore,
perché è vicino,
2giorno di tenebra e di caligine,
giorno di nube e di oscurità.
Come l'aurora, si spande sui monti
un popolo grande e forte;
come questo non ce n'è stato mai
e non ce ne sarà dopo,
per gli anni futuri di età in età.
3Davanti a lui un fuoco divora
e dietro a lui brucia una fiamma.
Come il giardino dell'Eden è la terra davanti a lui
e dietro a lui è un deserto desolato,
non resta alcun avanzo.
4Il loro aspetto è aspetto di cavalli,
come destrieri essi corrono.
5Come fragore di carri
che balzano sulla cima dei monti,
come crepitìo di fiamma avvampante
che brucia la stoppia, come un popolo forte
schierato a battaglia.
6Davanti a loro tremano i popoli,
tutti i volti impallidiscono.
7Corrono come prodi,
come guerrieri che scalano le mura;
ognuno procede per la strada,
nessuno smarrisce la via.
8L'uno non incalza l'altro,
ognuno va per il suo sentiero.
Si gettano fra i dardi, ma non rompono le file.
9Piombano sulla città, si precipitano sulle mura,
salgono sulle case, entrano dalle finestre come ladri.
10Davanti a loro la terra trema,
il cielo si scuote,
il sole, la luna si oscurano
e le stelle cessano di brillare.
11Il Signore fa udire il tuono dinanzi alla sua schiera,
perché molto grande è il suo esercito,
perché potente è l'esecutore della sua parola,
perché grande è il giorno del Signore
e molto terribile: chi potrà sostenerlo?
12"Or dunque - parola del Signore -
ritornate a me con tutto il cuore,
con digiuni, con pianti e lamenti".
13Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore vostro Dio,
perché egli è misericordioso e benigno,
tardo all'ira e ricco di benevolenza
e si impietosisce riguardo alla sventura.
14Chi sa che non cambi e si plachi
e lasci dietro a sé una benedizione?
Offerta e libazione per il Signore vostro Dio.
15Suonate la tromba in Sion,
proclamate un digiuno,
convocate un'adunanza solenne.
16Radunate il popolo, indite un'assemblea,
chiamate i vecchi,
riunite i fanciulli, i bambini lattanti;
esca lo sposo dalla sua camera
e la sposa dal suo talamo.
17Tra il vestibolo e l'altare piangano
i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano:
"Perdona, Signore, al tuo popolo
e non esporre la tua eredità al vituperio
e alla derisione delle genti".
Perché si dovrebbe dire fra i popoli:
"Dov'è il loro Dio?".
18Il Signore si mostri geloso per la sua terra
e si muova a compassione del suo popolo.
19Il Signore ha risposto al suo popolo:
"Ecco, io vi mando il grano, il vino nuovo e l'olio
e ne avrete a sazietà;
non farò più di voi il ludibrio delle genti.
20Allontanerò da voi quello che viene dal settentrione
e lo spingerò verso una terra arida e desolata:
spingerò la sua avanguardia verso il mare d'oriente
e la sua retroguardia verso il mare occidentale.
Esalerà il suo lezzo, salirà il suo fetore,
perché ha fatto molto male.
21Non temere, terra,
ma rallegrati e gioisci,
poiché cose grandi ha fatto il Signore.
22Non temete, animali della campagna,
perché i pascoli del deserto hanno germogliato,
perché gli alberi producono i frutti,
la vite e il fico danno il loro vigore.
23Voi, figli di Sion, rallegratevi,
gioite nel Signore vostro Dio,
perché vi da' la pioggia in giusta misura,
per voi fa scendere l'acqua,
la pioggia d'autunno e di primavera, come in passato.
24Le aie si riempiranno di grano
e i tini traboccheranno di mosto e d'olio.
25"Vi compenserò delle annate
che hanno divorate la locusta e il bruco,
il grillo e le cavallette,
quel grande esercito
che ho mandato contro di voi.
26Mangerete in abbondanza, a sazietà,
e loderete il nome del Signore vostro Dio,
che in mezzo a voi ha fatto meraviglie.
27Voi riconoscerete che io sono in mezzo ad Israele,
e che sono io il Signore vostro Dio,
e non ce ne sono altri:
mai più vergogna per il mio popolo.
Apocalisse 11
1Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: "Alzati e misura il santuario di Dio e l'altare e il numero di quelli che vi stanno adorando.2Ma l'atrio che è fuori del santuario, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani, i quali calpesteranno la città santa per quarantadue mesi.3Ma farò in modo che i miei due Testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni".4Questi sono i due olivi e le due lampade che stanno davanti al Signore della terra.5Se qualcuno pensasse di far loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di far loro del male.6Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiar l'acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli tutte le volte che lo vorranno.7E quando poi avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall'Abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà.8I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sòdoma ed Egitto, dove appunto il loro Signore fu crocifisso.9Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedranno i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permetteranno che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro.10Gli abitanti della terra faranno festa su di loro, si rallegreranno e si scambieranno doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra.
11Ma dopo tre giorni e mezzo, un soffio di vita procedente da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli.12Allora udirono un grido possente dal cielo: "Salite quassù" e salirono al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici.13In quello stesso momento ci fu un grande terremoto che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti presi da terrore davano gloria al Dio del cielo.
14Così passò il secondo "guai"; ed ecco viene subito il terzo "guai".
15Il settimo angelo suonò la tromba e nel cielo echeggiarono voci potenti che dicevano:
"Il regno del mondo
appartiene al Signore nostro e al suo Cristo:
egli regnerà nei secoli dei secoli".
16Allora i ventiquattro vegliardi seduti sui loro troni al cospetto di Dio, si prostrarono faccia a terra e adorarono Dio dicendo:
17"Noi ti rendiamo grazie,
Signore Dio onnipotente,
che sei e che eri,
perché hai messo mano alla tua grande potenza,
e hai instaurato il tuo regno.
18Le genti ne fremettero,
ma è giunta l'ora della tua ira,
il tempo di giudicare i morti,
di dare la ricompensa ai tuoi servi,
ai profeti e ai santi e a quanti temono il tuo nome,
piccoli e grandi,
e di annientare coloro
che distruggono la terra".
19Allora si aprì il santuario di Dio nel cielo e apparve nel santuario l'arca dell'alleanza. Ne seguirono folgori, voci, scoppi di tuono, terremoto e una tempesta di grandine.
Capitolo XVII: La vita nei monasteri
Leggilo nella Biblioteca1. Se vuoi mantenere pace e concordia con gli altri, devi imparare a vincere decisamente te stesso in molte cose. Non è cosa facile stare in un monastero o in un gruppo, e viverci senza lamento alcuno, mantenendosi fedele sino alla morte. Beato colui che vi avrà vissuto santamente e vi avrà felicemente compiuta la vita. Se vuoi stare saldo al tuo dovere e avanzare nel bene, devi considerarti esule pellegrino su questa terra. Per condurre una vita di pietà, devi farti stolto per amore di Cristo.
2. Poco contano l'abito e la tonsura; sono la trasformazione della vita e la completa mortificazione delle passioni, che fanno il monaco. Chi tende ad altro che non sia soltanto Dio e la salute dell'anima, non troverà che tribolazione e dolore. Ancora, non avrà pace duratura chi non si sforza di essere il più piccolo, sottoposto a tutti. Qui tu sei venuto per servire, non comandare. Ricordati che sei stato chiamato a sopportare e a faticare, non a passare il tempo in ozio e in chiacchiere. Qui si provano gli uomini, come si prova l'oro nel fuoco (cfr. Sir 27,6). Qui nessuno potrà durevolmente stare, se non si sarà fatto umile dal profondo del cuore, per amore di Dio.
La dottrina cristiana - Libro quarto
La Dottrina Cristiana - Sant'Agostino d'Ippona
Leggilo nella BibliotecaTema del quarto libro.
1. 1. Secondo una divisione fatta al principio avevo diviso in due parti il presente libro, che si intitola La Dottrina Cristiana. Difatti, al termine del proemio, dove rispondevo a coloro che avrebbero criticato l'opera, dicevo: Due sono le cose su cui si basa ogni trattato sulle Scritture: il modo di trovare le cose che occorre comprendere e il modo di esporre le cose comprese; parleremo quindi prima del modo di trovare e poi del modo di esporre 1. Orbene, siccome abbiamo parlato diffusamente sul modo di trovare e su questa prima sezione abbiamo riempito tre volumi, ora, con l'aiuto del Signore, saremo brevi nel presentare il modo di esporre. Vorremmo, se possibile, esaurire tutto in un unico libro, di modo che l'opera completa non vada oltre i quattro volumi.
Non è un trattato di retorica profana.
1. 2. All'inizio [del presente libro] mi piace collocare un preambolo per respingere le attese di quei lettori che per caso credessero che io mi metta a impartire i precetti di retorica che appresi e insegnai nelle scuole civili. Li ammonisco a non aspettarsi da me cose del genere. Non perché non siano utili ma perché, se hanno dell'utilità, le imparino con uno studio a parte - se c'è qualche persona dabbene che abbia agio di imparare anche queste cose -, comunque non le stiano a chiedere a me, né in quest'opera né in qualsiasi altra.
Il dottore cristiano deve possedere l'arte retorica.
2. 3. È un fatto che con la retorica si può persuadere tanto il vero quanto il falso. E allora chi oserebbe dire che la verità debba trovarsi inerme in chi la difende contro la menzogna? Voglio dire: perché mai coloro che cercano di persuadere delle falsità dovrebbero, con [forbiti] preamboli, rendersi l'uditore o benevolo o attento o docile e quegli altri non dovrebbero saperlo fare? Perché gli uni dovrebbero riuscire a narrare le falsità in forma succinta, chiara e verosimile, mentre coloro che narrano la verità dovrebbero farlo in modo che l'uditore si annoi, l'argomento proposto resti incomprensibile e, finalmente, sia disgustoso il credere? Perché quelli dovrebbero impugnare la verità con argomenti sballati e difendere la falsità, mentre questi non dovrebbero riuscire né a difendere la verità né a confutare la falsità? Perché quelli con il loro dire dovrebbero riuscire a spaventare, rattristare, rallegrare, infiammare l'animo degli uditori muovendoli e sospingendoli verso l'errore, mentre questi altri, tardi e freddi nei confronti della verità, dovrebbero essere come addormentati? Chi potrebbe essere così balordo da pensare così? In effetti l'argomento che dobbiamo affrontare è quello dell'eloquenza, che ha moltissimo influsso per persuadere tanto le cose buone quanto quelle cattive. Perché dunque non se la procurano con zelo i buoni per combattere in favore della verità, se se ne servono i cattivi per patrocinare cause disoneste e vane a servizio dell'iniquità e dell'errore?
Età e metodo adatti allo studio della retorica.
3. 4. In questa materia ci sono indicazioni e precetti, ai quali se si aggiunge insieme con l'abbondanza e la ricercatezza delle parole una padronanza particolare della lingua stilisticamente perfetta si ottiene quella che si chiama facondia o eloquenza. Coloro che vogliono impararla rapidamente lo debbono fare in età adatta e conveniente, dedicando a ciò un periodo adeguato di tempo ma senza pretenderlo da questo nostro scritto. Al riguardo i sommi maestri dell'eloquenza romana non rifuggirono dal dire che quest'arte, se non la si impara presto, non la si potrà mai imparare a perfezione 2. La qual cosa, se sia vera, che bisogno c'è di domandarselo? In realtà, per quanto la potrebbero imparare, sia pure con una certa difficoltà, anche gli ingegni un po' tardi, noi non la riteniamo di tale importanza da volere che vi si dedichino anche uomini d'età matura e avanzati negli anni. È sufficiente che vi si dedichino i giovani e, fra questi, nemmeno tutti coloro che desideriamo vengano istruiti per l'utilità della Chiesa, ma coloro che non si occupano di cose più urgenti o non sono gravati da necessità da preferirsi a questa in modo evidente. In effetti, se si ha un ingegno acuto e brillante, è più facile impadronirsi dell'eloquenza leggendo o ascoltando persone eloquenti che non mettendosi alla ricerca di norme d'eloquenza. Non mancano opere di letteratura ecclesiastica - anche al di fuori del canone che salutarmente viene collocato all'apice dell'autorità - leggendo le quali un uomo fornito d'ingegno, sebbene non le sappia comporre ma badi soltanto alle cose che vi si dicono, mentre maneggia tali opere, non può non rimanere istruito anche nei riguardi dello stile con cui esse vengono dette. Ciò otterrà più agevolmente se soprattutto vi aggiungerà l'abitudine o di scrivere o di dettare o, finalmente, anche di esporre le cose che sa essere secondo la norma della religione e della fede. Che se manca un tale acume della mente, né si capiranno le norme della retorica né, se le si riesce ad imparare un pochino qualora vengano inculcate con grande sforzo, recano alcun giovamento. È vero infatti anche di coloro che le hanno imparate e riescono a parlare con facondia ed eloquenza, che non tutti, quando parlano, possono pensare alle norme secondo cui parlano, a meno che non trattino proprio di quelle. Tutt'altro! Io ritengo che ce ne sia sì e no qualcuno fra loro, il quale riesca a mettere insieme le due cose, cioè dir bene e pensare, mentre parla, a quelle norme del dire per cui riesce a parlare bene. Bisogna evitare infatti che, mentre si bada a parlare con arte, ci si dimentichi di ciò che si ha da dire. Purtuttavia nei discorsi e nei racconti delle persone eloquenti si trovano applicate le norme di eloquenza, alle quali essi, per parlare o mentre parlavano, non badavano, sia che l'avessero imparate sia che non l'avessero neppure sentite dire. Le mettevano in pratica perché erano eloquenti, non le usavano per diventare eloquenti.
I bambini imparano ascoltando gli adulti.
3. 5. Effettivamente, se è vero che i bambini diventano capaci di parlare imparando le frasi da chi parla, perché non si dovrebbe diventare eloquenti senza che ci venga insegnata in alcun modo la retorica ma leggendo o ascoltando le espressioni delle persone eloquenti e, per quanto si può, imitandole? E che dire se con esempi esperimentiamo che ciò è possibile? Conosciamo infatti moltissime persone che senza studiare le norme della retorica sono diventate più eloquenti di moltissimi altri che le avevano apprese. Non conosciamo però nessuno che sia divenuto eloquente senza avere letto o ascoltato dispute o discorsi di persone eloquenti. È così anche della stessa grammatica con la quale s'impara la precisione del dire. Nemmeno di essa avrebbero bisogno i fanciulli se fosse loro concesso di vivere e crescere in mezzo a uomini che parlassero correttamente. Non conoscendo infatti alcuna espressione sgrammaticata, se ascoltassero sulla bocca di qualcuno espressioni errate, in forza della loro abitudine corretta le disapproverebbero e se ne terrebbero lontani. È quel che fanno gli abitanti di città, anche quelli che non conoscono le lettere, quando rimproverano i contadini.
Il linguaggio dell'oratore cristiano varia secondo le circostanze.
4. 6. Colui che espone ed insegna le divine Scritture, in quanto difensore della retta fede e avversario dell'errore, deve insegnare il bene e distogliere dal male. In questa sua opera oratoria deve conciliare gli animi in contrasto, sollevare gli sfiduciati, proporre agli indotti quel che debbano fare e quel che li attende. Che se invece trova o riesce lui stesso a crearsi degli animi benevoli, attenti e docili, deve fare tutte quelle altre cose che le circostanze richiedono. Se gli uditori debbono essere istruiti, lo si deve fare mediante la narrazione - se pur ce n'è bisogno - perché la cosa di cui si tratta diventi palese. Per rendere certe le cose dubbie, occorre far uso del raziocinio adducendo delle prove. Se poi l'uditore, più che essere istruito, ha bisogno di essere stimolato affinché non rimanga inerte nel praticare quanto già conosce ma presti assenso alle cose che riconosce essere vere, bisogna ricorrere a una maggiore carica oratoria. Occorre usare suppliche e minacce, stimolazioni e riprensioni e tutte le altre svariate arti di muovere gli animi.
Lo stesso si dica di ogni oratore.
4. 7. Ma tutte queste cose che ho elencate non trascura di farle nessuno (o quasi) che voglia con l'eloquenza ottenere un qualche risultato.
L'oratore cristiano dev'essere sapiente prima che eloquente.
5. 7. Ci sono però alcuni che ciò fanno senza mordente, in maniera sgraziata e con freddezza, mentre altri con mordente, in maniera elegante e con vigore. Ebbene, all'opera di cui ci stiamo occupando deve accedere colui che è in grado di trattare o dire la cosa con sapienza, anche se non può farlo con eloquenza, di modo che rechi giovamento agli uditori, sebbene si tratti di un giovamento minore di quello che avrebbe conseguito se avesse saputo parlare anche con eloquenza. Chi poi abbonda di eloquenza fasulla, lo si deve evitare con tanto maggiore cura quanto più l'uditore prova gusto nell'ascoltare da lui ciò che è inutile e, siccome sente che dice le cose con facondia, ritiene che parli anche conforme a verità. Questa norma non ignorarono nemmeno coloro che si accinsero ad insegnare la retorica, i quali riconobbero che, se la sapienza senza l'eloquenza giova poco alle comunità cittadine, l'eloquenza senza la sapienza il più delle volte nuoce moltissimo, certo non giova mai 3. Se a dire cose come queste furono costretti, mossi dalla forza della verità, coloro che impartirono leggi di eloquenza e composero libri in cui ne fecero l'esposizione pur senza conoscere la vera sapienza che è quella celeste, che procede dal Padre della luce, quanto più non dovremo avere gli stessi sentimenti noi che siamo figli e ministri di questa sapienza? In effetti l'uomo parla più sapientemente o meno sapientemente a seconda del progresso più o meno grande che ha fatto nella conoscenza delle sante Scritture. Non dico del fatto di averle molto lette o imparate a memoria ma dell'averle ben comprese e averne scrutato diligentemente il senso. Ci sono infatti coloro che le leggono ma poi le trascurano: le leggono per conoscerle, le trascurano non volendole comprendere. A costoro sono senza dubbio da preferirsi coloro che ritengono meno le parole lette e penetrano con gli occhi del loro cuore nel cuore delle Scritture. A tutti e due poi è preferibile colui che quando vuole ne sa anche parlare e le intende come si deve.
Non a scuola ma dai libri degli oratori si apprende l'oratoria.
5. 8. Ritenere le parole della Scrittura è dunque cosa sommamente necessaria a colui che deve parlarne con sapienza, anche se non può farlo con eloquenza. Quanto più infatti si sente sprovvisto di parole proprie, tanto più deve essere ricco di sentenze bibliche, per cui ciò che dice a parole proprie lo comprovi con quelle, e chi è limitato nel possesso di parole proprie cresca - per così dire - con la testimonianza di chi è grande. Colui infatti che usando parole proprie piacerebbe poco piacerà per le argomentazioni [scritturali] che arreca. Inoltre, chi vuol parlare non solo con sapienza ma anche con eloquenza, essendo certamente più utile se saprà fare le due cose insieme, lo invierei a leggere, ascoltare e imitare nella pratica gli uomini eloquenti, più volentieri che non a seguire i maestri dell'arte retorica. Occorre però che quegli oratori che si leggono o ascoltano abbiano il riconoscimento, da chi li elogia con verità, di avere parlato o di parlare non solo eloquentemente ma anche conforme a verità, poiché quelli che parlano con eloquenza li si ascolta con gusto, quelli che parlano con sapienza li si ascolta in modo salutare. Per questo non dice la Scrittura: La moltitudine degli abili parlatori ma: La moltitudine dei sapienti è salvezza della terra 4. Ebbene, come spesso sono da trangugiarsi, perché fanno bene, cose amare, così occorre sempre evitare la dolcezza che risulti nociva. Ma cosa c'è di meglio di una dolcezza salutare o di una salute soave? Sicché quanto più in quelle pagine si desidera la dolcezza, tanto più facilmente giova il rimedio salutare. Così ci sono degli uomini di Chiesa che hanno trattato le Sacre Scritture non solo con sapienza ma anche con eloquenza. A leggerli [tutti] manca sì il tempo, ma ciò non vuol dire che essi non siano in grado di giovare a chi li studia e dedica loro del tempo.
L'eloquenza dei libri sacri è, nella sua peculiarità, eccellente.
6. 9. A questo punto qualcuno chiederà forse se i nostri autori - coloro dico i cui scritti ispirati divinamente hanno formato il nostro canone con la sua autorità oltremodo salutare - debbono essere chiamati soltanto sapienti o anche eloquenti. È questo un problema che da me e da coloro che sull'argomento la pensano come me, si risolve molto facilmente. In realtà, là dove li capisco, nulla potrà sembrarmi più sapiente, nulla più eloquente. E oso dire che tutti coloro che comprendono a dovere ciò che tali autori dicono, nello stesso tempo comprendono che essi non avrebbero dovuto parlare diversamente. Come infatti c'è una eloquenza che si adatta di più all'età giovanile e un'altra che si adatta meglio all'età senile, e non si può chiamare eloquenza quella che non si adatta alla personalità di colui che parla, così c'è una eloquenza che conviene a quegli uomini degni della massima autorità e completamente divinizzati. In base a tale eloquenza essi hanno parlato, né ce ne sarebbe un'altra a loro confacente né quella si adatterebbe ad altri. Si confà, effettivamente, a loro [e a loro soli]; quanto invece agli altri, più il loro dire sembra ad essi spregevole più li supera in altezza, non per la ventosità ma per la solidità. In quei passi poi dove non li comprendo mi apparirà certo in misura minore la loro eloquenza, tuttavia non dubiterò che essa sia tale quale la riscontro nei passi che comprendo. A tale eloquenza infatti si doveva mescolare anche una certa dose di oscurità, in detti divini e salutari come quelli, per cui il nostro intelletto avrebbe dovuto trarre profitto non solo mediante la [semplice] scoperta ma anche mediante la ricerca.
L'eloquenza degli autori sacri sgorga dalla sapienza.
6. 10. Se avessi tempo, potrei mostrare come nei Libri sacri composti dai nostri autori ci sono tutte le risorse e gli ornamenti dell'eloquenza di cui si vantano coloro che antepongono il proprio linguaggio al linguaggio dei suddetti nostri autori, basandosi non sulla elevatezza ma sulla vacuità. Sono infatti, i nostri, libri che la divina Provvidenza ci ha forniti per istruirci e trasferirci da questo mondo perverso al regno della beatitudine. Ora, se nell'eloquenza dei Libri sacri provo un godimento inesprimibile, non è per le cose che quegli uomini hanno in comune con gli oratori o i poeti del paganesimo; mi riempie piuttosto di ammirazione e di stupore il fatto che essi si sono serviti della nostra eloquenza assoggettandola, per così dire, ad un'altra eloquenza loro propria in modo che loro non facesse difetto né eccedesse i limiti. Una tale eloquenza infatti essi non dovevano né ripudiarla né con essa pavoneggiarsi; e l'una cosa avrebbero fatto se l'avessero [del tutto] evitata, mentre l'altra si sarebbe potuta supporre se fosse stato facile scoprirla. Non mancano certo persone dotte capaci di penetrare i passi oscuri: esse vi trovano dette cose tali che le parole con cui le si dicono non sembrano scelte dall'autore che parla ma somministrate quasi spontaneamente dalle cose stesse. Potresti quasi immaginare che la sapienza sgorghi dalla sua casa, cioè dal cuore del sapiente; e a lei tien dietro, anche se non chiamata, l'eloquenza, a modo di un'ancella inseparabile [dalla sua padrona].
Rm 5, 3-5, bell'esempio di arte retorica.
7. 11. Chi infatti non vede cosa voleva dire e con quanta sapienza si sia espresso l'Apostolo quando dice: Noi ci gloriamo nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza la virtù provata, la virtù provata la speranza, la speranza poi non rimane confusa, poiché l'amore di Dio è stato diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato 5? Se in questo caso un tizio, ignorantemente dotto, si mettesse a sostenere che l'Apostolo ha seguito le norme dell'eloquenza come arte [profana], non si esporrebbe alle irrisioni di tutti i cristiani, dotti e non dotti? Eppure qui si riscontra quella figura che in greco si chiama mentre in latino da diversi la si dice " gradazione ", poiché non la si è voluta chiamare semplicemente " scala " in quanto le parole e il loro significato si trovano connessi e derivanti l'uno dall'altro. Nel nostro caso troviamo in connessione la pazienza con la tribolazione, la virtù provata con la pazienza, la speranza con la virtù provata. Vi si riconosce anche un altro pregio. Terminate alcune parti della frase con l'interruzione della pronuncia, cose che i nostri chiamano membri e cesure mentre i greci e , segue uno sviluppo o giro [di parole] che i greci chiamano , i cui membri restano sospesi mediante la pronuncia di chi parla, finché in ultimo non si arrivi alla chiusa. In concreto, fra ciò che precede il " periodo " il primo membro è: infatti la tribolazione produce la pazienza; il secondo: la pazienza poi la virtù provata; il terzo: la virtù provata la speranza. Poi si presenta in se stesso il " periodo ", che si svolge in tre membri, di cui il primo è: La speranza non rimane confusa; il secondo: perché l'amore di Dio è stato diffuso nei nostri cuori; il terzo: per opera dello Spirito Santo che ci è stato dato. Queste cose e altre simili vengono insegnate nell'arte oratoria. Quanto però all'Apostolo, come non diciamo che egli si sottopose alle norme dell'eloquenza così non neghiamo che l'eloquenza fu al seguito della sua sapienza.
Altro magnifico esempio in 2 Cor 11, 16-30.
7. 12. Scrivendo ai Corinzi, nella seconda lettera rimprovera certi pseudoapostoli, provenienti dal giudaismo, che lo calunniavano. Costretto a lodare se stesso, attribuisce a sé questa che egli chiama insipienza; ma con quanta sapienza, con quanta eloquenza parla! Familiare della sapienza e guida esperta dell'eloquenza, al seguito di quella e precedendo questa, senza respingerne la sequela, egli dice: Ve lo dico di nuovo, perché nessuno mi ritenga un insipiente, altrimenti prendetemi pure per un insipiente, ma permettete che mi glori un poco. Quello che dico, non lo dico secondo Dio ma come in uno stato di follia, in relazione al gloriarmi. Dal momento che molti si gloriano secondo la carne, mi glorierò anch'io. Voi infatti volentieri sopportate gli insipienti, voi che invece siete sapienti: sopportate se qualcuno vi riduce in schiavitù, se vi divora o vi deruba, se si esalta o vi schiaffeggia. Lo dico a titolo di mancata nobiltà quasi che noi fossimo stati deboli. Ma là dove ciascuno osa gloriarsi (lo dico da stolto), lo oso anch'io. Sono Ebrei? Anch'io. Sono Israeliti? Anch'io. Sono stirpe di Abramo? Anch'io. Sono ministri di Cristo? Lo dico da insipiente, io di più. Moltissimo nelle fatiche, più copiosamente nelle carceri, nelle ferite oltre ogni dire, nella morte molto frequentemente. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto i quaranta [colpi] meno uno. Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio e sono stato un giorno e una notte in fondo al mare. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a queste cose che sono esterne, il mio assillo quotidiano [è] la sollecitudine per tutte le Chiese. Chi è debole senza che io divenga debole [con lui]? Chi viene scandalizzato senza che io ne arda? Se occorre gloriarsi, mi glorierò di quel che concerne la mia debolezza 6. Con quanta sapienza siano dette queste cose lo vede chiunque abbia la mente desta. In qual fiume di eloquenza siano poi incanalate, se ne accorge anche chi è in preda al sonno.
Analisi e note a 2 Cor 11, 16-30.
7. 13. Se poi si tratta di un esperto, vi riconosce e le cesure, che i greci chiamano e i membri e i periodi di cui ho parlato poc'anzi. Interposti con opportunissima varietà, ne hanno fatto un discorso di grande bellezza e gli hanno dato come un volto, di cui godono e si emozionano anche i meno preparati. In effetti, esaminando il brano da dove abbiamo iniziato a citarlo, vi troviamo dei periodi, dei quali il primo è il più ridotto, cioè di due membri. Non si danno infatti periodi formati da meno di due membri, mentre se ne possono dare di più membri. Quel primo periodo è dunque questo: Lo dico di nuovo, perché nessuno mi ritenga un insipiente. Ne segue uno di tre membri: Altrimenti, prendetemi pure per un insipiente, ma permettete che mi glori un poco. Quello che viene per terzo ha quattro membri: Quello che dico, non lo dico secondo Dio, ma come in uno stato di follia, in relazione a questa materia del gloriarmi. Il quarto ne ha due: Dal momento che molti si gloriano secondo la carne, mi glorierò anch'io. Anche il quinto ne ha due: Volentieri sopportate gli insipienti voi che invece siete sapienti. Anche il sesto è di due membri: Sopportate infatti se qualcuno vi riduce in schiavitù. Seguono tre cesure: Se vi divora, se vi deruba, se si esalta. Vengono poi tre membri: Se qualcuno vi schiaffeggia, lo dico a titolo di mancata nobiltà, quasi che noi fossimo stati deboli. Si aggiunge un periodo composto di tre membri: Là dove ciascuno osa gloriarsi - lo dico da stolto - lo oso anch'io. Dopo questo, poste delle cesure a modo di interrogazione, si replica a ciascuna con altrettante cesure di risposta, tre cioè contro tre. Sono Ebrei? Anch'io. Sono Israeliti? Anch'io. Sono progenie di Abramo? Anch'io. Si prosegue con una quarta cesura posta a modo di interrogazione come prima, ma si risponde opponendo non un'altra cesura ma un membro. Sono ministri di Cristo? Lo dico da insipiente: Io di più. Quanto alle quattro cesure che seguono, messa da parte con elegantissima scelta ogni interrogazione, le si articolano così: Moltissimo nelle fatiche, più copiosamente nelle carceri, nelle ferite oltre ogni dire, nella morte molto frequentemente. In seguito si frappone un breve periodo che deve essere distinto con la sospensione della pronuncia: Dai Giudei cinque volte (di modo che questo sia un membro cui si collega l'altro) ho ricevuto i quaranta [colpi] meno uno. Poi si ritorna alle cesure e se ne pongono tre: Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio. Segue un membro: Sono stato un giorno e una notte in fondo al mare. Successivamente fluiscono con ordinatissima foga oratoria quattordici cesure: Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. Dopo queste interpone un periodo di tre membri: Oltre a queste cose che sono esteriori, il mio assillo quotidiano [è] la sollecitudine per tutte le Chiese. E a questo soggiunge due membri in tono interrogativo: Chi è debole, senza che io diventi debole [con lui]? Chi viene scandalizzato senza che io ne arda? Alla fine tutto questo brano, fatto - diciamo - come di aneliti, termina con un periodo a due membri: Se occorre gloriarsi, mi glorierò di quel che concerne la mia debolezza. Quanto poi abbia di bellezza e di giocondità il fatto che, dopo questa descrizione impetuosa, si riposi in certo qual modo interponendo una breve narrazione, e così faccia anche respirare colui che ascolta, non lo si può spiegare sufficientemente. Continua infatti dicendo: Il Dio e il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco 7. Poi narra brevissimamente i pericoli a cui fu soggetto e come ne sia stato liberato.
Gli autori sacri scrivono evitando l'ostentazione.
7. 14. A voler continuare con il rimanente si andrebbe per le lunghe e così pure se si volessero dimostrare gli stessi pregi letterari ricorrendo ad altri passi delle Sacre Scritture. E che dire se volessi mostrare, per lo meno nel testo dell'Apostolo che ho ricordato, le figure di linguaggio che si insegnano nella retorica? Non sarebbe più facile che gli uomini seri mi prendano per troppo prolisso piuttosto che qualcuno dei dotti mi ritenga bastevole alle sue esigenze? Tutte queste norme, quando vengono insegnate dai maestri, le si considerano cose grosse, le si comprano a gran prezzo e le si vendono con grande sfoggio. Un tale sfoggio ho l'impressione di voler fare anch'io mentre parlo di queste cose. Ma occorreva rispondere agli uomini male istruiti che si credono autorizzati a disprezzare i nostri autori non perché non abbiano ma perché non ostentano quella eloquenza che loro amano eccessivamente.
Paolo non è il solo autore sacro che scriva con eloquenza.
7. 15. Probabilmente qualcuno penserà che io, per mostrare un uomo eloquente fra i nostri, ho scelto di proposito l'apostolo Paolo. Difatti, là dove egli dice: Sebbene inesperto nel parlare, non lo sono nella scienza 8, sembra che parli per fare una concessione ai suoi detrattori, non che egli riconosca la cosa per vera. Se invece avesse detto: Inesperto, è vero, nel parlare, non però nella scienza, non lo si sarebbe in alcun modo potuto intendere diversamente. In realtà non esitò a mettere in rilievo la propria scienza, senza la quale non sarebbe potuto essere il Dottore delle Genti. Certo, se come esempio di eloquenza prendiamo qualche sua pagina, la prendiamo da quelle lettere che anche i suoi critici - che ritenevano spregevole il suo parlare - confessavano però che gli scritti erano notevoli per gravità e robustezza 9. Mi accorgo quindi, a questo punto, di dover dire qualcosa anche dell'eloquenza dei Profeti, presso i quali per il loro linguaggio figurato molte cose si trovano celate: cose che, quanto più sembrano nascoste da parole traslate, tanto più diventano dolci quando le si penetra. In questo libro però debbo ricordare solo quei passi che non mi costringano a spiegare quanto vi è detto ma solo a sottolineare il modo come le cose sono state dette. Lo farò ricorrendo prevalentemente al libro di quel Profeta che parlando di se stesso dice di essere stato pastore e mandriano e da tale professione essere stato divinamente prelevato e inviato a fare da profeta al popolo di Dio 10. Non esaminerò il testo secondo i Settanta, i quali, essendo stati essi stessi aiutati nel tradurre dal divino Spirito, sembra che abbiano detto qualcosa per elevare l'attenzione del lettore a scrutare un senso più spirituale, per cui sono da attribuire a loro alcuni passi troppo oscuri per essere espressi con figure troppo azzardate. Esaminerò il testo come è stato tradotto in latino dall'ebraico ad opera del sacerdote Girolamo, che ha fatto la sua traduzione da esperto nelle due lingue.
Eloquenza in Amos 6, 1-6.
7. 16. Rimproverando dunque certe persone empie, superbe, lussuriose e per conseguenza incuranti dell'amore fraterno, questo profeta campagnolo o nato da campagnoli, gridava dicendo: Guai a voi, ricchi di Sion, che confidate nel monte di Samaria, ottimati e capi dei popoli che incedete con pompa nella casa di Israele! Passate da Calane e guardate, e da lì andate ad Hamat, la grande, e scendete a Gat dei Palestinesi e a tutti i più bei loro regni; [e vedete] se il loro territorio è più grande del vostro. Voi siete stati separati per il giorno della sventura e vi avvicinate al regno dell'iniquità. Voi dormite in letti d'avorio, e vivete da lascivi sui vostri divani; voi mangiate l'agnello preso dal gregge e i vitelli presi dall'armento; e cantate al suono del salterio. Come Davide, credettero di avere strumenti per il canto, mentre bevevano il vino in coppe e si ungevano di ottimo unguento, e per nulla soffrivano dello sfacelo di Giuseppe 11. Forse che quei tali che, ritenendosi dotti ed eloquenti, disprezzano i nostri Profeti come privi d'erudizione e d'eloquenza, se avessero dovuto dire qualcosa di simile al popolo o a persone di tal fatta, l'avrebbero voluto dire diversamente, a meno che non si tratti di quelli fra loro che preferiscono agire da pazzi!
Riflessioni su Amos 6, 1-2.
7. 17. Le orecchie di persone assennate cosa avrebbero desiderato di meglio d'un simile discorso? Dapprima c'è l'invettiva: e di quale fremito non è essa permeata, quasi dovesse destare dei sensi addormentati? Guai a voi, ricchi di Sion, che confidate nel monte di Samaria, ottimati e capi dei popoli che incedete con pompa nella casa di Israele! 12 Successivamente dimostra che sono ingrati ai benefici di Dio, che aveva dato loro un vasto regno, in quanto confidavano nel monte di Samaria, dove effettivamente venivano adorati gli idoli. Per questo dice: Passate da Calne e guardate, e da lì andate ad Hamat la grande, e scendete a Gat dei Palestinesi e a tutti i più bei loro regni; [e vedete] se il loro territorio è più vasto del vostro 13. Mentre vengon dette queste cose, il discorso si adorna, come di fari, di nomi di località, e cioè: Sion, Samaria, Calne, Hamat la grande, Gat dei Palestinesi. In seguito si variano in modo veramente incantevole le parole aggiunte a queste località: Siete ricchi, confidate; passate, andate, scendete 14.
Riflessioni su Amos 6, 3-4.
7. 18. Dopo questo si preannunzia la prigionia che sarebbe sopraggiunta al tempo di un re iniquo, e si aggiunge: Voi siete stati separati per il giorno della sventura e vi avvicinate al regno dell'iniquità. Vengono quindi aggiunte le azioni riguardanti la lussuria: Voi dormite su letti di avorio e vivete da lascivi sui vostri divani; voi mangiate gli agnelli presi dal gregge e i vitelli presi dall'armento 15. Questi sei membri costituiscono tre periodi, ciascuno di due membri. Non dice infatti: " Voi siete stati separati per il giorno della sventura, vi avvicinate al regno dell'iniquità, dormite in letti d'avorio, vivete da lascivi sui vostri divani, mangiate gli agnelli presi dal gregge e i vitelli presi dall'armento ". Se si fosse espresso così, anche questa forma sarebbe stata bella: tutti e sei i membri sarebbero dipesi da un unico pronome e ciascuno sarebbe stato delimitato nel suo ambito dalla voce del lettore. Il Profeta ha fatto qualcosa di più bello: al medesimo pronome si agganciano a due a due le frasi che spiegano le tre affermazioni. Una riguarda la predizione della prigionia: Voi siete stati separati per il giorno della sventura e vi avvicinate al regno dell'iniquità; un'altra si riferisce alla lussuria: Voi dormite su letti di avorio e vivete da lascivi sui vostri divani; la terza poi si riferisce alla voracità: Voi mangiate gli agnelli del gregge e i vitelli dell'armento 16. In tal modo si lascia alla libertà del lettore il terminare i membri isolatamente e farne sei ovvero sospendere la voce al primo, al terzo e al quinto, aggiungendo il secondo al primo, il quarto al terzo e il sesto al quinto, facendo in tal modo - e in maniera molto elegante - tre periodi, ciascuno di due membri. Nel primo mostrerebbe la sciagura imminente, nel secondo il letto maculato da lussuria, nel terzo la mensa stracarica di cibi.
Riflessioni su Amos 6, 5-6.
7. 19. Successivamente attacca la voluttà godereccia dell'udito. Dice: Voi cantate al suono del salterio 17. Ma siccome la musica può essere eseguita anche sapientemente e dal sapiente, con stupenda bellezza di eloquio, egli frena l'impeto dell'invettiva e non si rivolge più a loro ma parla di loro per insegnare a noi a distinguere la musica del sapiente dalla musica del gaudente. Non dice pertanto: " Voi che cantate al suono del salterio e come Davide e credete di avere strumenti per il canto ", ma, dopo di avere detto loro ciò che, in quanto sensuali, dovevano udire: Voi che cantate al suono del salterio, indica in qualche modo anche agli altri la loro imperizia e prosegue: Come Davide e credettero di avere strumenti per il canto, mentre bevevano il vino in coppe e si ungevano di pregiatissimo unguento 18. Queste tre frasi si pronunciano meglio se, con una sospensione tra i primi due membri del periodo si fanno finire col terzo.
Riflessioni su Amos 6, 6.
7. 20. A tutte queste espressioni si aggiunge: E per nulla soffrivano dello sfacelo di Giuseppe 19. Che la si pronunci di seguito, di modo che costituisca un solo membro o che, meglio, la si interrompa così: E per nulla soffrivano e dopo la separazione si incalzi: dello sfacelo di Giuseppe, in modo da ottenere un periodo di due membri, il fatto sta che con splendida bellezza non ha detto: " Non soffrivano per nulla per lo sfacelo del fratello " ma, invece di fratello, ha posto Giuseppe. In tal modo ognuno dei fratelli poteva essere indicato dal nome proprio di colui la cui celebrità fu superiore a quella degli altri fratelli, tanto per i mali che subì come per i benefici con cui li ricompensò. Orbene, questo tropo, che fa intendere in Giuseppe qualsiasi altro dei fratelli, non so se lo si insegni in quell'arte di cui sono stato prima discepolo e poi professore. Comunque non occorre che si dica ad alcuno che non se ne avveda da sé personalmente quanto esso sia bello e come faccia impressione in chi lo legge e comprende.
La sapienza e l'eloquenza degli agiografi derivano da Dio.
7. 21. In realtà molte leggi dell'eloquenza si possono riscontrare in questo unico passo che abbiamo preso come esempio; ma il buon uditore non lo si istruisce col sottoporre il brano ad accurate discussioni, quanto piuttosto lo si entusiasma pronunciandolo con ardente foga. Brani come questo infatti non sono stati composti dall'abilità umana ma sono stati dettati dalla mente di Dio, pieni di sapienza e di eloquenza: non con la sapienza subordinata all'eloquenza, ma con l'eloquenza che non si separa dalla sapienza. Difatti - e l'hanno potuto notare e dire alcuni uomini eloquentissimi e di grande ingegno 20 - le cose che si apprendono nell'arte oratoria non sarebbero osservate e notate e redatte in corpo di dottrina se prima non si trovassero negli ingegni degli oratori. Cosa c'è, quindi, di strano se le si trova anche nei nostri scrittori, mandati da colui che creò le menti? Pertanto, riconosciamo che i nostri autori e maestri canonici sono non solo sapienti ma anche eloquenti, di quella eloquenza che conveniva a tale categoria di persone.
È dono di Dio essere buon interprete della Scrittura.
8. 22. Quanto a noi, siamo soliti prendere degli esempi di eloquenza da quei loro scritti che si comprendono senza difficoltà. Al contrario non riteniamo di doverli imitare in ciò che dissero in maniera oscura con intenti di utilità e di salvezza. Con ciò essi si proponevano di esercitare e, per così dire, limare le menti dei lettori, di escludere il tedio e aguzzare l'ingegno di coloro che volevano apprenderne [il senso], o anche di nasconderlo agli animi degli empi, sia che lo facessero per convertirli a un profondo senso di rispetto, sia che volessero escluderli dalla comprensione dei misteri. In effetti essi hanno parlato in modo che quanti fra i posteri li avessero capiti ed esposti rettamente fossero meritevoli di conseguire nella Chiesa di Dio una seconda grazia, certo diversa ma conseguente alla loro. Chi pertanto si accinge a spiegarli non deve parlare come se avesse la stessa autorità dei libri che espone; ma in tutti i suoi discorsi si sforzi prima di tutto e soprattutto di far capire i libri stessi. Ciò otterrà, per quanto è possibile, con la chiarezza dell'eloquio, per cui se un uditore non capisce, o dipende dall'essere egli molto tardo d'ingegno ovvero dalla difficoltà ed elevatezza delle cose che intendiamo spiegare e dilucidare, ma non deve esserne motivo il nostro modo di parlare, né deve per questo avvenire che quanto diciamo venga compreso imperfettamente o con ritardo.
Come affrontare le questioni difficili e a chi proporle.
9. 23. Succede a volte d'imbattersi in affermazioni che per la loro indole sono incomprensibili o le si comprendono a mala pena, per quanto sia grande e completo il modo di dire di chi parla e ampia la sua spiegazione. Ora queste cose o molto raramente e solo per necessità o mai assolutamente debbono farsi ascoltare dal popolo. Tutt'altro è dei libri. Essi si scrivono per conquistare il lettore che li comprende; che se invece non li si comprende, non sono di peso per chi non vuole leggerli. Lo stesso vale per i colloqui con certe persone: non si deve tralasciare il dovere di portare alla comprensione degli altri le verità che, sebbene difficilissime, noi abbiamo penetrato, qualunque sia lo sforzo richiesto dalla esposizione. Se un uditore o un interlocutore è preso dal desiderio di imparare e non è privo di intelletto che gli consenta di recepire le cose che gli sono proposte, colui che insegna non deve preoccuparsi dell'eloquenza con cui insegna ma dell'evidenza che vuol conseguire.
La scrupolosità linguistica ceda all'appropriata comprensione del senso.
10. 24. Il desiderio profondo di [ottenere] questa evidenza porta a volte a trascurare le parole più ricercate e non si prende cura di ciò che suona bene ma di ciò che esprime e manifesta quanto l'oratore ha intenzione di palesare. In ordine a ciò, disse un tale, parlando di questo genere di eloquenza, che c'è in essa una specie di negligenza diligente 21. Questa negligenza però, se esclude il parlare forbito, non lo fa in modo che cada nella banalità. Peraltro nei buoni maestri è, o deve essere, tanta cura che, se una parola non può essere latina senza essere nello stesso tempo oscura o ambigua - mentre se la cosa viene detta in termini popolari si evita e l'ambiguità e l'oscurità - non si deve parlare con il linguaggio dei dotti ma piuttosto come sogliono i meno istruiti. Così i nostri traduttori non ebbero ritegno di dire: Non congregabo conventicula eorum de sanguinibus 22 [= non radunerò le loro assemblee di sangue], perché ritennero necessario che in quel passo il nome " sangue " fosse usato al plurale, nonostante che in latino lo si usi solo al singolare. Perché un oratore sacro dovrebbe quindi aver paura di dire, parlando a degli incolti, ossum invece di os, per impedire che questa sillaba venga presa come derivante non da quel nominativo il cui plurale è ossa ma da quell'altro da cui deriva il plurale ora, dato che gli orecchi degli africani non sono in grado di percepire la brevità o la lunghezza delle sillabe? Cosa giova infatti una scrupolosità nel parlare che non sia seguita dalla comprensione di chi ascolta, (mentre l'unica ragione del parlare non è assolutamente altra che questa)? Se cioè coloro per i quali noi parliamo in effetti non capiscono il nostro dire? Chi insegna eviterà dunque tutte le parole che non insegnano nulla, e, se in loro vece potrà dirne delle altre corrette e intelligibili, sceglierà queste; se invece non potrà farlo, o perché non ci sono o perché sul momento non gli vengono in mente, si servirà di parole anche meno corrette, purché la cosa in sé sia insegnata e appresa con la necessaria esattezza.
Insistenza doverosa e verbosità nociva.
10. 25. Questa cosa, cioè il farsi capire, dobbiamo ad ogni costo proporcela non solo nei dialoghi tenuti o con una persona o con molte ma anche, e molto più, quando si tengono discorsi al popolo. In realtà, nei dialoghi ognuno può fare delle interrogazioni, mentre invece là, dove tutti tacciono perché sia udita la voce di uno a cui sono rivolti gli sguardi attenti dell'uditorio, lì non è uso né convenienza porre domande su ciò che non si è compreso. Per questo motivo la premura di chi parla deve con ogni sforzo andare incontro a chi è costretto a tacere. È vero che una folla smaniosa di conoscere suole con determinati gesti indicare se abbia capito, ma finché non lo ha indicato bisogna trattare in molti modi l'argomento che si spiega e sempre con molta varietà di esposizione, cosa impossibile a coloro che espongono cose imparate antecedentemente e mandate a memoria a paroletta. Quando poi ci si accorgerà che l'argomento è stato compreso, si deve o por fine al discorso o passare ad altro tema. Difatti, come è gradito colui che rende chiare le cose da conoscersi, così diviene pesante chi insiste su cose ormai note ripetendole all'ascoltatore le cui attese miravano esclusivamente a che venisse dilucidata la difficoltà di ciò che si stava esponendo. È vero che a volte si parla anche di cose note al fine di dilettare; ma lì non si bada tanto alle cose in se stesse quanto al modo di presentarle. Che se anche questo è conosciuto e piace agli uditori, poco o nulla interessa se chi lo riferisce sia lo stesso oratore o un lettore. In effetti le cose scritte in maniera appropriata vengono poi lette con gusto non solo da coloro che ne vengono a conoscenza per la prima volta ma vengono rilette, non senza pari gusto, anche da coloro che da tempo le conoscevano e non se ne erano dimenticati. Gli uni e gli altri le ascoltano volentieri. Quanto poi alle cose di cui ci si è dimenticati, quando le si ricorda è come se venissero insegnate daccapo. Ma ora non voglio trattare del modo di rendersi piacevoli; parlo solo del modo di insegnare le cose a coloro che desiderano impararle. E il modo migliore è questo: far sì che chi ascolta ascolti la verità e comprenda ciò che ha ascoltato. Quando un tale scopo sia stato raggiunto, non ci si deve affannare più oltre intorno alla stessa cosa, quasi per insegnarla più diffusamente, ma si deve solo - se del caso - raccomandarla perché si fissi nel cuore. Che se si riterrà opportuno fare questo, lo si faccia con moderazione per non tediare.
L'eloquenza rende manifesto ciò che è oscuro.
11. 26. In fatto di insegnamento l'eloquenza consiste precisamente in questo: parlare non perché piaccia ciò che incuteva orrore né perché si compia ciò che creava difficoltà, ma perché appaia manifesto ciò che era oscuro. Se tuttavia questo si fa in maniera sgradevole, il suo frutto è percepito solo da quei pochi appassionati che desiderano sapere le cose da apprendersi anche se dette in modo scadente e disadorno. Quando si sono appropriati della verità, si nutrono del gusto di lei, poiché la nota caratteristica dei buoni ingegni sta in questo: nelle parole, amare la verità non le parole. Cosa giova infatti una chiave d'oro se non è in grado di aprire ciò che vorremmo? O che male c'è se una chiave è di legno ma riesce ad aprire? In effetti noi non ci preoccupiamo d'altro che di aprire ciò che è chiuso. Ma poiché hanno fra loro una certa somiglianza quelli che mangiano e quelli che apprendono, ecco che per evitare il disgusto dei più si debbono condire anche quegli alimenti senza i quali non si può vivere.
L'oratore deve istruire, piacere, convincere.
12. 27. Un personaggio celebre per la sua eloquenza ha detto - e diceva la verità - che l'oratore deve parlare in modo da istruire, da piacere e da convincere. E aggiungeva: Istruire è necessità; piacere, dolcezza; convincere, vittoria 23. Di queste tre cose quella che è stata segnalata al primo posto, cioè la necessità di istruire, appartiene all'essenza stessa delle cose che diciamo, mentre le altre due riguardano il modo come le diciamo. Chi dunque parla allo scopo di istruire, finché non è stato compreso non ritenga di aver comunicato il suo sapere a colui che si proponeva di istruire. In effetti, sebbene abbia detto le cose che egli personalmente comprende, non deve ritenere di averle dette a colui dal quale non è stato compreso. Se al contrario è stato compreso, in qualunque modo le abbia dette le ha dette bene. Se invece vuol dilettare o convincere colui a cui parla, ciò otterrà non parlando come gli viene sulla lingua ma ricercando anche il modo di porgere. Pertanto come si deve piacere all'uditore per cattivarsene l'ascolto così lo si deve convincere per farlo passare all'azione; e come gli si piace parlando con gradevolezza, così lo si convince se si riuscirà a fargli amare quel che gli si promette, a temere ciò che gli si minaccia, a odiare ciò che gli si rimprovera, ad accettare ciò che gli si raccomanda, a dolersi di ciò che a fosche tinte gli si descrive come spiacevole. Così quando predichi che goda di ciò che procura gioia, che abbia compassione di coloro che a parole gli dipingi come persone meritevoli d'essere compatite, che eviti coloro che spaventandolo gli proponi di dover fuggire. Lo stesso si dica di ogni altra cosa che con l'eloquenza solenne può conseguirsi in ordine all'eccitare gli animi degli uditori non a conoscere ciò che si deve fare, ma a fare ciò che già conoscono come necessario a farsi.
Il compito primario dell'oratore è istruire.
12. 28. Se peraltro gli uditori ancora non conoscono [la cosa], è necessario, certo, che prima li si istruisca e poi commuova. E può capitare che, conosciute in se stesse le cose, se ne entusiasmino in modo che non occorra spronarli con maggiore sforzo di eloquenza. Quando invece è necessario, lo si deve fare, e la necessità sussiste quando, pur conoscendo quel che è da farsi, in realtà essi non lo fanno. Da ciò appare come l'istruire sia una cosa necessaria, in quanto gli uomini possono fare o non fare quel che conoscono, mentre chi direbbe che essi sono obbligati a fare quel che non conoscono? Ne segue che il convincere non sempre è di necessità, in quanto non sempre ne sussiste il bisogno: così nel caso che l'uditore abbia dato l'assenso all'oratore che insegna o riesce ad attirare piacevolmente. Che poi il consentire rappresenti la vittoria lo si ricava dal fatto che uno può insegnare e piacere ma non ottenere l'assenso. E allora cosa giovano le altre due cose, se manca questa terza? Ma nemmeno il piacere è cosa strettamente necessaria. Può succedere infatti che nello stesso discorso divenga palese la verità, e fin qui si resta nell'ambito dell'insegnamento. Non si tratta quindi del modo di parlare, né si bada a che rechi gusto o la verità o il modo di porgerla, ma sono le cose che di per se stesse, una volta chiarite, recano diletto, per essere conformi a verità. Ecco perché capita, e di frequente, che piacciano anche le cose false, una volta chiarite e dimostrate. Non piacciono perché sono false ma, essendo vero che sono false, piace l'argomentazione per la quale si dimostra essere vera la loro falsità.
Per ottenere conseguenze pratiche positive occorrono varie doti nell'oratore.
13. 29. Per andare incontro a quei tali cui, per essere schizzinosi, la verità non piacerebbe se la si presentasse in qualsiasi modo, ma la si deve porgere solo in modo che insieme piaccia anche il discorso dell'oratore, è stata attribuita nell'eloquenza non piccola importanza anche alla piacevolezza del dire. Questa tuttavia, anche se presente, non basta per certi animi induriti cui non reca giovamento né l'aver capito né l'aver gustato l'eloquenza dell'oratore. Che vantaggio infatti recano queste due doti del discorso all'uomo che confessa la verità e loda l'eloquenza, tuttavia non presta l'assenso, che è l'unico scopo a cui tende l'oratore nelle cose che dice volendo creare una persuasione? Se si insegnano infatti cose in cui sia sufficiente credere o conoscere, il consentire ad esse altro non è che confessare la loro verità; ma quando si insegnano cose che si debbono fare e le si insegna appunto perché le si faccia, è vano rendere l'uditore persuaso della verità di ciò che si dice, è vano anche il fatto che piaccia il modo di porgere, se le cose non le si imparano in modo che vengano tradotte in pratica. Occorre dunque che l'oratore ecclesiastico, quando inculca cose da praticarsi, non solamente insegni per istruire o piaccia per impressionare ma anche che convinca in modo da vincere [le resistenze]. Se infatti in un uditore la verità esposta anche con l'aggiunta d'una suadente dizione non consegue l'effetto d'essere accettata, non resta che lo si pieghi a prestare il consenso mediante la forza di una eloquenza solenne.
L'eloquenza sia usata per inculcare cose vere e sante.
14. 30. All'incanto di quest'arte è stato attribuito dalla gente tanto pregio che con essa vengono persuase non solo cose da non farsi, ma anche molti e gravi mali e turpitudini, che sono da fuggirsi e detestarsi. Cose di questo genere sono, viceversa, insegnate da gente cattiva e turpe con tanta eloquenza che, se loro non si consente, almeno vi si prova diletto a leggiucchiarle. Peraltro allontani Dio dalla sua Chiesa ciò che il profeta Geremia diceva rimproverando la sinagoga dei Giudei: Cose spaventose e orribili sono avvenute sulla terra: i profeti profetavano cose inique e i sacerdoti applaudivano con le loro mani e il mio popolo amò tutto questo. E che farete per l'avvenire? 24 O eloquenza tanto più tremenda quanto più pura, e quanto più solida tanto più veemente! Vera scure che spezza le pietre! A tale scure, disse Dio in persona per bocca dello stesso Profeta 25, è simile la sua parola proferita ad opera dei santi Profeti. Lungi dunque, lungi da noi la disgrazia che i sacerdoti applaudano a chi dice cose inique e il popolo di Dio le ami! Lungi da noi, dico, tanta follia! Cosa dovremmo fare quindi per l'avvenire? Ammesso pure che le parole siano meno comprese, piacciano di meno e stimolino di meno, tuttavia le si dicano lo stesso, e che siano ascoltati volentieri gli insegnamenti giusti e non quelli iniqui: cosa che certo non avverrebbe se non venissero detti con finezza oratoria.
Un'eloquenza pomposa non si addice all'oratore cristiano.
14. 31. In una assemblea di gente seria - di cui è detto a Dio: Ti loderò in mezzo ad un popolo serio 26 - non è gradita nemmeno quella artificiosità con cui si parla di cose certo non cattive, ma si adornano di veste pomposa le cose ordinarie e banali, come non si adornerebbero opportunamente e seriamente nemmeno le cose grandi e consistenti. Qualcosa del genere è in una lettera del beato Cipriano: e ciò io credo essere capitato, o anche fatto di proposito, affinché si sapesse dai posteri come il rigore della dottrina cristiana abbia distolto la lingua da simili ridondanze e l'abbia ristretta nell'ambito di una eloquenza più seria e moderata. Tale è appunto l'eloquenza che si riscontra nelle sue lettere successive e che si ama serenamente, si desidera con religiosità, anche se si raggiunge con difficoltà. Diceva dunque in un noto passo: Dirigiamoci a questa sede; i dintorni solitari ci consentono d'appartarci; là le volute vaganti dei tralci si distendono con nodi pendenti fra le canne che le reggono e con tetti frondosi fanno un portico risultante di viti 27. Cose come queste non si dicono senza una fecondità mirabilmente copiosa di eloquenza, ma per essere eccessivamente cariche sconvengono alla gravità [del discorso]. Quanto a quelli che amano questo modo di fraseggiare, nei confronti di chi non parla così ma si esprime più sobriamente riterranno che costoro sono incapaci di usare tale eloquenza, non che la evitano di proposito. Contro di ciò notiamo che quell'uomo santo mostrò e di sapersi esprimere con ricercatezza, perché lo fece in qualche brano, e di rifuggire da tale gergo, poiché in seguito non lo si trova più.
Prima di tenere il discorso occorre pregare il Padre della luce.
15. 32. Il nostro oratore dunque parlerà di cose giuste, sante e buone - di null'altro infatti deve parlare -; e parlando di queste cose userà ogni risorsa possibile perché lo si ascolti in maniera comprensibile, con piacere e con docilità. Il fatto poi che riesca a tanto - se ci riesce e nei limiti entro i quali ci riesce - non dubiti di attribuirlo più alla devozione nella preghiera che non alle risorse oratorie: per cui, dovendo pregare e per sé e per coloro ai quali rivolgerà la parola, sarà prima uomo di preghiera che predicatore. Avvicinandosi l'ora di parlare, prima di muovere la lingua per parlare sollevi a Dio l'anima assetata, in modo che proferisca quel che ha bevuto e versi ciò che lo riempie. In effetti, su ogni argomento che tocchi il campo della fede e della carità ci molte sono le cose da dire e molti i modi con cui le può dire chi le conosce. Ora chi potrebbe valutare rettamente cosa noi dobbiamo dire volta per volta o cosa si aspettano gli uditori di ascoltare da noi all'infuori di colui che penetra i cuori di tutti? E chi fa sì che noi diciamo quel che occorre e com'è necessario se non colui nelle cui mani siamo noi e tutti i nostri discorsi 28? Pertanto chi vuol conoscere la verità e insegnarla impari, certo, tutto ciò che deve insegnare; si procuri una capacità espressiva quale conviene ad un uomo di Chiesa; ma giunto il momento di dover parlare, pensi che a una mente bene intenzionata conviene regolarsi come diceva il Signore: Non pensate a cosa o a come dovete parlare; vi sarà dato infatti in quel momento ciò che dovete dire, poiché non siete voi a parlare ma parla in voi lo Spirito del Padre 29. Se è dunque lo Spirito Santo colui che parla in coloro che per Cristo vengono consegnati ai persecutori, perché non dovrebbe essere lo stesso Spirito Santo a parlare in coloro che presentano Cristo a chi lo vuole conoscere?
Il dovere della predicazione è indispensabile e sublime.
16. 33. Chi poi dice che non occorrono norme sugli argomenti che si debbono insegnare o sul come insegnarli per il fatto che è lo Spirito Santo a renderci maestri, potrebbe anche dire non essere necessario nemmeno pregare perché il Signore dice: Il Padre vostro sa ciò di cui avete bisogno prima ancora che glielo chiediate 30. Allo stesso modo si dovrebbe dire che l'apostolo Paolo non doveva prescrivere a Timoteo e a Tito cosa e come insegnare agli altri. Sono viceversa queste tre lettere dell'Apostolo quelle che deve avere sempre dinanzi agli occhi colui che nella Chiesa ha ricevuto l'incarico di ammaestrare. Non si legge infatti nella Prima Lettera a Timoteo: Annunzia queste cose e insegna 31? Quali poi siano queste cose, è stato detto sopra. Non si legge ancora nella stessa: Non rimproverare un presbitero ma scongiuralo come un padre 32? E nella Seconda Lettera non gli si dice: Conserva la forma delle parole salutari che hai udite da me 33? E ancora nella medesima: Fa' del tutto per presentarti a Dio come ministro accetto, che non si vergogna ma tratta fedelmente la parola di verità 34? In essa è anche scritto: Predica la parola, insisti a tempo opportuno e inopportuno, ammonisci, scongiura, rimprovera con ogni pazienza e sapienza 35. Lo stesso nella Lettera a Tito. Non vi dice forse che il vescovo deve insistere con le sue parole nella dottrina della fede, sì da essere energico nella sana dottrina e riprendere chi la contraddice 36? Vi dice ancora: Tu peraltro di' le cose che sono conformi alla sana dottrina: che i vecchi siano sobri 37, con quel che segue. E ancora: Parla di queste cose, esorta e rimprovera con grande autorità 38. Nessuno ti disprezzi. Esortali ad essere sottomessi ai sovrani e alle autorità 39, eccetera. Che pensare dunque? Forse che l'Apostolo sia in contrasto con se stesso quando, dopo aver detto che i maestri della Chiesa sono mossi dall'azione dello Spirito Santo, comanda loro cosa e in che modo debbano insegnare? O non sarà piuttosto da intendersi che il compito di certi uomini, favoriti di doni dello Spirito Santo, non può non estendersi anche all'istruzione degli stessi maestri, sebbene resti vero che né chi pianta è qualcosa né chi irriga ma Dio che fa crescere 40? Ecco perché, sebbene ci sia il ministero di santi uomini o anche l'intervento degli angeli santi, nessuno apprende rettamente quanto concerne la vita di unione con Dio se da Dio non è reso docile a Dio, al quale si dice nel salmo: Insegnami a compiere il tuo volere poiché tu sei il mio Dio 41. Nello stesso senso l'Apostolo dice ancora a Timoteo, parlando da maestro a discepolo: Tu però persevera nelle cose che hai imparate e sono state a te affidate sapendo da chi le hai apprese 42. Succede qui come nei medicamenti: applicati dagli uomini ad altri uomini, non fanno effetto se non in coloro cui Dio concede la salute. Dio può certo guarire anche senza medicine, mentre le medicine senza di lui non valgono a nulla, anche se occorre usarle, e, se si esercita la medicina per compiere un dovere, ciò è considerato come un'opera di misericordia o di carità. Lo stesso è degli aiuti prestati con l'insegnamento. Somministrati tramite l'uomo, essi giovano all'anima se Dio interviene per farli giovare: quel Dio, dico, che avrebbe potuto dare all'uomo il suo Vangelo anche senza l'uomo e il suo intervento.
Triplice funzione dell'oratoria e stile corrispondente.
17. 34. Pertanto colui che nel suo dire si prefigge di persuadere con ogni sforzo ciò che è buono, senza disprezzare nessuna delle tre cose, cioè insegnare, piacere e convincere, preghi e si dia da fare perché, come abbiamo detto, venga ascoltato con intelligenza, volentieri e con docilità. Che se riesce a far questo adeguatamente e convenientemente, meriterà il nome di persona eloquente, anche se non seguirà l'assenso nell'uditore. Sembra inoltre che a queste tre finalità, cioè insegnare, piacere e convincere, si riallaccino anche le altre tre elencate da quel celebre autore di eloquenza romana quando diceva: Sarà dunque eloquente colui che saprà dire le cose piccole in tono dimesso, le cose di modeste in tono moderato, le cose grandi con eloquenza solenne 43. È come se volesse aggiungere anche le altre tre cose e così spiegasse la stessa e identica massima dicendo: Sarà dunque eloquente colui che nell'insegnare sa dire le cose piccole in stile dimesso, per piacere sa dire le cose di media levatura in tono moderato, per convincere sa dire le cose grandi con eloquenza solenne.
La gravità dei temi religiosi esige sempre un dire elevato.
18. 35. Quel nominato autore avrebbe potuto mostrare come le tre forme del dire da lui descritte si usano nelle cause forensi, non però qui, cioè nelle problematiche ecclesiastiche dove si svolge il discorso di colui che noi vogliamo addestrare. Là infatti si discute di cose piccole quando il giudizio verte su problemi di denaro, di cose grandi invece quando ne va di mezzo l'incolumità o la vita umana. Quando poi non si deve giudicare né del primo né del secondo argomento e non si tratta di cose che l'uditore deve fare o decidere ma è solo questione di solleticare il gusto, si è come nel mezzo fra i due estremi e perciò quella eloquenza fu chiamata " modesta ", cioè misurata. Il termine modus (" misura ") ha dato il nome a modicis (" misurato "). Infatti usiamo modica come sinonimo di parva in modo ingiustificato, non in senso proprio. Viceversa è dei nostri discorsi, in quanto tutte le cose che diciamo, specie quelle che predichiamo al popolo dall'ambone, le dobbiamo riferire alla salute degli uomini, e non alla salute temporale ma alla salvezza eterna (diciamo anche che occorre evitare la rovina eterna), sicché tutte le cose che diciamo sono grandi. Le stesse cause pecuniarie, concernenti cioè il guadagnare o perdere soldi, quando ne parla un oratore ecclesiastico non si possono considerare come piccole cose, sia che si tratti di una somma piccola come di una somma grande. Non è infatti piccola la giustizia che, naturalmente, dobbiamo rispettare anche quando si tratta di piccole somme di denaro, dicendoci il Signore: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto 44. Pertanto ciò che è insignificante è insignificante ma essere fedeli nelle cose insignificanti è una cosa grande. Difatti, come la ragione formale della rotondità, che cioè dal centro tante linee uguali si protendano verso l'esterno, è identica in un grande disco e in una piccola moneta, così, quando si compiono con giustizia le cose piccole, non per questo diminuisce la grandezza della giustizia stessa.
Conferma desunta da 1 Cor 6, 1-9.
18. 36. Parlando dei giudizi profani (e quali saranno stati se non quelli pecuniari?), l'Apostolo dice: C'è forse qualcuno in mezzo a voi che, avendo una controversia con un altro, osi essere giudicato dagli iniqui e non presso i santi? O non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se da voi è giudicato il mondo sarete incapaci di giudicare cose da nulla? Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più dunque le cose secolari! Se dunque avrete dei giudizi su cose secolari, stabilite come giudici i più spregevoli della comunità. Lo dico a vostra vergogna. Possibile che non ci sia tra voi un qualche sapiente che possa far da giudice tra i fratelli? Ma ecco che un fratello contende col suo fratello, e il giudizio si fa di fronte agli infedeli! Ora è già uno smacco che abbiate litigi fra voi. Perché piuttosto non sopportate l'ingiustizia? Perché non vi lasciate piuttosto defraudare? Ma ecco che voi compite l'iniquità e frodate, e questo a dei fratelli! O non sapete forse che gli iniqui non erediteranno il Regno di Dio? 45 Cos'è che suscita tanto sdegno nell'Apostolo? Che cosa egli riprende, rimprovera, sgrida, minaccia? Quale moto del suo animo egli denuncia con un'alterazione della voce così variata e così rude? Come mai, infine, impiega parole tanto solenni per cose così trascurabili? Tanta foga avrebbero dunque provocato in lui affari terreni? No di certo! Ma egli parla così a motivo della giustizia, della carità, della fede, le quali cose, senza che alcuno sano di mente possa dubitarne, anche nelle questioni piccole sono realtà importanti.
Siccome noi parliamo del Vangelo, il nostro dire verte sempre su cose importanti.
18. 37. Certamente, se ammonissimo i lettori sul modo come debbono trattare gli affari mondani, o per sé o per i propri familiari, dinanzi ai giudici ecclesiastici, giustamente li esorteremmo a presentare le cose con tono dimesso, essendo appunto cose di poco conto. Ma parlando noi qui del modo di esprimersi di colui che vogliamo sia maestro di quelle verità per le quali si è liberati dai mali eterni e si perviene ai beni eterni, ogniqualvolta si tratta di queste cose, o dinanzi al popolo o in privato, sia che ci si rivolga a uno sia a più, sia con amici che con nemici, sia in un discorso prolungato sia in un dialogo, sia in trattati sia in libri, sia in lettere o molto lunghe o molto brevi, si tratta sempre di cose grandi. Forse dare un bicchiere di acqua fresca è una cosa minima e di nessun valore; ma il Signore non disse una cosa minima e insignificante quando asserì che chi l'avesse dato a un suo discepolo non avrebbe perso la sua ricompensa 46. Se, pertanto, il nostro dottore parlerà di questo tema nella Chiesa, non dovrà ritenere che parla di una cosa piccola, e quindi può parlarne non con eloquenza temperata né con eloquenza solenne ma con tono dimesso. Quando parlammo al popolo di questo tema, e Dio mi assisté perché non ne parlassi con parole inadeguate, non accadde forse che da quell'acqua fredda - diciamo così - si sollevasse una enorme fiamma 47, tale da accendere, con la speranza della ricompensa celeste, anche i cuori di uomini freddi e spingerli a compiere opere di misericordia?
Uno stesso argomento può presentarsi in toni diversi.
19. 38. Sebbene il nostro dottore debba parlare di cose grandi, non sempre deve dirle con eloquenza solenne, ma con stile dimesso quando insegna e con tono temperato quando rimprovera o elogia alcunché. Quando invece si tratta di cose da farsi e il discorso è rivolto a persone che dovrebbero farle ma non vogliono, allora dette cose, che sono grandi, le si deve dire con eloquenza solenne, capace di piegare gli animi. Capita a volte che di un e identico argomento, di per sé elevato, si debba parlare con stile dimesso, se lo si insegna; in tono temperato se lo si predica; e con eloquenza solenne se si tratta di far tornare indietro un animo traviato. Cosa c'è infatti più grande di Dio? E non sarà, per questo, oggetto di apprendimento? Ovvero chi insegna l'unità nella Trinità non dovrà trattarne in tono dimesso, di modo che il tema, di per sé difficile a conoscersi, possa essere compreso, nei limiti del possibile? O che si dovranno in tal caso ricercare i fronzoli e non gli argomenti? O che si tratta forse di piegare l'uditore perché faccia qualcosa o non piuttosto istruirlo perché impari? Viceversa, quando si loda Dio o in se stesso o nelle sue opere, quale forma di elocuzione bella, anzi splendida, non sorge dalle labbra di colui che riesce a lodarlo quanto gli è possibile, pur essendo vero che nessuno lo sa lodare come meriterebbe e tuttavia nessuno può non lodarlo? Se invece non lo si adora o insieme con lui o al di sopra di lui si adorano gli idoli o i demoni o qualsiasi altra creatura, questo è un grande disordine, e al fine di distorglierne gli uomini si deve senz'altro parlarne con eloquenza solenne.
Esempio di stile dimesso (Gal 3, 15-22).
20. 39. Un esempio di stile dimesso si ha nell'apostolo Paolo - tanto per riferire una cosa a tutti accessibile - là dove dice: Ditemi, voi che volete essere sotto la legge: non avete ascoltato la legge stessa? Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello della schiava è nato secondo la carne, quello della donna libera in virtù della promessa. Ora tali cose sono dette per allegoria. Le due donne infatti rappresentano le due alleanze; una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar. Il Sinai infatti è un monte nell'Arabia, e corrisponde alla Gerusalemme di adesso, la quale è serva insieme con i suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre 48. E parimenti là dove argomenta dicendo: Fratelli, parlo a modo umano, ma un patto stabilito tra uomini nessuno lo annulla o ci fa delle aggiunte. Ora ad Abramo furono annunciate delle promesse, a lui e alla sua discendenza. Non dice: Ai suoi discendenti come se fossero molti, ma a uno solo: alla sua discendenza, che è Cristo. Ora io dico questo: un patto stabilito da Dio, una legge venuta quattrocentotrent'anni dopo non lo annulla sì da rendere vana la promessa. Se l'eredità fosse dalla legge, non sarebbe più dalle promesse; ma ad Abramo l'ha data Dio, in virtù della promessa 49. E perché l'uditore poteva pensare: Perché dunque è stata data la legge, se da essa non deriva l'eredità?, egli stesso si pone questa difficoltà e risponde a modo di interrogazione: A qual fine dunque la legge? E immediatamente risponde: È stata accordata in ordine alle trasgressioni, finché venisse il discendente a cui era stata fatta la promessa, donata per mezzo di angeli ad opera di un mediatore. Ma non si dà mediatore di chi è solo, mentre Dio è uno solo 50. E qui veniva la domanda che l'Apostolo si era posto da sé: La legge è dunque in contrasto con le promesse di Dio? E risponde: Assolutamente no! E motivando l'affermazione dice: Se infatti fosse stata data una legge capace di dare la vita, la giustizia sarebbe certo derivata dalla legge. Ma la Scrittura racchiude tutto nel peccato affinché la promessa fosse data ai credenti mediante la fede in Gesù Cristo 51. E ci sono altri esempi di questo genere. Rientra dunque nel compito di insegnare non solo rendere palesi le cose nascoste e sciogliere i nodi delle questioni ma anche ovviare alle altre questioni che, mentre si trattano le une, possano eventualmente presentarsi, affinché quel che veniamo dicendo non sia oppugnato o rigettato sulla base di queste ultime. A una condizione tuttavia, e cioè che la loro soluzione ci venga prontamente alla memoria e non siamo turbati dal fatto che ciò che non possiamo risolverle tutte. Succede infatti che alla questione [che si tratta] sopraggiungano altre questioni e a queste seconde, altre ancora. A trattarle e risolverle tutte si prolunga troppo il ragionamento e si richiede troppa attenzione, tanto che, se la memoria non è veramente forte e robusta, il trattatista non può ritornare agli inizi donde era sorto il problema. È quindi molto bene refutare [subito] la difficoltà, se viene in mente come farlo, perché non succeda di ricordarsene quando non c'è chi risponda o ci si ricordi quando l'obiettore è presente ma è ormai azzittito, sicché se ne parta senza essere stato sufficientemente guarito [del suo dubbio].
Esempi di stile temperato, presi da S. Paolo.
20. 40. Esempio di stile temperato si ha in queste parole dell'Apostolo: Non riprendere aspramente un anziano ma scongiuralo come un padre, i più giovani come fratelli, le anziane come madri, le giovani come sorelle 52. E in quelle altre: Vi scongiuro, fratelli, per la misericordia di Dio, di offrire i vostri corpi come ostia vivente, santa, accetta a Dio 53. E quasi l'intero brano di questa esortazione è in stile temperato: le parti più belle sono quelle in cui le cose simili si accoppiano armoniosamente alle simili, come i debiti quasi a loro restituzione. Tali sono anche le espressioni del brano seguente: Avendo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno: chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede; chi ha un ministero, attenda al ministero; chi l'insegnamento, all'insegnamento; chi l'esortazione, all'esortazione; chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia. La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità. Benedite quelli che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto; abbiate i medesimi sentimenti gli uni per gli altri. E con quanta bellezza tutte queste espressioni, così prolungate, terminano con quel periodo a due membri: Non avendo sentimenti di orgoglio, ma piegandovi a cose umili 54! E poco dopo dice: In questo perseverate: rendete a tutti quello che è loro dovuto: a chi il tributo il tributo, a chi la tassa la tassa, a chi il timore il timore, a chi l'onore l'onore. Tutte queste raccomandazioni, sparse membro a membro, vengono riepilogate e concluse con un periodo circolare di due membri: Non abbiate con alcuno nessun debito all'infuori di quello d'un amore vicendevole 55. E poco più avanti dice: La notte è passata e il giorno si è avvicinato. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce; camminiamo con onestà come durante il giorno; senza orge e ubriachezze; senza vizi e immoralità; senza litigi ed invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e le voglie della carne evitate di soddisfarle mediante la concupiscenza 56. Che se qualcuno avesse detto: " E non soddisfate le voglie della carne mediante la concupiscenza ", avrebbe senz'altro accarezzato l'udito con una chiusa più prolungata, ma il saggio traduttore ha preferito ritenere anche l'ordine delle parole. Come suonino queste parole nella lingua greca, in cui scrisse l'Apostolo, lo vedano coloro che in questa lingua sono esperti fino a distinguere tali finezze; quanto a me, la traduzione che ho fatta seguendo alla lettera l'ordine delle parole non mi sembra che scorra ritmicamente.
Nella Scrittura solo raramente sono osservate le leggi della prosodia e metrica.
20. 41. Effettivamente, questi abbellimenti stilistici che consistono in cesure basate su numero e quantità bisogna dire che mancano nei nostri autori. Questo, se sia opera del traduttore ovvero - come ritengo più probabile - se essi stessi di proposito hanno evitato tali finezze che pur avrebbero loro meritato del plauso, non ardisco definirlo, poiché debbo confessare d'ignorarlo. Una cosa sola io so: che cioè, una persona esperta di prosodia e metrica volesse strutturare la frase secondo le norme di queste scienze - cosa che è facilissimo fare: basta spostare alcune parole, che hanno valore solo per il loro significato, o mutare l'ordine in cui le medesime si trovano - si accorgerà che a quegli uomini divini non mancò nessuna delle cose che nelle scuole dei grammatici o dei retori si sogliono ritenere di grande importanza. Vi troverà inoltre molte specie di locuzioni di bellezza così elevata - sono belle nella nostra lingua ma soprattutto nella loro - che non si trovano per nulla nelle letterature di cui i profani vanno tanto orgogliosi. Occorre tuttavia stare in guardia per non sminuire la portata di quelle sentenze divine e profonde mentre le si vuole sottoporre alla cadenza numerata. In realtà l'arte musicale, dove si applica in pieno la scienza dei numeri, non mancò ai nostri Profeti. Tant'è vero che quell'uomo dottissimo che è Girolamo ha sottolineato esservi anche della metrica, almeno per quanto riguarda la lingua ebraica 57, e per conservarne la verità nelle parole non ne ha voluto fare la traduzione. Quanto a me, per dire quel che sento e che mi è noto più che non lo sia agli altri e più che non l'opinione degli altri, non tralascio nel mio dire - per quanto modestamente ritengo di saper fare - queste cadenze ritmate, e mi piace moltissimo se riesco a trovarle anche nei nostri autori, e proprio perché ve le trovo assai di rado.
Lo stile solenne è talvolta richiesto nell'oratore sacro.
20. 42. Vi è poi lo stile solenne, che dista da quello temperato non tanto per il fatto che si adorna di parole eleganti ma perché esprime violenti affetti dell'animo. Accoglie, è vero, in sé quasi tutti gli abbellimenti formali, ma se non li ha, non ne va in cerca. È mosso infatti dal suo stesso impeto e, se assume eventualmente la bellezza dello stile, le assume perché sospinta dalla sua veemenza intrinseca, non perché vada in cerca di abbellimenti. Per ciò che tratta gli è sufficiente che le parole opportune non vengano scelte come esigenza di espressione ma conseguano l'ardore del cuore. In effetti, se un uomo forte e ardente nel combattere viene armato con una spada d'oro e tempestata di gemme, compie quello che con tali armi si può compiere, e lo compie non perché esse siano preziose ma perché sono armi. Quanto a lui, è sempre lo stesso ma compirà grandissime gesta quando nel vibrare il colpo l'ira gli fa sospingere la freccia 58. L'Apostolo tratta del tollerare pazientemente tutti i mali della vita presente per il servizio al Vangelo forti della consolazione che viene dai doni di Dio. L'argomento è importante e lo si tratta con eloquenza solenne dove non mancano gli ornamenti della retorica. Dice: Ecco ora il tempo favorevole, ecco ora il giorno della salvezza. Non diamo ad alcuno motivo di inciampo perché non venga vituperato il nostro ministero, ma in ogni cosa raccomandiamo noi stessi come ministri di Dio con grande costanza, in mezzo alle tribolazioni, alle necessità, alle angustie, sotto i colpi, nelle prigionie, nelle sommosse, tra le fatiche e le veglie e i digiuni; vivendo in castità, con conoscenza, con longanimità e con dolcezza nello Spirito Santo, in amore sincero, con la parola della verità e la virtù di Dio; mediante le armi della giustizia, armi di offesa e difesa; fra la gloria e l'ignominia, fra la calunnia e la lode; come seduttori eppure veritieri; come ignoti eppur ben conosciuti; come moribondi ma siamo pur vivi; come castigati, ma non siamo messi a morte; come addolorati, eppure sempre lieti; come miserabili, ma facciamo ricchi molti; come gente che non ha nulla, eppure possediamo ogni cosa. Vedi ancora il suo ardore: La nostra bocca è aperta a voi, Corinzi; il nostro cuore si è dilatato 59, con tutto il resto che sarebbe lungo aggiungere.
Rm 8, 28-39: bell'esempio di eloquenza solenne.
20. 43. Non diversamente nella Lettera ai Romani tratta delle persecuzioni di questo mondo e come le si vince con la carità, poggiata sulla speranza certa dell'aiuto divino. Il suo dire è solenne e forbito. Sappiamo - dice - che a quanti amano Dio tutto concorre al bene, a coloro cioè che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: " Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello " 60. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore 61.
Gal 4, 10-20: altro esempio di eloquenza solenne.
20. 44. La Lettera ai Galati è scritta per intero in stile dimesso, ad eccezione delle ultime parti, dove lo stile è temperato. L'autore tuttavia ad un certo punto vi inserisce un brano così carico di sentimenti che, sebbene privo di tutti quegli abbellimenti che si trovano nei passi ora citati, non potrebbe essere qualificato se non come di stile solenne. Dice: Osservate i giorni e i mesi e gli anni e le stagioni. Ho paura per voi; temo di essermi affaticato invano per voi. Siate come me, ve ne prego, poiché anch'io sono stato come voi. Fratelli, non mi avete offeso in nulla. Sapete che fu a causa di una malattia del corpo che vi annunziai la prima volta il Vangelo; e quella che nella mia carne era per voi una prova non l'avete disprezzata né respinta, ma al contrario mi avete accolto come un angelo di Dio, come Cristo Gesù. Dove sono dunque le vostre felicitazioni? Vi rendo testimonianza che, se fosse stato possibile, vi sareste cavati anche gli occhi per darmeli. Sono dunque diventato vostro nemico dicendovi la verità? Costoro si dànno premura per voi, ma non onestamente; vogliono estraniarvi [da me] perché mostriate zelo per loro. È bello invece essere circondati di premure nel bene sempre e non solo quando io mi trovo presso di voi, figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi! Vorrei essere vicino a voi in questo momento e poter cambiare il tono della mia voce, perché non so cosa fare a vostro riguardo 62. Forse che qui ci sono delle antitesi o le parole sono collocate secondo una certa gradazione o vi sono delle cesure e frasi e periodi? Eppure non è tiepido il grande affetto in forza del quale, come bene ci accorgiamo, diviene bollente anche l'espressione.
Esempio di stile dimesso preso da Cipriano.
21. 45. Queste parole dell'Apostolo sono insieme evidenti e profonde. Esse sono state scritte e imparate a memoria, di modo che, se in esse qualcuno non contento d'una lettura superficiale cerchi di penetrarne le profondità, gli occorre non solo chi le legga e le ascolti ma anche chi le commenti. Vediamo pertanto gli stessi generi del dire in coloro che, attraverso la lettura dei testi scritturali, fecero progressi notevoli nella scienza delle cose divine e salutari e poi la dispensarono alla Chiesa. Il beato Cipriano usa il genere dimesso in quel libro dove tratta del Sacramento del calice. Risolve in effetti il problema se il calice del Signore debba contenere soltanto acqua ovvero acqua mescolata a vino. Ma prendiamo da lì un qualche brano a mo' di esempio. Dopo l'apertura della lettera, cominciando ormai a risolvere la questione che si era proposto di trattare, dice: Sappi dunque che a noi è stato rivolto l'ammonimento che nell'offrire il calice dobbiamo osservare la tradizione apostolica e che non dobbiamo fare altro se non quello che per primo fece per noi il Signore: per cui il calice che si offre in sua memoria lo si offre con mescolanza di acqua e di vino. Dicendo infatti Cristo: " Io sono la vera vite " 63, il sangue di Cristo non è certo acqua ma vino. Né può aversi l'immagine che il suo sangue, con il quale siamo stati redenti e vivificati, si trovi nel calice se al calice manca il vino che rappresenta il sangue di Cristo, come insegnano il mistero e la testimonianza di tutte le Scritture. Troviamo infatti nella Genesi che questa stessa cosa accadde anticipatamente nel gesto simbolico di Noè, nel qual fatto ci fu una figura della passione del Signore. In effetti egli bevve il vino, si ubriacò, restò nudo in casa, giacque in terra con le cosce nude e scoperte, nudità che fu osservata dal suo figlio mezzano mentre dal figlio maggiore e da quello più piccolo fu ricoperta 64. Non è qui necessario riportare il resto, bastando riferire questo solo e cioè che Noè, fungendo da figura della verità avvenire, bevve non l'acqua ma il vino e così rappresentò la passione del Signore. Vediamo inoltre raffigurato il Sacramento del Signore nel sacerdote Melchisedech, secondo quello che attesta la divina Scrittura quando dice: " E Melchisedech, re di Salem, offrì pane e vino - era infatti sacerdote del Dio altissimo -, e benedisse Abramo " 65. Che poi Melchisedech fosse una figura di Cristo lo dichiara nei Salmi lo Spirito Santo quando parlando a nome del Padre dice al Figlio: " Prima della stella mattutina ti ho generato. Tu sei sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedech " 66. Questo e tutto il seguito della lettera conservano il tono di un parlare dimesso, cosa che ogni lettore può facilmente constatare.
Esempio tratto da Ambrogio.
21. 46. Lo stesso fa sant'Ambrogio. Sebbene tratti di un argomento elevato, lo Spirito Santo, e voglia dimostrare come esso sia uguale al Padre e al Figlio, usa un genere letterario dimesso, perché l'argomento che ha preso a trattare non gli richiede ornamenti di parole o mezzi atti a commuovere l'affetto per piegare gli animi ma solo una documentazione oggettiva. Pertanto, al principio dell'opera, dice fra l'altro: Gedeone, avendo udito che, sia pur venendogli a mancare migliaia di uomini, il Signore avrebbe liberato dai nemici il suo popolo mediante un solo uomo, spinto dalla predizione divina offrì un capretto. Secondo l'ordine dell'angelo ne pose la carne sopra una pietra insieme con gli azimi e il tutto innaffiò con del brodo. Appena l'angelo di Dio toccò queste cose con la punta del bastone che teneva in mano, dalla pietra si sprigionò un fuoco che consumò il sacrificio che Gedeone stava offrendo 67. Da questo segno sembra sufficientemente indicato che quella pietra raffigurava il corpo di Cristo, poiché sta scritto: " Bevevano della pietra che li seguiva, e questa pietra era Cristo " 68. Questa nota non si riferisce certamente alla sua divinità ma alla sua carne, che inondò il cuore dei popoli assetati col fiume perenne del suo sangue. Già fin da allora dunque nel mistero fu reso noto che il Signore Gesù nella sua carne, una volta crocifisso, avrebbe cancellato i peccati del mondo, e non soltanto i delitti commessi con le azioni ma anche le cupidigie che hanno sede nell'animo. La carne del capretto dice infatti riferimento alle colpe di azione, mentre il brodo si riferisce alle attrattive della concupiscenza, come sta scritto: " Il popolo ebbe una pessima bramosia e disse: Chi ci darà carne da mangiare? " 69. Il fatto poi che l'angelo stese il bastone e toccò la pietra, dalla quale si sprigionò il fuoco, dimostra che la carne del Signore piena del divino Spirito avrebbe bruciato tutti i peccati degli uomini di qualsiasi condizione. Di questo diceva il Signore: " Sono venuto a portare il fuoco sulla terra " 70. Così nel resto del passo, dove egli si occupa soprattutto di insegnare e dimostrare il tema propostosi.
Esempio di stile temperato preso da Cipriano.
21. 47. Appartiene allo stile temperato l'elogio che fa Cipriano della verginità: Ora il nostro discorso si rivolge alle vergini, delle quali quanto più grande è la dignità tanto più grande deve essere in noi la cura. Sono il fiore spuntato dai germogli della Chiesa, splendore e ornamento della grazia spirituale, gioiosa prole nata a nostra lode ed onore, persone integre e incorrotte, immagine di Dio che rispecchia la santità del Signore, del gregge di Cristo porzione più splendente. Per esse e in esse gode e copiosamente fiorisce la gloriosa fecondità della madre Chiesa, e quanto più il numero della gloriosa verginità aumenta tanto più aumenta la letizia della madre 71. E in un altro passo, alla fine della lettera, dice: Come abbiamo portato l'immagine di colui che fu preso dal fango, così portiamo anche l'immagine di colui che discese dal cielo 72. Ora questa immagine la porta la verginità, la porta l'integrità, la porta la vera santità. La portano le vergini che ricordano i precetti di Dio, che praticano la giustizia unita alla religiosità, che sono salde nella fede, umili nel timore, forti in ogni genere di sopportazione, miti nel tollerare le offese, facili a usare misericordia, unanimi e concordi nella pace fraterna. Tutti questi precetti, ad uno ad uno, dovete rispettare, amare e mettere in pratica voi, o sante vergini, che, badando alle cose di Dio e di Cristo e, scelta per voi la porzione maggiore e migliore, precedete [gli altri fedeli] nell'altare incontro al Signore, al quale vi siete consacrate. Voi che siete avanti negli anni siate maestre delle più giovani; voi più giovani prestate alle più anziane i vostri servizi e siate di stimolo per le coetanee. Tenetevi deste con vicendevoli esortazioni, provocatevi alla gloria con una gara di esempi virtuosi: perseverate coraggiosamente, avanzate spiritualmente, arrivate felicemente [alla mèta] Ricordatevi di noi quando la vostra verginità comincerà ad esser in voi coronata 73.
Esempio di stile temperato preso da Ambrogio.
21. 48. Anche Ambrogio usa il genere di esporre temperato e ornato quando alle vergini consacrate, come a modo di esempio, propone quello che debbono imitare nei [loro] costumi. Dice: Era vergine non solo di corpo ma anche di spirito; non macchiava la sincerità del suo affetto con alcun intrigo sleale. Era umile di cuore, seria nella parola, prudente nell'animo, assai moderata nel discorrere e avida di leggere. Riponeva la sua speranza non nelle ricchezze incerte 74 ma nell'ascoltare le suppliche dei poveri. Era assidua nel lavoro e riservata nel parlare; come giudice dei suoi pensieri era solita prendere Dio, non l'uomo; non danneggiava nessuno ma voleva bene a tutti 75. Rispettava le più anziane, non invidiava le compagne; fuggiva le vanterie, seguiva la ragione, amava la virtù. Quando mai costei offese i genitori sia pure con un moto del volto? quando si mise in discordia con i vicini? quando sdegnò gli umili? quando si burlò del debole o si tenne lontana dal povero? Fra gli uomini, era solita visitare solo quelle categorie di cui per misericordia non doveva vergognarsi e che non doveva evitare per pudore. Nessun cipiglio negli occhi, nessuna espressione procace sulla bocca, nulla di sconveniente negli atti. Nessun gesto molle, non incedere sdilinquito, non voce pettegola; per cui la stessa bellezza del corpo non era altro che l'immagine dello spirito e l'espressione dell'onestà. Una buona casa la si deve poter riconoscere fin dal vestibolo, e, non appena si entra, si deve poter discernere che dentro non ci sono tenebre, quasi che la luce della lucerna collocata dentro risplenda anche fuori. A che scopo dunque ricorderò la sua sobrietà nel cibo e l'attività nei suoi molti servizi? Nell'una si spinse oltre i limiti della natura, nell'altra si privò di quello stesso che la natura richiede. Nell'una non frappose alcun intervallo, nell'altra digiunò a giorni alterni. E se talvolta le veniva il desiderio di rifocillarsi, prendeva tanto cibo quanto fosse stato sufficiente per non morire, non per soddisfare il suo gusto 76, eccetera. Ho scelto questo brano come esempio di stile temperato in quanto nel brano citato l'autore non si propone di far votare la verginità a coloro che non l'hanno votata ma dice come debbono essere coloro che ne han fatto voto. In effetti per ottenere che l'animo intraprenda un tale e tanto proposito occorre senz'altro che sia mosso e infiammato con un discorso solenne. Peraltro il martire Cipriano scriveva sul comportamento delle vergini, non sull'abbracciare il proposito di verginità; il vescovo Ambrogio invece ritenne doverle infiammare anche a questo [e lo fece] con eloquenza solenne.
Esempio di eloquenza solenne preso da Cipriano.
21. 49. Ricorderò tuttavia gli esempi di eloquenza solenne riferita ad un tema che tutti e due trattarono. Tutti e due infatti inveirono contro le donne che si colorano o, piuttosto, scolorano il viso con vari belletti. Trattando questo argomento dice, fra l'altro, il primo: Ecco un pittore che ha disegnato e abilmente colorato il viso, la bellezza e la forma corporea di una persona. Se, una volta dipinto e terminato il quadro, un altro, ritenendosi più esperto, vi mettesse le mani per rifare l'immagine già delineata e dipinta, sarebbe un grave torto verso il precedente artista e giusto sarebbe lo sdegno di costui. E tu crederai di poterti permettere impunemente l'audacia d'una così perversa temerarietà che offende Dio creatore? Se non sei, è vero, impudica nei riguardi degli uomini né ti tolgono la verginità i tuoi trucchi da sgualdrina, tuttavia avendo corrotto e violate le cose che sono di Dio diventi un'adultera ancora peggiore. Con quel che credi ornamento, con quel che credi fascino, tu attenti all'opera di Dio, tu diventi prevaricatrice contro la verità. Ecco la parola dell'Apostolo che ti ammonisce: " Gettate via il lievito vecchio per essere una nuova pasta, poiché siete azzimi. Infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato, sicché dobbiamo celebrare la festa non con il lievito vecchio né con il lievito della malizia e della cattiveria ma con gli azzimi della schiettezza e della verità " 77. O che si mantengono forse la schiettezza e la verità, quando si deturpano le cose schiette e le cose vere si mutano in cose menzognere con l'adulterazione fatta per mezzo del colore e i trucchi dei belletti? Il tuo Signore ti dice: " Non puoi rendere bianco o nero uno solo dei tuoi capelli " 78, e tu per sopraffare la voce del tuo Signore osi reputarti da più di lui? Con tentativo sfrontato e con disprezzo sacrilego ti tingi i capelli, e, con cattivo presagio della sorte futura, ti auguri di avere fin d'ora capelli colore di fiamma 79. Sarebbe troppo lungo aggiungere tutto il resto dei discorso.
Esempio di eloquenza solenne preso da Ambrogio.
21. 50. Parlando contro queste stesse persone il secondo dice: Da qui nascono quegli incentivi ai vari vizi, per cui si tingono le labbra con colori artefatti, e, mentre temono di dispiacere al proprio marito, adulterando il volto preventivano l'adulterio della castità. Quale aberrazione è mai questa: mutare l'aspetto naturale e cercare di mascherarlo! Mentre temono il giudizio del marito, manifestano la perversione del loro proprio giudizio. Colei infatti che desidera mutare le sue fattezze naturali pronunzia in primo luogo un giudizio contro di sé e mentre cerca di piacere agli altri, mostra già prima che non piace a se stessa. O donna, quale giudice cercheremo per valutare la tua bruttezza, all'infuori di te stessa, che temi di mostrarti [come sei]? Se sei bella, perché ti camuffi? Se sei brutta, perché vuoi apparire bella con falsi accorgimenti, non ottenendo grazia né dalla tua coscienza né da parte degli altri, che induci in errore? Tuo marito ama un'altra donna, tu vuoi piacere ad un altro uomo: e ti arrabbi se per caso ama un'altra, tu che gli sei stata maestra di adulterio! Sei tu la cattiva maestra del torto che subisci. Chi ha ceduto alle arti di un adultero rifugge dall'adulterio e, sebbene sia donna spregevole, non seguita a peccare con altri, sebbene pecchi dentro se stessa. Quasi quasi il peccato dell'adulterio è più scusabile poiché lì si pecca contro la castità, qui si altera la natura 80. Ritengo sufficientemente evidente che, dopo un simile tratto di eloquenza, le donne si sentano vivamente spinte a non alterare con belletti la loro forma naturale e a crescere nel pudore e nel timore. Pertanto questo genere di eloquenza non lo giudichiamo dimesso o temperato ma assolutamente solenne. E presso questi due uomini di Chiesa che fra tutti ho voluto citare e in altri che hanno insegnato il bene adeguatamente, cioè come richiesto dal tema, con acume, con abilità e fervore, in molti loro scritti o discorsi si possono trovare questi tre tipi di eloquenza; e chi li studia, a forza di leggerli o ascoltarli spesso, unendovi dell'esercizio personale può anche riuscire a farsene l'abitudine.
Il discorso si alterni come i flutti del mare.
22. 51. Non si deve credere che sia contrario alle norme [dell'arte retorica] mescolare queste tre specie [di eloquenza]; anzi, se lo si sa fare appropriatamente, il discorso venga proprio variato secondo tutte e tre. Se infatti nel parlare ci si dilunga sulla stessa specie, si fa poca presa sull'uditore; se invece si passa da una specie all'altra, anche se si va un po' per le lunghe, il discorso si snoda più gradito. E ciò anche se ogni singola specie ha in se stessa, quando chi parla è eloquente, delle variazioni che non permettono ai sensi di chi ascolta né di raffreddarsi né d'intiepidirsi. È tuttavia più facilmente tollerabile l'uso prolungato dello stile dimesso che non di quello solenne. Le emozioni dell'animo infatti quanto più le si deve suscitare nell'uditore perché ci presti l'assenso, tanto meno, quando detta emozione è stata sufficientemente suscitata, si deve pretendere che si protragga nel suo animo. Si deve pertanto evitare che, mentre vogliamo elevare più in alto colui che è già elevato, lo si faccia scendere più in basso dal punto che aveva raggiunto. Vi si interpongano quindi frasi dette in stile dimesso, e allora sarà bello il ritorno a ciò che è da dirsi in forma solenne, di modo che l'impeto dell'eloquenza si alterni come i flutti del mare. Ne segue che lo stile solenne di eloquenza, se lo si deve usare a lungo, non deve essere il solo ad usarsi ma lo si deve rendere vario con l'inserzione degli altri generi del dire; tuttavia il discorso tutto intero lo si ascriverà a quel genere che in esso prevale.
Intervallare i generi l'uno con l'altro.
23. 52. È interessante stabilire quale genere si deve intervallare con l'altro e quando lo si debba fare, poiché ci sono norme certe e fisse. Difatti nel genere solenne gli inizi debbono essere sempre o quasi sempre di genere temperato, ed è lasciato alla libera scelta dell'oratore dire delle cose in stile dimesso, anche di quelle che potrebbero essere dette in stile solenne. In tal modo le cose che si dicono con alta eloquenza dal confronto con le altre acquistano in solennità e per loro, come attraverso a delle ombre, divengono più luminose. Qualunque poi sia il genere usato, capita che si debbano sciogliere i nodi di qualche difficoltà. Lì c'è bisogno di acume: cosa propriamente riservata al genere dimesso. Per questo un tal genere, anche collegandolo con gli altri due, si deve usare quando capitano argomenti di questo tipo: quando, ad esempio, si deve lodare o riprovare qualcosa che non richieda né la condanna o la liberazione della persona né l'assenso a una qualche azione. Se ciò capita in mezzo a un altro genere oratorio, si deve usare e interporre il genere temperato. Nell'eloquenza solenne dunque trovano posto anche gli altri due generi, e lo stesso accade nell'eloquenza dimessa. Quanto al genere temperato, esso richiede, non sempre ma qualche volta, il genere dimesso, se, come ho detto, occorre risolvere il nodo di una qualche questione, o quando delle cose che potrebbero essere dette con linguaggio ornato non le si adorna ma le si dice con linguaggio dimesso affinché il posto più elevato lo si riservi agli ornamenti [del discorso], che così viene a trovarsi come sull'alto di un letto. L'eloquenza temperata non esige l'eloquenza solenne, in quanto si adopera per dilettare gli animi, non per eccitarli.
Effetti sorprendenti del dire solenne.
24. 53. Non si deve, ovviamente, ritenere che un oratore parli in stile solenne quando lo si acclama di frequente e con calore. Lo stesso risultato infatti ottengono e la finezza dello stile dimesso e gli ornamenti dello stile temperato. Il genere solenne al contrario il più delle volte col suo peso comprime le grida e fa sgorgare le lacrime. Una volta a Cesarea di Mauritania dovetti dissuadere il popolo da una guerra civile, o peggio che guerra civile, che essi chiamavano caterva. Era una battaglia feroce che in un determinato periodo dell'anno combattevano fra loro non solo i concittadini ma anche i parenti e i fratelli e persino i genitori e i figli. Si dividevano in due fazioni e si combattevano fra loro, a colpi di pietre, per alcuni giorni di seguito e, come a ciascuno riusciva, si uccidevano anche. Feci naturalmente ricorso allo stile solenne, come ne ero capace, per sradicare dai loro cuori e costumi un male così crudele e così inveterato, sperando di estinguerlo con la mia parola. Non ritenni tuttavia d'essere riuscito a concludere qualcosa finché non li vidi piangere, non già quando li avevo sentiti applaudire. In effetti, con le acclamazioni mi indicavano che avevano capito e ne godevano, con le lacrime invece che si erano convinti. Quando dunque li vidi piangere ritenni vinta, prima ancora che me lo mostrassero con i fatti, quella feroce consuetudine loro tramandata dai padri e dai nonni e dagli antenati per lunghi secoli, consuetudine che assediava o, meglio, possedeva da nemica i loro cuori. Non appena terminato il discorso, li esortai a volgere il cuore e la bocca a Dio per ringraziarlo; ed ecco sono già circa otto o più anni dacché, per benevola concessione di Cristo, nessuna azione di quella sorta è stata più tentata in quella città. Ci sono molti altri esempi da cui impariamo che gli uomini non mediante grida ma gemiti o, talvolta, con lacrime o, finalmente, col cambiamento dei costumi dànno a divedere ciò che ha operato in loro la sublimità di un discorso sapiente.
Efficacia del genere dimesso.
24. 54. Anche con l'uso del genere dimesso si sono cambiate diverse persone: hanno potuto sapere quel che non sapevano e credere a ciò che prima sembrava loro incredibile, non però si sono decise a praticare ciò che già sapevano doversi praticare ma non lo facevano. Per vincere una tale durezza c'è bisogno dell'eloquenza solenne. In realtà, le lodi e le disapprovazioni, quando le si dice con eloquenza anche usando il genere temperato, colpiscono certuni in modo che nelle lodi o nei rimproveri non solo si rallegrino per l'eloquenza ma anche desiderino vivere in modo lodevole ed evitino di vivere come loro si rimprovera. Ma forse che, tutti coloro che provano il gusto, di fatto si trasformano come fanno, quando si usa il genere solenne, tutti coloro che si convincono? Forse che, quando si usa il genere dimesso, imparano tutti coloro a cui si imparte l'insegnamento o credono nella verità delle cose fino allora sconosciute?
L'eloquenza temperata non è urgente come gli altri generi del dire.
25. 55. Da quanto detto si deduce che quei due generi che mirano alla pratica sono soprattutto necessari a quanti vogliono parlare con sapienza ed eloquenza. Viceversa il genere temperato, nel quale è l'eloquenza stessa che piace, non lo si deve adoperare come fine a se stesso. Lo si deve impiegare per ottenere più presto e più tenacemente l'assenso degli uditori a cose che si dicono utilmente e rettamente. Così facendo, gli uditori si muoveranno più prontamente per il diletto che provoca in loro il discorso ma non hanno bisogno né dell'insegnamento né della spinta della parola, essendo già istruiti e inclini favorevolmente [all'azione]. In effetti, compito universale dell'eloquenza è, in tutti e tre questi generi, dire le cose in modo capace di ottenere la persuasione; il suo fine poi è persuadere con il discorso ciò che si intende [persuadere]. Orbene, in qualunque di questi tre generi si esprima l'oratore, dirà cose adatte per ottenere la persuasione, ma, se di fatto non persuade, non consegue il fine dell'eloquenza. Nel genere dimesso persuade che sono vere le cose che dice; nel genere solenne persuade a che siano tradotte in pratica le cose che già si conoscono come obbligatorie ma non si praticano; nel genere temperato persuade ad ammirare ciò che egli dice con begli ornamenti. Ma che bisogno abbiamo noi di ottenere una simile finalità? Ne vadano a caccia quelli che si gloriano della lingua e se ne vantano nei panegirici e in simili altri discorsi, dove nessuno è da istruirsi né da sospingersi a fare qualcosa ma l'uditore è soltanto da dilettarsi. Quanto invece a noi, riferiamo questa finalità all'altra: cioè anche mediante questo stile vogliamo conseguire quello che ci proponiamo quando parliamo in stile solenne, che cioè il bene morale venga amato e il male fuggito, sempre che la gente non sia così aliena da questo effetto da richiedere, a nostro avviso, proprio il parlare solenne. Lo usiamo inoltre affinché coloro che praticano il bene lo facciano con più cura e vi perseverino con maggiore fermezza. Ne segue che noi usiamo del genere temperato con la sua eleganza non per vanagloria ma conforme a sapienza; non ci contentiamo di dilettare l'uditore ma procuriamo che, anche con l'uso di questo genere, venga aiutato a raggiungere il bene che gli vogliamo inculcare.
La scelta dello stile nell'oratore ecclesiastico.
26. 56. Colui che parla con sapienza e si propone di parlare anche con eloquenza deve ricorrere a questi tre generi del dire, se vuol essere ascoltato in modo da essere compreso, da tornare gradito e da ottenere l'adesione. L'affermazione però non si deve intendere quasi che i singoli effetti corrispondano all'uno o all'altro dei tre generi, dimodoché al genere dimesso corrisponda l'essere udito con comprensione, al temperato l'essere udito con gradimento e al solenne l'essere udito con adesione. Comunque, l'oratore abbia sempre di mira queste tre finalità e per quanto può veda di conseguirle tutte, anche quando si limita ad uno solo di quei tre generi. Non vogliamo infatti procurare della noia quando parliamo in stile dimesso e per questo vogliamo essere ascoltati non solo in modo da essere compresi ma anche accolti volentieri. E quando insegniamo desumendo il nostro dire dalle testimonianze di Dio, cosa ci proponiamo se non d'essere ascoltati docilmente, cioè che si presti loro fede con l'aiuto di colui al quale fu detto: Le tue testimonianze sono tutte molto degne di fede 81? Colui infatti che, sebbene con linguaggio dimesso, racconta qualcosa a chi la deve imparare, cosa intende se non che gli si creda? E chi vorrà ascoltarlo se non si concilia l'uditore anche con una certa eleganza? Se infatti non lo si comprende, chi non si rende conto che egli non potrà essere ascoltato né volentieri né docilmente? Spessissimo capita infatti che con il parlare dimesso si sciolgano questioni difficilissime e le si rendano chiare con una descrizione inattesa. Con esso parimenti si traggon fuori sentenze acutissime da non so quali nascondigli, da cui mai si sarebbe sospettato e le si mette in luce. Ci si convince di errore l'avversario e ci si insegna essere falso ciò che da lui era detto in maniera che sembrava irrefutabile. Con questo genere può andare unita soprattutto una grazia, non ricercata ma in certo qual modo ad esso connaturale, e un certo ritmo di clausole creato non per vanteria ma come necessario [al fraseggiare] e, per così dire, tratto dall'intimo delle cose stesse. In tali ipotesi lo stile dimesso è capace di strappare acclamazioni tali che a stento lo si potrebbe prendere per stile dimesso. Non dipende in realtà dal fatto che avanza disadorno o disarmato ma lotta a corpo nudo se riesce ad abbattere l'avversario con i nervi e con i muscoli, e così con le sue membra fortissime abbatte e distrugge la falsità che gli oppone resistenza. E perché mai con tanta frequenza e insistenza si acclamano coloro che usano questo genere del dire se non perché la verità così dimostrata, difesa e resa invincibile, provoca anche del piacere? Comunque, il nostro dottore e oratore anche quando usa questo genere dimesso deve ottenere il risultato di parlare non solo in modo da essere compreso ma anche ascoltato volentieri e docilmente.
Cautele nell'uso dello stile temperato.
26. 57. Anche l'eloquenza di genere temperato non è lasciata disadorna né la si abbellisce in maniera disdicevole dall'oratore ecclesiastico. Egli non cerca solo di piacere, unico intento che riscontra presso gli oratori profani, ma anche nelle cose che elogia o disapprova vuole senza dubbio essere ascoltato docilmente sia per quanto concerne il desiderare e conservare le une come nell'evitare e respingere le altre. Se però quando lo si ascolta non lo si comprende, non può nemmeno essere ascoltato volentieri. Pertanto quelle tre finalità, che cioè gli uditori comprendano, provino godimento e obbediscano, le si deve avere in vista anche in questo genere dove il primo posto lo tiene senza dubbio il dilettare.
Cautele nell'uso dello stile solenne.
26. 58. Quando poi è necessario smuovere e convincere l'uditore col genere solenne - e questo è necessario quando costui riconosce che si dice la verità e la si dice attraentemente ma poi si ricusa di fare quanto vien detto -, allora senza dubbio bisogna ricorrere all'eloquenza solenne. Ma chi potrà muoversi all'azione senza conoscere quel che gli si dice? o chi viene afferrato in modo che presti ascolto se non ci prova alcun gusto? Ne segue che anche in questo genere, dove con la solennità del dire ci si preoccupa di piegare all'obbedienza il cuore indurito, l'oratore non sarà ascoltato docilmente se non è ascoltato in maniera da essere compreso e affascinato.
L'efficacia dell'oratore dipende dalla vita che vive.
27. 59. Per essere ascoltato docilmente, più che non la solennità dell'elocuzione, ha peso senza dubbio la vita dell'oratore. In effetti, uno che parla dottamente ed eloquentemente ma vive malamente, istruisce certo molti che sono bramosi di imparare ma, come sta scritto, non reca alcuna utilità alla sua anima 82. Al riguardo dice anche l'Apostolo: Sia per secondi fini sia con sincerità, purché si annunzi Cristo 83. In effetti Cristo è la verità, e tuttavia la verità può essere annunziata non con verità, cioè le cose giuste e vere possono essere predicate con cuore perverso e mendace. Così ad esempio viene annunziato Gesù Cristo da coloro che cercano i propri vantaggi, non quelli di Gesù Cristo. I buoni fedeli tuttavia, quando ascoltano, obbediscono non a un qualsiasi uomo ma al Signore in persona, secondo quello che egli diceva: Fate ciò che dicono ma non fate quello che fanno, poiché dicono e non fanno 84. Per questo motivo si ascoltano utilmente anche coloro che non agiscono con profitto personale. In realtà essi vanno in cerca del proprio interesse ma non ardiscono insegnare dottrine personali, almeno quando parlano dall'alto della sede che occupano nella Chiesa e che è costituita dalla sana dottrina. In vista di ciò lo stesso Signore, prima di dire a loro riguardo quel che ho sopra ricordato, diceva: Sedettero sulla cattedra di Mosè 85. Orbene quella cattedra, non loro ma di Mosè, li costringeva a parlare bene, pur comportandosi male. Nella loro vita agivano guardando al proprio interesse; dall'insegnare cose proprie li distoglieva quella cattedra, che apparteneva ad altri.
Il predicatore confermi con la vita la parola che annunzia.
27. 60. Gli oratori che dicono cose che non fanno giovano, è vero, a molti; ma facendo quello che dicono gioverebbero a molti di più. Abbondano infatti persone che cercano di difendere la loro cattiva condotta appellandosi ai propri superiori e maestri. Nel loro cuore o, se la cosa giunge a farli sbottare, anche con la loro bocca rispondono dicendo: Ciò che comandi a me tu perché non lo fai? Succede così che non ascoltino docilmente il predicatore che, lui personalmente, non si ascolta e, insieme al predicatore, disprezzano la stessa parola di Dio che viene loro annunziata. Ne scrive l'Apostolo a Timoteo. Dopo avere detto: Nessuno disprezzi la tua età giovanile, aggiunge anche il motivo per cui non deve essere disprezzato e dice: Ma sii modello ai fedeli nel parlare, nel comportamento, nell'amore, nella fede, nella castità 86.
Più che di piacere si cerchi di giovare.
28. 61. Un maestro di questo tipo, che voglia essere ascoltato docilmente, potrà parlare senza falsi pudori non solo usando lo stile dimesso e quello temperato ma anche quello solenne, per il fatto che non conduce una vita sciatta. Si è scelto la vita buona non trascurando nemmeno la buona fama ma arricchendosi di beni dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini 87, temendo per quanto può l'uno e cercando il bene dei suoi simili. Anche nel suo parlare preferisce piacere più per le cose [che dice] che non per le parole [con cui le dice] e non ritiene di parlare meglio se non quando parla più conforme a verità. Un tal maestro non sarà servo della parola ma la parola del maestro. Questo infatti inculcava l'Apostolo: Non nella sapienza della parola perché non sia privata della sua efficacia la croce di Cristo 88. Si riferisce a questo anche quanto detto a Timoteo: Non disputare a parole, cosa che non giova ad altro se non alla rovina di chi ascolta 89. Non che questo sia detto al fine di non farci dire nulla in favore della verità quando gli avversari la impugnano. Dove andrebbero, se no, a finire le parole che, fra l'altro, dice mostrando quale debba essere il vescovo: Che sappia insegnare la sana dottrina e controbattere gli avversari 90? Non sono infatti, le dispute di parole, arti per vincere l'errore con la forza della verità ma piuttosto per ottenere che le tue parole siano preferite a quelle dell'altro. Viceversa chi non fa dispute di parole, sia che parli in stile dimesso o temperato o solenne, questo intende con le sue parole: che la verità divenga palese, la verità piaccia, la verità spinga all'azione. Difatti anche la carità, che è fine del precetto e pienezza della legge 91, in nessun modo può essere buona quando le cose amate non sono vere ma false. È come quando uno ha bello il corpo ma deforme lo spirito: è da compiangersi più che se avesse deforme anche il corpo. Lo stesso si deve dire di quanti parlano eloquentemente di cose false: sono da compiangersi più che se ne parlassero in maniera sgraziata. In che cosa consiste dunque il parlare non solo con eloquenza ma anche con sapienza? Nell'usare, per le cose vere che occorra porgere all'uditorio, parole appropriate nel genere dimesso, brillanti nello stile temperato e possenti nello stile solenne. Ma se uno non riesce a ottenere le due cose insieme, preferisca dire con sapienza ciò che non sa dire con eloquenza, anziché dire con eloquenza cose insulse.
29. 61. Che se nemmeno questo [parlare in sapienza] gli riesce, si comporti in modo da dare agli altri il buon esempio, e faccia in modo che la sua condotta sia per loro una predica efficace.
L'ecclesiastico poco eloquente può attingere a discorsi scritti da altri.
29. 62. Ci sono, è vero, persone che possono declamare un bel discorso ma non riescono a comporre ciò che debbono pronunziare. In tal caso prendano uno scritto eloquente e sapiente composto da altri, lo imparino a memoria e lo declamino al popolo. Impersonandosi con l'altro, non fanno una cosa riprovevole. In questo modo, certo molto utile, un gran numero di persone diventano annunziatori della verità, pur non essendone maestri, purché tutti vadano d'accordo nel riferire le parole dell'unico Maestro e non ci siano scissioni fra loro 92. Persone come queste non le si deve spaventare con le parole del profeta Geremia, per bocca del quale Dio rimprovera coloro che rubano le sue parole, ciascuno dal suo vicino 93. Quelli che rubano infatti prendono la roba degli altri, ma la parola di Dio non è roba di altri se chi la prende è a lui soggetto; sarebbe roba altrui se uno, pur riferendola bene, vivesse male. Il bene che dice sembrerebbe concepito dal suo ingegno, ma in realtà è in contrasto con i suoi costumi. Pertanto dice Dio che rubano le sue parole coloro che vogliono apparire buoni, dicendo le cose di Dio, mentre invece sono cattivi regolandosi a proprio talento. Infatti, se ci badi attentamente, non sono essi a dire il bene che dicono. Come potrebbero infatti dirlo a parole se con la vita lo rinnegano? Non senza un perché di costoro dice l'Apostolo: Professano di conoscere Dio ma a fatti lo rinnegano 94. Da un lato dunque sono essi che dicono, dall'altro lato non sono essi, poiché sono vere tutte e due le cose asserite dalla Verità. Parlando infatti di gente come questa diceva: Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno 95. Cioè: Fate quel che ascoltate dalla loro bocca, ma non fate ciò che vedete nelle loro opere. E seguitava: poiché dicono ma non fanno 96. Dunque sebbene non pratichino, tuttavia dicono. Ma in un altro passo, rimproverando gente come questa, diceva: Ipocriti, come potete dire cose buone se siete cattivi? 97 Sotto questo aspetto anche le cose che dicono, quando parlano di cose buone, non sono loro a dirle in quanto con la volontà e la condotta rinnegano quello che dicono. Così capita che un uomo facondo e cattivo componga un discorso in cui si annunzia la verità affinché sia pronunziato da un altro che non è elegante ma buono. In questo caso il primo da dentro se stesso estrae cose non sue, quest'altro da una sorgente a lui estranea riceve cose sue. Quando poi i buoni fedeli prestano quest'opera ad altri buoni fedeli, tanto gli uni che gli altri dicono cose proprie, poiché loro è il Dio a cui appartengono le cose che essi dicono ed essi se le rendono proprie perché, anche se non furono loro a comporre il testo, tuttavia vi conformano la vita vivendo secondo quelle norme.
Per ben predicare è necessario premettere la preghiera.
30. 63. Ecco dunque il nostro oratore sul punto di pronunciare il suo discorso davanti al popolo o a un qualsiasi gruppo, ovvero sul punto di dettare quel che sarà riferito al popolo o letto da chi vorrà o potrà. Preghi Dio affinché gli ponga in bocca un buon discorso 98. Se infatti la regina Ester, prima di parlare al re della salvezza temporale del suo popolo, pregò affinché Dio ponesse sulla sua bocca un discorso adeguato, quanto più deve pregare per ricevere un tal dono colui che si industria di ottenere con le parole e la scienza la salute eterna di tante persone 99? Quanto poi a coloro che proclameranno cose ricevute da altri, preghino prima di riceverle per coloro da cui le riceveranno, affinché sia dato ad essi ciò che da essi vogliono ricevere, e dopo che l'hanno ricevuto preghino affinché loro stessi possano ben proclamarlo e perché coloro per il cui bene si proclama lo ricevano. E della felice riuscita della proclamazione rendano grazie a colui dal quale, ne sono certi, hanno ricevuto il dono, di modo che chi si gloria si glori 100 in colui nelle cui mani siamo noi e tutti i nostri discorsi 101.
Agostino è soddisfatto dell'opera scritta, sebbene la ritenga prolissa.
31. 64. Il libro mi è riuscito più lungo di quel che volessi o pensassi; ma non sarà lungo per colui che leggendolo o ascoltandolo, lo troverà gradito. Se poi per qualcuno è lungo e d'altronde lo vuole conoscere, lo legga per parti. Quanto poi a colui che non si cura di conoscerlo, non si lamenti della sua lunghezza. Per me personalmente, io ringrazio il nostro Dio per avere potuto in questi quattro libri esporre - sia pure con le modeste risorse a me date - non chi o come sono io (al quale molte cose difettano) ma chi e quale debba essere colui che si ingegna di recare non solo a se stesso ma anche agli altri un valido contributo fatto di dottrina sana, cioè cristiana.
Note:
1 - Cf. supra 1, 1, 1.
2 - Cf. CICERO, De orat. 3, 146.
3 - Cf. CICERO, De inv. 1, 1.
4 - Sap 6, 26.
5 - Rm 5, 3-5.
6 - 2 Cor 11, 16-30.
7 - 2 Cor 11, 31.
8 - 2 Cor 11, 6.
9 - Cf. 2 Cor 10, 10.
10 - Cf. Amos 7, 14-15.
11 - Amos 6, 1-6.
12 - Amos 6, 1.
13 - Amos 6, 2-3.
14 - Amos 6, 4.
15 - Amos 6, 5-6.
16 - Ibidem.
17 - Amos 6, 4.
18 - Amos 6, 5-6.
19 - Amos 6, 6.
20 - Cf. CICERO, De orat. 1, 146; Brutus 30. 46.
21 - Cf. CICERO, De orat. 1, 78.
22 - Sal 15, 4.
23 - Cf. CICERO, De orat. 1, 69.
24 - Ger 5, 30-31.
25 - Cf. Ger 46, 22.
26 - Sal 34, 18.
27 - CYPR., Ad Donat. 1.
28 - Cf. Sap 7, 16.
29 - Mt 10, 19-20.
30 - Mt 6, 8.
31 - 1 Tm 4, 11.
32 - 1 Tm 5, 1.
33 - 2 Tm 1, 13.
34 - 2 Tm 2, 15.
35 - 2 Tm 4, 2.
36 - Tt 1, 9.
37 - Tt 2, 1-2.
38 - Tt 2, 15.
39 - Tt 3, 1.
40 - 1 Cor 3, 7.
41 - Sal 142, 10.
42 - 2 Tm 3, 14.
43 - CICERO, De orat. 1, 101.
44 - Lc 16, 10.
45 - 1 Cor 6, 1-9.
46 - Cf. Mt 10, 42.
47 - Cf. 2 Mac 1, 32.
48 - Gal 4, 21-26.
49 - Gal 3, 15-18.
50 - Gal 3, 19-21.
51 - Gal 3, 22.
52 - 1 Tm 5, 1-2.
53 - Rm 12, 1.
54 - Rm 12, 6-16.
55 - Rm 13, 6-8.
56 - Rm 13, 12-14; cf. Confess. 8, 12, 29.
57 - Cf. HIERON., In Iob. Prol..
58 - VERG., Aen. 7, 507.
59 - 2 Cor 6, 2-11.
60 - Sal 43, 22.
61 - Rm 8, 28-39.
62 - Gal 4, 10-20.
63 - Gv 15, 1.
64 - Cf. Gn 9, 20-23.
65 - Gn 14, 18.
66 - Sal 109, 4; CYPR., Ep. 63, 2-4 (ad Caecilium, de Sacram. calicis)
67 - Cf. Gd 6, 11-21.
68 - 1 Cor 10, 4.
69 - Nm 11, 4.
70 - Lc 12, 49; AMBROS., De Spiritu S., prol. 2-3.
71 - CYPR., De disciplina et habitu virginum 3, 23.
72 - 1 Cor 15, 49.
73 - CYPR., De disciplina et habitu virginum 3, 24.
74 - Cf. 1 Tm 6, 17.
75 - Cf. TEREN., Adelph. 864.
76 - AMBROS., De virgin. 2, 2, 7-8.
77 - 1 Cor 5, 7-8.
78 - Mt 5, 36.
79 - CYPR., De disciplina et habitu virginum 15 ss.
80 - AMBROS., De virgin. 1, 6, 2.
81 - Sal 92, 5.
82 - Sir 37, 22.
83 - Fil 1, 18.
84 - Mt 23, 2.
85 - Mt 23, 2.
86 - 1 Tm 4, 12.
87 - Cf. 2 Cor 7, 21.
88 - 1 Cor 1, 17.
89 - 2 Tm 2, 14.
90 - Tt 1, 9.
91 - 1 Tm 1, 5; Rm 13, 10.
92 - Cf. 1 Cor 1, 10.
93 - Ger 23, 30.
94 - Tt 1, 16.
95 - Mt 23, 3.
96 - Ibid.
97 - Mt 12, 34.
98 - Cf. Est 14, 13.
99 - Cf. 1 Tm 5, 17.
100 - 1 Cor 1, 31.
101 - Cf. Sap 7, 16.
5 - La conoscenza che l'Altissimo mi diede della sacra Scrittura.
La mistica Città di Dio - Libro primo - Suor Maria d'Agreda
Leggilo nella Biblioteca52. Parlerò, o Signore, con la tua grande Maestà, poiché sei il Dio della misericordia, sebbene io sia polvere e cenere, e supplicherò la tua incomprensibile grandezza affinché dal tuo trono altissimo tu guardi a questa vilissima e inutilissima creatura, e affinché tu mi sia propizio, continuando a darmi la tua luce per illuminare il mio intelletto. Parla, o Signore, la tua serva ascolta. Parlò dunque l'Altissimo che corregge i saggi e, rimandandomi al capitolo ottavo dei Proverbi, mi illuminò su questo mistero, come è lì contenuto, e innanzi tutto me ne rivelò il senso letterale, che è il seguente:
53. Il Signore mi possedette nel principio delle sue vie, prima che facesse cosa alcuna, dal principio. Fui ordinata dall'eternità e dalle cose antiche, prima che fosse fatta la terra. Ancora non esistevano gli abissi e già io ero concepita; ancora non erano scaturite le sorgenti delle acque, né i monti si erano stabiliti col loro greve peso; prima dei colli io venivo generata, prima che facesse la terra, i fiumi e i cardini del mondo; quando preparava i cieli, io ero presente; quando con legge certa e tracciando un cerchio arginava gli abissi, quando nell'alto dava consistenza ai cieli e pesava le fonti delle acque; quando circondava il mare col suo confine e dava ordine alle acque perché non uscissero dai loro confini; quando poneva le fondamenta della terra, io ero con lui, disponendo tutte le cose, ogni giorno mi dilettavo, scherzando continuamente dinanzi a lui, scherzando sul globo terrestre, e la mia delizia era stare con i figli degli uomini.
54. Sin qui è il passo dei Proverbi su cui l'Altissimo mi illuminò. Anzitutto intesi che tratta delle idee e dei decreti presenti nella sua mente divina prima di creare il mondo; compresi che letteralmente parla della Persona del Verbo incarnato e della sua Madre santissima e misticamente dei santi angeli e profeti; poiché prima di fissare e formare le idee per creare il resto delle creature materiali, ideò e determinò l'umanità santissima di Gesù Cristo e della sua purissima Madre: questo significano le prime parole.
55. Il Signore mi possedette nel principio delle sue vie. In Dio non vi furono vie, né la sua divinità ne aveva bisogno, eppure le fece, perché per queste vie tutte le creature capaci di conoscerlo io conoscessero e si recassero a lui. In questo principio, prima che nella sua idea creasse qualunque altra cosa, e quando voleva fare sentieri ed aprire cammini nella sua mente divina per comunicare la sua divinità e per dare inizio a tutto, dapprima stabilì di creare l'umanità del Verbo, che doveva essere la via per cui gli altri sarebbero andati al Padre. Insieme a questo decreto vi fu quello relativo alla sua santissima Madre, per mezzo della quale la Divinità doveva venire nel mondo, formandosi e nascendo da lei come Dio e come uomo. Perciò dice: «Dio mi possedette». Infatti la Maestà divina li possedette ambedue. Possedette il Figlio in quanto Dio, perché come tale già era possesso, proprietà e tesoro del Padre, senza potersene separare, dato che sono una stessa sostanza divina con lo Spirito Santo. Non meno lo possedette in quanto uomo, per la conoscenza e il decreto della pienezza di grazia e di gloria che gli avrebbe elargito fin dalla sua creazione ed unione ipostatica. Ma poiché tale decreto e possesso non si doveva eseguire se non per mezzo della Madre, che avrebbe generato e partorito il Verbo, giacché non stabilì di crearne il corpo dal niente, né da altra materia, era conseguente che egli possedesse colei che doveva dargli forma umana. E così la possedette e la riservò per sé in quello stesso istante, volendo efficacemente che in nessun tempo e momento avesse diritto o parte in lei, per quanto spetta alla grazia, il genere umano, né alcun altro, ma solamente lui, il Signore. Egli si impadronì di questa proprietà come di parte unicamente sua, come doveva essere per dargli forma umana della sua stessa sostanza; solo lei poteva chiamarlo figlio ed egli poteva chiamare solo lei madre, e madre degna di avere un Dio per figlio, volendosi Dio fare uomo. Ora, come tutto questo precedeva in dignità tutto il creato, così dovette anche precedere nella volontà e mente del supremo Creatore. Perciò dice:
56. Prima che facesse cosa alcuna, dal principio. Fui ordinata dall'eternità e dalle cose antiche. In questa eternità di Dio, che noi concepiamo ora come rappresentandoci un tempo interminabile, quali erano le cose antiche, se non ve n'era ancora nessuna creata? È' chiaro che egli parla delle tre Persone divine e vuol dire che dalla sua divinità senza principio e da quelle cose che solo sono antiche, cioè la Trinità indivisa - poiché il resto, che ha principio, è tutto nuovo - l'unione del Verbo eterno con l'umanità per mezzo della santissima Vergine fu ordinata quando solo esistere l'antico Increato e prima che s'immaginasse il futuro da crearsi. Entro questi due estremi si pose al centro l'unione ipostatica, con l'intervento di Maria santissima, cosicché entrambi, Cristo e Maria, furono ordinati immediatamente dopo Dio e prima di ogni altra creatura. Tale ordine fu il più ammirabile che mai si fece e che mai si farà. Così la prima e più stupenda immagine della mente di Dio, dopo l'eterna generazione, fu quella di Cristo, e subito dopo quella della sua Madre.
57. Di fatto, quale altro, se non questo, può essere stato l'ordine che qui si pone in Dio: in lui l'ordine consiste nell'essere tutto unito ciò che ha in se stesso, senza bisogno che una cosa tenga dietro all'altra, né che alcuna si perfezioni aspettando le perfezioni dell'altra, succedendosi tra loro stesse. Tutto fu ordinatissimo nella sua eterna natura, lo è e sempre lo sarà. Quello che ordinò fu che la persona del Figlio s'incarnasse e da questa umanità divinizzata cominciasse l'ordine del volere divino e dei suoi decreti, che fosse il capo e l'esempio di tutti gli altri uomini e di tutte le altre creature, al quale tutti fossero ordinati e subordinati. Questo infatti era il più perfetto ordine ed accordo nell'armonia delle creature: che uno fosse primo e superiore e da lui avesse inizio l'ordine di tutta la natura, specialmente quella dei mortali. Ma tra questi la prima era la Madre dell'uomo-Dio, come la suprema tra le semplici creature umane, la più vicina a Cristo e, per mezzo di lui, alla Divinità. Con tale ordine cominciò a sgorgare dal trono di Dio l'acqua di fonte cristallina, in maniera che scorresse prima verso l'umanità del Verbo, e subito dopo verso la sua santissima Madre nel grado e nel modo possibile ad una semplice creatura, ma altresì adeguato ad una creatura che fosse Madre dello stesso creatore. Ora, era opportuno che tutti gli attributi divini si effondessero in lei e che non gliene fosse negato alcuno, per quanto fosse capace di riceverne, essendo inferiore unicamente a Cristo nostro Signore, ma incomparabilmente superiore in gradi di grazia a tutte le altre creature capaci di grazia e di doni. Questo fu l'ordine disposto dalla Sapienza: incominciare da Cristo e dalla Madre sua; per questo il testo aggiunge:
58. Prima che fosse fatta la terra. Ancora non esistevano gli abissi e già io ero concepita. La terra di cui qui si parla è quella del primo Adamo. Prima che si decidesse la sua formazione e che nella mente divina si formassero gli abissi delle idee ad extra, Cristo e la Madre sua erano già ideati e formati. Si chiamano abissi perché tra l'essere di Dio increato e quello delle creature vi è una distanza infinita e questa, a nostro modo d'intendere, fu misurata solo quando le creature furono ideate e formate, poiché proprio allora furono nel loro modo quegli abissi di distanza immensa. Ma prima di tutto questo il Verbo era già concepito: non solo per la generazione eterna del Padre, ma anche perché era stabilita e concepita nella mente divina la sua generazione temporale da Madre vergine piena di grazia, mentre senza la madre, e tale madre, non si poteva determinare questa generazione temporale con efficace e compiuto decreto. Qui dunque, in quella immensità beatifica fu concepita, allora, Maria santissima e la sua memoria eterna fu scritta nel seno di Dio, affinché per tutti i secoli e l'eternità non fosse mai cancellata. Così restò impressa e disegnata dal supremo Artefice nella sua mente divina e posseduta dal suo amore con inseparabile amplesso.
59. Ancora non erano scaturite le sorgenti delle acque. Ancora le immagini e le idee delle creature non erano uscite dall'origine e dal principio loro, dato che non erano ancora sgorgate le fonti della Divinità, per mezzo dei canali della bontà e della misericordia affinché la volontà divina decidesse l'universale creazione e la comunicazione dei suoi attributi e delle sue perfezioni. Infatti, rispetto a tutto il resto dell'universo, queste acque e queste sorgenti erano ancora trattenute e racchiuse nell'immenso pelago della Divinità, non avendo nel loro stesso essere scaturigini né correnti per manifestarsi e non essendo state inviate agli uomini; ma appena cominciarono ad esistere, furono indirizzate a Cristo e alla sua Madre vergine. Quindi si aggiunge:
60. Né i monti si erano stabiliti col loro greve peso: perché fino ad allora Dio non aveva ancora deciso neppure la creazione degli alti monti, vale a dire dei Patriarchì, dei Profeti, degli Apostoli, dei Martiri e degli altri Santi di maggiore perfezione, né ancora era stato stabilito il decreto di così importante decisione col suo greve peso e con la sua equità, in quel modo forte e soave che ha Dio nei suoi consigli e nelle sue grandi opere. Inoltre ella fu generata non solamente prima dei monti, che sono i grandi santi, ma prima delle colline, che sono gli ordini dei santi angeli, prima dei quali fu formata nella mente divina sia l'umanità santissima di Gesù Cristo unita ipostaticamente al Verbo divino, sia la Madre che la generò. Questo Figlio e questa Madre furono prima di tutti gli ordini angelici, per cui, se Davide disse nel salmo 8: Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, tutti devono intendere e conoscere che Cristo è insieme uomo e Dio, e che appunto perché è Dio, e ad un tempo uomo superiore, sta al di sopra di tutti gli uomini e di tutti gli angeli, e tutti sono inferiori e servi suoi. Ne consegue che egli è primo nella mente e nella volontà divina e, unitamente e inseparabilmente con lui, vi è una Donna e vergine purissima, perché madre sua e quindi superiora e regina di ogni altra creatura.
61. Intanto se l'uomo - come dice lo stesso salmo - fu coronato di onore e di gloria e costituito sopra tutte le opere delle mani del Signore, questo fu perché l'uomo-Dio suo capo gli meritò tale corona, come meritò quella che ebbero gli angeli. Di conseguenza, lo stesso salmo, dopo aver detto che l'uomo fu abbassato ad essere inferiore agli angeli, aggiunge che lo costituì sopra le opere delle sue mani, cioè anche sopra gli angeli, perché anch'essi sono opera delle sue mani. E così Davide comprese tutto dicendo che Dio fece gli uomini poco inferiori agli angeli, ma che, se erano inferiori nella natura, doveva pure esservene uno che fosse superiore e costituito sopra gli stessi angeli perché anch'essi opera delle mani di Dio. Questa superiorità aveva origine dall'essere della grazia, cioè non derivava solo dalla divinità unita all'umanità, ma anche dall'umanità stessa, in virtù della grazia che dall'unione ipostatica sarebbe risultata in essa e poi nella sua Madre santissima. Non solo, ma persino alcuni dei santi, in virtù dello stesso Signore incarnato, possono conseguire un grado ed un seggio superiore agli stessi angeli. Ora, dice:
62. Io venivo generata ed è più che dire concepita. Infatti, l'essere concepita si riferisce all'intelletto divino della beatissima Trinità quando fu conosciuta e quando fu come discussa l'opportunità dell'incarnazione, mentre l'essere generata si riferisce alla volontà che decise quest'opera perché fosse eseguita efficacemente, poiché la santissima Trinità nel suo divino concistoro stabilì e in un certo senso eseguì prima di tutto in se stessa quest'opera meravigliosa dell'unione ipostatica e dell'essere di Maria santissima. Perciò, in questo capitolo, prima dice che fu concepita e poi che fu generata, ossia costituita, perché dapprima fu conosciuta e subito dopo determinata e voluta.
63. Prima che facesse la terra, i fiumi e i cardini del mondo. Prima di formare un'altra terra - perciò ripete due volte terra - cioè quella del paradiso terrestre, dove il primo uomo fu trasportato dopo essere stato creato dalla prima terra, dalla polvere (dal campo di Damasco), prima di questa seconda terra in cui l'uomo peccò, fu stabilito di creare l'umanità del Verbo, nonché la materia da cui doveva essere formato, che era la Vergine, dato che Dio doveva prevenirla affinché non avesse parte nel peccato, né fosse ad esso soggetta. I fiumi e i cardini del mondo sono la Chiesa militante e i tesori della grazia e dei doni che con impeto dovevano sgorgare dalla sorgente della Divinità, raggiungendo tutti, e, in modo particolarmente efficace, i santi e gli eletti. Essi appunto come cardini si muovono in Dio, rimanendo dipendenti dal suo volere attraverso le virtù della fede, della speranza e della carità, mediante le quali si sorreggono, si animano e si regolano, muovendosi verso il sommo bene ed ultimo fine, nonché verso le relazioni con gli uomini, senza perdere i cardini a cui si appoggiano. Ancora qui si comprendono i sacramenti e l'ordinamento della Chiesa, la sua protezione ed invincibile fermezza, la sua bellezza e santità senza macchia né ruga perché appunto ciò significano questo «mondo» e questi «fiumi» della grazia. Ora, prima che l'Altissimo preparasse tutto ciò, ordinasse questo «mondo» e corpo mistico di cui Cristo nostro bene doveva essere capo, decise l'unione del Verbo con la natura umana e ne stabilì la Madre, per mezzo ed intervento della quale avrebbe operato queste meraviglie nel mondo.
64. Quando preparava i cieli, io ero presente. Quando preparava e predisponeva il cielo e il premio che voleva elargire ai giusti figli di questa Chiesa dopo il loro esilio, era lì presente l'umanità unita col Verbo, meritando loro come capo la grazia, e con lui era presente altresì la sua Madre santissima. Dio, avendo preparato al Figlio e alla Madre la maggior parte di tale gloria, sul loro esempio, preparava e predisponeva quella che voleva dare agli altri santi.
65. Quando con legge certa e tracciando un cerchio arginava gli abissi... Questo versetto sta a significare che Dio decideva di cingere gli abissi della sua divinità nella Persona del Figlio, con legge e confine certi, che nessun vivente avrebbe potuto vedere né comprendere, quando faceva questo cerchio e questa specie di argine. In esso nessuno mai poté, né può, penetrare fuorché il solo Verbo - dato che egli solo può comprendere se stesso - per umiliarsi e racchiudere la divinità nell'umanità, la divinità ed umanità insieme prima nel ventre di Maria santissima e poi nella piccola quantità e nelle specie del pane e del vino, e infine con esse nell'angusto petto di un uomo peccatore e mortale. Tutto questo indicavano quegli abissi, quella legge, quel cerchio o confine, che chiama legge certa sia per il molto che comprende, sia per segnare la certezza di questo fatto, che pareva impossibile ad essere quanto malagevole a spiegarsi. Invero, non pare che Dio potesse sottostare a una legge, né chiudersi entro limiti determinati, eppure tanto poté fare e rese possibile la sapienza e la potenza del Signore stesso, nascondendosi in una cosa limitata.
66. Quando nell'alto dava consistenza ai cieli e pesava le fonti delle acque; quando circondava il mare col suo confine e dava ordine alle acque perché non uscissero dai loro confini. Qui ai giusti dà il nome di cieli, perché lo sono, poiché Dio ha in loro la sua dimora per mezzo della grazia, per la quale dà ad essi sede e fermezza, sollevandoli - quantunque viatori - al di sopra della terra, secondo le disposizioni di ciascuno, e poi, nella Gerusalemme celeste, dà loro luogo e sede, secondo i loro meriti. Per essi soppesa le fonti delle acque e le divide, distribuendo a ciascuno con equità e peso i doni della grazia e della gloria, le virtù, gli aiuti e le perfezioni, secondo quello che la divina sapienza dispone. Quando fu deciso di fare questa divisione delle acque, fu stabilito di dare all'umanità unita al Verbo tutto il mare della grazia e dei doni che gli derivava dalla divinità in quanto Unigenito del Padre. Ora, benché questo mare fosse infinito, gli si pose un confine, che fu l'umanità in cui abita la pienezza della divinità. In questo confine rimase nascosta trentatré anni, per poter abitare con gli uomini, e perché non accadesse a tutti come ai tre Apostoli sul Tabor. Nello stesso istante in cui tutto questo mare e queste fonti della grazia giunsero a Cristo Signore nostro, come immediato alla Divinita, ridondarono anche nella sua Madre santissima come immediata al suo Figlio unigenito. Infatti senza la Madre, e tale madre, non sarebbero stati disposti ordinatamente, con tutta perfezione, i doni del suo Figlio, né poteva cominciare con altro fondamento l'ammirabile armonia della creazione celeste e spirituale, nonché la distribuzione dei doni nella Chiesa militante e in quella trionfante.
67. Quando poneva le fondamenta della terra, io ero con lui, disponendo tutte le cose. Le opere ad extra sono comuni a tutte e tre le Persone divine, perché tutte sono un solo Dio, una sola sapienza, un solo potere, cosicché era necessario e inevitabile che il Verbo, in cui secondo la Divinità furono fatte tutte le cose, fosse col Padre per farle. Ma qui dice di più, perché anche in quanto uomo il Verbo era già presente nella volontà divina con la sua Madre santissima, dato che, come per mezzo del Verbo in quanto Dio furono fatte tutte le cose, così in primo luogo per lui, come il fine più nobile e degno, furono create le fondamenta della terra e tutto quanto è contenuto in essa. Per questo dice:
68. Ogni giorno mi dilettavo, scherzando continuamente dinanzi a lui, scherzando sul globo terrestre. Il Verbo incarnato gioiva tutti i giorni, perché conosceva tutti i giorni dei secoli e le vite dei mortali che, confrontate con l'eternità, sono un breve giorno. Di questo gioiva: che la successione dei secoli avrebbe avuto un termine, affinché, compiuto l'ultimo giorno in tutta perfezione, gli uomini godessero della grazia e corona di gloria. Gioiva, come enumerando i giorni in cui sarebbe disceso dal cielo in terra ad assumere la natura umana. Sapeva che i pensieri e le opere degli uomini erano come uno scherzo e che tutti erano burla ed inganno. Guardava ai giusti, che, comunque deboli e limitati, erano tuttavia adatti a ricevere la comunicazione e manifestazione della sua gloria e delle sue perfezioni. Guardava il suo stesso essere immutabile, la pochezza degli uomini e come doveva incarnarsi tra loro; si dilettava nelle sue stesse opere, particolarmente in quelle che disponeva per la sua Madre santissima, dalla quale gli era tanto gradito prendere forma d'uomo, facendola degna di un'opera così ammirabile. Erano questi i giorni nei qua-li il Verbo incarnato si deliziava. E siccome al concepire e ideare tutte queste opere e alla decisione efficace della divina volontà, doveva seguire l'esecuzione di tutte, il Verbo divino aggiunse:
69. La mia delizia era stare con i figli degli uomini. La mia delizia è patire per loro e favorirli, il mio piacere è morire per loro, la mia letizia essere loro maestro e riparatore. La mia delizia è sollevare il povero dalla polvere e unirmi all'umile, per questo abbassare la mia divinità, coprendola e nascondendola con la loro natura: annichilirmi e umiliarmi, sospendendo la gloria del mio corpo per farmi passibile e meritare loro l'amicizia del Padre mio, divenire mediatore tra la sua giustissima indignazione e la malizia degli uomini ed essere loro esempio e capo, che possano imitare e seguire. Queste sono le delizie del Verbo incarnato.
70. O Bontà incomprensibile ed eterna, quanto ammirata e sospesa io rimango, vedendo le immensità del vostro essere immutabile a confronto con la piccolezza dell'uomo! E quanto ancora vedendo il vostro amore farsi mediatore tra due estremi di tanto incomparabile distanza, amore infinito per una creatura non solamente piccola, ma anche ingrata! Oh, su quale oggetto basso e vile voi ponete, o Signore, i vostri occhi, e su quanto nobile oggetto poteva e doveva l'uomo porre gli occhi e gli affetti suoi, in vista di un così grande mistero! Sospesa nella meraviglia e nella tenerezza del mio cuore, lamento la sventura dei mortali, le tenebre e la cecità loro, perché non si dispongono a conoscere quanto presto la vostra Maestà cominciò a guardarli e a preparare loro la vera felicità, con tanta cura e con tanto amore, come se nella loro consistesse la vostra.
71. Fin da principio, ab initio, il Signore ebbe presente nella sua mente tutte le opere e il loro ordinamento, così come le doveva creare: le numerò e pesò con la sua equità e rettitudine. E come sta scritto nella Sapienza, conobbe la disposizione del mondo prima di crearlo, il principio, il mezzo e la fine dei tempi, i loro mutamenti, il ciclo degli anni, la disposizione delle stelle, la forza degli elementi, la natura degli animali, l'istinto delle bestie, la forza dei venti, le differenze delle piante, le virtù delle radici e i pensieri degli uomini. Tutto soppesò e numerò, e non solamente le creature materiali e razionali, come suona alla lettera, ma tutte lé altre che misticamente sono da queste significate e che tralascio, perché ora non è questo il mio intento.
Vacallo (Svizzera), 4 giugno 1995. Solennità di Pentecoste. Lingue di fuoco.
Don Stefano Gobbi
«Riuniti in uno straordinario Cenacolo di preghiera fatta con Me, figli prediletti, celebrate oggi la solennità della Pentecoste. Mi trovavo raccolta con gli apostoli e i discepoli, nel Cenacolo di Gerusalemme, quando avvenne il prodigio della discesa dello Spirito Santo, sotto forma di lingue di fuoco. E vidi con gioia il miracolo della loro completa trasformazione. Da timidi e paurosi che erano, uscirono dal Cenacolo coraggiosi ed intrepidi testimoni di Gesù e del suo Vangelo. Nel Cenacolo spirituale del mio Cuore Immacolato, ora deve compiersi il prodigioso evento della seconda Pentecoste, da voi invocata ed attesa. Scenderanno ancora sulla Chiesa e su tutta l'umanità miracolose lingue di fuoco.
- Lingue di fuoco divino porteranno calore e vita in una umanità ormai resa gelida dall'egoismo e dall'odio, dalla violenza e dalle guerre. Così la terra inaridita si aprirà al soffio dello Spirito di Dio, che la trasformerà in un nuovo meraviglioso giardino, in cui la Santissima Trinità porrà la sua abituale dimora fra voi.
- Lingue di fuoco scenderanno ad illuminare e a santificare la Chiesa, che vive l'ora tenebrosa del Calvario e viene percossa nei pastori, ferita nel gregge, abbandonata e tradita dai suoi, esposta al vento impetuoso degli errori, pervasa dalla perdita della fede e dalla apostasia. Il fuoco divino dello Spirito Santo la guarirà da ogni malattia, la purificherà da ogni macchia e da ogni infedeltà, la rivestirà di nuova bellezza, la ricoprirà del suo splendore, così che possa ritrovare tutta la sua unità e la sua santità ed allora darà al mondo la sua piena, universale e perfetta testimonianza a Gesù.
- Lingue di fuoco scenderanno su tutti voi miei poveri figli, tanto ingannati e sedotti da Satana e da tutti gli spiriti maligni, che, in questi anni, hanno ottenuto il loro grande trionfo. E così sarete illuminati da questa Luce divina e vedrete voi stessi nello specchio della verità e della santità di Dio.
Sarà come un giudizio in piccolo che aprirà la porta del vostro cuore a ricevere il grande dono della divina Misericordia. Allora lo Spirito Santo opererà il nuovo miracolo della universale trasformazione nel cuore e nella vita di tutti: i peccatori si convertiranno; i deboli avranno sostegno; gli ammalati otterranno guarigione; i lontani ritorneranno alla casa del Padre; i separati e i divisi giungeranno a piena unità. In questa maniera si compirà il prodigio della seconda Pentecoste. Essa avverrà con il trionfo del mio Cuore Immacolato nel mondo. Solo allora vedrete come le lingue di fuoco dello Spirito di Amore rinnoveranno tutto il mondo, che verrà completamente trasformato dalla più grande manifestazione della divina Misericordia. Per questo vi invito a passare questo giorno nel Cenacolo, riuniti nella preghiera con Me, Madre della Misericordia, nella speranza e nella trepida attesa della seconda Pentecoste ormai vicina».