Liturgia delle Ore - Letture
Lunedi della 3° settimana del tempo di Avvento
Vangelo secondo Giovanni 8
1Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi.2Ma all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava.3Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo,4gli dicono: "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.5Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?".6Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.7E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei".8E chinatosi di nuovo, scriveva per terra.9Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo.10Alzatosi allora Gesù le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?".11Ed essa rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù le disse: "Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più".
12Di nuovo Gesù parlò loro: "Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita".
13Gli dissero allora i farisei: "Tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera".14Gesù rispose: "Anche se io rendo testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove vengo e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado.15Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno.16E anche se giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato.17Nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera:18orbene, sono io che do testimonianza di me stesso, ma anche il Padre, che mi ha mandato, mi dà testimonianza".19Gli dissero allora: "Dov'è tuo padre?". Rispose Gesù: "Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio".20Queste parole Gesù le pronunziò nel luogo del tesoro mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora giunta la sua ora.
21Di nuovo Gesù disse loro: "Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire".22Dicevano allora i Giudei: "Forse si ucciderà, dal momento che dice: Dove vado io, voi non potete venire?".23E diceva loro: "Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo.24Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che io sono, morirete nei vostri peccati".25Gli dissero allora: "Tu chi sei?". Gesù disse loro: "Proprio ciò che vi dico.26Avrei molte cose da dire e da giudicare sul vostro conto; ma colui che mi ha mandato è veritiero, ed io dico al mondo le cose che ho udito da lui".27Non capirono che egli parlava loro del Padre.28Disse allora Gesù: "Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo.29Colui che mi ha mandato è con me e non mi ha lasciato solo perché io faccio sempre le cose che gli sono gradite".30A queste sue parole, molti credettero in lui.
31Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: "Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli;32conoscerete la verità e la verità vi farà liberi".33Gli risposero: "Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?".34Gesù rispose: "In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato.35Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre;36se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero.37So che siete discendenza di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova posto in voi.38Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro!".39Gli risposero: "Il nostro padre è Abramo". Rispose Gesù: "Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo!40Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l'ha fatto.41Voi fate le opere del padre vostro". Gli risposero: "Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!".42Disse loro Gesù: "Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato.43Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alle mie parole,44voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna.45A me, invece, voi non credete, perché dico la verità.46Chi di voi può convincermi di peccato? Se dico la verità, perché non mi credete?47Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio".
48Gli risposero i Giudei: "Non diciamo con ragione noi che sei un Samaritano e hai un demonio?".49Rispose Gesù: "Io non ho un demonio, ma onoro il Padre mio e voi mi disonorate.50Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca e giudica.51In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte".52Gli dissero i Giudei: "Ora sappiamo che hai un demonio. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: "Chi osserva la mia parola non conoscerà mai la morte".53Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere?".54Rispose Gesù: "Se io glorificassi me stesso, la mia gloria non sarebbe nulla; chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: "È nostro Dio!",55e non lo conoscete. Io invece lo conosco. E se dicessi che non lo conosco, sarei come voi, un mentitore; ma lo conosco e osservo la sua parola.56Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò".57Gli dissero allora i Giudei: "Non hai ancora cinquant'anni e hai visto Abramo?".58Rispose loro Gesù: "In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono".59Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio.
Levitico 15
1Il Signore disse ancora a Mosè e ad Aronne:2"Parlate agli Israeliti e riferite loro: Se un uomo soffre di gonorrea nella sua carne, la sua gonorrea è immonda.3Questa è la condizione d'immondezza per la gonorrea: sia che la carne lasci uscire il liquido, sia che lo trattenga, si tratta d'immondezza.4Ogni giaciglio sul quale si coricherà chi è affetto da gonorrea, sarà immondo; ogni oggetto sul quale si siederà sarà immondo.5Chi toccherà il giaciglio di costui, dovrà lavarsi le vesti e bagnarsi nell'acqua e sarà immondo fino alla sera.6Chi si siederà sopra un oggetto qualunque, sul quale si sia seduto colui che soffre di gonorrea, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell'acqua e sarà immondo fino alla sera.7Chi toccherà il corpo di colui che è affetto da gonorrea si laverà le vesti, si bagnerà nell'acqua e sarà immondo fino alla sera.8Se colui che ha la gonorrea sputerà sopra uno che è mondo, questi dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell'acqua e sarà immondo fino alla sera.9Ogni sella su cui monterà chi ha la gonorrea sarà immonda.10Chiunque toccherà cosa, che sia stata sotto quel tale, sarà immondo fino alla sera. Chi porterà tali oggetti dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell'acqua e sarà immondo fino alla sera.11Chiunque sarà toccato da colui che ha la gonorrea, se questi non si era lavato le mani, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell'acqua e sarà immondo fino alla sera.12Il vaso di terracotta toccato da colui che soffre di gonorrea sarà spezzato; ogni vaso di legno sarà lavato nell'acqua.
13Quando chi è affetto da gonorrea sarà guarito dal male, conterà sette giorni dalla sua guarigione; poi si laverà le vesti, bagnerà il suo corpo nell'acqua viva e sarà mondo.14L'ottavo giorno, prenderà due tortore o due colombi, verrà davanti al Signore, all'ingresso della tenda del convegno, e li darà al sacerdote,15il quale ne offrirà uno come sacrificio espiatorio, l'altro come olocausto; il sacerdote compirà per lui il rito espiatorio davanti al Signore per la sua gonorrea.
16L'uomo che avrà avuto un'emissione seminale, si laverà tutto il corpo nell'acqua e sarà immondo fino alla sera.17Ogni veste o pelle, su cui vi sarà un'emissione seminale, dovrà essere lavata nell'acqua e sarà immonda fino alla sera.
18La donna e l'uomo che abbiano avuto un rapporto con emissione seminale si laveranno nell'acqua e saranno immondi fino alla sera.
19Quando una donna abbia flusso di sangue, cioè il flusso nel suo corpo, la sua immondezza durerà sette giorni; chiunque la toccherà sarà immondo fino alla sera.20Ogni giaciglio sul quale si sarà messa a dormire durante la sua immondezza sarà immondo; ogni mobile sul quale si sarà seduta sarà immondo.21Chiunque toccherà il suo giaciglio, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell'acqua e sarà immondo fino alla sera.22Chi toccherà qualunque mobile sul quale essa si sarà seduta, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell'acqua e sarà immondo fino alla sera.23Se l'uomo si trova sul giaciglio o sul mobile mentre essa vi siede, per tale contatto sarà immondo fino alla sera.24Se un uomo ha rapporto intimo con essa, l'immondezza di lei lo contamina: egli sarà immondo per sette giorni e ogni giaciglio sul quale si coricherà sarà immondo.
25La donna che ha un flusso di sangue per molti giorni, fuori del tempo delle regole, o che lo abbia più del normale sarà immonda per tutto il tempo del flusso, secondo le norme dell'immondezza mestruale.26Ogni giaciglio sul quale si coricherà durante tutto il tempo del flusso sarà per lei come il giaciglio sul quale si corica quando ha le regole; ogni mobile sul quale siederà sarà immondo, come lo è quando essa ha le regole.27Chiunque toccherà quelle cose sarà immondo; dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell'acqua e sarà immondo fino alla sera.28Quando essa sia guarita dal flusso, conterà sette giorni e poi sarà monda.29L'ottavo giorno prenderà due tortore o due colombi e li porterà al sacerdote all'ingresso della tenda del convegno.30Il sacerdote ne offrirà uno come sacrificio espiatorio e l'altro come olocausto e farà per lei il rito espiatorio, davanti al Signore, per il flusso che la rendeva immonda.
31Avvertite gli Israeliti di ciò che potrebbe renderli immondi, perché non muoiano per la loro immondezza, quando contaminassero la mia Dimora che è in mezzo a loro.
32Questa è la legge per colui che ha la gonorrea o un'emissione seminale che lo rende immondo33e la legge per colei che è indisposta a causa delle regole, cioè per l'uomo o per la donna che abbia il flusso e per l'uomo che abbia rapporti intimi con una donna in stato d'immondezza".
Sapienza 9
1"Dio dei padri e Signore di misericordia,
che tutto hai creato con la tua parola,
2che con la tua sapienza hai formato l'uomo,
perché domini sulle creature fatte da te,
3e governi il mondo con santità e giustizia
e pronunzi giudizi con animo retto,
4dammi la sapienza, che siede in trono accanto a te
e non mi escludere dal numero dei tuoi figli,
5perché io sono tuo servo e figlio della tua ancella,
uomo debole e di vita breve,
incapace di comprendere la giustizia e le leggi.
6Se anche uno fosse il più perfetto tra gli uomini,
mancandogli la tua sapienza, sarebbe stimato un nulla.
7Tu mi hai prescelto come re del tuo popolo
e giudice dei tuoi figli e delle tue figlie;
8mi hai detto di costruirti un tempio sul tuo santo monte,
un altare nella città della tua dimora,
un'imitazione della tenda santa
che ti eri preparata fin da principio.
9Con te è la sapienza che conosce le tue opere,
che era presente quando creavi il mondo;
essa conosce che cosa è gradito ai tuoi occhi
e ciò che è conforme ai tuoi decreti.
10Inviala dai cieli santi,
mandala dal tuo trono glorioso,
perché mi assista e mi affianchi nella mia fatica
e io sappia ciò che ti è gradito.
11Essa infatti tutto conosce e tutto comprende,
e mi guiderà prudentemente nelle mie azioni
e mi proteggerà con la sua gloria.
12Così le mie opere ti saranno gradite;
io giudicherò con equità il tuo popolo
e sarò degno del trono di mio padre.
13Quale uomo può conoscere il volere di Dio?
Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?
14I ragionamenti dei mortali sono timidi
e incerte le nostre riflessioni,
15perché un corpo corruttibile appesantisce l'anima
e la tenda d'argilla grava la mente dai molti pensieri.
16A stento ci raffiguriamo le cose terrestri,
scopriamo con fatica quelle a portata di mano;
ma chi può rintracciare le cose del cielo?
17Chi ha conosciuto il tuo pensiero,
se tu non gli hai concesso la sapienza
e non gli hai inviato il tuo santo spirito dall'alto?
18Così furono raddrizzati i sentieri di chi è sulla terra;
gli uomini furono ammaestrati in ciò che ti è gradito;
essi furono salvati per mezzo della sapienza".
Salmi 109
1'Al maestro del coro. Di Davide. Salmo.'
Dio della mia lode, non tacere,
2poiché contro di me si sono aperte
la bocca dell'empio e dell'uomo di frode;
parlano di me con lingua di menzogna.
3Mi investono con parole di odio,
mi combattono senza motivo.
4In cambio del mio amore mi muovono accuse,
mentre io sono in preghiera.
5Mi rendono male per bene
e odio in cambio di amore.
6Suscita un empio contro di lui
e un accusatore stia alla sua destra.
7Citato in giudizio, risulti colpevole
e il suo appello si risolva in condanna.
8Pochi siano i suoi giorni
e il suo posto l'occupi un altro.
9I suoi figli rimangano orfani
e vedova sua moglie.
10Vadano raminghi i suoi figli, mendicando,
siano espulsi dalle loro case in rovina.
11L'usuraio divori tutti i suoi averi
e gli estranei faccian preda del suo lavoro.
12Nessuno gli usi misericordia,
nessuno abbia pietà dei suoi orfani.
13La sua discendenza sia votata allo sterminio,
nella generazione che segue sia cancellato il suo nome.
14L'iniquità dei suoi padri sia ricordata al Signore,
il peccato di sua madre non sia mai cancellato.
15Siano davanti al Signore sempre
ed egli disperda dalla terra il loro ricordo.
16Perché ha rifiutato di usare misericordia
e ha perseguitato il misero e l'indigente,
per far morire chi è affranto di cuore.
17Ha amato la maledizione: ricada su di lui!
Non ha voluto la benedizione: da lui si allontani!
18Si è avvolto di maledizione come di un mantello:
è penetrata come acqua nel suo intimo
e come olio nelle sue ossa.
19Sia per lui come vestito che lo avvolge,
come cintura che sempre lo cinge.
20Sia questa da parte del Signore
la ricompensa per chi mi accusa,
per chi dice male contro la mia vita.
21Ma tu, Signore Dio,
agisci con me secondo il tuo nome:
salvami, perché buona è la tua grazia.
22Io sono povero e infelice
e il mio cuore è ferito nell'intimo.
23Scompaio come l'ombra che declina,
sono sbattuto come una locusta.
24Le mie ginocchia vacillano per il digiuno,
il mio corpo è scarno e deperisce.
25Sono diventato loro oggetto di scherno,
quando mi vedono scuotono il capo.
26Aiutami, Signore mio Dio,
salvami per il tuo amore.
27Sappiano che qui c'è la tua mano:
tu, Signore, tu hai fatto questo.
28Maledicano essi, ma tu benedicimi;
insorgano quelli e arrossiscano,
ma il tuo servo sia nella gioia.
29Sia coperto di infamia chi mi accusa
e sia avvolto di vergogna come d'un mantello.
30Alta risuoni sulle mie labbra la lode del Signore,
lo esalterò in una grande assemblea;
31poiché si è messo alla destra del povero
per salvare dai giudici la sua vita.
Geremia 51
1Così dice il Signore:
"Ecco susciterò contro Babilonia
e contro gli abitanti della Caldea
un vento distruttore;
2io invierò in Babilonia spulatori che la spuleranno
e devasteranno la sua regione,
poiché le piomberanno addosso da tutte le parti
nel giorno della tribolazione".
3Non deponga l'arciere l'arco
e non si spogli della corazza.
Non risparmiate i suoi giovani,
sterminate tutto il suo esercito.
4Cadano trafitti nel paese dei Caldei
e feriti nelle sue piazze,
5aMa Israele e Giuda non sono vedove
del loro Dio, il Signore degli eserciti.
5bperché la loro terra è piena di delitti
davanti al Santo di Israele.
6Fuggite da Babilonia,
ognuno ponga in salvo la sua vita;
non vogliate perire per la sua iniquità,
poiché questo è il tempo della vendetta del Signore;
egli la ripaga per quanto ha meritato.
7Babilonia era una coppa d'oro in mano del Signore,
con la quale egli inebriava tutta la terra;
del suo vino hanno bevuto i popoli,
perciò sono divenuti pazzi.
8All'improvviso Babilonia è caduta, è stata infranta;
alzate lamenti su di essa;
prendete balsamo per il suo dolore,
forse potrà essere guarita.
9"Abbiamo curato Babilonia, ma non è guarita.
Lasciatela e andiamo ciascuno al proprio paese;
poiché la sua punizione giunge fino al cielo
e si alza fino alle nubi.
10Il Signore ha fatto trionfare la nostra giusta causa, venite, raccontiamo in Sion l'opera del Signore nostro Dio".
11Aguzzate le frecce,
riempite le faretre!
Il Signore suscita lo spirito del re di Media,
perché il suo piano riguardo a Babilonia
è di distruggerla;
perché questa è la vendetta del Signore,
la vendetta per il suo tempio.
12Alzate un vessillo contro il muro di Babilonia,
rafforzate le guardie,
collocate sentinelle,
preparate gli agguati,
poiché il Signore si era proposto un piano
e ormai compie quanto aveva detto
contro gli abitanti di Babilonia.
13Tu che abiti lungo acque abbondanti,
ricca di tesori,
è giunta la tua fine,
il momento del taglio.
14Il Signore degli eserciti lo ha giurato per se stesso:
"Ti ho gremito di uomini come cavallette,
che intoneranno su di te il canto di vittoria".
15Egli ha formato la terra con la sua potenza,
ha fissato il mondo con la sua sapienza,
con la sua intelligenza ha disteso i cieli.
16Al rombo della sua voce rumoreggiano le acque nel cielo.
Egli fa salire le nubi dall'estremità della terra,
produce lampi per la pioggia
e manda fuori il vento dalle sue riserve.
17Resta inebetito ogni uomo, senza comprendere;
resta confuso ogni orefice per i suoi idoli,
poiché è menzogna ciò che ha fuso
e non ha soffio vitale.
18Esse sono vanità, opere ridicole;
al tempo del loro castigo periranno.
19Non è tale l'eredità di Giacobbe,
perché egli ha formato ogni cosa.
Israele è la tribù della sua eredità,
Signore degli eserciti è il suo nome.
20"Un martello sei stata per me,
uno strumento di guerra;
con te martellavo i popoli,
con te annientavo i regni,
21con te martellavo cavallo e cavaliere,
con te martellavo carro e cocchiere,
22con te martellavo uomo e donna,
con te martellavo vecchio e ragazzo,
con te martellavo giovane e fanciulla,
23con te martellavo pastore e gregge,
con te martellavo l'aratore e il suo paio di buoi,
con te martellavo governatori e prefetti.
24Ma ora ripagherò Babilonia e tutti gli abitanti della Caldea di tutto il male che hanno fatto a Sion, sotto i vostri occhi. Oracolo del Signore.
25Eccomi a te, monte della distruzione,
che distruggi tutta la terra.
Io stenderò la mano contro di te,
ti rotolerò giù dalle rocce
e farò di te una montagna bruciata;
26da te non si prenderà più né pietra d'angolo,
né pietra da fondamenta,
perché diventerai un luogo desolato per sempre".
Oracolo del Signore.
27Alzate un vessillo nel paese,
suonate la tromba fra le nazioni;
preparate le nazioni alla guerra contro di essa,
convocatele contro i regni
di Araràt, di Minnì e di Aschenàz.
Nominate contro di essa un comandante,
fate avanzare i cavalli come cavallette spinose.
28Preparate alla guerra contro di essa le nazioni, il re della Media, i suoi governatori, tutti i suoi prefetti e tutta la terra in suo dominio.
29Trema la terra e freme,
perché si avverano contro Babilonia
i progetti del Signore
di ridurre il paese di Babilonia
in luogo desolato, senza abitanti.
30Hanno cessato di combattere i prodi di Babilonia,
si sono ritirati nelle fortezze;
il loro valore è venuto meno,
sono diventati come donne.
Sono stati incendiati i suoi edifici,
sono spezzate le sue sbarre.
31Corriere corre incontro a corriere,
messaggero incontro a messaggero
per annunziare al re di Babilonia
che la sua città è presa da ogni lato;
32i guadi sono occupati, le fortezze bruciano,
i guerrieri sono sconvolti dal terrore.
33Poiché dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele:
"La figlia di Babilonia è come un'aia
al tempo in cui viene spianata;
ancora un poco e verrà per essa
il tempo della mietitura".
34"Mi ha divorata, mi ha consumata
Nabucodònosor, re di Babilonia,
mi ha ridotta come un vaso vuoto,
mi ha inghiottita come fa il coccodrillo,
ha riempito il suo ventre,
dai miei luoghi deliziosi, mi ha scacciata.
35Il mio strazio e la mia sventura ricadano su Babilonia!"
dice la popolazione di Sion,
"il mio sangue sugli abitanti della Caldea!"
dice Gerusalemme.
36Perciò così parla il Signore:
"Ecco io difendo la tua causa,
compio la tua vendetta;
prosciugherò il suo mare,
disseccherò le sue sorgenti.
37Babilonia diventerà un cumulo di rovine,
un rifugio di sciacalli,
un oggetto di stupore e di scherno,
senza abitanti.
38Essi ruggiscono insieme come leoncelli,
rugghiano come cuccioli di una leonessa.
39Con veleno preparerò loro una bevanda,
li inebrierò perché si stordiscano
e si addormentino in un sonno perenne,
per non svegliarsi mai più.
Parola del Signore.
40Li farò scendere al macello come agnelli,
come montoni insieme con i capri".
41Sesac è stata presa e occupata,
l'orgoglio di tutta la terra.
Babilonia è diventata un oggetto di orrore
fra le nazioni!
42Il mare dilaga su Babilonia
essa è stata sommersa dalla massa delle onde.
43Sono diventate una desolazione le sue città,
un terreno riarso, una steppa.
Nessuno abita più in esse
non vi passa più nessun figlio d'uomo.
44"Io punirò Bel in Babilonia,
gli estrarrò dalla gola quanto ha inghiottito.
Non andranno più a lui le nazioni".
Perfino le mura di Babilonia sono crollate,
45esci da essa, popolo mio,
ognuno salvi la vita dall'ira ardente del Signore.
46Non si avvilisca il vostro cuore e non temete per la notizia diffusa nel paese; un anno giunge una notizia e l'anno dopo un'altra. La violenza è nel paese, un tiranno contro un tiranno.47Per questo ecco, verranno giorni nei quali punirò gli idoli di Babilonia. Allora tutto il suo paese sentirà vergogna e tutti i suoi cadaveri le giaceranno in mezzo.48Esulteranno su Babilonia cielo e terra e quanto contengono, perché da settentrione verranno i suoi devastatori. Parola del Signore.49Anche Babilonia deve cadere per gli uccisi di Israele, come per Babilonia caddero gli uccisi di tutta la terra.50Voi scampati dalla spada partite, non fermatevi; da questa regione lontana ricordatevi del Signore e vi torni in mente Gerusalemme.
51"Sentiamo vergogna nell'udire l'insulto; la confusione ha coperto i nostri volti, perché stranieri sono entrati nel santuario del tempio del Signore".
52"Perciò ecco, verranno giorni - dice il Signore - nei quali punirò i suoi idoli e in tutta la sua regione gemeranno i feriti.53Anche se Babilonia si innalzasse fino al cielo, anche se rendesse inaccessibile la sua cittadella potente, da parte mia verranno i suoi devastatori". Oracolo del Signore.
54Udite! Un grido da Babilonia, una rovina immensa dal paese dei Caldei.55È il Signore che devasta Babilonia e fa tacere il suo grande rumore. Mugghiano le sue onde come acque possenti, risuona il frastuono della sua voce,56perché piomba su Babilonia il devastatore, sono catturati i suoi prodi, si sono infranti i loro archi. Dio è il Signore delle giuste ricompense, egli ricompensa con precisione.57"Io ubriacherò i suoi capi e i suoi saggi, i suoi governatori, i suoi magistrati e i suoi guerrieri; essi dormiranno un sonno eterno e non potranno più svegliarsi" dice il re, il cui nome è Signore degli eserciti.
58Così dice il Signore degli eserciti:
"Il largo muro di Babilonia sarà raso al suolo,
le sue alte porte saranno date alle fiamme.
Si affannano dunque invano i popoli,
le nazioni si affaticano per nulla".
59Ordine che il profeta Geremia diede a Seraià figlio di Neria, figlio di Maasia, quando egli andò con Sedecìa re di Giuda in Babilonia nell'anno quarto del suo regno. Seraià era capo degli alloggiamenti.
60Geremia scrisse su un rotolo tutte le sventure che dovevano piombare su Babilonia. Tutte queste cose sono state scritte contro Babilonia.61Geremia quindi disse a Seraià: "Quando giungerai a Babilonia, abbi cura di leggere in pubblico tutte queste parole62e dirai: Signore, tu hai dichiarato di distruggere questo luogo così che non ci sia più chi lo abiti, né uomo né animale, ma sia piuttosto una desolazione per sempre.63Ora, quando avrai finito di leggere questo rotolo, vi legherai una pietra e lo getterai in mezzo all'Eufrate64dicendo: Così affonderà Babilonia e non risorgerà più dalla sventura che io le farò piombare addosso".
Fin qui le parole di Geremia.
Prima lettera a Timoteo 4
1Lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche,2sedotti dall'ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza.3Costoro vieteranno il matrimonio, imporranno di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato per essere mangiati con rendimento di grazie dai fedeli e da quanti conoscono la verità.4Infatti tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie,5perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera.
6Proponendo queste cose ai fratelli sarai un buon ministro di Cristo Gesù, nutrito come sei dalle parole della fede e della buona dottrina che hai seguito.7Rifiuta invece le favole profane, roba da vecchierelle.
8Esèrcitati nella pietà, perché l'esercizio fisico è utile a poco, mentre la pietà è utile a tutto, portando con sé la promessa della vita presente come di quella futura.9Certo questa parola è degna di fede.10Noi infatti ci affatichiamo e combattiamo perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono.11Questo tu devi proclamare e insegnare.
12Nessuno disprezzi la tua giovane età, ma sii esempio ai fedeli nelle parole, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza.13Fino al mio arrivo, dèdicati alla lettura, all'esortazione e all'insegnamento.14Non trascurare il dono spirituale che è in te e che ti è stato conferito, per indicazioni di profeti, con l'imposizione delle mani da parte del collegio dei presbiteri.15Abbi premura di queste cose, dèdicati ad esse interamente perché tutti vedano il tuo progresso.16Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante: così facendo salverai te stesso e coloro che ti ascoltano.
Capitolo IV: La liberta' di spirito e la semplicita' di intenzione
Leggilo nella Biblioteca1. Due sono le ali che permettono all'uomo di sollevarsi al di sopra delle cose terrene, la semplicità e la libertà: la semplicità, necessaria nella intenzione; la libertà, necessaria nei desideri. La semplicità tende a Dio; la libertà raggiunge e gode Dio. Nessuna buona azione ti sarà difficile se sarai interiormente libero da ogni desiderio non retto. E godrai pienamente di questa interiore libertà se mirerai soltanto alla volontà di Dio e se cercherai soltanto l'utilità del prossimo. Se il tuo cuore fosse retto, ogni cosa creata sarebbe per te specchio di vita e libro di santa dottrina. Giacché non v'è creatura così piccola e di così poco valore che non rappresenti la bontà di Dio. Se tu fossi interiormente buono e puro, vedresti ogni cosa senza velame, e la comprenderesti pienamente: è infatti il cuore puro che penetra il cielo e l'inferno.
2. Come uno è di dentro, così giudica di fuori. Chi è puro di cuore è tutto preso dalla gioia, per quanta gioia è nel mondo. Se, invece, da qualche parte, ci sono tribolazioni ed angustie, queste le avverte di più chi ha il cuore perverso. Come il ferro, messo nel fuoco, lasciando cadere la ruggine, si fa tutto splendente, così colui che si dà totalmente a Dio si spoglia del suo torpore e si muta in un uomo nuovo. Quando uno comincia ad essere tiepido spiritualmente teme anche il più piccolo travaglio, e accoglie volentieri ogni conforto che gli venga dal di fuori. All'incontro, quando uno comincia a vincere pienamente se stesso e a camminare veramente da uomo nella via del Signore, allora fa meno conto di quelle cose che prima gli sembravano gravose.
LIBRO QUINTO: TEORIA DEL VERSO
La Musica - Sant'Agostino
Leggilo nella BibliotecaTeoria generale del verso (1, 1 - 3, 4)
Il verso si distingue dal metro...
1. 1. M. - Fra i letterati antichi si discusse con accesa polemica sulla natura del verso e il buon esito non è mancato. Ne fu specificato il concetto che, trasmesso mediante la letteratura alla conoscenza dei posteri, è stato convalidato non solo dalla tradizione ma anche da una teoria scientificamente autorevole. Gli antichi dunque hanno rilevato che tra metro e ritmo esiste questa differenza, che ogni metro è un ritmo, ma non ogni ritmo è un metro. Infatti ogni regolare contesto di piedi è numeroso e poiché il metro lo ha, esso non può non essere numero, cioè non essere ritmo. Ma non è la medesima cosa essere svolto con piedi, sia pure regolari, ma senza un limite determinato ed avere sviluppo, sempre con piedi regolari, ma esser conchiusi in un limite determinato. Quindi le nozioni dovevano essere distinte anche col nome, in modo che il primo fosse chiamato con significato proprio soltanto ritmo e il secondo fosse tanto ritmo da essere chiamato anche metro. D'altra parte, tra i ritmi che hanno un determinato limite, cioè i metri, ve ne sono alcuni, nei quali non si ha la regola di una divisione verso il mezzo ed altri, nei quali si ha costantemente. Si doveva dunque segnalare con dei nomi anche questa differenza. Perciò quella forma di ritmo, in cui non si ha questa regola, prende propriamente il nome di metro, hanno invece chiamato verso quel metro in cui si ha. Il ragionamento stesso ci mostrerà forse l'etimologia di questa denominazione mentre avanziamo nell'esame. Ma non pensare che la norma sia così tassativa da non permettere di chiamare versi anche altri metri. Però un conto è l'abusare di una parola sul fondamento di una somiglianza e altro il significare un oggetto col proprio nome. Ma basta con la terminologia. In materia hanno valore determinante, come abbiamo appreso, l'accordo dei dialoganti e la tradizione dell'antichità. Col nostro metodo esaminiamo dunque, se vuoi, queste altre strutture con l'udito che le fa percepire, con la teoria che ne fa avere conoscenza. Riconoscerai così che gli antichi non hanno stabilito le nozioni in parola, come se esse non esistessero già interamente e compiutamente nelle cose, ma che le hanno soltanto scoperte col ragionamento e designate con un nome.
...perché proporzionalmente divisibile in due cole.
2. 2. Dunque ti chiedo prima di tutto se un piede diletta l'udito per una ragione diversa da quella che in esso le due parti, poste una in levare ed una in battere, si implicano con ritmica proporzione.
D. - Ho avuto già in precedenza una conoscenza certa del tema.
M. - E si dovrebbe supporre che il metro, il quale evidentemente è formato da un insieme di piedi appartiene alla categoria delle cose indivisibili? Intanto l'indivisibile non potrebbe estendersi nel tempo e del tutto irrazionalmente si penserebbe che è indivisibile ciò che è formato di piedi divisibili.
D. - Non posso non ammettere questa divisibilità.
M. - E tutte le cose divisibili non sono forse più belle se le loro parti, anziché essere discordi e dissonanti, si armonizzano in una determinata proporzione?
D. - Senza dubbio.
M. - E quale numero è operatore di una divisione proporzionale? Il due?
D. - Sì.
M. - Abbiamo accettato allora che il piede si divide in due parti proporzionali e proprio per questo diletta l'udito. Se troviamo dunque un metro di tale fattura, non dovrà esser considerato giustamente più perfetto di quelli che non lo sono?.
D. - Son d'accordo.
Differenza e non invertibilità dei due cola.
3. 3. M. - Bene. Ed ora rispondimi sul tema seguente. In tutte le cose che si misurano secondo una porzione di tempo, ve n'è una che precede, una che segue, una che dà inizio ed una che pone fine. Ora secondo te, esiste una differenza fra la porzione che precede all'inizio e quella che segue alla fine?
D. - Sì, credo.
M. - Dimmi dunque quale differenza esiste fra questi due emistichi, dei quali uno è: Cornua velatarum e l'altro: Vertimus antennarum 1. Noi non usiamo, come il poeta, la parola obvertimus. Se dunque il verso si enuncia così: Cornua velatarum vertimus antennarum, ripetendolo più volte non diviene incerto forse quale sia il primo e quale il secondo emistichio? Infatti il verso si regge ugualmente se si pronuncia così: Vertimus antennarum cornua velatarum.
D. - Secondo me, è proprio incerto.
M. - E pensi che si debba evitare?
D. - Sì.
M. - Osserva se in quest'altro verso è stato sufficientemente evitato. Il primo comma: Arma virumque cano e il secondo: Troiae qui primus ab oris. Essi differiscono fra loro a tal punto che se cambi la disposizione e li pronunci così: Troiae qui primus ab oris, arma virumque cano, bisogna scandire piedi diversi.
D. - Capisco.
M. - Esamina se tale proporzione è stata osservata nei seguenti. Puoi avvertire infatti che la scansione del comma: Arma vi/rumque ca/no// è la medesima di: Itali/am fa/to//, Littora/ multum il/le et//, Vi supe/rum sae/vae//, Multa quo/que et bel/lo//, Infer/ retque de/os//, Alba/nique pa/tres//. Per non farla lunga, esaminane altri finché vorrai e troverai che questi commi iniziali hanno la medesima misura, cioè costituiscono un comma al quinto semipiede. Assai raramente si dà l'eccezione, sicché non meno proporzionali sono fra di loro i commi che seguono ai precedenti: Tro/iae qui/ primus ab/ oris, Profu/gus La/vinaque/ venit, Ter/ris iac/ tatus et/ alto, Memo/rem Iu/nonis ob/iram, Pas/sus dum/ conderet/ urbem, Lati/o genus/ unde La/tinum, At/que altae/ moenia/ Romae 2.
D. - È chiarissimo.
Etimologia del termine verso.
3. 4. M. - Dunque cinque e sette semipiedi dividono in due cola il verso epico che, come è ben noto, si compone di sei piedi di quattro tempi ciascuno. E non si dà verso senza una proporzione, questa o altra, fra i due cola. E in tutti i versi, come la nostra argomentazione ha verificato, si deve osservare questa norma che non si può mettere il primo emistichio a posto del secondo né il secondo a posto del primo. Altrimenti, non si chiamerà verso, se non con abuso del nome. Sarà un ritmo o un metro, come quelli che qualche rara volta si interpongono in lunghe composizioni poetiche e non son privi di bellezza, ad esempio il metro che ho ricordato poco fa: Cornua velatarum vertimus antennarum. Pertanto non sono d'opinione che sia chiamato verso, cioè volto, dal fatto che, come molti ritengono, da una fine determinata si torna a ripetere il medesimo ritmo. Il nome deriverebbe così dall'atto di chi si volge per tornare indietro sulla via. È evidente però che questa proprietà gli è comune con metri che non sono versi. Piuttosto forse per opposizione ha avuto il nome, allo stesso modo che i grammatici hanno chiamato deponente il verbo che non depone la lettera finale r, come lucror e conqueror. Così il metro che si compone di due commi, dei quali l'uno non può essere messo a posto dell'altro, nel rispetto della legge dei ritmi, è chiamato verso perché non può subire l'inversione. Ma anche se tu accetti l'una o l'altra etimologia o le riprovi tutte e due e ne cerchi un'altra, o se disprezzi, come me, tutte le questioni di questa portata, per ora non ha alcuna importanza. Giacché è evidente il concetto stesso che è significato dal nome, non ci si deve affannare a cercarne l'etimologia, a meno che non hai da dire qualche cosa in proposito.
D. - Io no, ma passa al resto.
Teoria dei cola e della scansione (4, 5 - 6, 12)
Senso e teoria...
4. 5. M. - Segue la trattazione sulla conclusione del verso. I letterati, o meglio la ragionevolezza, hanno voluto che essa fosse distintamente caratterizzata da una qualche differenza. Non è meglio dunque, secondo te, che la fine, in cui lo svolgimento del ritmo si arresta, si distingua senza violare l'eguaglianza dei tempi, anziché confondersi con le altre parti che non chiudono?
D. - Non v'è dubbio che è da preferirsi ciò che si distingue di più.
M. - Considera dunque se con ragione taluni hanno voluto che lo spondeo fosse la chiusura distintiva del verso epico. Infatti nelle altre cinque sedi è consentito porre esso o il dattilo, ma alla fine soltanto lo spondeo. E il fatto che alcuni lo considerano un trocheo si verifica a causa dell'indifferenza dell'ultima sillaba, sulla quale si è sufficientemente parlato trattando dei metri. Però a voler sentire costoro, il senario giambico non sarà un verso o lo sarà senza questa nota distintiva della fine. Ma l'una e l'altra spiegazione è assurda. Infatti nessuno dei più dotti ed anche di quelli che sono in possesso d'una media e perfino infinita cultura ha mai dubitato che questo sia un verso: Phaselus ille quem videtis hospites 3, o ogni altra composizione poetica col medesimo ritmo. Eppure i letterati più autorevoli perché più dotti hanno ritenuto che un ritmo senza finale riconoscibile non si deve considerare verso.
...e nota distintiva di fine verso.
4. 6. D. - È vero. Suppongo dunque che si deve cercare un'altra nota distintiva della sua chiusura e che non si debba accettare quella posta nello spondeo.
M. - E puoi dubitare che, qualunque essa sia, non consista nella differenza o del piede o del tempo o di tutti e due?
D. - E come potrebbe altrimenti?
M. - Ma infine quale di queste tre ammetti? Il finire il verso affinché non vada oltre il richiesto riguarda soltanto la misura del tempo. Io penso dunque che la nota distintiva deve esser desunta dal tempo. O tu la pensi diversamente?
D. - Anzi son d'accordo.
M. - Ora il tempo può avere in questo caso la sola differenza che uno sia più lungo ed un altro più breve, perché quando si pone termine al verso, si ottiene che non sia più lungo. Non comprendi dunque che la nota distintiva della fine consista in un tempo più breve?
D. - Sì che lo capisco. Ma a che allude la tua precisazione " in questo caso "?
M. - A questo: non intendiamo dire che in tutti i casi la differenza di tempo consiste nella sola brevità o lunghezza. Tu non puoi affermare che la differenza dell'estate e inverno non appartiene al tempo, ma d'altra parte non la puoi far consistere in una durata più o meno lunga, anziché nella violenza del freddo e caldo, dell'umidità e siccità o altro fenomeno del genere.
D. - Ora capisco e ammetto Che questa nota distintiva della chiusura deve esser desunta dalla brevità del tempo.
I due cola tendono ad eguagliarsi.
4. 7. M. - Ascolta dunque questo verso: Roma/, Roma/, cerne/ quanta/ sit de/um be/nigni/tas. È detto trocaico. Tu scandiscilo e dimmi che cosa rilevi sui cola e sul numero dei piedi.
D. - Sui piedi posso rispondere agevolmente. È chiaro che sono sette piedi e mezzo. L'argomento dei cola invece non è così elementare. Mi accorgo che un comma può esser chiuso in più punti, suppongo però che la divisione si abbia all'ottavo semipiede. Così il primo colon sarebbe: Roma, Roma, cerne quanta, e il secondo: sit deum benignitas.
M. - E quanti semipiedi ha?
D. - Sette.
M. - È proprio la ragione che ti ha guidato. Niente è da preferirsi all'eguaglianza e la si deve ottenere nel dividere. E se non la si può ottenere, se ne deve cercare l'approssimazione per non allontanarsene troppo. Pertanto poiché questo verso ha quindici semipiedi, non può essere diviso in maniera più equa che in otto e sette; infatti la medesima approssimazione si avrebbe in sette o otto. Ma così non si otterrebbe la nota distintiva della fine mediante la maggiore brevità di tempo, mentre la ragione stessa ci induce ad osservarla. Infatti se il verso fosse così: Roma/, cerne/ quanta/ sit // tibi/ deum/ beni/gnitas, si avrebbe all'inizio il colon di sette semipiedi: Roma/, cerne/ quanta/ sit, e alla fine l'altro con questi otto: tibi/ deum/ beni/gnitas. Ma non si avrebbe un semipiede a chiudere il verso, poiché otto semipiedi fanno quattro piedi compiuti. E si avrebbe inoltre l'altra irregolarità, che non si scandirebbero nel secondo comma i piedi scanditi nel primo e che sarebbe chiuso con la nota distintiva del tempo più breve, cioè un semipiede, il primo comma anziché il secondo, cui spetta per diritto di chiusura. Infatti nel primo si scandiscono, tre trochei e mezzo: Roma/, cerne/ quanta/ sit e nel secondo quattro giambi: Tibi/ deum/ beni/gnitas. Nell'altro invece si scandiscono trochei in ambedue i commi e il verso si chiude con un semipiede, in modo che la chiusura mantenga la nota distintiva del tempo più breve. Infatti nel primo ve ne sono quattro: Roma/, Roma/, cerne/ quanta e nel secondo tre e mezzo: sit delum be/nigni/tas. Hai in mente qualche obiezione?
D. - No, nessuna, son proprio d'accordo.
Quattro norme sui cola.
4. 8. - M. - Teniamo dunque, se vuoi, come inderogabili le seguenti leggi. Una partizione che tenda all'eguaglianza dei due commi non manchi al verso, come manca a questo: Cornua velatarum obvertimus antennarum. Per inverso l'eguaglianza dei commi non renda, per così dire, convertibili le parti, come fa in questo: Cornua velatarum vertimus antennarum. Ancora quando si evita tale inversione, i commi non differiscano troppo fra di loro, ma per quanto è possibile tendano ad eguagliarsi in riferimento ai numeri più vicini in modo da non ritenere che il verso citato può essere diviso in un primo colon di otto semipiedi e cioè: Cornua velatarum vertimus e in un secondo di quattro: antennarum. Infine il secondo colon non abbia semipiedi in numero pari, come è: Tibi deum benignitas, perché il verso, chiuso con un piede completo, non avrebbe la fine caratterizzata da un tempo più breve.
D. - Capisco queste leggi e per quanto ne son capace le affido alla memoria.
Esempio di scansione e cola nell'esametro.
5. 9. M. - Poiché dunque sappiamo che il verso non deve esser chiuso con un piede completo, come pensi che si debba scandire il verso epico, in modo che siano rispettate la legge dei due cola e la nota distintiva della fine?
D. - Vedo dunque che sono dodici semipiedi. Ora per evitare la inversione i cola non possono avere sei semipiedi, inoltre non devono tra di loro differire troppo, come tre a nove o nove a tre, infine non si deve dare all'ultimo colon semipiedi in numero pari, come otto e quattro e quattro e otto, perché il verso non finisca con un piede completo. Quindi la divisione va fatta in cinque e sette o sette e cinque. Sono infatti i numeri dispari più vicini e certamente i commi si avvicinano di più di quanto si avvicinerebbero con quattro e otto. Per considerare la norma inderogabile, ritengo che un emistichio, sempre o quasi sempre, è compiuto al quinto semipiede, come nel primo verso di Virgilio: Arma virumque cano, nel secondo: Italiam fato, nel terzo: Littora multum ille et, nel quarto: Vi superum saevae, e così di seguito in quasi tutto il poema.
M. - È vero. Ma devi esaminare quali piedi scandisci per non violare alcuna parte delle leggi che abbiamo già stabilito come inderogabili.
D. - Sebbene l'argomento mi sia chiaro, tuttavia sono in imbarazzo per la novità. Infatti siamo soliti scandire in questo verso soltanto lo spondeo e il dattilo e non vi è quasi nessuno, per quanto ignorante, che non l'abbia sentito dire, sebbene non lo sappia fare. Ora se voglio seguire questa diffusissima consuetudine, si deve abrogare la legge della chiusura perché il primo colon si chiuderebbe con un semipiede e il secondo con un piede compiuto, mentre deve essere il contrario. Ma è troppo irregolare abolire la legge della chiusura e d'altronde ho appreso che nei ritmi può accadere di cominciare da un piede incompiuto, Resta dunque da considerare che in questo verso con lo spondeo non si pone il dattilo ma l'anapesto. Così il verso comincerà da una sillaba lunga, e poi due piedi, spondei o anapesti, oppure alternati, rendono compiuto il primo colori; poi altri tre piedi anapesti o lo spondeo in qualsiasi posto o anche in tutti e in fine una sillaba, con cui il verso si termina regolarmente, completano il secondo colon. Accetti questa scansione?.
La scansione nella tradizione e nella teoria.
5. 10. M. - Io la ritengo la più regolare, ma non è facile convincerne la massa. E così grande è la forza della consuetudine che, se inveterata e proveniente da una falsa opinione, è la peggiore nemica della verità. Comprendi infatti che per comporre un verso poco importa se si pone con lo spondeo l'anapesto oppure il dattilo. Ma per scandirlo razionalmente, che non è compito dell'udito ma della mente, si deve ricorrere a vera e innegabile argomentazione e non a una opinione priva di fondamento. E questa scansione non è stata ideata per la prima volta da me, ma è stata scoperta molto prima di questa antica consuetudine. Pertanto coloro che leggessero gli autori, i quali nella lingua greca e latina furono eruditissimi in questa disciplina, non si meraviglieranno troppo se eventualmente s'imbatteranno in questa notizia. C'è da vergognarsi tuttavia della nostra pochezza nel ricorrere all'autorità degli uomini per convalidare la ragione giacché niente dovrebbe esser più eccellente dell'autorità della pura ragione che è superiore a ogni individuo. Infatti in materia non esaminiamo soltanto l'autorità degli antichi, come si deve fare nel considerare breve o lunga una sillaba. In tal caso noi dobbiamo usare nella medesima forma con la quale le hanno usate loro le parole, con cui anche noi ci esprimiamo, poiché in materia è proprio della trascuratezza non seguire alcuna regola ed è proprio dell'arbitrio introdurne una nuova. Così nello scandire un verso si deve prendere in considerazione l'antica istituzione umana e non la legge eterna delle cose. Infatti prima spontaneamente con l'udito si percepisce la proporzionata durata del verso e poi essa si convalida con la razionale riflessione dei numeri. Così pure si ritenga che il verso è da chiudersi con una fine caratteristica se si ritiene che deve esser chiuso in forma più determinata degli altri metri. Ed è chiaro anche che la chiusura si deve distinguere dal tempo più breve, giacché limita e contiene in certo senso la durata del tempo.
Commi e scansione nel senario giambico, trocaico...
6. 11. Stando così le cose, come avviene che il secondo colon del verso termina con un piede incompiuto? Bisogna appunto che il principio del primo colon sia o un piede intero, come nel trocaico: Roma, Roma, cerne quanta sit deum benignitas, oppure una parte di piede, come nell'epico: Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris. Pertanto eliminando ogni esitazione, scandisci, se vuoi, anche il verso seguente e indicamene i cola e i piedi: Phaselus ille quem videtis, hospites.
D. - Scorgo che i suoi cola sono composti di cinque e sette semipiedi. Il primo è Phaselus ille, il secondo quem videtis, hospites, e scorgo che i suoi piedi son giambi.
M. - Scusa, ma non badi a non chiudere il verso con un piede compiuto?
D. - Hai ragione, non so dove ero col pensiero. Chi infatti non vedrebbe che si deve cominciare da un semipiede come nell'epico? E quando s'usa tale criterio per questo genere, non si scandisce più a giambi ma a trochei in modo che lo chiuda regolarmente un semipiede.
...e nell'asclepiadeo minore.
6. 12. M. - È come tu dici. Ma cosa pensi di dover rispondere su questo verso che chiamano asclepiadeo: Maece/ nas atavis// edite re/gibus 4? In esso un emistichio si chiude alla sesta sillaba e non eventualmente, poiché ciò accade in quasi tutti i versi di questa forma. Dunque il primo colon è Maecenas atavis e il secondo edite regibus. Ma possono insorgere dubbi sul motivo per cui ciò avviene. Se infatti scandisci in esso piedi di quattro tempi ciascuno, si avranno cinque semipiedi nel primo colon e quattro nel secondo, ma la regola vieta che il secondo colon sia formato di semipiedi in numero pari affinché il verso non termini con un piede compiuto. Resta che vi si considerino piedi di sei tempi ciascuno. Ne consegue che ambedue i colon siano formati di tre semipiedi ciascuno. Infatti affinché il primo colon si chiuda con un piede compiuto, si deve cominciare con due lunghe, quindi un coriambo compiuto entra a comporre il verso, in modo che il secondo colon cominci con un altro coriambo e un semipiede di due sillabe brevi chiude il verso. Questi due tempi con lo spondeo collocato in principio rendono compiuto un piede di sei tempi. Hai qualche cosa da dire in proposito?
D. - Proprio nulla.
M. - Ti va dunque che i due cola siano formati di semipiedi in egual numero.
D. - E perché no? Infatti in questo caso non si deve temere la inversione, poiché se si mette il secondo colon a posto del primo, in maniera che il primo divenga secondo, non si avrà l'eguale disposizione di piedi. Perciò non v'è motivo di negare in questo caso ai cola un egual numero di semipiedi. Tale eguaglianza infatti può rimanere senza pericolo di inversione e con adempienza anche della chiusura più segnalata giacché il verso finisce con piede incompiuto. Ed è regola da osservarsi sempre.
Eguaglianza dei cola nei vari schemi (7, 13 - 9, 19)
Singolare eguaglianza dell'uno.
7. 13. M. - Hai proprio colto nel segno. La ragione allora ha dimostrato che si danno due forme di versi, uno in cui il numero dei semipiedi nei cola è eguale e un altro in cui è diverso. Dunque esaminiamo accuratamente, se vuoi, in che modo questa non proporzione dei semipiedi si riconduce ad una certa proporzione in base a una proprietà numerica un tantino oscura ma profonda. Ti chiedo quindi quanti numeri indico, quando dico due e tre.
D. - Due, naturalmente.
M. - Dunque anche il due è uno come numero e il tre e qualsiasi altro si possa dire.
D. - Sì.
M. - Non ti sembra perciò che il numero uno si può non irrazionalmente rapportare a qualsiasi altro numero? Sebbene infatti non si potrebbe dire che uno è due, tuttavia in certo senso, senza errore, si può dire che due è un uno e così tre e quattro.
D. - D'accordo.
M. - E ancora, dimmi quanto fa due per tre?
D. - Sei.
M. - E sei più tre fanno altrettanto?
D. - Assolutamente no.
M. - Ora moltiplica tre per quattro e dimmi il prodotto.
D. - Dodici.
M. - Vedi che ugualmente dodici è superiore a quattro.
D. - E di molto.
M. - Per non farla lunga, si deve fissare la seguente regola. Dal due in poi, prendendo due numeri qualsiasi, il minore moltiplicato per il maggiore necessariamente lo sorpassa.
D. - Che dubbio? Il due è il più piccolo numero plurale, ma se lo moltiplico per mille, sorpassa il mille del doppio.
M. - È vero. Ma prendi l'uno e qualsiasi altro numero superiore e poi moltiplica, come è stato fatto per gli altri numeri, il minore per il maggiore. Forse che il prodotto sarà egualmente superiore al numero maggiore?
D. - Certamente no. Il minore ci sarà tante volte quante il maggiore. Infatti uno per due è due, uno per dieci è dieci, uno per mille è mille, e per qualsiasi altro numero lo moltiplicherò, l'uno ci sarà necessariamente tante volte tanto.
M. - Dunque il numero uno ha una certa proprietà d'eguaglianza con tutti gli altri numeri e non solo perché è un numero come un altro, ma anche perché dà un prodotto eguale alle volte per cui è moltiplicato.
D. - È chiarissimo.
Versi con commi riducibili o no all'eguaglianza.
7. 14. M. - Ed ora volgi l'attenzione ai numeri dei semipiedi con cui sono formati nel verso cola ineguali e troverai, in base alla legge che abbiamo discusso, una mirabile eguaglianza. Infatti, secondo me, il verso più corto con numero ineguale di semipiedi è in due cola ed ha quattro e tre semipiedi, come in questo: Hospes ille// quem vides. Il suo primo colon, che è Hospes ille, può esser diviso con eguaglianza in due parti di due semipiedi ciascuno. Il secondo invece, che è quem vides, si divide in modo che la prima parte abbia due semipiedi e l'altra uno, ma è come se fossero due e due in base a quella proprietà di eguaglianza che l'uno ha con tutti gli altri numeri. Ne abbiamo già trattato sufficientemente. Ne deriva che con questa divisione il primo colon in certo senso è eguale al secondo. Perciò il verso, in cui sono quattro e cinque semipiedi, come in: Roma, Roma//, cerne quanta sit, non è così regolare. Sarà quindi un metro piuttosto che un verso, poiché i cola hanno una ineguaglianza tale che con nessuna divisione possono essere ricondotti ad un rapporto di eguaglianza. Vedi bene, come penso, che i quattro semipiedi del primo colon: Roma, Roma, si possono dividere in due e due, ma i cinque seguenti: cerne quanta sit, si dividono in due e tre semipiedi. Ed in essi l'eguaglianza non si manifesta assolutamente. Cinque semipiedi appunto, a causa del due e tre, non possono assolutamente equivalere a quattro. Invece abbiamo visto dianzi nel verso più corto che tre semipiedi, con l'uno e il due, equivalgono a quattro. Vi è qualche concetto che non hai compreso o non approvi?
D. - Anzi tutti i concetti sono chiari e da me accettati.
Applicazione facile alla tetrapodia giambica...
7. 15. M. - Ed ora consideriamo un verso di cinque e tre semipiedi, qual è questo abbreviato: Phaselus ille// quem vides ed esaminiamo in che senso questa ineguaglianza è retta da una certa proprietà d'eguaglianza. Infatti tutti son d'accordo nel riconoscere che questa forma è non solo un metro ma anche un verso. Si divide dunque il primo colon in due e tre semipiedi e il secondo in due e uno. Si riuniscono le suddivisioni che risultano eguali nell'uno e nell'altro, giacché nel primo colon si ha un due e un due nel secondo. Restano due suddivisioni, una di tre semipiedi nel primo e un'altra di uno nel secondo. Li congiungiamo in quanto facilmente unibili poiché l'uno ha rapporto con tutti i numeri. Nella somma uno più tre fanno quattro, che è tante volte quante il due più due. In base a questa divisione dunque cinque e tre semipiedi sono ricondotti alla proporzione. Ma dimmi se hai compreso.
D. - Sì, e sono perfettamente d'accordo.
...difficile al senario giambico ed esametro...
8. 16. M. - Ed ora dobbiamo parlare dei versi di cinque e sette semipiedi, come sono i due molto noti, che sono l'epico e quello che chiamano comunemente giambico, anche esso senario. Infatti Arma virumque cano//, Troiae qui primus ab oris si divide in modo che il primo colon Arma virumque cano abbia cinque semipiedi, e il secondo Troiae qui primus ab oris sette. Anche Phaselus ille// quem videtis, hospites ha un primo colon Phaselus ille di cinque semipiedi ed un altro di sette: quem videtis, hospites. Ma tanta elevatezza si trova in imbarazzo nell'applicazione della legge dell'eguaglianza. Infatti quando saranno divisi i primi cinque semipiedi in due e tre e gli altri sette in tre e quattro, le due suddivisioni di tre semipiedi si corrisponderanno, ma a condizione che anche le altre due si corrispondano in modo tale che una sia di un semipiede e l'altra di cinque. E si potrebbe congiungere in base alla legge per cui l'uno può unirsi ad ogni altro numero e farebbero anche nella somma sei che equivale a tre più tre. Ma nel nostro caso si hanno due e quattro che, sebbene diano la somma di sei, tuttavia per nessuna proprietà di eguaglianza due e quattro si corrispondono così da congiungersi, per così dire, con un vincolo tanto stretto. Ma qualcuno potrebbe dire che è sufficiente per una certa regola di proporzione che, come tre più tre fanno sei, così anche due più quattro. Non credo di dover ribattere l'argomentazione perché una certa eguaglianza c'è. Ma non vorrei affermare che cinque e tre semipiedi siano in rapporto di maggiore corrispondenza che cinque e sette. La notorietà della tetrapodia giambica non è tanto grande come quella di questi due. Eppure tu puoi constatare che in essa, addizionando uno e tre non solo si è trovata la somma eguale a due più due, ma anche che addizionando uno a tre, a causa del raccordo dell'uno con tutti gli altri numeri, le parti si corrispondono di più che nell'unione di due più quattro, come in questi. Ti rimane oscuro qualche concetto?
D. - No, certamente. Ma, non so come, mi dà fastidio che questi senari, pur essendo più usati delle altre forme e pur affermandosi che hanno una certa prevalenza sugli altri, abbiano nel raccordo dei cola una minore efficienza dei versi di più oscura fama.
M. - Sta' di buon animo. Io ti svelerò in essi quel raccordo che soli fra tutti hanno meritato di possedere perché tu capisca che non ingiustamente sono stati preferiti. Ma la discussione, sebbene più gradita, è anche più lunga e si deve rimandare alla fine. Così, quando avremo discusso degli altri fino a che ci sembrerà sufficiente, ormai liberi da ogni preoccupazione, torneremo ad esaminare attentamente la loro struttura interna.
D. - A me va bene, ma vorrei che fossero sviluppati i concetti che abbiamo intrapreso a trattare. Ascolterò l'altro argomento con maggiore distensione.
M. - A paragone dei concetti già trattati, divengono più graditi quelli che attendi.
...difficile anche per il senario ipercatalettico...
9. 17. Ora esamina se in due cola, l'uno che presenta sei semi-piedi e l'altro sette, si trovi un'eguaglianza tale che si abbia regolarmente un verso. Tu capisci che di seguito al verso di cinque e sette semipiedi si deve esaminare questo. Eccone un esempio: Roma, cerne quanta // sit deum benignitas 5.
D. - Osservo che il primo comma può essere diviso in parti che hanno tre semipiedi ciascuna e il secondo in tre e quattro. Congiungendo le suddivisioni eguali si hanno sei semipiedi, ma tre più quattro fanno sette e non si raccordano al numero sei. Ma si considerino due e due nella parte in cui se ne hanno quattro e due e uno dove se ne hanno tre. Addizionando le parti che ne hanno due ciascuna, si ha la somma di quattro. Addizionando però quelle di due semi-piedi in una e di uno nell'altra, se si considerano quattro in base al rapporto dell'uno con gli altri numeri, fanno otto e, sorpassano la somma di sei più che se fossero sette.
...facile per il tetrametro catalettico...
9. 18. M. - Sì, hai ragione. Escluso dunque questo tipo di congiungimento della legge dei versi, considera ora, come esige la successione dei numeri, quei cola, di cui il primo ha otto semipiedi e il secondo sette. Questo congiungimento presenta ciò che cerchiamo. Congiungendo la metà del primo comma con la parte più grande del secondo, che è vicina alla metà, poiché sono quattro semipiedi ciascuna, ho la somma di otto. Restano dunque quattro semipiedi del primo e tre del secondo colon. Unendone due da una parte e due dall'altra, fanno quattro. Restano due da una parte e uno dall'altra che, uniti, secondo la legge di quella corrispondenza per cui l'uno è eguale agli altri numeri, sono considerati in certo senso quattro. Si ha dunque un otto che equivale al primo otto.
D. - Ma perché non ne posso ascoltare un esempio?
M. - Ma perché l'abbiamo enunciato tante volte. Comunque perché tu non abbia a pensare che sia stato omesso proprio dove occorreva, è sempre quello: Roma, Roma, cerne quanta // sit deum benignitas, oppure: Optimus beatus ille // qui procul negotio.
...e per quello non catalettico.
9. 19. Osserva ora il congiungimento di nove e sette semipiedi. Ne è esempio: Vir Optimus beatus ille // qui procul negotio.
D. - È elementare individuare in esso la corrispondenza. Il primo colon si divide in quattro e cinque semipiedi e il secondo in tre e quattro. La parte minore del primo unita alla maggiore del secondo fa otto e la maggiore del primo con la minore del secondo fa ugualmente otto. Il primo congiungimento è appunto di quattro e quattro semipiedi e il secondo di cinque e tre. Inoltre se si dividono ulteriormente i cinque semipiedi in due e tre e i tre in due e uno, appare un'altra corrispondenza di due con due e di uno con tre, poiché l'uno si rapporta con tutti i numeri secondo la legge già ricordata. E se il calcolo non mi sfugge, non resta da cercare altro nel congiungimento dei cola. Si è giunti appunto agli otto piedi e sappiamo bene che non è lecito far superare al verso questo numero. Ed ora svelami la vera struttura dei senari epico, giambico e trocaico. A questo obiettivo tu hai stimolato e trattenuto ad un tempo il mio interesse.
Perfezione del senario giambico ed epico (10, 20 - 13, 28)
I piedi migliori per il verso...
10. 20. M. - Lo farò, o meglio lo farà lo stesso pensiero che è comune a me e a te. Ma ricordi, scusa, il giorno in cui abbiamo trattato dei metri? Abbiamo detto e con l'udito abbiamo verificato che i piedi, le cui parti sono in rapporto di sesquati, o di due a tre come il cretico e i peoni, o di tre a quattro, come gli epitriti, esclusi dai poeti per la loro inferiore ritmicità, abbelliscono più convenientemente, se usati nelle clausole, l'austerità della prosa.
D. - Me ne ricordo. Ma a che cosa hanno attinenza le tue parole?
M. - Perché dobbiamo comprendere per prima cosa che, esclusi tali piedi dalla trattazione poetica, non restano che i piedi, le cui parti si rapportano secondo parità, come lo spondeo, oppure del due a uno, come il giambo, oppure secondo l'uno e l'altro, come il coriambo.
D. - Sì.
M. - Ma se essi sono il dato sensibile della poesia e se la prosa esclude i versi, ogni verso deve essere composto di questi piedi.
D. - Son d'accordo. Capisco che la composizione poetica diviene più alta con questi versi che con quelli usati dai poeti lirici; ma non so a che mira questo ragionamento.
...son quelli di genere eguale o doppio...
10. 21. M. - Non essere impaziente. Stiamo già parlando della superiorità degli esametri. Voglio prima di tutto mostrarti se ne sono capace, che gli esametri più qualificati possono essere soltanto delle due figure seguenti, che sono anche le più note. Una è il verso epico, come: Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris, che l'opinione corrente scandisce con spondei e dattili e una più sottile teoria con spondei e anapesti. L'altro è detto senario giambico, ma in base alla medesima teoria si scopre che è trocaico. Ora ti rimane evidente, come credo, che se non si alternano sillabe brevi alle lunghe, la successione dei tempi diviene in certo senso troppo lenta e se al contrario non si alternano sillabe lunghe alle brevi, la successione diviene troppo rapida e quasi vibrata. Nessuna delle due è dunque proporzionata, anche se entrambe soddisfano l'udito con l'eguaglianza dei tempi. Per questo i versi che hanno sei pirrichi o sei proceleusmatici non possono aspirare alla dignità dell'esametro epico né quelli che hanno sei tribraci alla dignità del senario trocaico. Inoltre se in questi versi che la ragione stessa reputa più perfetti si cambia la disposizione dei cola, tutto il verso sarà sconvolto al punto che si dovranno scandire piedi diversi. Sono dunque più invertibili, per così dire, di quelli che son formati o di tutte brevi o di tutte lunghe. Perciò non ha rilevanza se in questi schemi più omogenei si dispongono i cola con cinque e sette semipiedi oppure con sette e cinque. Con nessuna delle due il verso varia con un mutamento tale che sembri svolgersi con altri piedi. Negli altri invece se la composizione poetica cominciasse con versi, in cui il comma all'inizio ha cinque semipiedi, non bisognerebbe mischiarvi versi che hanno sette semipiedi all'inizio. Altrimenti sarebbe possibile invertire tutti i cola perché non si darebbe diversificazione di piedi che liberi dall'invertimento. Tuttavia è concesso agli epici, molto raramente, di allineare tutti spondei. Ma questa nostra ultima epoca non ha approvato il fatto. Sebbene nei senari giambici ossia trocaici sia consentito porre in qualsiasi sede il tribraco, tuttavia è stato considerato molto brutto che in queste composizioni poetiche il verso sia scomposto in tutte brevi.
...ed hanno parità di brevi e lunghe.
10. 22. Sono esclusi dunque dalla composizione in esametri gli epitriti, non solamente perché sono più adatti alla prosa, ma anche perché se sono sei, come pure i dispondei, superano i trentadue tempi. Sono esclusi anche i piedi di cinque tempi perché la prosa li impiega soprattutto come clausole. Sono esclusi inoltre dal computo di tempi, di cui stiamo parlando, i molossi e gli altri piedi di sei tempi, sebbene conferiscano alle composizioni poetiche grande bellezza. Restano i versi di tutte sillabe brevi, cioè quelli che hanno pirrichi, proceleusmatici e tribraci, o di tutte lunghe, cioè quelli che hanno spondei. E sebbene essi rientrino nella dimensione dell'esametro, devono cedere tuttavia alla dignità e proporzione di quelli che sono variati con brevi e lunghe e che perciò hanno minore possibilità di subire invertimento.
L'uso ha consacrato questi schemi.
11. 23. Ma ci si può chiedere perché sono stati giudicati più perfetti i senari, in alcuni dei quali una sottile teoria scandisce anapesti, e in altri scandisce trochei, anziché nel primo caso dattili e nel secondo giambi. Non si può anticipare la soluzione del problema perché si tratta di numeri. Ma se il verso fosse: Troiae qui primus ab oris arma virumque cano, e per il giambico: Qui procul malo pius beatus ille, sarebbero ugualmente tutti e due senari, ugualmente equilibrati nella proporzione di sillabe brevi e lunghe, egualmente invertibili, e nell'uno e nell'altro i cola sono egualmente disposti in modo che l'emistichio si chiuda al quinto e settimo semipiede. Perché dunque son considerati migliori se sono così: Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris, e: Beatus ille qui procul pius malo? In proposito io sarei propenso a dire che per una eventualità essi sono stati ravvisati e usati per primi. Ma non è stata una eventualità, credo, che si sia preferito finire il verso epico con due lunghe piuttosto che con due brevi e una lunga poiché l'udito rimane più soddisfatto delle lunghe, e che il trocaico avesse nel semipiede, finale una sillaba lunga anziché una breve. Il fatto sta che gli schemi scelti per primi dovevano necessariamente escludere gli altri che potevano essere composti dei medesimi cola, ma scambiati di posto. Se si è dunque giudicato migliore l'esametro con questo schema: Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris, invertendolo si sarebbe avuto un altro schema a danno dell'estetica, come: Troiae qui primus ab oris, arma virumque cano. Altrettanto si deve intendere per lo schema trocaico. Infatti se è più bello: Beatus ille qui procul negotio 6, non è opportuno ottenere lo schema che si ha invertendolo così: Qui procul negotio beatus ille. Tuttavia se qualcuno ne avesse il coraggio e componesse versi simili, è ovvio che compone sempre esametri, ma con schemi diversi. Gli altri però sono più perfetti.
Gli esametri e la licenza poetica.
11. 24. Dunque i due senari, i più belli di tutti, non hanno potuto conservare la loro purezza contro l'arbitrio degli uomini. Nello schema trocaico, e non solo senario, ma dalla quantità minore di piedi fino alla lunghezza maggiore che ha otto piedi, i poeti hanno ritenuto di poter mescolare tutti i piedi di quattro tempi che si usano nella poesia. I greci poi li pongono alternativamente al primo e terzo posto e così di seguito, se il verso comincia con un semipiede, se invece comincia con un trocheo completo, i piedi più lunghi sono posti al secondo e quarto posto e così di seguito rispettando la quantità dei piedi. Per rendere tollerabile la contaminazione, non hanno diviso con la percussione ciascun piede in due parti, di cui una in arsi e una in tesi, ma dando un piede intero all'arsi e un altro alla tesi e considerando quindi l'esametro come un trimetro, hanno ricondotto la percussione alla divisione degli epitriti. Ora quantunque gli epitriti siano propri più della prosa che della poesia e quantunque non si abbia più un esametro ma un trimetro, se almeno questo schema si osservasse regolarmente, non sarebbe completamente turbata la già trattata eguaglianza dei ritmi. Ma ora, purché i piedi di quattro tempi siano posti nelle sedi indicate, è ammesso porli in tutte quelle sedi ma anche dovunque e tutte le volte che si vuole. I nostri antichi poeti poi, nell'interporre piedi di tal genere, non hanno potuto conservare nemmeno la quantità richiesta. Perciò nello schema trocaico i poeti, con questa contaminazione arbitraria, hanno ottenuto ciò che si deve supporre volessero ottenere, e cioè che le composizioni drammatiche fossero il più possibile vicine alla prosa. Ma si è detto abbastanza sul motivo per cui i versi trocaici e dattilici sono stati preferiti fra i senari. Vediamo ora perché gli esametri sono stati ritenuti versi più perfetti di altri versi con un altro qualsiasi numero di piedi. A meno che tu non abbia qualche difficoltà in proposito.
D. - No, sono d'accordo. Ma attendo con impazienza di conoscere, se adesso almeno è possibile, quella eguaglianza di commi, alla quale dianzi mi hai profondamente interessato.
Arsi e tesi vere dimensioni del senario.
12. 25. M. - Sii attento dunque e dimmi se, secondo te, è possibile dividere la lunghezza in parti all'infinito.
D. - I concetti mi sono evidenti. Ritengo sia impossibile dubitare che la lunghezza, cioè la linea, ha una sua metà e può dunque esser divisa con una trasversale in due linee. E poiché le due linee ottenute dalla divisione sono senza dubbio linee, è chiaro che anche di esse si può fare altrettanto. Perciò, per quanto piccola, ogni lunghezza può esser divisa in altre parti all'infinito.
M. - Hai risposto prontamente e bene. Ed ora dimmi se è esatta l'affermazione che la linea da tracciarsi per ottenere la superficie, che da essa ha origine, genera una superficie corrispondente al proprio quadrato. Se infatti si traccia in superficie meno o più di quanto è lunga la linea con cui si traccia, non si ha il quadrato, se tanto quanto la linea, non si ha altro che il quadrato.
D. - Capisco e ne ho certezza; che cosa infatti di più vero?
M. - Capisci, penso, che cosa se ne conclude. Se invece di una linea si pongono delle pietruzze eguali disposte in lungo, questa lunghezza non giunge al quadrato se le pietruzze non sono moltiplicate per lo stesso numero. Se, ad esempio, si allineano due pietruzze, non si avrà il quadrato se non aggiungendone altre due in larghezza, se tre, bisogna aggiungerne sei, ma tre e tre distribuite nelle due dimensioni in senso di larghezza, giacché se sono disposte in lunghezza, non si ottiene alcuna figura. Infatti la lunghezza senza larghezza non è figura. E così proporzionalmente si possono considerare gli altri numeri. Infatti come due, per due e tre per tre sono quadrati nei numeri, così quattro per quattro, cinque per cinque, sei per sei e così all'infinito negli altri numeri.
D. - Anche questi concetti sono veri ed evidenti.
M. - Ed ora rifletti se esiste la lunghezza di tempo.
D. - Non v'è dubbio; non si ha tempo senza lunghezza.
M. - E il verso può non occupare una certa lunghezza di tempo?
D. - Anzi è necessario che l'abbia.
M. - E che cosa invece delle pietruzze poniamo più convenientemente in questa lunghezza? I piedi che sono divisi necessariamente in due parti, una in arsi e una in tesi, o piuttosto gli stessi semipiedi che sono uno in arsi e uno in tesi?
D. - Penso che più convenientemente invece delle pietruzze si pongono i semipiedi.
Perfetta eguaglianza fra i commi dei senari.
12. 26. M. - Ed ora ricorda quanti semipiedi ha il comma più breve del verso epico.
D. - Cinque.
M. - Fa' un esempio.
D. - Arma virumque cano.
M. - E desideri altro se non conoscere come gli altri sette semipiedi siano in rapporto di eguaglianza con questi cinque?
D. - No, niente altro.
M. - E i sette semipiedi possono formare da soli un verso completo?
D. - Sì. Il primo e più breve verso ha proprio questo numero di semipiedi, con l'aggiunta al ritmo della pausa in fine.
M. - Dici bene, ma perché possa essere verso, come si divide in due cola?
D. - In quattro e tre semipiedi, naturalmente.
M. - Moltiplica dunque ciascuna di queste due parti secondo il quadrato e dì quanto fa quattro per quattro.
D. - Sedici.
M. - E tre per tre?
D. - Nove.
M. - Ed insieme?
D. - Venticinque.
M. - Dunque sette semipiedi possono contenere due cola. Se ciascuno dei due cola si riporta alla legge del quadrato, danno assommati il numero venticinque. Ed è una parte del verso epico.
D. - Sì.
M. - Ora il primo emistichio che ha cinque semipiedi non può essere diviso in due cola e deve corrispondere con una determinata eguaglianza all'altro. Non deve dunque essere moltiplicato tutto intero secondo il quadrato?
D. - Non la penso diversamente e scopro finalmente la singolare eguaglianza. Infatti cinque per cinque fanno ugualmente venticinque. E per questo non immeritatamente gli esametri sono divenuti più noti e perfetti. A mala pena può esprimersi la differenza che esiste fra la loro eguaglianza, sebbene con commi ineguali, e quella di tutti gli altri versi.
Diverse eguaglianze nel verso.
13. 27. M. - La mia promessa non ti ha deluso, o meglio non ci ha deluso la teoria che entrambi seguiamo. Ed ora, tanto per chiudere una buona volta questo discorso, puoi notare che si danno metri, per così dire innumerevoli. Tuttavia non si dà verso senza due cola rapportati fra di loro o con un numero eguale di semipiedi compiuti ma non invertibili, come in: Maecenas atavis// edite regibus, oppure con un numero ineguale di semipiedi, ma congiunti con una determinata eguaglianza, come quattro e tre, cinque e tre, cinque e sette, sei e sette, otto e sette, sette e nove. Il verso trocaico può appunto cominciare con un piede compiuto, come in: Optimus beatus ille qui procul negotio, oppure con un piede incompiuto, come in: Vir optimus beatus ille qui procul negotio, ma non può terminare che con un piede incompiuto. Ma tutti i piedi incompiuti, sia che abbiano un semipiede intero, come nell'ultimo che ho citato, o meno di un semipiede, come le due brevi finali del verso coriambico: Maecenas atavis edite regibus, o più di un semipiede, come al principio del medesimo verso le due lunghe o il bacchio alla fine di un differente verso coriambico, come: Te domus Evandri, te sedes celsa Latini 7, tutti questi piedi incompiuti dunque si considerano semipiedi.
Sistemi strofici o periodici.
13. 28. Inoltre non si fanno composizioni poetiche soltanto con versi, in cui si mantiene il medesimo schema, come quelle dei poeti epici e anche comici, ma i poeti lirici costruiscono anche sistemi strofici, che i greci chiamano , non soltanto con metri che sfuggono alle regole del verso, ma anche con versi. Ad esempio questo di Orazio:
Nox erat, et caelo fulgebat luna sereno
Inter minora sidera 8
è un sistema di due cola ed è formato di versi. Ma questi due versi non potrebbero essere uniti nel sistema, se l'uno e l'altro non si rapportassero a piedi di sei tempi. Infatti lo schema del verso epico non si rapporta con quello del giambico e del trocaico, poiché i piedi del primo si dividono in parti eguali e quelli degli altri nel rapporto di due a uno. I sistemi strofici si compongono dunque o unicamente di metri, senza versi, come quelli, di cui abbiamo parlato precedentemente quando abbiamo trattato dei metri o unicamente di versi, come quelli di cui si sta parlando o in modo da essere contemperati di versi e metri, come questo:
Diffugere nives, redeunt iam gramina campis,
Arboribusque comae 9.
Ha poca importanza all'estetica uditiva l'ordine con cui sono disposti i versi con gli altri metri e i cola più lunghi con i più corti, purché il sistema strofico non abbia meno di due cola e non più di quattro. Ma se non hai obiezioni, si ponga fine a questa discussione. Come continuazione dell'argomento attinente a questa parte della musica che consiste nei ritmi dei tempi, da queste sue orme sensibili dobbiamo giungere, con la capacità di cui disponiamo, alla sua dimora segreta, in cui essa è spoglia del dato sensibile.
1 - VIRGILIO, Aen. 3, 549.
2 - VIRGILIO, Aen. 1, 1-7.
3 - CATULLO, Carm. 4, 1.
4 - ORAZIO, Odi 1, 1, 1.
5 - MARIO VITTORINO, Ars gramm., in G.L. 52, 34.
6 - ORAZIO, Epod. 2, 1.
7 - ENNIO, Ann. fr. inc. sedis.
8 - ORAZIO, Epod. 15, 1-2.
9 - ORAZIO, Odi 4, 7, 1-2.
Il castello interiore: quinte mansioni
Il castello interiore - Santa Teresa d'Avila
Leggilo nella BibliotecaCapitolo 1
In che modo l'anima si unisca a Dio durante l'orazione, e come conoscere se vi sia inganno
1 - In che modo, sorelle, vi potrei parlare delle ricchezze, dei tesori e delle delizie che si trovano nelle quinte mansioni? Di queste, come di quelle che ancora restano, sarebbe meglio non parlare, perché non vi sono termini sufficienti, come non vi è intelletto per comprenderle, né paragoni per spiegarle.
Le cose della terra sono troppo basse per servire a questo scopo. Ma siccome Voi, o Signor mio, vi siete compiaciuto che alcune delle vostre serve ne godano tanto spesso, mandate luce dal cielo affinché io le sappia illuminare, premunendole contro gli inganni del demonio quando si trasformerà in angelo di luce. Dopo tutto, esse non desiderano che di piacervi.
2 - Ho detto che in queste mansioni ne entrano soltanto alcune, mentre avrei dovuto dire che solo pochissime non vi entrano.
Anzi, siccome vi è il più e il meno, penso che certe particolarità siano soltanto di poche. Tuttavia, arrivare anche solo alle porte è sempre una grande grazia di Dio, perché molti sono i chiamati e pochi gli eletti. Così di noi che portiamo questo sacro abito del Carmine.
Tutte siamo chiamate all'orazione e alla contemplazione perché in ciò è la nostra origine e siamo progenie di quei santi Padri del monte Carmelo che in grande solitudine e nel totale disprezzo del mondo cercavano questa gioia, questa preziosa margherita di cui parliamo: eppure in poche ci disponiamo per ottenere che Dio ce la scopra.
Quanto all'esteriore si va bene, ma quanto alle virtù necessarie per arrivare a detto stato, ci manca ancora moltissimo, per cui non dobbiamo mai trascurarci, né in poco né in molto.
Facciamoci coraggio, sorelle mie, e siccome un po' di cielo lo possiamo godere fin da ora, supplichiamo il Signore a concederci di non rimanerne prive per nostra colpa, ma a mostrarcene la strada e a fortificarci l'anima, onde scavare sino a scoprire questo tesoro nascosto che sta dentro di noi. Se Dio si compiacerà di aiutarmi, ve ne dirò qualche cosa.
3 - Ho detto che ci fortifichi l'anima, acciocché intendiate che le forze del corpo, se Dio non le dà, non sono necessarie. Non solo Egli non impedisce ad alcuno di acquistarsi le sue ricchezze, ma si contenta che ognuno gli dia ciò che ha. Sia benedetto per sempre un così grande Signore!
Badate però, figliuole mie, che per acquistarvi ciò che dico, Egli esige che non vi riserviate nulla. Sia poco o molto quello che avete, lo vuol tutto per sé. Più o meno grandi saranno le grazie che ne avrete, ma sempre in proporzione di quello che vedrete di aver dato: per sapere se la nostra orazione arrivi o non arrivi all'unione, non vi è prova migliore.
Non crediate che questa orazione somigli al sonno, come la precedente: dico sonno in quanto che l'anima sembra che sia mezzo assopita, perché se pare che non sia del tutto addormentata, non si sente neppure sveglia.
Qui invece è addormentata - e addormentata profondamente - non solo a tutte le cose della terra, ma pure a se stessa, tanto che per la breve durata di questo fenomeno essa rimane così fuori di sé, da non poter formare alcun pensiero, neppure volendolo. Qui per sospendere il pensiero non c'è proprio da ricorrere ad alcuna industria. Se ama, non sa come, né chi; se vuole, non sa cosa vuole: è come se sia morta al mondo per più vivere in Dio.
4 - Ma è una morte deliziosa: morte, perché l'anima si sottrae a tutte le operazioni che può avere dall'unione col corpo; deliziosa, perché sembra che si separi dal corpo per meglio vivere in Dio.
Infatti, al corpo non so se rimanga tanto di vita da poter ancora respirare. Pensando ora a quest'ultima cosa, mi sembra che non gliene rimanga affatto. Almeno, se respira, non lo avverte.
L'intelletto vorrebbe tutto occuparsi per intendere qualche cosa di ciò che l'anima sente, ma siccome le sue forze non glielo permettono, rimane così sorpreso che, pur non perdendosi del tutto, non può muovere né mani né piedi, come si direbbe di una persona che fosse così svenuta da parerci morta.
Oh, segreti di Dio!... Non mi stancherei mai di parlarne, se pensassi di farne capire qualche cosa, disposta pure a dir mille spropositi pur di riuscirvi una volta sola, e procurare a Dio un maggior tributo di lodi.
5 - Ho detto che questa orazione non somiglia al sonno.
Nella mansione precedente, finché l'anima non ne abbia fatta una grandissima esperienza, rimane sempre con dubbio sui fenomeni subiti: se furono una sua illusione, se dormiva, se provennero da Dio o dal demonio trasformato in angelo di luce, e tanti altri timori: i quali del resto non è bene che manchino per il pericolo che qualche volta s'intrometta per davvero la nostra natura.
Se là le bestie velenose non hanno modo d'introdursi, vi possono penetrare certe lucertolette che per la loro sottigliezza si cacciano da per tutto: intendo parlare di quei piccoli pensieri provenienti dall'immaginazione e da quello che ho detto, i quali, benché non siano di danno - specialmente se si trascurano - spesso però infastidiscono.
Qui invece non possono entrare neppure le lucertolette più piccole, non essendovi immaginazione, memoria o intelletto capaci d'impedire un tanto bene.
Oso anzi affermare che se si tratta di vera unione con Dio, non vi può entrare a far danno nemmeno il demonio, perché allora Dio è unito all'essenza dell'anima, e il maligno non solo non ha ardire d'avvicinarsi, ma credo che di questi segreti non debba neppure intendersene.
La cosa è assai chiara. Se dicono che egli non conosce i nostri pensieri, a maggior ragione non deve conoscere questi segreti che Dio non confida neppure all'intelletto. Oh, stato felicissimo nel quale il maledetto non può fare alcun danno!
L'anima ne esce con grandissimi vantaggi, perché Dio opera in lei senza che alcuno vi metta ostacoli, neppure noi stessi. Che cosa allora non dovrà mai dare Chi tanto ama di dare, e può dare quanto vuole?
6 - Sembra che io v'ingeneri confusione. Ho detto se è unione di Dio, quasi che vi siano altre unioni. Altro se ve ne sono!...
Può darsi che in riguardo di certe vanità il demonio faccia uscire l'anima da se stessa per la grande passione con cui ella le ami, benché non nella stessa maniera né con gli stessi sentimenti di gioia, di soddisfazione, di diletto e di pace, di cui l'anima si sente ripiena quando l'operazione è da Dio.
I piaceri, le ebbrezze e le consolazioni della terra, nonché non essere paragonabili con i sentimenti che Dio produce, non hanno con essi alcuna relazione di origine, e ben diversa è l'impressione che ne risulta, come voi stesse avrete forse provato. Ho detto in altro luogo che è come se gli uni si sentano alla superficie del corpo e gli altri nel midollo delle ossa. Allora mi sono spiegata assai bene, ma ora meglio di così non so farlo.
7 - Però mi sembra che non siate ancora soddisfatte, e temiate di cadere in inganno.
Grande è la difficoltà che s'incontra nel discernimento di queste cose interiori.
Tuttavia, per coloro che ne hanno esperienza, può essere sufficiente quello che ho detto, nonostante che ben grande ne sia la differenza. Comunque, eccovi un segno evidente per non cadere in inganno ed accertarvi che l'operazione è di Dio.
Il Signore me l'ha riportato oggi alla memoria, e credo che sia sicuro. Nelle questioni più difficili, anche se mi pare di intenderle e di dire la verità, uso sempre questa espressione: Mi sembra; e ciò per far capire che se m'inganno, sono pronta a sottomettermi a coloro che ne san di più.
Costoro, benché di queste cose non abbiano esperienza, hanno però un certo senso che è loro proprio, e siccome Dio li destina a luce della sua Chiesa, quando si tratta di ammettere una verità li illumina Lui stesso.
Se non sono leggeri, ma veri servi di Dio, non solo non si scandalizzano di queste meraviglie, ma sono anzi persuasi che Dio ne possa fare assai di più; e se si tratta di fenomeni non ancora ben chiari, trovano modo di ammetterli studiando quelli che sono scritti.
8 - Di questo ho io grande esperienza, come l'ho di certi semi-dotti paurosi che mi costarono assai. Chi non crede che Dio sappia fare assai di più, e non ammette che possa essersi compiaciuto e possa tuttora compiacersi di comunicarsi talvolta con le sue creature, costui, secondo me, tien chiusa la porta a ogni divina effusione.
Voi, sorelle, guardatevene attentamente, credete sempre che Dio può fare assai di più, e non fermatevi mai ad esaminare se chi riceve queste grazie sia virtuoso o no. Il motivo lo sa il Signore: noi non dobbiamo intrometterci. Serviamo Iddio con umiltà c semplicità di cuore, lodandolo per queste sue opere meravigliose.
9 - Eccomi dunque al segno che io chiamo sicuro. Osservate quest'anima a cui Dio ha sospeso del tutto l'intelletto per meglio arricchirla della vera sapienza.
Per tutto il tempo che dura in questo stato - tempo sempre breve, e che all'anima sembra ancora più breve - ella non vede e non sente nulla.
Ma Dio s'imprime nel suo interno, e quando ella torna in sé, in nessun modo può dubitare che Dio sia stato in lei ed ella in Dio. Questa verità le rimane scolpita sì al vivo, da non poterne affatto dubitare né dimenticarla, neppure dopo molti anni, benché Dio non gliela rinnovi: senza poi dire degli altri effetti, sui quali tornerò più avanti.
In questa certezza sta appunto il segno che ho detto.
10 - Ma voi mi direte: Come si vede o s'intende che è Dio, se non si vede e non s'intende nulla?
Non dico che lo si veda allora, ma in seguito; e ciò non per visione, ma per una piena convinzione che rimane nell'anima e che non può essere che da Dio.
Conosco una persona che non sapeva che Dio si trova in ogni cosa per presenza, per potenza e per essenza. Ma lo intese chiaramente dopo un favore di questo genere ricevuto dal Signore.
Avendo interrogato uno di quei semidotti di cui ho parlato più sopra sul come Dio sia in noi, egli che ne sapeva quanto lei prima di questa illustrazione, le rispose che vi sta soltanto per la grazia; ma ella era talmente fissa nella verità, che non gli credette.
In seguito interrogò altre persone che le dissero la cosa come stava, e ne rimase molto consolata.
11 - Badate però di non cadere in errore pensando che questa certezza riguardi una forma corporale, come il corpo di nostro Signore Gesù Cristo presente invisibilmente nel santissimo Sacramento. Qui non vi è nulla di simile, perché non si tratta che della divinità.
Ma che certezza si può mai avere di una cosa che non si vede?
Io non lo so. Sono opere di Dio. Ma so di dire la verità. Se non vi fosse questa certezza, si avrebbe, secondo me, non già un'unione di tutta l'anima con Dio, ma soltanto di una sua potenza, oppure di un altro genere di grazie fra le molte che il Signore usa fare.
Dopo tutto, non è il caso d'indagare come questi fenomeni avvengano. A che tanto affaticarci quando la nostra intelligenza non li può comprendere?
Ci basti sapere che Chi li fa può fare ogni cosa. Sono operazioni di Dio, innanzi alle quali le nostre industrie sono nulla. Essendo incapaci di raggiungerle, guardiamoci pure dal volerle comprendere.
12 - A proposito di quest'impotenza, mi ricordo di ciò che dice la Sposa dei Cantici e che voi stesse avrete udito: Il Re mi ha condotta nella cella del vino, o piuttosto, come credo che dica: Mi ha introdotta. Insomma, non dice che vi sia andata da sé. Dice ancora che andava di qua e di là in cerca del suo Amato.
Ora, l'orazione di cui parlo è appunto la cella vinaria nella quale il Signore intende introdurci, ma quando e come vuol Lui.
Da noi, con i nostri sforzi, non vi possiamo entrare: bisogna che ci introduca Lui. Ed Egli lo fa quando entra nel centro dell'anima nostra. Qui, per meglio mostrare le sue meraviglie, vuole che altro non facciamo che assoggettargli la volontà, guardandoci bene dall'aprir le porte delle potenze e dei sensi che giacciono addormentati, perché intende entrare nel centro dell'anima senza passare per alcuna porta, come entrò dai suoi discepoli quando disse: Pax vobis, e come usci dal sepolcro senza smuovere la pietra.
Più avanti vorrà che l'anima lo goda nel centro di se stessa ben più intensamente che non qui; ma sarà nell'ultima mansione.
13 - Che grandi cose vedremo, figliuole mie, se cercheremo di non contemplare che la nostra miserabile bassezza, reputandoci indegne di essere le serve di questo eccelso Signore, le cui meraviglie ci sono affatto incomprensibili!...
Sia Egli per sempre benedetto: Amen.
Capitolo 2
Prosegue sul medesimo argomento, e dice con un grazioso paragone in che consiste l'orazione di unione, e quali gli effetti che lascia Capitolo degno di nota
1 - Vi parrà che di questa mansione vi abbia ormai detto ogni cosa; eppure mi rimane ancora molto, perché, come vi ho già fatto osservare, vi è il più e il meno.
Per ciò che riguarda l'unione, non credo di saperne dire di più, ma resta molto da parlare circa gli effetti che Dio produce nelle anime quando esse si dispongono a ricevere le sue grazie. Ne voglio dire qualche cosa, e nel contempo far conoscere lo stato in cui l'anima rimane.
Per farmi meglio capire, voglio servirmi di un paragone che trovo molto appropriato, per mezzo del quale vedremo che quantunque in questa operazione di Dio nell'anima noi non possiamo far nulla, tuttavia per ottenere che il Signore ce ne favorisca, possiamo far molto col disporci.
2 - Avrete già udito parlare delle meraviglie che Dio opera nella produzione della seta, invenzione di cui Egli solo poteva essere l'autore. Si tratta di piccoli semi, simili a granellini di pepe che io non ho mai veduto, ma di cui ho sentito parlare: perciò, se cado in qualche inesattezza la colpa non è mia.
A1 sopraggiungere dell'estate, quando i gelsi si coprono di foglie, questi semi cominciano a prender vita. Prima che spuntino quelle foglie di cui si devono nutrire, stanno là come morti; a poco a poco, con quell'alimento si sviluppano, finché, fatti più grandi, salgono sopra alcuni ramoscelli, ed ivi con la loro piccola bocca filano la seta che cavano dal loro interno, fabbricandosi certi bozzoli molto densi, nei quali ognuno di quegli insetti, che sono brutti e grossi, si rinchiude e muore. Ma poco dopo esce dal bozzolo una piccola farfalla bianca, molto graziosa.
Se questo fenomeno non cadesse sotto i nostri occhi, ma ci fosse raccontato come cosa di altri tempi, nessuno lo crederebbe. Infatti, come potremmo credere che un verme o un'ape, - esseri privi di ragione - siano tanto diligenti e industriosi nel lavorare per noi fino a rimetterci la vita come il povero bacolino nel suo lavoro?
Ecco un buon soggetto, sorelle, per intrattenervi a lungo in meditazione, senza null'altro aggiungere, bastando questo solo per farvi considerare le meraviglie e la sapienza del nostro Dio. Oh, se conoscessimo le proprietà delle cose! Come sarebbe vantaggioso meditare sopra queste meraviglie, compiacendoci di essere le spose da un Re così grande e sapiente!
3 - Tornando ora al nostro argomento, l'anima, di cui quel verme è l'immagine, comincia a prendere vita quando per il calore dello Spirito Santo, comincia a valersi dei soccorsi generali che Dio accorda a ognuno e a servirsi dei rimedi che Egli ha lasciato nella sua Chiesa, come le frequenti confessioni, le buone letture e le prediche: rimedi opportuni per l'anima che sia morta nel peccato e si trovi fra le occasioni cattive a causa della sua trascuratezza.
Ripreso a vivere con quei rimedi e pie meditazioni, vi si andrà pure sostentando finché sia cresciuta. E questo è il punto in cui la considero, poco curandomi di ciò che precede.
4 - Quando questo verme si è fatto grande - come abbiamo visto in principio di questo scritto - comincia à lavorare la seta e a fabbricarsi la casa nella quale dovrà morire.
Questa casa, come vorrei far intendere, è il nostro Signore Gesù Cristo. Mi pare di aver letto in qualche parte, o di aver udito, che la nostra vita è nascosta in Cristo, ovvero in Dio, che è poi lo stesso, oppure che Cristo è la nostra vita. Che il testo sia o non sia così, per il mio intento poco importa.
5 - Osservate qui, figliuole mie, quello che con l'aiuto di Dio possiamo fare: che Sua Maestà diventi nostra dimora fabbricata da noi stessi, come lo è in questa orazione di unione.
Dicendo che Dio è nostra dimora, e che questa dimora possiamo fabbricarcela da noi stessi per prendervi alloggio, sembra quasi che voglia dire di poter noi aggiungere o togliere a Dio qualche cosa.
E lo possiamo benissimo, ma non già aggiungendo o togliendo a Dio, bensì aggiungendo o togliendo a noi, come quei piccoli vermi, perché non avremo ancora ultimato quanto sarà in nostro potere che Egli verrà, e unendo alla sua grandezza la nostra lieve fatica, che è un nulla, le conferirà un valore così eccelso da meritare che Egli si costituisca in nostra stessa ricompensa.
Non contento di aver sostenute le spese maggiori, vorrà pure unire le nostre piccole pene alle molto grandi che Egli un giorno ha sofferto per non farne che una cosa sola.
6 - Orsù dunque, figliuole mie, mettetevi subito al lavoro!
Tessiamo questo piccolo bozzolo mediante lo spogliamento di ogni nostro amor proprio e volontà, distaccandoci da ogni cosa terrena e praticando opere di pedi orazione, di meditazione e di obbedienza, con resto che già sapete.
Oh, se mettessimo in pratica tutto quello che sappiamo e che ci hanno insegnato! E poi muoia, muoia pure questo verme, come il baco da seta dopo aver fatto il suo lavoro!
Allora ci accorgeremo di vedere Iddio e ci sentiremo sepolte nella sua grandezza, come il piccolo verme nel suo bozzolo. Dicendo che vedremo Iddio, dovete intendere nel modo con cui Egli si fa sentire in questa specie di unione.
7 - Passiamo ora a vedere come questo verme si trasformi, che è lo scopo di quanto finora vi ho detto.
Dico che quando il verme entra in questa orazione e vi rimane morto a tutte le cose del mondo, esce mutato in piccola farfalla bianca.
Oh, potenza di Dio! Oh, in che stato esce l'anima, dopo, essere rimasta nella grandezza di Dio e tanto a Lui unita come qui, sia pure per poco tempo, giacché, a mio parere, non si arriva mai a mezz'ora! In verità vi dico che essa non si riconosce più.
Pensate alla differenza fra un verme ributtante e una piccola farfalla bianca: così di lei.
L'anima ignora come abbia potuto meritare tanto bene, voglio dire che non sa di dove le sia venuto, perché conosce benissimo che a meritarlo non è da lei.
Si sente presa da un desiderio vivissimo di lodare Iddio, sino a bramare di distruggersi e di affrontare mille morti. Brame irresistibili di darsi a grandi sofferenze cominciano tosto ad occuparla senza che sappia liberarsene, e sospira con ardore di abbandonarsi alla penitenza, di stare in solitudine e di fare che tutti conoscano il suo Dio, sino a provare afflizione profonda nel vederlo offeso.
Nelle mansioni seguenti parlerò di questi effetti con particolari maggiori. Benché i fenomeni delle quinte mansioni siano quasi identici a quelli delle seguenti, tuttavia sono assai diversi quanto all'intensità degli effetti. Una anima che Dio ha condotto a questo punto, se si sforza di andare avanti, vedrà grandi meraviglie.
8 - Oh, lo spettacolo di questa piccola farfalla in continua agitazione! Eppure in tutta la sua vita non ha mai goduta tanta pace e soavità.
Vien proprio da lodare Iddio nel contemplarla così incapace a fermarsi e a riposare. No, dopo aver goduto di un tal bene, le cose della terra non la soddisfano più, specialmente se Dio l'abbia spesso inebriata di quel suo vino, dal quale si ricavano sempre nuovi vantaggi, quasi ogni volta.
Ormai non fa più conto di ciò che praticava quando era verme. Allora intesseva a poco a poco il suo bozzolo, ma ora le sono nate le ali; ed essendo capace di volare, perché contentarsi di andare ancora passo passo?
I suoi desideri sono immensi, e poco le sembra quanto possa fare per Iddio. Neppur più si meraviglia di ciò che i santi hanno fatto, perché sa per esperienza quanto il Signore aiuti, trasformando l'anima in modo tale da renderla irriconoscibile, quasi non sia più quella di prima.
La debolezza che le pareva di avere per non fare penitenza si è convertita in fortezza. E se precedentemente il suo attacco ai parenti, agli amici e ai beni terreni era tale che né i suoi atti interiori, né le sue decisioni, né la sua stessa volontà riuscivano ad infrangerlo, sembrandole anzi di attaccarvisi di più, ora invece si sente così libera da dispiacersi anche di quei rapporti che non può troncare senza offesa di Dio. Avendo sperimentato che il vero riposo non le può venire dalle creature, sente noia di tutto.
9 - Sembra che mi estenda troppo; eppure potrei dire assai di più. Chi ha ricevuto da Dio questa grazia, vedrà che non sono lunga.
Non è dunque da meravigliarsi se questa piccola farfalla, sentendosi straniera fra le cose della terra, cerchi di riposarsi in qualche altra parte. Ma dove andrà la poverina?
Tornare donde è uscita non può, giacché, come ho detto, non è cosa in suo potere, nonostante ogni suo possibile sforzo, finché Dio non si compiaccia di favorirla nuovamente. Che nuovi tormenti cominciano allora per lei! O Signore!...
E chi lo può credere dopo grazie così sublimi?
Sì, finché si vive, in un modo o in un altro si ha sempre da soffrire. Se qualcuno afferma di essere giunto a questo stato, sempre fra consolazioni e delizie, gli rispondo che non vi è giunto affatto o, per lo meno, che essendo entrato nella mansione precedente, vi ha goduto qualche rara consolazione, aiutata anche quella dalla sua naturale debolezza, per non dire forse dal demonio che gli abbia dato un po' di pace per muovergli in seguito una guerra più accanita.
10 - Non voglio dire con ciò che gli abitanti di questa mansione non abbiano la pace: l'hanno e molto grande, perchè le stesse sofferenze sono qui tanto preziose e di così eccellente radice che, nonostante la loro alta intensità, generano pace e contento.
Dal disgusto che ispirano le cose del mondo nasce nell'anima il desiderio di abbandonarlo; ed è un desiderio così penoso che la poverina, per aver un po' di sollievo, deve pensare essere volontà di Dio che viva in esilio.
Alle volte non basta neppur questo, perché l'anima, nonostante i suoi molti progressi, qui non è ancora così sottomessa al volere di Dio come lo sarà più avanti. Tuttavia non lascia di rassegnarsi, sia pure con pena e con abbondanza di lacrime, non potendo far altro perché di più non le è ancora concesso.
Sperimenta questa pena ogni qualvolta si mette in orazione, pena che in parte le deriva dal dolore vivissimo di vedere Iddio vilipeso e poco onorato dal mondo, e nel considerare il gran numero di eretici e di mori che van perduti, benché lo senta assai di più per la perdita dei cristiani.
Teme che molti sian quelli che si dannino, sebbene non ignori la grandezza della misericordia di Dio e sappia che quegli infelici possono sempre correggersi e salvarsi, nonostante la malvagità della loro vita.
11 - Oh, grandezza di Dio! Pochi anni, forse pochi giorni prima, quest'anima non pensava che a se stessa. Chi ora l'ha posta in sollecitudini così penose?
Noi non riusciremmo ad averne di sì intense neppure se vi consumassimo intorno molti anni di meditazione.
E che? Io dunque non potrei avere tali cure nemmeno impiegando giorni ed anni a meditare il gran male che è l'offesa di Dio, nel pensare che quanti si dannano sono suoi figli e miei fratelli, nel considerare i pericoli in cui ci troviamo e quanto ci sarebbe vantaggioso uscire una buona volta da questa miserabile vita?
No, figliuole! La pena che queste riflessioni producono non è come quella di cui parlo. Con l'aiuto di Dio, e indugiandoci molto nelle suddette riflessioni, possiamo pure averne, ma non mai così penetrante come l'altra, la quale sembra che stritoli e macini l'anima senza che essa vi contribuisca, né alle volte lo voglia.
Ma allora in che consiste? Donde viene? Ve lo voglio dire.
12 - Non vi ricordate di ciò che vi ho detto - sebbene non a questo proposito - in riguardo alla sposa che Dio ha introdotto nella cella vinaria, ordinando in lei la carità? E' quello che avviene qui.
L'abbandono con cui quest'anima si è rimessa nelle mani di Dio, unito al grande amore che ella gli porta, la rende così soggetta da non sapere né volere che una cosa: che Egli faccia di lei tutto quello che vuole.
Credo infatti che Dio non conceda mai questa grazia se non all'anima che già ritiene tutta sua. E così, senza che ella se ne accorga, fa in modo che esca da questo stato segnata con il suo sigillo. Del resto, qui l'anima non è più di una cera su cui s'imprima il sigillo.
La cera non s'imprime il sigillo da sé: essa non fa che tenersi pronta a riceverlo con la sua mollezza. Ma anche in questo non è essa che si modifica: ciò che essa fa è soltanto di stare immobile senza opporre resistenza.
Oh, bontà di Dio! Anche qui dev'esser tutto a vostre spese! L'unica cosa che chiedete è la nostra volontà: cioè, che la cera non opponga resistenza.
13 - Questo, dunque, sorelle, è quello che Dio fa per indurre l'anima a riconoscersi per sua. Le dà quello che ha, vale a dire, le stesse disposizioni avute in terra da suo Figlio: grazia veramente incomparabile. Chi più di suo Figlio ha desiderato di uscire da questa vita? Lo ha detto Lui stesso nella cena: Ho desiderato con desiderio Oh, Signore! E non pensavate alla morte che vi attendeva crudele, dolorosa e terribile?
- No, il grande amore e il desiderio che tutti gli uomini si salvassero, superavano di gran lunga quelle pene, senza poi dire che le ritenevo da nulla di fronte alle molte altre che poi ho patito, e che patisco tuttora da che sono nel mondo. -
14 - È proprio così, e l'ho meditato spesso. Pensando al dolore che ha sofferto e soffre un'anima di mia conoscenza - dolore così intollerabile che pur di non soffrirlo amerebbe meglio morire - mi domandavo: se così insopportabile è il tormento di un'anima la cui carità, dopo tutto, non è neppure paragonabile a quella di Cristo, che cosa avrà mai provato il Signore, e quale sarà mai stata la sua vita, avendo sempre innanzi ogni cosa e vedendo continuamente le gravi offese che si facevano al Padre suo?
Questo tormento dovette essere assai più grave di tutti quelli della sua sacratissima passione. Questa, se non altro, segnava la fine di ogni suo travaglio. E questo pensiero, unito alla consolazione di sapere che la sua morte sarebbe stata di nostro rimedio, e che con i suoi patimenti avrebbe dimostrato al Padre il grande amore che gli portava, doveva addolcire i suoi dolori.
Non è così che avviene anche fra noi? Quando uno si dà a grandi penitenze con alto impeto di amore, nemmeno quasi le sente.
Anzi, vorrebbe farne assai di più, e gli par tutto poca cosa...
Così nostro Signore in quell'occasione così propizia per dimostrare al Padre suo con quanta perfezione gli ubbidisse e quanto amasse noi uomini!
Oh, che gioia soffrire per fare la volontà di Dio! Ma vedere la Maestà di Dio continuamente offesa, e avvertire il gran numero di anime che si dannano, io lo credo così penoso che se nostro Signore fosse stato un semplice uomo, un giorno solo di questo tormento sarebbe bastato, a mio parere, per troncargli, non già una, ma molte vite.
Capitolo 3
Prosegue sul medesimo argomento, e parla di un'altra specie di unione, per raggiungere la quale giova molto l'amore del prossimo - Capitolo molto utile
1 - Torniamo ora alla nostra piccola colomba e vediamo qualche cosa di ciò che Dio le accorda in questo stato. Però - e bisogna esserne persuase - l'anima non deve mai lasciare d'avanzarsi nel servizio di Dio e nel proprio conoscimento, perché se si tiene paga di ricevere questa grazia e, credendosi sicura, vive trascurata, abbandonando la via del cielo, consistente nell'osservanza dei comandamenti, le avverrà come alla farfalla del baco, la quale getta il seme per dar vita ad altre farfalle, ma essa muore e rimane morta per sempre.
Dico che getta il seme, perché Dio vuole che grazie così grandi non siano date invano. Perciò, se quell'anima non se ne giova, fa in modo che se ne giovino gli altri.
Con i desideri e le virtù che le vengono dal perseverare nel bene, quell'anima comunica a varie altre il suo stesso calore. Anzi può rimanerle il desiderio di giovare al prossimo anche dopo aver perduto ogni calore, godendo di far conoscere le grazie che Dio accorda a chi lo ama e lo serve.
2 - Ciò è avvenuto a una persona di mia conoscenza. Nonostante il suo cattivo stato, godeva che altri si approfittassero delle grazie da lei avute, e si compiaceva d'insegnare il cammino dell'orazione a chi lo ignorava. In questo modo fece del gran bene, e il Signore le ritornò la sua luce.
È vero che non era ancora giunta ad avere gli effetti di cui parlo. Però, quanti son coloro che, chiamati da Dio all'apostolato, onorati come Giuda delle sue stesse comunicazioni ed elevati al regno come Saul, finiscono poi, per loro colpa, col perdersi!
Impariamo da ciò, sorelle mie, che il mezzo più sicuro per progredire in nuovi meriti e non mai perderci come questi infelici, è l'obbedienza, accompagnata dall'esatto adempimento della legge di Dio.
Parlo non solo alle anime che ricevono queste grazie, ma anche alle altre.
3 - Malgrado quello che ho detto, mi pare che questa mansione rimanga ancora molto buia. Tuttavia, siccome è di sommo interesse l'entrarvi, è bene non perderne la speranza, neppure se il Signore non comparta questi favori soprannaturali, perché con il suo aiuto la vera unione si può conseguire benissimo, sforzandosi di acquistarla col sottomettere la propria alla volontà di Dio.
Quanti dicono cosa, persuasi di non voler altro, e di essere anche disposti a sacrificare la vita! Se foste tali veramente, vi direi e non cesserei di ripetervi che questa grazia l'avete già. Di quell'altra unione accompagnata da delizie, non preoccupatevi affatto.
Il più prezioso di quella dipende tutto da questa, e non lo si può conseguire se non dopo essersi stabiliti nella sottomissione al volere di Dio. Oh, unione desiderabile che è mai questa!
Felice l'anima che l'ha raggiunta! Essa ha pace in questa e nell'altra vita, perché, a parte il pericolo di perdere Dio e il dolore di vederlo offeso, non vi è allora più nulla che la possa affliggere, non la povertà, non le malattie, neppure la morte, eccetto quella di coloro che nella Chiesa di Dio possono fare del bene, vedendo essa chiaramente che il Signore sa disporre le cose meglio di come ella le desideri.
4 - Dovete avvertire che non tutte le pene sono del medesimo genere. Alcune - come pure alcune gioie - sono un prodotto spontaneo della natura e della carità, come la compassione dei mali altrui, sofferta pure da nostro Signore quando risuscitò Lazzaro. Queste non solo non impediscono che l'anima stia unita alla volontà di Dio, e non la turbano con moti violenti afflittivi e di lunga durata, ma passano anche presto, e, come ho detto parlando delle delizie dell'orazione, lungi dal penetrare sino al fondo dell'anima, non toccano che i sensi e le potenze.
Il loro campo principale è nelle mansioni precedenti, mentre in quelle che dirò per ultimo non entrano neppure.
In questa specie di unione la sospensione delle potenze di cui ho fatto parola, non è necessaria. Il Signore è onnipotente: può arricchire le anime per molte vie, e farle arrivare a questa mansione senza la scorciatoia di cui ho parlato.
5 - Persuadetevi intanto, figliuole mie, che il verme deve assolutamente morire, e morire a nostre spese.
Nell'altra unione l'aiuta molto a morire la nuova vita che l'attende; ma qui bisogna che l'uccidiamo noi, pur continuando a vivere di questa vita. Ciò non si può fare se non a prezzo di grandi lotte; ma se ne avrà la ricompensa, e tanto grande quanto la vittoria.
Nessun dubbio che vi si possa giungere, purché l'unione con la volontà di Dio sia vera.
Questa è l'unione che io ho sempre desiderato e che non cesso mai di domandare a Dio, perché più evidente e più sicura.
6 - Oh, noi infelici! Come sono pochi quelli che la raggiungono!
Si crede di aver fatto tutto perché si è entrati in religione e si evita l'offesa di Dio! Ma, ohimé! restano ancora certi vermi che non si lasciano conoscere, finché, come quello che rose l'edera di Giona, non abbiano rovinata ogni virtù, quali l'amor proprio, la propria stima, i più piccoli giudizi temerari e certe mancanze di carità verso il prossimo che non si ama come noi stessi...
Se adempiamo i nostri doveri per forza, unicamente per non commettere peccato, siamo molto lontane dalle disposizioni necessarie per essere unite del tutto alla volontà di Dio!
7 - Secondo voi, figliuole mie, in che consiste questa divina volontà?
Nell'esser noi così perfette da formare una cosa sola col Figliuolo e col Padre, come Gesù Cristo ha domandato. Ma quanto ci manca per arrivare a questo punto!
Per me vi confesso che scrivendo queste cose, lo faccio con grandissima pena, perché vedo che per mia colpa ne sono ancora molto lontana. Per arrivarvi non è necessario che il Signore ci dia grandi consolazioni: basta quello che ci ha dato con l'aver mandato suo Figlio ad insegnarci la strada.
Non crediate però che la conformità alla volontà di Dio consista nel non sentire dispiacere se muore mio padre o mio fratello, oppure nel sopportare con gioia eventuali tribolazioni o infelicità.
Sarebbe buona cosa, ma alle volte potrebbe essere frutto di umana discrezione, in quanto che, vedendo che non v'è più rimedio, si fa di necessità virtù. Quanti atti di questo genere ed altri consimili seppero pur fare i filosofi con la loro sapienza!
Per noi la volontà di Dio non consiste che in due cose: nell'amore di Dio e nell'amore del prossimo. Qui devono convergere tutti i nostri sforzi.
E se lo faremo con perfezione, adempiremo la volontà di Dio e gli saremo unite. Ma quanto siamo lontane dall'osservare questi precetti nel modo che un tal Signore si merita! Piaccia a Dio di farci un giorno arrivare: cosa che del resto è in nostra mano, purché lo vogliamo!
8 - Il segno più sicuro per conoscere se pratichiamo questi due precetti è vedere con quale perfezione osserviamo quello che riguarda il prossimo.
Benché vi siano molti indizi per conoscere se amiamo Dio, tuttavia non possiamo esserne sicuri, mentre lo possiamo essere quanto all'amore del prossimo.
Anzi, più vi vedrete innanzi nell'amore del prossimo, più lo sarete anche nell'amore di Dio: statene sicure. Ci ama tanto Iddio, che in ricompensa dell'amore che avremo per il prossimo, farà crescere in noi, per via di mille espedienti, anche quello che nutriamo per Lui.
E di ciò non v'è dubbio.
9 - Di grande importanza per noi è osservare attentamente come su questo punto ci diportiamo,perché se vi mettiamo grande perfezione, tutto è fatto.
Ma per la miseria della nostra natura credo che non arriveremo mai ad avere perfetto amore del prossimo, se non lo faremo nascere dalla medesima radice dell'amore di Dio.
Perciò, sorelle mie, siccome l'affare è importantissimo, procuriamo di esaminare noi stesse fin nelle più piccole cose, senza far conto di certe idee che alle volte ci vengono in massa durante l'orazione, per le quali ci pare di esser pronte per amore del prossimo a intraprendere e a far cose molto grandi, anche per la salvezza di un'anima sola.
Se le nostre opere non vi corrispondono, non abbiamo motivo di crederci da tanto. Così si dica per ciò che riguarda l'umiltà e le altre virtù.
Le astuzie del demonio sono grandi. Per farci credere che possediamo una virtù, mentre non l'abbiamo, metterà in moto tutto l'inferno, e ne avrà ragione per il gran danno che ci può fare, perché queste virtù, derivando da tale radice, saranno sempre con qualche vanagloria, contrariamente a quelle di Dio, dalle quali esula con essa anche la superbia.
10 - Non posso a meno di ridere, alle volte, nel vedere quello che succede ad alcune anime. Quando sono in orazione, sembra loro di esser disposte per amor di Dio ad ogni umiliazione e pubblico scherno; ma poi, potendolo, nasconderebbero anche il più piccolo difetto!
Non parliamo se venissero accusate di una mancanza non commessa! Dio ce ne liberi!.. Ora, chi non può sopportare queste cose, si guardi bene dal far conto di ciò che in se stesso crede di stabilire, perché i suoi propositi non sono che un effetto di pura immaginazione, non un'efficace determinazione di volontà, nel qual caso la cosa sarebbe ben diversa.
È appunto per l'immaginazione che il demonio tende i suoi lacci e i suoi inganni. E a quelli che sono poco istruiti, come noi donne, ne può tendere moltissimi, perché non sappiamo distinguere la differenza che passa fra le potenze e l'immaginazione, né le molte altre cose che sono nel nostro interno.
Com'è facile, sorelle, distinguere fra voi chi ha il vero amore del prossimo da chi non lo possiede con tanta perfezione! Se comprendeste quanto importi tal virtù, non vi applichereste ad altro studio.
11 - Quando vedo delle anime tutte intente a rendersi conto dell'orazione che hanno, e così concentrate quando sono in essa da far pensare che rifuggano dal più piccolo movimento e dal divertire il pensiero per paura di perdere quel po' di gusto e di devozione che sentono, mi persuado che ancora non conoscono come si arrivi all'unione. Pensano che sia tutto nel far così.
No, sorella mia! Il Signore vuole opere. Vuole, ad esempio che non ti curi di perdere quella devozione per consolare un'ammalata a cui vedi di poter essere di sollievo, facendo tua la sua sofferenza, digiunando tu, se occorre, per dare a lei da mangiare; e ciò non tanto per lei, quanto perché sai che questa è la volontà di Dio.
Ecco in che consiste la vera unione con il volere di Dio!
Altrettanto se senti lodare una persona: devi rallegrarti di più che se quelle lodi fossero per te. E questo ti sarà facile, se avrai l'umiltà, nel qual caso le lodi sono piuttosto di pena. E ancora, godere che le virtù delle sorelle, siano conosciute, sentir pena di un loro difetto, come se fosse tuo, e cercare di coprirlo. Ma su questo punto mi sono già estesa in altro luogo.
12 - Sorelle, se in questo mancassimo, saremmo perdute! Piaccia a Dio che ciò non avvenga! Vi assicuro che facendo come ho detto, otterrete di arrivare a questa unione, mentre in caso contrario persuadetevi di non arrivarvi mai, nonostante che possiate avere devozione e delizie spirituali sino a credere d'esservi giunte, e andiate soggette, durante l'orazione di quiete, ad alcune piccole sospensioni, in base alle quali certe anime credono che tutto sia fatto.
Pregate il Signore che vi conceda l'amore del prossimo in tutta la sua perfezione e lasciate fare a Lui.
Se da parte vostra vi sforzerete e farete il possibile per procurarvelo; se costringerete la vostra volontà ad accondiscendere in tutte a quella delle sorelle, anche a scapito dei vostri diritti; se nonostante tutte le ripugnanze della natura, dimenticherete i vostri interessi per non attendere che ai loro, e, presentandosene l'occasione, prenderete su di voi ogni fatica per esentarne le altre, Egli vi darà più di quanto sappiate desiderare.
Non crediate che questo non vi debba costare, e che abbiate già fatto ogni cosa. Considerate quanto é costato al nostro Sposo l'amore che ha nutrito per noi: per liberarci dalla morte ha subito la morte più crudele, quella della croce.
Capitolo 4
Prosegue sul medesimo argomento e dichiara più ampiamente questa specie di orazione - Quanto importi camminare con attenzione, perché il demonio mette in opera ogni mezzo per far retrocedere le anime dalla via incominciata
1 - Mi pare che bramiate conoscere cosa faccia la colombina e dove vada a riposarsi, perché, sapendo ormai volare molto alto, non si ferma più né fra le dolcezze spirituali, né fra le soddisfazioni della terra.
Ma non posso appagare il vostro desiderio che all'ultima mansione; e anche allora piaccia a Dio che mi ricordi e abbia tempo di farlo. Sono già cinque mesi che ho cominciato questo lavoro; e siccome la mia testa non mi permette di rileggerlo, dev'essere un disordine completo, con alcune cose dette forse due volte. Ma dovendo servire per le mie sorelle, non me ne preoccupo.
2 - Vi voglio spiegare più chiaramente in che consista l'orazione di unione, servendomi di un paragone, conformemente al mio ingegno, e parleremo più a lungo di questa piccola farfalla, la quale, benché non sappia fermarsi né trovare in nulla il suo riposo, tuttavia non cessa di far del bene a sé e agli altri, nonostante ogni contraria apparenza.
3 - Avrete spesso sentito dire che Dio si sposa spiritualmente con le anime. Sia benedetta la sua misericordia per tanta umiliazione!...
Si tratta di un paragone grossolano; eppure non trovo nulla che faccia meglio intendere queste cose come il sacramento del matrimonio. Certo che la differenza è molto grande, perché nell'alleanza di cui parliamo non vi è nulla che non sia spirituale: quella corporea ne rimane molto lontana, e lontane le mille miglia dai gusti e dalle consolazioni spirituali che qui il Signore concede, sono pure le soddisfazioni di chi contrae matrimonio.
E' l'amore che si unisce all'amore, e si hanno operazioni così pure, delicate e soavi da non aver parole per esprimersi. Ma il Signore sa farle sentire benissimo.
4 - Benché l'unione non arrivi ancora ad essere fidanzamento spirituale, tuttavia vi succede come nel mondo, quando due devono fidanzarsi: si esamina se uno conviene all'altro e se desiderano di unirsi, poi si permette che si vedano, affinché ne siano entrambi soddisfatti.
Supponiamo nel caso nostro che il contratto sia già stipulato, che l'anima sia ben informata di quanto quell'unione le convenga, e sia decisa a sottomettersi in tutto alla volontà dello Sposo, non tralasciando nulla di quanto vedrà di suo gradimento.
Intanto il Signore, vedendo che l'anima è proprio in queste disposizioni, si dichiara contento di lei e, volendo farsi meglio conoscere, le concede la grazia di venire, come suol dirsi, a un incontro, per poi unirla a sé.
E tutto questo in brevissimo spazio di tempo, non essendovi di mezzo più alcun contratto, ma soltanto uno sguardo, mediante il quale l'anima vede - e in maniera molto misteriosa - chi sia lo Sposo che deve prendere, riportandone una tale conoscenza, quale non potrebbe acquistare neppure in mille anni con l'esercizio dei sensi e delle potenze.
Con quel semplice sguardo lo Sposo, essendo Quegli che è, fa l'anima più degna di andare a dargli la mano, mentre l'anima ne rimane talmente rapita da far poi tutto il possibile per realizzare il fidanzamento.
Ma se invece si trascura sino a porre le sue affezioni sopra altro oggetto che non sia Lui, perde ogni cosa, e con perdita tanto più grave quanto più eccelse sono le grazie che Egli le terrebbe riserbate: insomma, una perdita da non potersi descrivere.
5 - Anime cristiane che Dio ha condotto fin qui, vi prego per amor suo di non mai trascurarvi e di fuggire le occasioni, perché qui l'anima non è ancora così forte da saperle affrontare come dopo il fidanzamento, che ha luogo nella mansione seguente. L'incontro con lo Sposo qui è soltanto con uno sguardo; e il demonio mette in moto ogni cosa per combattere l'anima e impedirle di fidanzarsi. Dopo invece, vedendola tutta dello Sposo, va più a rilento e ne ha paura, conoscendo per esperienza che se qualche volta l'assale, egli ne rimane con gran perdita, ed ella con maggior vantaggio.
6 - Eppure ho conosciuto alcune persone molto avanzate che dopo esser giunte sin qui, il demonio è riuscito a far sue, mediante insidie ed astuzie sottili. Credo che, pur di riuscirvi, debba mobilitare tutto l'inferno, essendo persuaso che rovinare un'anima sola di queste è rovinarne una moltitudine.
V'è da ringraziare il Signore nel considerare il gran numero di anime che Dio attira a sé mediante il concorso di una sola. Quante migliaia ne han convertite i martiri! Quante una donzella come S. Orsola! Quante ne ha rapite al demonio un S. Domenico, un S. Francesco ed altri fondatori di Ordini! e quante gliene rapisce tuttora il P. Ignazio, fondatore della Compagnia!
Se è vero che essi ricevevano da Dio queste grazie, come appare dalla lettura della loro vita, è pur vero che, se giunsero a tanto, fu solo perché si sforzarono di non andar privi, per loro colpa, di un sì divino fidanzamento.
Ah, figliuole mie, il Signore è disposto a darci grazie non meno oggi che allora. Anzi, sembra quasi che oggi abbia maggior bisogno che si ricevano, perché pochi sono coloro che zelano, come allora, la sua gloria. Ma è che amiamo troppo noi stesse!
Siamo troppo attente a non perdere i nostri diritti ! Oh che grande inganno!...
Ci dia luce il Signore nella sua infinita misericordia, per non cadere fra tante tenebre!...
7 - Mi potreste esporre od opporre due difficoltà. Primo: se l'anima è così conforme al volere di Dio, come si è detto, e non vuol fare in nulla la propria volontà, come può cadere in inganno?
Secondo: per quali vie il demonio può introdursi in voi e rovinarvi in maniera tanto pericolosa se siete lontane dal mondo, frequentate tanto i sacramenti, senza poi dire che qui vivete in compagnia di angeli, giacché, per bontà di Dio, ognuna di voi non desidera che di servire e piacere in tutto al Signore? Che ciò accada a chi vive fra i pericoli del mondo, nessuna meraviglia!
Vi rispondo che avete ragione e che in questo il Signore ci ha fatto una grande grazia. Tuttavia, quando penso che Giuda viveva con gli apostoli e conversava con lo stesso Dio di cui udiva le parole, comprendo che non ci può essere sicurezza neppure nel nostro stato.
8 - Rispondendo ora alla prima difficoltà, dico che quest'anima non si perderebbe se si tenesse continuamente unita alla volontà di Dio. Ma viene il demonio con le sue grandi astuzie, e sotto colore di bene la distacca a poco a poco da quella divina volontà in certe piccole cosette, ingannandola in varie altre col farle credere che non siano cattive.
Le offusca l'intelligenza, le raffredda la volontà, le fa crescere l'amor proprio; e così, da una in altra cosa, la vien separando dal volere di Dio ed accostando al suo proprio.
Con questo rimane sciolta anche la seconda difficoltà, perché non vi è clausura tanto stretta che al demonio possa essere inaccessibile, né deserto così sperduto che egli non sappia rintracciare.
Però vi faccio osservare quest'altra cosa: il Signore potrebbe permettere tutto questo per vedere come si diporti quell'anima di cui vorrebbe servirsi per illuminare le altre, perché se ella ha da essere infedele, è meglio che lo sia subito, piuttosto di divenirlo quando può far danno a molte altre.
9 - Ecco il rimedio che mi sembra più efficace. Presupposto che si preghi continuamente per chiedere a Dio che ci sostenga con la sua mano, pensando spesso che se Egli ci abbandona, cadiamo subito e indubbiamente nell'abisso; presupposto di non mai commettere la pazzia di confidare in noi stesse, dobbiamo esaminare con particolare cura ed attenzione come ci esercitiamo nella virtù, se progrediamo o torniamo indietro, specialmente in ciò che riguarda l'amore vicendevole, il desiderio di essere tenute le ultime di tutte, e così pure come disimpegniamo le cose ordinarie.
Esaminandoci seriamente e pregando il Signore a illuminarci vedremo subito dove guadagniamo e dove invece perdiamo.
Non dovete credere che Dio, dopo avere elevato una anima tanto in alto, l'abbandoni poi sì facilmente che il demonio, per ciò ottenere, non debba molto faticare. Anzi, gli dispiace tanto la sua perdita che non cessa d'inviarle molti avvisi interiori: per cui il pericolo che corre non le può essere nascosto.
10 - Insomma, procuriamo di andar sempre innanzi e temiamo molto se non facciamo progressi, perché vuol dire che il demonio sta meditando qualche assalto. Non avanzare è un segno molto cattivo, perché l'amore non è mai ozioso: è impossibile che un'anima giunta tanto in alto cessi di andare innanzi.
Se aspira a diventare sposa di Dio, con il quale è già venuta ai primi accordi, non deve certo dormire.
Intanto, figliuole mie, per mostrarvi come il Signore tratta le anime che già considera sue spose, entriamo a parlare delle seste mansioni, e vedrete come sia insufficiente per disporci a tali grazie, non solo il poco che facciamo, ma neppure il molto che potremmo fare e soffrire.
Ben può essere che il Signore abbia disposto che mi ordinassero di scrivere queste cose, affinché, fissati gli sguardi sul premio, e vedendo quanto sia infinita la sua misericordia nel manifestarsi e comunicarsi con dei vermi come noi, dimentichiamo le nostre piccole soddisfazioni terrene, e corriamo infiammate dal suo amore, occupate soltanto della sua grandezza.
11 - Piaccia a Dio che di un argomento così difficile sappia almeno dire qualche cosa! Certo che se Egli e lo Spirito Santo non muovono la mia penna, ne sarò affatto incapace.
Ma nel caso che questo scritto non vi debba essere di profitto, prego il Signore di non permettermi di dir parola, non avendo io altro di mira - come Egli conosce e io ne posso giudicare - che di dar gloria al suo nome e ottenere che ci sforziamo di servirlo, dato che tanto ricompensa fin da questa terra, dove le sue grazie ci fanno intravvedere quanto ci darà un giorno nel cielo senza le interruzioni, i travagli e i pericoli che s'incontrano in questo mare tempestoso. Sarebbe un gran conforto poter vivere e lavorare sino alla fine del mondo per la gloria di un Dio così grande, nostro Sposo e Padrone! Ma vi è il pericolo di offenderlo e di finire col perderlo!...
Piaccia al Signore che meritiamo di rendergli almeno qualche servizio, scevro di quelle imperfezioni che sempre ci accompagnano, anche nelle buone opere! Amen.
11-53 Maggio 9, 1913 Gesù e la sua Mamma furono inseparabili. Ciò succede anche alle anime quando sono unite veramente con Gesù.
Luisa Piccarreta (Libro di Cielo)
(1) Mentre pregavo stavo pensando a quel punto quando Gesù si licenziò della Madre Santissima per andare a soffrire la sua Passione, e dicevo tra me: “Come è possibile che Gesù si potette separare dalla cara Mamma, e Lei da Gesù? ” Ed il benedetto Gesù mi ha detto:
(2) “Figlia mia, certo che non ci poteva essere separazione tra Me e la mia dolce Mamma, la separazione fu solo apparentemente, Io e Lei eravamo fusi insieme, ed era tale e tanta la fusione che Io restai con Lei, e Lei venne con Me, sicché si può dire che ci fu una specie di bilocazione. Ciò succede anche alle anime quando sono unite veramente con Me, e se pregando fanno entrare nelle loro anime come vita la preghiera, succede una specie di fusione e di bilocazione, Io dovunque mi trovo porto loro con Me ed Io resto con loro.
(3) Figlia mia, tu non puoi comprendere bene ciò che fu la mia diletta Mamma per Me; Io venendo in terra non ci potevo stare senza Cielo, ed il mio Cielo fu la mia Mamma. Tra Me e Lei ci passava tale elettricità, che neppure un pensiero sfuggiva che non l’attingesse dalla mia mente, e questo attingere da Me la parola, e la volontà, e il desiderio, e l’azione, ed il passo, insomma tutto, formava in questo Cielo il sole, le stelle, la luna e tutti i godimenti possibili che può darmi la creatura, e può essa stessa godere. Oh! come mi deliziavo in questo Cielo, oh! come mi sentivo rinfrancato e rifatto di tutto, anche i baci che mi dava la mia Mamma mi racchiudevano il bacio di tutta l’umanità, e mi restituiva il bacio di tutte le creature; dovunque me la sentivo la mia dolce Mamma, me la sentivo nel respiro, e se era affannoso me lo sollevava; me la sentivo nel cuore, e se era amareggiato me lo raddolciva; nel passo, e se era stanco mi dava lena e riposo, e chi può dirti come me la sentivo nella Passione? Ad ogni flagello, ad ogni spina, ad ogni piaga, ad ogni goccia del mio sangue, dovunque me la sentivo e mi faceva l’uffizio di mia vera Madre. Ah! se le anime mi corrispondessero, se tutto attingessero da Me, quanti Cieli e quante madri avrei sulla terra! ”