Sotto il Tuo Manto

Giovedi, 5 giugno 2025 - San Bonifacio (Letture di oggi)

Povertà , umiltà , abiezione, disprezzo circondano il Verbo fatto carne; ma noi dall'oscurità  in cui questo Verbo fatto carne è avvolto comprendiamo una cosa, udiamo una voce, intravediamo una sublime verità . Tutto questo l'hai fatto per amore, e non ci inviti che all'amore, non ci parli che di amore, non ci dai che prove di amore. (San Pio da Pietrelcina)

Liturgia delle Ore - Letture

Venerdi della 29° settimana del tempo ordinario

Questa sezione contiene delle letture scelte a caso, provenienti dalle varie sezioni del sito (Sacra Bibbia e la sezione Biblioteca Cristiana), mentre l'ultimo tab Apparizioni, contiene messaggi di apparizioni a mistici o loro scritti. Sono presenti testi della Valtorta, Luisa Piccarreta, don Stefano Gobbi e testimonianze di apparizioni mariane riconosciute.

Vangelo secondo Luca 19

1Entrato in Gèrico, attraversava la città.2Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco,3cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura.4Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là.5Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: "Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua".6In fretta scese e lo accolse pieno di gioia.7Vedendo ciò, tutti mormoravano: "È andato ad alloggiare da un peccatore!".8Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: "Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto".9Gesù gli rispose: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch'egli è figlio di Abramo;10il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto".

11Mentre essi stavano ad ascoltare queste cose, Gesù disse ancora una parabola perché era vicino a Gerusalemme ed essi credevano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all'altro.12Disse dunque: "Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi ritornare.13Chiamati dieci servi, consegnò loro dieci mine, dicendo: Impiegatele fino al mio ritorno.14Ma i suoi cittadini lo odiavano e gli mandarono dietro un'ambasceria a dire: Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi.15Quando fu di ritorno, dopo aver ottenuto il titolo di re, fece chiamare i servi ai quali aveva consegnato il denaro, per vedere quanto ciascuno avesse guadagnato.16Si presentò il primo e disse: Signore, la tua mina ha fruttato altre dieci mine.17Gli disse: Bene, bravo servitore; poiché ti sei mostrato fedele nel poco, ricevi il potere sopra dieci città.18Poi si presentò il secondo e disse: La tua mina, signore, ha fruttato altre cinque mine.19Anche a questo disse: Anche tu sarai a capo di cinque città.20Venne poi anche l'altro e disse: Signore, ecco la tua mina, che ho tenuta riposta in un fazzoletto;21avevo paura di te che sei un uomo severo e prendi quello che non hai messo in deposito, mieti quello che non hai seminato.22Gli rispose: Dalle tue stesse parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi che sono un uomo severo, che prendo quello che non ho messo in deposito e mieto quello che non ho seminato:23perché allora non hai consegnato il mio denaro a una banca? Al mio ritorno l'avrei riscosso con gli interessi.24Disse poi ai presenti: Toglietegli la mina e datela a colui che ne ha dieci25Gli risposero: Signore, ha già dieci mine!26Vi dico: A chiunque ha sarà dato; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.27E quei miei nemici che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me".

28Dette queste cose, Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme.
29Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo:30"Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è mai salito; scioglietelo e portatelo qui.31E se qualcuno vi chiederà: Perché lo sciogliete?, direte così: Il Signore ne ha bisogno".32Gli inviati andarono e trovarono tutto come aveva detto.33Mentre scioglievano il puledro, i proprietari dissero loro: "Perché sciogliete il puledro?".34Essi risposero: "Il Signore ne ha bisogno".
35Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù.36Via via che egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada.37Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce, per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo:

38"'Benedetto colui che viene,'
il re, 'nel nome del Signore'.
Pace in cielo
e gloria nel più alto dei cieli!".

39Alcuni farisei tra la folla gli dissero: "Maestro, rimprovera i tuoi discepoli".40Ma egli rispose: "Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre".

41Quando fu vicino, alla vista della città, pianse su di essa, dicendo:42"Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace. Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi.43Giorni verranno per te in cui i tuoi nemici ti cingeranno di trincee, ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte;44abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata".

45Entrato poi nel tempio, cominciò a cacciare i venditori,46dicendo: "Sta scritto:

'La mia casa sarà casa di preghiera'.
Ma voi ne avete fatto 'una spelonca di ladri!'".

47Ogni giorno insegnava nel tempio. I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire e così anche i notabili del popolo;48ma non sapevano come fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue parole.


Giudici 19

1In quel tempo, quando non c'era un re in Israele, un levita, il quale dimorava all'interno delle montagne di Efraim, si prese per concubina una donna di Betlemme di Giuda.2Ma la concubina in un momento di collera lo abbandonò, tornando a casa del padre a Betlemme di Giuda e vi rimase per quattro mesi.3Suo marito si mosse e andò da lei per convincerla a tornare. Aveva preso con sé il suo servo e due asini. Ella lo condusse in casa di suo padre; quando il padre della giovane lo vide, gli andò incontro con gioia.4Suo suocero, il padre della giovane, lo trattenne ed egli rimase con lui tre giorni; mangiarono e bevvero e passarono la notte in quel luogo.5Il quarto giorno si alzarono di buon'ora e il levita si disponeva a partire. Il padre della giovane disse: "Prendi un boccone di pane per ristorarti; poi, ve ne andrete".6Così sedettero tutti e due insieme e mangiarono e bevvero. Poi il padre della giovane disse al marito: "Accetta di passare qui la notte e il tuo cuore gioisca".7Quell'uomo si alzò per andarsene; ma il suocero fece tanta insistenza che accettò di passare la notte in quel luogo.8Il quinto giorno egli si alzò di buon'ora per andarsene e il padre della giovane gli disse: "Rinfràncati prima". Così indugiarono fino al declinare del giorno e mangiarono insieme.9Quando quell'uomo si alzò per andarsene con la sua concubina e con il suo servo, il suocero, il padre della giovane, gli disse: "Ecco, il giorno volge ora a sera; state qui questa notte; ormai il giorno sta per finire; passa la notte qui e il tuo cuore gioisca; domani vi metterete in viaggio di buon'ora e andrai alla tua tenda".
10Ma quell'uomo non volle passare la notte in quel luogo; si alzò, partì e giunse di fronte a Iebus, cioè Gerusalemme, con i suoi due asini sellati, con la sua concubina e il servo.
11Quando furono vicino a Iebus, il giorno era di molto calato e il servo disse al suo padrone: "Vieni, deviamo il cammino verso questa città dei Gebusei e passiamovi la notte".12Il padrone gli rispose: "Non entreremo in una città di stranieri, i cui abitanti non sono Israeliti, ma andremo oltre, fino a Gàbaa".13Aggiunse al suo servo: "Vieni, raggiungiamo uno di quei luoghi e passeremo la notte a Gàbaa o a Rama".14Così passarono oltre e continuarono il viaggio; il sole tramontava, quando si trovarono di fianco a Gàbaa, che appartiene a Beniamino. Deviarono in quella direzione per passare la notte a Gàbaa.15Il levita entrò e si fermò sulla piazza della città; ma nessuno li accolse in casa per passare la notte.16Quand'ecco un vecchio che tornava la sera dal lavoro nei campi; era un uomo delle montagne di Efraim, che abitava come forestiero in Gàbaa, mentre invece la gente del luogo era beniaminita.17Alzati gli occhi, vide quel viandante sulla piazza della città. Il vecchio gli disse: "Dove vai e da dove vieni?".18Quegli rispose: "Andiamo da Betlemme di Giuda fino all'estremità delle montagne di Efraim. Io sono di là ed ero andato a Betlemme di Giuda; ora mi reco alla casa del Signore, ma nessuno mi accoglie sotto il suo tetto.19Eppure abbiamo paglia e foraggio per i nostri asini e anche pane e vino per me, per la tua serva e per il giovane che è con i tuoi servi; non ci manca nulla".20Il vecchio gli disse: "La pace sia con te! Prendo a mio carico quanto ti occorre; non devi passare la notte sulla piazza".21Così lo condusse in casa sua e diede foraggio agli asini; i viandanti si lavarono i piedi, poi mangiarono e bevvero.22Mentre aprivano il cuore alla gioia ecco gli uomini della città, gente iniqua, circondarono la casa, bussando alla porta, e dissero al vecchio padrone di casa: "Fa' uscire quell'uomo che è entrato in casa tua, perché vogliamo abusare di lui".23Il padrone di casa uscì e disse loro: "No, fratelli miei, non fate una cattiva azione; dal momento che quest'uomo è venuto in casa mia, non dovete commettere questa infamia!24Ecco mia figlia che è vergine, io ve la condurrò fuori, abusatene e fatele quello che vi pare; ma non commettete contro quell'uomo una simile infamia".25Ma quegli uomini non vollero ascoltarlo. Allora il levita afferrò la sua concubina e la portò fuori da loro. Essi la presero e abusarono di lei tutta la notte fino al mattino; la lasciarono andare allo spuntar dell'alba.26Quella donna sul far del mattino venne a cadere all'ingresso della casa dell'uomo, presso il quale stava il suo padrone e là restò finché fu giorno chiaro.27Il suo padrone si alzò alla mattina, aprì la porta della casa e uscì per continuare il suo viaggio; ecco la donna, la sua concubina, giaceva distesa all'ingresso della casa, con le mani sulla soglia.28Le disse: "Alzati, dobbiamo partire!". Ma non ebbe risposta. Allora il marito la caricò sull'asino e partì per tornare alla sua abitazione.
29Come giunse a casa, si munì di un coltello, afferrò la sua concubina e la tagliò, membro per membro, in dodici pezzi; poi li spedì per tutto il territorio d'Israele.30Agli uomini che inviava ordinò: "Così direte ad ogni uomo d'Israele: È forse mai accaduta una cosa simile da quando gli Israeliti sono usciti dal paese di Egitto fino ad oggi? Pensateci, consultatevi e decidete!". Quanti vedevano, dicevano: "Non è mai accaduta e non si è mai vista una cosa simile, da quando gli Israeliti sono usciti dal paese d'Egitto fino ad oggi!".


Giobbe 4

1Elifaz il Temanita prese la parola e disse:

2Se si tenta di parlarti, ti sarà forse gravoso?
Ma chi può trattenere il discorso?
3Ecco, tu hai istruito molti
e a mani fiacche hai ridato vigore;
4le tue parole hanno sorretto chi vacillava
e le ginocchia che si piegavano hai rafforzato.
5Ma ora questo accade a te e ti abbatti;
capita a te e ne sei sconvolto.
6La tua pietà non era forse la tua fiducia
e la tua condotta integra, la tua speranza?
7Ricordalo: quale innocente è mai perito
e quando mai furon distrutti gli uomini retti?
8Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità,
chi semina affanni, li raccoglie.
9A un soffio di Dio periscono
e dallo sfogo della sua ira sono annientati.
10Il ruggito del leone e l'urlo del leopardo
e i denti dei leoncelli sono frantumati.
11Il leone è perito per mancanza di preda
e i figli della leonessa sono stati dispersi.
12A me fu recata, furtiva, una parola
e il mio orecchio ne percepì il lieve sussurro.
13Nei fantasmi, tra visioni notturne,
quando grava sugli uomini il sonno,
14terrore mi prese e spavento
e tutte le ossa mi fece tremare;
15un vento mi passò sulla faccia,
e il pelo si drizzò sulla mia carne...
16Stava là ritto uno, di cui non riconobbi
l'aspetto,
un fantasma stava davanti ai miei occhi...
Un sussurro..., e una voce mi si fece sentire:
17"Può il mortale essere giusto davanti a Dio
o innocente l'uomo davanti al suo creatore?
18Ecco, dei suoi servi egli non si fida
e ai suoi angeli imputa difetti;
19quanto più a chi abita case di fango,
che nella polvere hanno il loro fondamento!
Come tarlo sono schiacciati,
20annientati fra il mattino e la sera:
senza che nessuno ci badi, periscono per sempre.
21La funicella della loro tenda non viene forse
strappata?
Muoiono senza saggezza!".


Salmi 73

1'Salmo. Di Asaf.'

Quanto è buono Dio con i giusti,
con gli uomini dal cuore puro!
2Per poco non inciampavano i miei piedi,
per un nulla vacillavano i miei passi,
3perché ho invidiato i prepotenti,
vedendo la prosperità dei malvagi.

4Non c'è sofferenza per essi,
sano e pasciuto è il loro corpo.
5Non conoscono l'affanno dei mortali
e non sono colpiti come gli altri uomini.

6Dell'orgoglio si fanno una collana
e la violenza è il loro vestito.
7Esce l'iniquità dal loro grasso,
dal loro cuore traboccano pensieri malvagi.
8Scherniscono e parlano con malizia,
minacciano dall'alto con prepotenza.

9Levano la loro bocca fino al cielo
e la loro lingua percorre la terra.
10Perciò seggono in alto,
non li raggiunge la piena delle acque.
11Dicono: "Come può saperlo Dio?
C'è forse conoscenza nell'Altissimo?".
12Ecco, questi sono gli empi:
sempre tranquilli, ammassano ricchezze.
13Invano dunque ho conservato puro il mio cuore
e ho lavato nell'innocenza le mie mani,
14poiché sono colpito tutto il giorno,
e la mia pena si rinnova ogni mattina.

15Se avessi detto: "Parlerò come loro",
avrei tradito la generazione dei tuoi figli.
16Riflettevo per comprendere:
ma fu arduo agli occhi miei,
17finché non entrai nel santuario di Dio
e compresi qual è la loro fine.
18Ecco, li poni in luoghi scivolosi,
li fai precipitare in rovina.

19Come sono distrutti in un istante,
sono finiti, periscono di spavento!
20Come un sogno al risveglio, Signore,
quando sorgi, fai svanire la loro immagine.

21Quando si agitava il mio cuore
e nell'intimo mi tormentavo,
22io ero stolto e non capivo,
davanti a te stavo come una bestia.
23Ma io sono con te sempre:
tu mi hai preso per la mano destra.
24Mi guiderai con il tuo consiglio
e poi mi accoglierai nella tua gloria.

25Chi altri avrò per me in cielo?
Fuori di te nulla bramo sulla terra.
26Vengono meno la mia carne e il mio cuore;
ma la roccia del mio cuore è Dio,
è Dio la mia sorte per sempre.
27Ecco, perirà chi da te si allontana,
tu distruggi chiunque ti è infedele.
28Il mio bene è stare vicino a Dio:
nel Signore Dio ho posto il mio rifugio,
per narrare tutte le tue opere
presso le porte della città di Sion.


Isaia 7

1Nei giorni di Acaz figlio di Iotam, figlio di Ozia, re di Giuda, Rezìn re di Aram e Pekach figlio di Romelia, re di Israele, marciarono contro Gerusalemme per muoverle guerra, ma non riuscirono a espugnarla.2Fu dunque annunziato alla casa di Davide: "Gli Aramei si sono accampati in Èfraim". Allora il suo cuore e il cuore del suo popolo si agitarono, come si agitano i rami del bosco per il vento.
3Il Signore disse a Isaia: "Va' incontro ad Acaz, tu e tuo figlio Seariasùb, fino al termine del canale della piscina superiore sulla strada del campo del lavandaio.4Tu gli dirai: Fa' attenzione e sta' tranquillo, non temere e il tuo cuore non si abbatta per quei due avanzi di tizzoni fumosi, per la collera di Rezìn degli Aramei e del figlio di Romelia.5Poiché gli Aramei, Èfraim e il figlio di Romelia hanno tramato il male contro di te, dicendo:6Saliamo contro Giuda, devastiamolo e occupiamolo, e vi metteremo come re il figlio di Tabeèl.

7Così dice il Signore Dio: Ciò non avverrà e non sarà!
8aPerché capitale di Aram è Damasco
e capo di Damasco è Rezìn.
9aCapitale di Èfraim è Samaria
e capo di Samaria il figlio di Romelia.
8bAncora sessantacinque anni
ed Èfraim cesserà di essere un popolo.
9bMa se non crederete, non avrete stabilità".

10Il Signore parlò ancora ad Acaz:11"Chiedi un segno dal Signore tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure lassù in alto".12Ma Acaz rispose: "Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore".13Allora Isaia disse: "Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta di stancare la pazienza degli uomini, perché ora vogliate stancare anche quella del mio Dio?14Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele.15Egli mangerà panna e miele finché non imparerà a rigettare il male e a scegliere il bene.16Poiché prima ancora che il bimbo impari a rigettare il male e a scegliere il bene, sarà abbandonato il paese di cui temi i due re.17Il Signore manderà su di te, sul tuo popolo e sulla casa di tuo padre giorni quali non vennero da quando Èfraim si staccò da Giuda: manderà il re di Assiria".

18Avverrà in quel giorno:
il Signore farà un fischio alle mosche
che sono all'estremità dei canali di Egitto
e alle api che si trovano in Assiria.
19Esse verranno e si poseranno tutte
nelle valli ricche di burroni,
nelle fessure delle rocce,
su ogni cespuglio e su ogni pascolo.
20In quel giorno il Signore raderà
con rasoio preso in affitto oltre il fiume,
cioè il re assiro,
il capo e il pelo del corpo,
anche la barba toglierà via.
21Avverrà in quel giorno:
ognuno alleverà una giovenca e due pecore.
22Per l'abbondanza del latte che faranno,
si mangerà la panna;
di panna e miele si ciberà
ogni superstite in mezzo a questo paese.
23Avverrà in quel giorno:
ogni luogo, dove erano mille viti
valutate mille sicli d'argento,
sarà preda dei rovi e dei pruni.
24Vi si entrerà armati di frecce e di arco,
perché tutta la terra sarà rovi e pruni.
25In tutti i monti,
che erano vangati con la vanga,
non si passerà più
per paura delle spine e dei rovi.
Serviranno da pascolo per armenti
e da luogo battuto dal gregge.


Prima lettera ai Corinzi 14

1Ricercate la carità. Aspirate pure anche ai doni dello Spirito, soprattutto alla profezia.2Chi infatti parla con il dono delle lingue non parla agli uomini, ma a Dio, giacché nessuno comprende, mentre egli dice per ispirazione cose misteriose.3Chi profetizza, invece, parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto.4Chi parla con il dono delle lingue edifica se stesso, chi profetizza edifica l'assemblea.5Vorrei vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il dono della profezia; in realtà è più grande colui che profetizza di colui che parla con il dono delle lingue, a meno che egli anche non interpreti, perché l'assemblea ne riceva edificazione.
6E ora, fratelli, supponiamo che io venga da voi parlando con il dono delle lingue; in che cosa potrei esservi utile, se non vi parlassi in rivelazione o in scienza o in profezia o in dottrina?7È quanto accade per gli oggetti inanimati che emettono un suono, come il flauto o la cetra; se non si distinguono con chiarezza i suoni, come si potrà distinguere ciò che si suona col flauto da ciò che si suona con la cetra?8E se la tromba emette un suono confuso, chi si preparerà al combattimento?9Così anche voi, se non pronunziate parole chiare con la lingua, come si potrà comprendere ciò che andate dicendo? Parlerete al vento!10Nel mondo vi sono chissà quante varietà di lingue e nulla è senza un proprio linguaggio;11ma se io non conosco il valore del suono, sono come uno straniero per colui che mi parla, e chi mi parla sarà uno straniero per me.
12Quindi anche voi, poiché desiderate i doni dello Spirito, cercate di averne in abbondanza, per l'edificazione della comunità.13Perciò chi parla con il dono delle lingue, preghi di poterle interpretare.14Quando infatti prego con il dono delle lingue, il mio spirito prega, ma la mia intelligenza rimane senza frutto.15Che fare dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l'intelligenza; canterò con lo spirito, ma canterò anche con l'intelligenza.16Altrimenti se tu benedici soltanto con lo spirito, colui che assiste come non iniziato come potrebbe dire l'Amen al tuo ringraziamento, dal momento che non capisce quello che dici?17Tu puoi fare un bel ringraziamento, ma l'altro non viene edificato.18Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue molto più di tutti voi;19ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue.
20Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi.21Sta scritto nella Legge:

'Parlerò a questo popolo in altre lingue
e con labbra di stranieri,
ma neanche' così mi 'ascolteranno',

dice il Signore.22Quindi le lingue non sono un segno per i credenti ma per i non credenti, mentre la profezia non è per i non credenti ma per i credenti.23Se, per esempio, quando si raduna tutta la comunità, tutti parlassero con il dono delle lingue e sopraggiungessero dei non iniziati o non credenti, non direbbero forse che siete pazzi?24Se invece tutti profetassero e sopraggiungesse qualche non credente o un non iniziato, verrebbe convinto del suo errore da tutti, giudicato da tutti;25sarebbero manifestati i segreti del suo cuore, e così prostrandosi a terra adorerebbe Dio, proclamando che veramente Dio è fra voi.

26Che fare dunque, fratelli? Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione, un discorso in lingue, il dono di interpretarle. Ma tutto si faccia per l'edificazione.27Quando si parla con il dono delle lingue, siano in due o al massimo in tre a parlare, e per ordine; uno poi faccia da interprete.28Se non vi è chi interpreta, ciascuno di essi taccia nell'assemblea e parli solo a se stesso e a Dio.29I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino.30Se uno di quelli che sono seduti riceve una rivelazione, il primo taccia:31tutti infatti potete profetare, uno alla volta, perché tutti possano imparare ed essere esortati.32Ma le ispirazioni dei profeti devono essere sottomesse ai profeti,33perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace.
34Come in tutte le comunità dei fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la legge.35Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea.
36Forse la parola di Dio è partita da voi? O è giunta soltanto a voi?37Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto scrivo è comando del Signore;38se qualcuno non lo riconosce, neppure lui è riconosciuto.39Dunque, fratelli miei, aspirate alla profezia e, quanto al parlare con il dono delle lingue, non impeditelo.40Ma tutto avvenga decorosamente e con ordine.


Capitolo XXIII: Le quattro cose che recano una vera grande pace

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1. O figlio, ora ti insegnerò la via della pace e della vera libertà. Fa', o Signore, come tu dici; mi è gradito ascoltare il tuo insegnamento. Studiati, o figlio, di fare la volontà di altri, piuttosto che la tua. Scegli sempre di aver meno, che più. Cerca sempre di avere il posto più basso e di essere inferiore a tutti. Desidera sempre, e prega, che in te si faccia interamente la volontà di Dio. Un uomo che faccia tali cose, ecco, entra nel regno della pace e della tranquillità. Una grande dottrina di perfezione è racchiusa, o Signore, in queste tue brevi parole: brevi a dirsi, ma piene di significato e ricche di frutto. Che se io potessi fedelmente custodirle, tali parole, nessun turbamento dovrebbe tanto facilmente sorgere in me; in verità, ogni volta che mi sento inquieto od oppresso, trovo che mi sono allontanato da questa dottrina. Ma tu, che tutto puoi; tu che hai sempre caro il progresso dell'anima mia, accresci sempre la tua grazia, così che io possa adempiere alle tue parole e raggiungere la mia salvezza.

Preghiera contro i malvagi pensieri

2. O Signore, mio Dio, "non allontanarti da me; Dio mio, volgiti in mio aiuto" (Sal 70,12); ché vennero contro di me vari pensieri e grandi terrori, ad affliggere l'anima mia. Come ne uscirò illeso, come mi aprirò un varco attraverso di essi? Dice il Signore: io andrò innanzi a te e "abbatterò i grandi della terra" (Is 45,2). Aprirò le porte della prigione e ti rivelerò i più profondi segreti. O Signore, fa' come dici; e ogni iniquo pensiero fugga dinanzi a te. Questa è la mia speranza, questo è il mio unico conforto: in tutte le tribolazioni rifugiarmi in te, porre la mia fiducia in te; invocarti dal profondo del mio cuore e attendere profondamente la tua consolazione.

Preghiera per ottenere luce all'intelletto

3. Rischiarami, o buon Gesù, con la luce del lume interiore, e strappa ogni tenebra dal profondo del mio cuore; frena le varie fantasie; caccia le tentazioni che mi fanno violenza; combatti valorosamente per me e vinci queste male bestie, dico le allettanti concupiscenze, cosicché, per la forza che viene da te, si faccia pace, e nell'aula santa, cioè nella coscienza pura (Sal 121,7), risuoni la pienezza della tua lode. Comanda ai venti e alle tempeste. Dì al mare "calmati", al vento "non soffiare"; e si farà grande bonaccia (Mt 8,26). "Manda la tua luce e la tua verità" (Sal 52,3) a brillare sulla terra; ché terra io sono, povera e vuota, fino a quando tu non mi illumini. Effondi dall'alto la tua grazia; irriga il mio cuore di celeste rugiada; versa l'acqua della devozione ad irrigare la faccia della terra, che produca buono, ottimo frutto. Innalza la mia mente schiacciata dalla mole dei peccati; innalza alle cose celesti tutto l'animo mio, in modo che gli rincresca di pensare alle cose di questo mondo, dopo aver gustato la dolcezza della felicità suprema. Strappami e distoglimi dalle effimere consolazioni che danno le creature; poiché non v'è cosa creata che possa soddisfare il mio desiderio e darmi pieno conforto. Congiungimi a te con il vincolo indissolubile dell'amore, poiché tu solo basti a colui che ti ama, e a nulla valgono tutte le cose, se non ci sei tu.


Discorso ai giovani

San Basilio Magno - San Basilio Magno

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I. Molte sono le ragioni, ragazzi miei, che mi spingono a darvi quei consigli che giudico i migliori e che credo possano esservi utili, nel caso li seguiate. Infatti l’essere arrivato a questa età, l’aver affrontato ormai molte prove e l’aver preso parte abbastanza alle alterne vicende della sorte che tutto insegna, mi hanno reso tanto esperto delle cose umane da poter mostrare la via più sicura a chi da poco si è incamminato lungo il sentiero della vita. Per grado di parentela io vengo subito dopo i vostri genitori, così che non nutro per voi meno affetto di loro. D’altra parte, se non interpreto male i vostri sentimenti, credo che neanche voi, guardando me, sentiate la mancanza dei vostri genitori. Se dunque farete tesoro delle mie parole, sarete al secondo posto della graduatoria di merito stilata da Esiodo; altrimenti, senza che sia io a dovervi dire qualcosa di spiacevole, basterà che vi ricordiate dei suoi versi: «Ottimo è colui che da se stesso vede ciò di cui ha bisogno; buono chi segue ciò che gli viene mostrato da altri; ma chi non è capace né dell’una né dell’altra cosa, è del tutto inetto».

Non meravigliatevi poi se a voi, che pur frequentate ogni giorno la scuola e avete familiarità con i più illustri degli antichi scrittori grazie alle opere che ci hanno lasciato, io dico d’averci personalmente trovato qualche cosa di davvero utile. Io vengo a consigliarvi appunto questo: non bisogna che voi, affidando a questi personaggi una volta per tutte il timone della vostra intelligenza, come si fa con una nave, li seguiate dovunque vi portino, ma, accogliendo quanto hanno di utile, sappiate anche ciò che bisogna lasciai perdere. Comincerò dunque a spiegarvi quali siano queste cose e con quali parametri debbano essere valutate.

II. Noi, ragazzi miei, crediamo che la vita dell’uomo in questo mondo non abbia un valore assoluto, né consideriamo o definiamo vero bene ciò che circoscrive la sua utilità entro i limiti di questa vita. Perciò non riteniamo degna di essere desiderata né la nobiltà di nascita né la forza fisica o la bellezza o la statura del corpo, né gli onori del mondo né il potere e nemmeno ciò che si potrebbe dire grande tra le cose umane. E neppure invidiamo quelli che posseggono tali beni, ma ci spingiamo ben oltre con la speranza e facciamo tutto nella prospettiva di un’altra vita.

Di conseguenza, affermiamo che bisogna amare e ricercare con tutte le forze tutto ciò che ci aiuta a raggiungere una tale vita; quanto invece non ci orienta ad essa va trascurato come cosa di nessuna importanza. Come sia poi questa vita e dove e in che modo noi la vivremo, sarebbe troppo lungo da spiegare rispetto allo scopo che qui mi sono proposto, e ci vorrebbero interlocutori più maturi di voi. Per darvi un’idea di ciò che intendo, basterà forse dire solo questo, che, cioè, se uno potesse abbracciare col pensiero e mettere insieme tutta la felicità che c’è stata al mondo da quando gli uomini esistono, scoprirebbe che essa non è paragonabile nemmeno alla più piccola parte di quei beni; anzi, troverebbe che la totalità dei beni di quaggiù è distante per valore dal più piccolo bene di lassù più di quanto l’ombra e il sogno sono lontani dalla realtà. O piuttosto, per usare un esempio più appropriato, quanto l’anima è sotto ogni aspetto più preziosa del corpo, tanta è l’una vita è differente dall’altra.

A quest’altra vita ci conduce la Parola di Dio con l’insegnamento dei suoi misteri. Ma fin tanto che per l’età non siamo in grado di comprenderne il senso profondo, ci esercitiamo con l’occhio dell’anima su altri libri non del tutto diversi, come su ombre e specchi, imitando quelli che fanno le esercitazioni militari. Questi, una volta acquisita esperienza nei movimenti delle braccia e nella marcia cadenzata, da questo addestramento ricavano poi profitto per le vere battaglie. Dobbiamo anche noi credere di aver dinanzi una battaglia, la più dura di tutte le battaglie, per la quale dobbiamo fare tutto e sforzarci il più possibile per prepararci ad essa; e bisogna consultare poeti, storici, oratori e tutte quelle persone da cui possa venirci un qualche aiuto per il bene della nostra anima.

Come i tintori che, solo dopo aver preparato con trattamenti particolari la stoffa che deve ricevere la tintura, vi applicano il colore vivo, il rosso porpora o qualunque altro, così anche noi, se vogliamo che rimanga indelebile in noi l’idea del bene, solo dopo essere stati preparati con gli studi profani, comprenderemo i misteri dei sacri insegnamenti. Così, una volta abituati a guardare il sole riflesso nell’acqua, potremo fissare il nostro sguardo direttamente nella luce.

III. Se dunque tra le lettere profane e quelle sacre c’è qualche affinità, il conoscerle entrambe ci sarà senz’altro utile; in caso contrario, il metterle a confronto e capirne la differenza servirà non poco a confermarci nella scelta migliore. Ma a che cosa potremo paragonare i due insegnamenti per farcene un’immagine adeguata? Come una pianta ha sì per suo proprio carattere quello di caricarsi di frutti nella giusta stagione, ma porta anche come ornamento le foglie che stormiscono sui rami, così anche l’anima, sebbene il suo frutto caratteristico sia la verità, non è sconveniente che si circondi di sapienza profana come di foglie che diano al frutto riparo e un aspetto piacevole. Si dice del resto che il grande Mosè, così famoso nel mondo per la sua saggezza, solo dopo aver esercitato la mente nelle scienze degli Egiziani, si dette alla contemplazione dell’Essere. E come lui, ma in epoca più recente, dicono che il saggio Daniele prima abbia imparato a Babilonia la sapienza dei Caldei e si sia poi dedicato allo studio delle cose divine.

IV. Si è già detto abbastanza che questi insegnamenti profani non sono inutili per l’anima. Rimarrebbe da dire in che modo voi dobbiate accostarvi ad essi.

Prima di tutto, per cominciare dai poeti, non bisogna prestare attenzione indistintamente a tutto quel che troviamo presso di loro, dal momento che alcuni trattano argomenti di ogni genere; ma quando vi narrano le imprese o i discorsi di uomini virtuosi, bisogna amarli ed imitarli e cercare soprattutto di essere simili a loro. Ma ogni qualvolta passano a rappresentare uomini malvagi, bisogna rifuggire queste letture, tappandoci le orecchie non meno di quanto i poeti dicono che Ulisse rifuggì il canto delle Sirene. Infatti, l’abitudine ai discorsi cattivi è come una via verso le azioni. Bisogna pertanto custodire l’anima con ogni cura, affinché attraverso la dolcezza delle parole non assumiamo, senza accorgercene, qualcosa di deleterio, come chi insieme al miele beve i veleni.

Dunque non loderemo i poeti quando rappresentano persone che insultano o dicono scurrilità o amoreggiano o si ubriacano, né quando riducono la felicità ad una tavola imbandita e a canti dissoluti. E ancor meno daremo loro ascolto quando trattano dei loro dei, e soprattutto quando ne parlano come se fossero molti e discordi tra loro. Presso di loro, infatti, il fratello è in contrasto col fratello, il padre con i figli e c’è guerra implacabile tra figli e genitori. Lasceremo poi agli attori gli adultéri degli dei, i loro amori ed accoppiamenti alla luce del giorno, e soprattutto quelli del loro capicoro, ossia del sommo Giove, come lo chiamano, del quale si raccontano cose che se si dicessero degli animali farebbero comunque arrossire. Lo stesso devo dire dei prosatori soprattutto quando scrivono per sedurre gli uditori. Degli oratori poi non imiteremo l’arte volta all’inganno. Né nei tribunali né in altra circostanza, infatti, ci è permessa la menzogna, a noi che abbiamo scelto la via diritta e vera della vita e a cui la legge vieta di intentare processi. Ma piuttosto sceglieremo quegli scritti nei quali è lodata la virtù o condannato il vizio.

Come dai fiori le altre creature ricavano solo il piacere del profumo o del colore, mentre le api vi attingono anche il miele, allo stesso modo da questi scritti, quanti non vi cercano soltanto il fascino e la dolcezza, possono ricavare anche un qualche giovamento per l’anima. Dobbiamo appunto accostarci a tali opere seguendo in tutto l’esempio delle api. Esse non si posano indistintamente su tutti i fiori né cercano di portar via tutto da quelli sui quali si posano; ma prendendo soltanto quanto è necessario al loro lavoro, lasciano perdere il resto. E anche noi, se siamo saggi, una volta attinto da quelle opere quanto ci è utile ed è conforme alla verità, il resto lo trascureremo. E come nel cogliere una rosa evitiamo le spine, così nel cogliere in questi libri quanto ci è utile, staremo attenti a ciò che è dannoso.

Come prima cosa, dunque, bisogna esaminare bene ciascun aspetto di tali studi e adeguarli al nostro scopo, sistemando, secondo il proverbio dorico, la pietra a fil di piombo. V. E siccome alla nostra vita, quella vera, dobbiamo tendere per mezzo della virtù ed è a questa che molti elogi sono stati fatti dai poeti, dai prosatori e ancor più dai filosofi, bisogna dedicarsi in modo particolare a questo genere di scritti. Non è infatti piccolo vantaggio che nell’animo dei ragazzi si crei una certa familiarità e dimestichezza con la virtù, poiché gli insegnamenti ditali scrittori si imprimono nel profondo del loro animo ancora tenero e sono di per sé indelebili. Con quale altra intenzione pensiamo che Esiodo abbia scritto questi versi, che tutti recitano, se non per esortare i giovani alla virtù? «La via che conduce alla virtù è all’inizio aspra, difficile, piena di molto sudore e fatica e malagevole».

Perciò non è da tutti accedervi, a causa della sua ripidità, o giungere facilmente alla cima, una volta intrapresa la salita. Però chi è arrivato in alto può vedere come essa sia piana e bella, come sia facile, agevole e migliore dell’altra che conduce al vizio e che, come disse questo stesso poeta, è affollata per la sua stessa accessibilità. A me infatti sembra che Esiodo per nessun’altra ragione abbia scritto queste cose se non per esortarci alla virtù, per invitare tutti ad essere virtuosi e perché, lasciandoci scoraggiare dalle difficoltà, non desistiamo dal raggiungere la meta. E naturalmente se anche qualche altro ha elogiato la virtù in modo analogo, dobbiamo accogliere le sue parole, dal momento che ci conducono allo stesso fine.

Io ho sentito dire da una persona abile nell’interpretare il pensiero del poeta che tutta la poesia di Omero è un elogio della virtù e che tutto in lui, eccetto quanto è marginale, porta a questo. Emblematici quei versi in cui parla del condottiero dei Cefalleni salvato nudo dal naufragio: prima infatti dice che la principessa solo al vederlo provò un senso di rispetto, tanto era lontano dal doversi vergognare di apparire nudo, proprio perché il poeta lo rappresentò adorno di virtù a mo’ di vesti; poi anche dagli altri Feaci fu stimato tanto degno che, abbandonando la mollezza nella quale vivevano, lo ammiravano e lo invidiavano tutti; e nessuno dei Feaci avrebbe allora desiderato essere altro che Ulisse, e per giunta Ulisse scampato da un naufragio.

In questi versi quell’interprete del pensiero del poeta sosteneva che Omero dice quasi gridando: O uomini, dovete preoccuparvi della virtù, che sopravvive al naufragio e farà apparire il naufrago, restituito nudo alla spiaggia, più onorevole dei fortunati Feaci. Ed è proprio così! E mentre gli altri beni non appartengono al proprietario più che a qualsiasi altra persona, passando dall’uno all’altro come nel gioco dei dadi, la virtù è l’unico possesso che non ci può essere tolto e rimane durante la vita e anche dopo la morte. Appunto per questo anche Solone mi pare abbia detto ai ricchi: «Noi non scambieremo la nostra virtù con la loro ricchezza, poiché quella è stabile, le ricchezze degli uomini invece passano dall’uno all’altro».

Un analogo concetto esprimono quei versi di Teognide in cui dice che Dio, chiunque egli sia, fa pendere la bilancia delle sorti umane ora da una parte ora da un’altra: «Ora sono ricchi, ora non possiedono nulla».

Ed anche il sofista Prodico di Ceo filosofeggia con parole simili in qualcuno dei suoi scritti riguardo al vizio e alla virtù: anche a lui dobbiamo volgere la nostra attenzione, perché non è un autore da trascurare. Questo è pressappoco il ragionamento di Prodico, per quel che ricordo del suo pensiero; le parole precise mi sfuggono, so solo che, semplicemente e senza metrica, raccontava che quando Eracle era giovanissimo, più o meno della vostra età, mentre stava decidendo quale delle due vie percorrere, o quella che attraverso la fatica conduce alla virtù o l’altra ben più comoda, gli si presentarono due donne: erano la Virtù e il Vizio. Esse, pur tacendo, lasciavano immediatamente intravedere dal loro atteggiamento la differenza. L’una infatti, ricercatamente acconciata per apparire bella, straripava di sensualità e si trascinava dietro tutto lo sciame dei piaceri; ostentava tutto ciò e, promettendo ancor di più, cercava di attrarre a sé Eracle. L’altra invece era magra e smorta, austera nello sguardo, e diceva cose del tutto diverse: non prometteva nulla di voluttuoso né di dolce, ma sudori senza fine e fatiche e pericoli, per terra e per mare; premio di tutto ciò era divenire dio, come diceva il racconto di Prodico; e appunto questa Eracle finì per seguire.

VI. E quasi tutti coloro che si sono guadagnati una certa fama per la loro saggezza, chi più chi meno, ciascuno secondo le proprie forze, hanno tessuto nei loro scritti l’elogio della virtù. Questi noi dobbiamo ascoltare, cercando di tradurre nella nostra vita le loro parole. Perché colui che conferma con i fatti quella filosofia che altri predicano solo a parole, «è il solo saggio, gli altri sono ombre che si agitano».

Il che mi fa venire in mente il paragone di un pittore che rappresentasse un uomo di straordinaria bellezza, e quest’uomo fosse in realtà tale quale egli l’ha riprodotto nel suo ritratto. Poiché lodare splendidamente la virtù in pubblico e fare lunghi discorsi su questo tema, e poi in privato stimare il piacere più della temperanza e il guadagno più della giustizia, è cosa, direi, che si addice ad attori che calcano la scena, i quali spesso recitano il ruolo di re e di potenti, mentre non sono né re né potenti e forse neppure uomini liberi. Un musicista del resto non accetterebbe di avere una lira scordata né il direttore di un coro dei coristi che non fossero perfettamente intonati: e ci potrà invece essere qualcuno che sia in disarmonia con se stesso e che conduca una vita non coerente con le sue parole? Ma dirà con Euripide che «la lingua ha giurato, ma il cuore ne è rimasto esente» e cercherà di sembrare onesto invece di esserlo? Ma questo è il massimo della disonestà, se dobbiamo credere a Platone, ossia l’apparire onesti senza esserlo!

VII. Accogliamo, pertanto, quelle opere che contengono insegnamenti sulla virtù. E poiché le azioni virtuose degli antichi sono giunte a noi o per tradizione diretta oppure conservate negli scritti dei poeti o dei prosatori, non dobbiamo trascurare l’utile che possiamo trarne.

Per esempio, un individuo della piazza insultava Pericle, senza che questi gli desse importanza; e così per tutto il giorno continuarono l’uno a ricoprirlo d’insulti senza tregua, l’altro a non farci caso. Scesa ormai la sera e fattosi buio, quando quello si decise a malincuore ad andarsene, Pericle lo fece accompagnare con una torcia per non sprecare neanche quell’occasione di esercitare la virtù.

Un altro esempio. Un tale, infuriato contro Euclide di Megara, lo minacciò giurando che l’avrebbe ucciso; di rimando, l’altro giurò che l’avrebbe calmato e fatto desistere dalla collera. Quanto sarebbe bene richiamare alla memoria qualcuno di questi esempi quando si è presi dall’ira! Non bisogna infatti dar retta a quella tragedia che dice: «Basta lo sdegno ad armare la mano contro i nemici».

La cosa migliore sarebbe non lasciarsi affatto trasportare dall’ira e, se ciò non è facile, perlomeno non permettere di andar troppo oltre, usando come freno la ragione.

Ma torniamo ad occuparci di esempi di virtù. Un tizio, avventatosi contro Socrate, il figlio di Sofronisco, prese a colpirlo senza risparmio in pieno viso. Socrate non oppose resistenza, ma lasciò che il forsennato sfogasse tutta la sua rabbia, al punto che il viso gli diventò tutto gonfio dai pugni. Quando poi quello smise di picchiarlo, si dice che Socrate non fece altro che scriversi sulla fronte: Opera del tale, proprio come uno scultore firma la sua statua. E questa fu la sua vendetta.

Credo sia bene che i ragazzi della vostra età imitino questi esempi, che sostanzialmente concordano con i nostri principi. Il comportamento di Socrate, infatti, è molto simile al nostro comandamento, che ci prescrive di porgere l’altra guancia a chi ci percuote. Altro che vendicarsi! L’esempio di Pericle e di Euclide è invece in sintonia con quell’altro comandamento che insegna a sopportare chi ci perseguita e a tollerare pazientemente la loro ira, e anche con quello che ci esorta a pregare per il bene dei nemici, e non a maledirli. E così chi si sarà formato su questi esempi, non riterrà impossibile attuare gli insegnamenti del Vangelo.

Non vorrei tralasciare neppure l’aneddoto di Alessandro, il quale, dopo aver fatto prigioniere le figlie di Dario, pur famose per la loro straordinaria bellezza, non si degnò neppure di vederle, poiché giudicava vergognoso che chi aveva vinto degli uomini si lasciasse vincere da donne. Ebbene, questo esempio coincide col precetto evangelico, secondo cui: «Chi ha guardato una donna per desiderio, anche se di fatto non ha commesso adulterio, solo per aver accolto il desiderio nel suo cuore, non è esente da colpa».

Anche l’esempio di Clinia, uno dei discepoli di Pitagora, è difficile credere che si accordi con i princìpi cristiani per puro caso e non invece per volontà di emulazione. Che cosa fece? Costui, pur essendogli possibile evitare una multa di tre talenti con un semplice giuramento, preferì pagare anziché giurare, anche se avrebbe giurato il vero. Pare quasi che avesse già udito quel comandamento che ci proibisce di giurare.

VIII. Ma torniamo a quello che dicevo all’inizio, che cioè non bisogna accogliere tutto indistintamente, ma solo quanto torna utile. Sarebbe infatti vergognoso evitare i cibi dannosi e non fare invece alcun conto delle letture che nutrono la nostra anima, ingurgitando tutto ciò che ci capita come un torrente in piena. Che senso avrebbe che, mentre un timoniere non abbandona la nave al capriccio dei venti ma la dirige verso il porto, un arciere tenta di colpire il segno, un fabbro o un falegname cercano di realizzare la loro arte, noi invece restassimo indietro a tali artigiani nel saper riconoscere lo scopo del nostro agire? Non è infatti possibile che il lavoro degli artigiani abbia un fine, mentre la vita umana non abbia uno scopo, in vista del quale tutto deve fare e dire colui che non vuole assomigliare agli animali privi di ragione. Altrimenti, saremmo simili a navi senza ancora, perché nessun criterio razionale presiederebbe alla guida dell’anima, trasportati alla deriva qua e là lungo la vita.

È un po’ come avviene nelle gare sportive o, se vuoi, in quelle musicali, dove gli esercizi vengono fatti appunto in funzione di quelle gare per le quali ci sono in palio dei premi; e a nessuno che si eserciti nella lotta o nel pancrazio interessa suonare la cetra o il flauto. Non faceva di certo così Polidamante, ma, prima di partecipare ai giochi olimpici, si allenava fermando i carri in corsa e aumentava così la sua forza. Anche Milone non mollava la presa dal proprio scudo, che aveva per di più unto d’olio, ma resisteva agli urti quasi fosse una statua saldata col piombo. Insomma, tali esercizi servivano loro da preparazione alle gare. Se costoro, trascurando la polvere e le palestre, si fossero invece dedicati alle musiche dei cantori frigi Marsia e Olimpo, avrebbero ottenuto premi e gloria o piuttosto non avrebbero evitato una figuraccia nelle gare atletiche?

D’altro canto, nemmeno Timoteo perdeva il suo tempo nelle palestre, trascurando la musica. Altrimenti non gli sarebbe stato possibile eccellere fra tutti nella musica, dove raggiunse un livello tale da riuscire, a suo piacimento, ad esaltare l’anima con un’armonia grave e austera per poi calmarla e intenerirla con una tonalità più morbida. Si racconta ad esempio che, mentre suonava il flauto nel modo frigio davanti ad Alessandro, lo eccitò al punto che nel bel mezzo del banchetto questi corse alle armi e poi, addolcendo il tono, lo riportò tra i commensali. Tanta è l’efficacia che procura l’esercizio, sia nella musica sia nelle gare sportive, per il raggiungimento dello scopo!

Siccome ho parlato di premi e di atleti, vorrei ricordare che questi uomini, dopo aver sostenuto prove su prove, aver in mille modi accresciuto la loro forza, aver versato tanto sudore negli allenamenti e ricevuto tanti colpi a scuola di ginnastica e dopo essersi scelto come regime di vita non quello più comodo, ma quello prescritto dagli istruttori; insomma, per non farla troppo lunga, comportandosi in modo che tutta la vita prima della gara non sia altro che un esercizio preparatorio ad essa, solo allora affrontano lo stadio e si sottopongono ad ogni fatica e pericolo per conquistare una corona d’ulivo o di apio o d’altro del genere ed esser proclamati vincitori dall’araldo.

E noi, che per la gara della vita abbiamo in palio premi meravigliosi per quantità e grandezza tanto che è impossibile descriverli a parole, pensiamo di riuscire ad afferrarli con una mano, dormendo fra due guanciali e vivendo in tutta tranquillità? Ma allora nella vita avrebbe più valore la pigrizia; e il famoso Sardanapalo otterrebbe il primo posto tra gli uomini felici o anche, se vuoi, quel Margite, che Omero – se proprio di Omero è l’opera – disse non aver mai né arato né zappato né fatto alcunché di importante nella vita! Non è vero piuttosto il detto di Pittaco secondo cui è difficile essere virtuosi? Infatti, solo dopo esser passati attraverso molte prove, potremmo, e pure a stento, ottenere quei beni, che, come dicevo, non hanno paragone in questo mondo.

Perciò non dobbiamo darci all’ozio né barattare grandi speranze col benessere di un momento, se non vogliamo attirarci la vergogna e subire castighi, non tanto quaggiù tra gli uomini (per quanto anche questo non sarebbe di poco conto per chi ha un po’ di senno), quanto in quei luoghi di pena, sotto terra o in qualunque altro punto dell’universo si trovino. Chi dunque involontariamente viene meno al proprio dovere, potrà anche ricevere da Dio un qualche perdono; ma chi deliberatamente ha scelto il male, nessuna scusa potrà sottrarlo ad una pena ben più severa.

IX. Che faremo allora? domanderà qualcuno. Cos’altro se non avere cura dell’anima e trascurare tutto il resto? Non dobbiamo pertanto essere schiavi del corpo se non quanto è strettamente necessario. Bisogna invece dare all’anima il meglio, liberandola, attraverso una tensione morale, da quella specie di prigione in cui si trova per la comunanza con le passioni del corpo e, al tempo stesso, cercando di rendere il corpo più forte delle stesse passioni. Diamo sì al ventre il necessario, ma non quanto c’è di più piacevole, come fanno coloro che pensano solo a cercare organizzatori di banchetti e cuochi, setacciando tutta la terra e il mare, come se dovessero pagare un tributo ad un duro padrone. Fanno pena per questa loro frenesia, giacché non soffrono meno di coloro che sono condannati all’inferno: è come cardare lana nel fuoco, portare acqua con un colabrodo e versarla in un recipiente forato, senza vedere un termine a tali fatiche.

Aver poi eccessiva cura dei propri capelli e dell’abbigliamento è, come diceva Diogene, o da infelici o da delinquenti. E dico che dei ragazzi come voi dovrebbero ritenere vergognoso essere ed avere la nomea di bellimbusti esattamente come prostituirsi o insidiare le nozze altrui. Che differenza infatti potrebbe mai esserci, almeno per chi ha buon senso, tra l’indossare un abito di lusso o portare un cappotto di scarsa qualità, purché non gli manchi qualcosa che lo protegga dal freddo e dal caldo? Così, anche per le altre cose, non bisogna procurarsi niente oltre il necessario né occuparsi del corpo più di quanto lo richieda il bene dell’anima. Infatti, per un uomo, che sia veramente degno di questo nome, essere un vanesio tutto dedito all’aspetto fisico non è meno vergognoso che abbandonarsi senza dignità a qualsiasi altra passione.

In effetti, far di tutto affinché il corpo goda del maggior benessere possibile è tipico di chi non conosce sé stesso e non comprende quella saggia massima, secondo cui l’uomo non è quel che appare, ma occorre una saggezza superiore, in virtù della quale ciascuno di noi possa conoscere chi mai sia. E a chi non ha reso sgombra la propria mente raggiungere questa autocoscienza è più difficile che fissare il sole a chi è malato agli occhi. La purificazione dell’anima, poi, per dirvela in poche parole ma in modo esauriente, consiste nel disprezzare i piaceri dei sensi: non soddisfare gli occhi con le vuote esibizioni degli illusionisti oppure con spettacoli di corpi traboccanti di sensualità e non riempirsi le orecchie di una musica che ti rovina l’anima. Da una musica del genere infatti sono solite derivare passioni meschine e degradanti.

Noi dobbiamo cercare invece quell’altro genere di musica, che è migliore e che porta ad una condizione migliore, quella cioè usata da David, il poeta dei canti sacri, per placare, a quel che dicono, la follia del re. Raccontano che anche Pitagora, imbattutosi in un’allegra comitiva di ubriachi, chiese al flautista che li guidava di cambiare musica e di intonare il modo dorico: a quella melodia tornarono in sé al punto che, buttate via le corone, se ne ritornarono a casa pieni di vergogna. Altri invece al suono del flauto vanno in delirio come dei coribanti o delle baccanti. Tanta è la differenza tra l’ascoltare una musica sana ed una cattiva! Perciò dovete evitare la musica che oggi è di moda proprio come quanto c’è di più vergognoso al mondo.

Quanto poi a spruzzare nell’aria profumi di ogni tipo che danno piacere all’odorato e a spalmarsi di creme, mi vergogno anche solo di proibirvelo. Che cosa poi si potrebbe dire sul fatto che non bisogna cercare i piaceri del tatto e del gusto, se non che questi costringono chi li ricerca a vivere come animali, dediti come sono al ventre e a quel che c’è più giù?

In una parola, chi non vuole sprofondare nei piaceri sensuali come nel fango, non deve preoccuparsi del corpo o averne cura solo in quanto, come dice Platone, ci dà una mano per acquistare la sapienza. Analogo è il pensiero di Paolo, il quale ci ammonisce che non bisogna avere alcuna cura del corpo per non alimentare le passioni. Che differenza c’è tra chi si preoccupa del benessere del corpo senza avere alcuna stima dell’anima che pure ne è padrona, e chi si cura degli strumenti senza occuparsi per niente dell’arte che si esprime con essi? Occorre al contrario frenare il corpo, tenerne a bada gli assalti come quelli di una belva e usare la ragione come una frusta per placare i tumulti che da esso arrivano all’anima; e non, allentando ogni freno del piacere, lasciare che la ragione ne sia travolta, come un auriga trascinato dalla furia di cavalli sbrigliati.

Anche di Pitagora dovete ricordarvi, il quale, notando che uno dei suoi discepoli con la ginnastica e con la buona tavola ingrassava troppo, gli disse: «Allora, quando la smetterai di renderti il carcere più duro?». Proprio per questo dicono che anche Platone, prevedendo il danno che poteva derivare dal corpo, scelse a bella posta l’Accademia, luogo insalubre dell’Attica, per inibire la troppa floridezza del fisico come si fa con l’eccessivo rigoglio delle viti. Ed io stesso ho sentito dei medici dire che il troppo benessere è pericoloso. Poiché dunque la cura eccessiva del corpo è dannosa al corpo stesso e per di più è d’impaccio all’anima, è chiaramente una follia assoggettarsi ad esso e rendersene schiavi. Se invece ci abituassimo a ridimensionarlo, nessuna altra cosa al mondo sarebbe in grado di attrarci. A che potranno ancora servire infatti le ricchezze, una volta disprezzati i piaceri del corpo? Francamente non saprei, a meno che non procuri un qualche piacere far la guardia a tesori nascosti, come fanno i draghi nelle fiabe.

Chi è stato educato a rapportarsi a queste cose con lo spirito di una persona libera, sarà ben lontano dallo scegliere di fare, nelle parole e nei fatti, qualche cosa di basso e vergognoso. Poiché tutto ciò che va oltre la necessità – fossero anche le pepite della Lidia o il frutto delle formiche aurifere –, tanto più costui lo disprezzerà, quanto meno ne avrà bisogno. E determinerà lo stesso bisogno in base alle esigenze della natura, e non secondo i piaceri. Quelli che invece eccedono i limiti del necessario, analogamente a quanti scivolano lungo un pendio non avendo alcun punto d’appoggio, non smettono mai di correre a precipizio, ma quanto più accumulano, di altrettanto hanno bisogno o anche di più per il soddisfacimento dei loro piaceri, secondo quanto dice Solone, figlio di Esecestide: «Non esiste per gli uomini un termine stabilito alla ricchezza».

Su questo punto ci fa da maestro anche Teognide, quando dice: «Non amo arricchirmi né me lo auguro, ma mi sia concesso di vivere di poche cose e senza malanni».

Io ammiro anche in Diogene il disprezzo totale delle cose umane: egli si dimostrò più ricco perfino del Gran Re, perché gli occorreva molto meno di lui per vivere. E noi, se anche non abbiamo le ricchezze di un Pizio di Misia e tanti e tanti ettari di terreno e un numero infinito di capi di bestiame tanto da non potersi contare, non saremo comunque soddisfatti? In realtà io credo che non bisogna desiderare la ricchezza che non si ha; e quando la si possiede, non bisogna vantarsi tanto di possederla, quanto di saperla bene usare. A questo proposito calza bene l’aneddoto di Socrate, il quale ad un uomo ricco che si vantava dei propri beni disse che non lo avrebbe ammirato prima di aver dimostrato di saperne usare. E se Fidia e Policleto si fossero vantati dell’oro e dell’avorio, con cui fecero l’uno la statua di Zeus agli Elei e l’altro quella di Era agli Argivi, si sarebbero resi ridicoli nell’andar fieri di una ricchezza altrui anziché dell’arte che aveva reso quell’oro più bello e più prezioso. E noi, pensando che la virtù umana non basti da sola come ornamento, crediamo di agire con minor ridicolo?

Oppure disprezzeremo le ricchezze e disdegneremo i piaceri dei sensi per poi cercare le adulazioni e le lusinghe, imitando così l’ipocrisia e la scaltrezza della volpe di Archiloco? Ma non c’è nulla che un uomo saggio debba evitare di più che vivere secondo l’opinione altrui e guardare a ciò che pensa la gente anziché farsi guidare nella vita dalla retta ragione. Cosicché, anche se dovesse contraddire il mondo intero, essere disprezzato e correre dei rischi per amore dell’onestà, niente lo distoglierebbe dallo scegliere ciò che ha riconosciuto come giusto.

Chi non fosse così, in che cosa potrebbe essere diverso da quel famoso mago egizio, il quale, tutte le volte che lo voleva, diventava pianta, animale, fuoco, acqua o qualsiasi altra cosa? Infatti, un individuo del genere ora loderà la giustizia davanti a quanti la onorano, ora invece sosterrà il contrario non appena s’accorge che è l’ingiustizia ad essere tenuta in onore, proprio come fanno gli adulatori. E come il polpo, a quel che si dice, cambia colore a seconda del fondale su cui si trova, così anche lui cambierà parere a seconda delle opinioni delle persone con cui si trova.

X. Ma queste cose noi le impareremo in maniera più completa nella nostra bibbia; per ora accontentiamoci di tracciare un abbozzo della virtù ricavandola dagli insegnamenti profani. Infatti, chi sa accuratamente raccogliere l’utile da ogni cosa fa come i grandi fiumi che arricchiscono la loro portata ricevendo l’acqua dai vari affluenti. Anche il detto di «aggiungere il poco al poco», conviene intenderlo in riferimento non tanto all’aumento delle ricchezze quanto a qualsiasi conoscenza. Così Biante al figlio, che salpava per l’Egitto e gli domandava che cosa dovesse fare per renderlo quanto mai felice, rispose: Procurati provviste per la vecchiaia», intendendo per provviste la virtù, pur limitandola entro piccoli confini, in quanto ne riduceva l’utilità ai ristretti termini della vita umana.

Per conto mio, se anche mi si parlasse della vecchiaia di Titono o di Argantonio o anche di quella del più longevo al mondo, cioè Matusalemme, il quale si dice che sia vissuto 970 anni, e se anche si calcolasse tutto il tempo dal momento in cui l’uomo cominciò ad esistere, ne riderei come di un pensiero puerile, considerando quella lunga età senza tramonto, di cui non è possibile col pensiero concepire un termine più di quanto non si possa supporre una fine per l’anima immortale. Per tale vita io vorrei esortarvi a procurarvi delle provviste, smuovendo ogni pietra, come dice il proverbio, da cui possa venirvi un qualche aiuto in tal senso.

E se ciò è difficile e richiede fatica, non per questo dobbiamo perderci d’animo; ma, ricordandoci del consiglio di chi disse che ciascuno deve scegliersi il tipo di vita più alto e aspettare che diventi piacevole con l’abitudine, dobbiamo puntare al meglio. Sarebbe infatti vergognoso trascurare l’occasione presente e rimpiangere poi il passato, quando lamentarsi non servirà più a nulla.

Ebbene, delle cose che considero più importanti alcune ve le ho dette, ma altre ve ne indicherò nel corso di tutta la vita. E voi, fra le tre tipologie di malati, cercate di non somigliare a quelli che sono incurabili e non fate che la malattia dell’animo sia analoga a quella di chi è malato nel corpo. Infatti, quelli che soffrono di lievi malattie, vanno da soli dai medici; quelli che sono affetti da malattie più gravi, li chiamano a casa loro; quelli infine che sono presi da una forma di delirio assolutamente incurabile non li fanno nemmeno entrare quando vanno a visitarli. Guardatevi che questo non succeda ora a voi, respingendo chi viene a darvi i consigli più saggi.


Vita di San Pancrazio

San Giovanni Bosco - San Giovanni Bosco

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Avviso importante

 

            Mentre, o Lettore cristiano, ti fai a leggere la vita di s. Pancrazio martire, ti nascerà forse in pensiero di sapere ove siano state attinte le notizie contenute in questo libretto; e ciò per calcolare quale fede meriti chi ce le ha conservate e mandate alla posterità. Appago di buon grado questo tuo giusto desiderio.

            Per compilare questo libretto lessi e attentamente considerai quanto i più accreditati leggendari dei santi riferiscono intorno a S. Pancrazio martire. Ho {197 [197]} pure lette le opere del Surio e dei Bollandisti nel giorno 12 di maggio ed appendice pag. 680; del Tillemont: Memorie sopra la Storia Ecclesiastica, tom V. Il P. Giovenale agostiniano scalzo nel libro intitolato: Delle maraviglie di S. Pancrazio, libri tre, stampato nel 1655.

            Ho eziandio ricavato alcune notizie dalle Omelie di S. Gregorio Magno, da s. Gregorio vescovo di Tours, nel libro della gloria dei martiri, e da alcuni manoscritti autentici di cui conservasi copia originale. I mentovati scrittori raccolsero da antichi manoscritti quanto avvi di più certo intorno alla vita, martirio e culto di s. Pancrazio martire; e da costoro ho ricavato quanto ivi si espone, limitandomi per lo più a tradurre o a popolarizzare quei concetti che per avventura sarebbero troppo elevati per chi non ha fatto un {4 [198]} corso di studio regolare. Stimo però bene di notare che le maraviglie operate da questo eroe cristiano sono così grandi in numero e strepitose in se stesse, che io ne ho dovuto scegliere solamente alcune per non fare troppo grossi volumi, e fra queste ho pur giudicato bene di trascegliere soltanto quelle che soglionsi dalla divina bontà concedere ai mortali in via ordinaria, ommettendo parecchie cose che o non potrebbero reggere ad una critica ragionevole, oppure potrebbero da qualche indiscreto essere poste in burla.       Del resto, o lettore, quivi avrai un giovinetto che, in via maravigliosacondotto alla fede di Cristo, in tenera età sigillò col proprio sangue la fede da poco tempo abbracciata. La qual cosa è un novello argomento della divinità e santità di nostra religione, poichè {5 [199]} Dio solo può infondere tanto coraggio e tanta costanza in un nobile giovane, ricco, lusingato dall'età, dalle promesse, dagli onori e dai piaceri, il quale tutto abbandona, tutto disprezza, e affrontando l'ira d'un tiranno e i più spietati tormenti, nella sola speranza dell'eterna ricompensa va intrepidamente incontro alla stessa morte per la fede di Cristo.

            Vorrei però, o cattolico Lettore, che tenessi bene a mente, la sola cattolica religione avere veri martiri, e che l'immensa quantità di martiri che l'hanno glorificata, e che ella propone alla venerazione dei fedeli, sono come altrettanti argomenti di verità della medesima religione, che in ogni tempo ed in tanti luoghi la conobbero divina e santa, e col prezzo della lor vita la predicarono e la confermarono. {6 [200]}

            Le altre società, che si vantano eziandio cristiane, non hanno alcun martire che si possa dire morto in conferma delle verità di sua credenza; neppure hanno alcun santo che abbia operato miracolo, nemmeno un santuario ove si possa additare un segno di miracolo operato, o di grazia ricevuta. Ora il non avere tali sette nè martiri, nè santi, nè miracoli, nè santuarii, è cagione che portano con se un'avversione verso i santi, verso le reliquie e verso i santuarii, dove le reliquie, le immagini dei santi sono dai fedeli con ispecial divozione venerati, e dove Iddio ad intercessione dei suoi eletti suole in gran copia concedere i suoi celesti favori. Iddio, che è infinitamente buono e in pari tempo maraviglioso nei suoi santi, inspiri coraggio ai cattolici a seguire la strada di tanti millioni di santi martiri, {7 [201]} confessori, vergini e penitenti che ci hanno preceduto; e a quelli poi che sono fuori della vera Chiesa, a tutti conceda lume per conoscere la verità, forza a scorgere l'errore, coraggio per abbandonarlo, e venire all'ovile di G. Cristo per formare un solo gregge in terra, ed essere di poi con lui un giorno a cantare le sue misericordie eternamente in cielo.

 

Sac. BOSCO GIO. {8 [202]}

 

 

Capo I. Patria, educazione di s. Pancrazio. Perde i suoi genitori. Va con suo zio a Roma.

 

            Mentre governava il romano impero Diocleziano, e sopra la cattedra di San Pietro in Roma sedeva San Eutichiano papa[1], verso l'anno dugento ottanta, nacque san Pancrazio in Sinnada città della Frigia, considerevole provincia dell'Asia minore. Suo padre chiamavasi Cleonio, sua madre Ciriada, i quali appartenevano ad una delle più illustri e ricche famiglie di quei {9 [203]}tempi; ma erano idolatri, epperciò ignoravano le verità del Vangelo. Eglino pertanto in luogo di adorare Iddio creatore del cielo e della terra, adoravano il sole, la luna, le stelle e talvolta adoravano anche immondi animali che camminano sopra la terra. Tale era la credenza dei genitori di Pancrazio, i quali perciò si adoperavano d'istruirlo non già nelle verità del cristianesimo, ma nelle favole ridicole dei pagani. Egli però avendo un cuor buono, e un ingegno perspicace, non tardò ad accorgersi fin d'allora esistervi qualche cosa di più degno d'essere amato che non sono le insensate divinità. Laonde di mano in mano che si avanzava negli studi, si andava ognor più confermando della vanità degli idoli, e viepiù sentivasi vivo desiderio di conoscere l'autore e il creatore di tutte le cose per poterlo amare e servire debitamente.

            Talvolta riflettendo che niuna cosa può farsi da sè, e desiderando di poter conoscere l'autore delle cose che si vedono in questo mondo, andava esclamando: o chiunque siate voi, che dal nulla mi avete fatto esistere; fatevi conoscere; ditemi qual è la vostra legge, onde io la {10 [204]} possa osservare, vi possa servire ed amare. Intanto egli coll'ubbidienza ai genitori, coll'esatto adempimento de' suoi doveri, colla singolare puntualità allo studio formava la delizia dei suoi parenti ed era proposto come modello a' suoi compagni.

            Le preghiere di Pancrazio e la esemplare sua condotta mossero il cuor di Dio, che le trovò degne di ricompensa. Dio adunque voleva illuminare Pancrazio e fargli conoscere le folte tenebre dell'idolatria; ma ciò per mezzo delle tribolazioni. In tenera età, quando si ha maggior bisogno di assistenza e di consiglio, ambidue i suoi genitori passarono da questa vita senza che abbiano potuto avere alcuna istruzione delle verità della fede.

            Quando suo padre era in punto di morte, aveva chiamato presso al letto suo fratello di nome Dionigi, e guidato dai soli principi della ragione naturale gli diresse queste parole: «Io mi trovo al momento di «dovermi andare al numero dei più,«perciò non potrò più oltre assistere il mio «unigenito Pancrazio. Deh! io ti prego «e ti scongiuro per l'onnipotente Iddio, «per la grande virtù di lui, e per «l’amore di tutti gli Dei, di aver cura {11 [205]} «di mio figlio; di conservargli ed «amministrargli da buon, padre i suoi beni «sia quelli che possediamo qui nella «Frigia, sia quelli che possediamo in Roma. «Ma deh! abbi cura della sua educazione, «adoperati in tutto quello che puoi, a fine «di tener lontano i vizi dal suo cuore, nè «mai la turpe voluttà venga a guastare «l'animo suo; ma qual vero fratello fa «di conservarlo giusto e piissimo in ogni «cosa.» V. Boll, die 12 maii.

            Lo zio Dionigi era commosso fino alle lacrime; e promise di aver tutta la cura pel nipote Pancrazio, e ciò promise tanto più di buon grado perchè aveva non dubbii argomenti che in tutte le sue sollecitudini sarebbe stato abbondantemente corrisposto.

            Difatti dopo la morte del padre lo zio Dionigi si diede ogni cura pel nipote Pancrazio e gli fece da tutore e da padre. Ma il dimorare in quei luoghi dove era morto suo fratello gli richiamava il mente troppo dolorose rimembranze, perciò sia per dimorare in luogo remoto da quello, dove era morto Cleonio, sia per procurare a Pancrazio un'educazione più nobile quale si poteva avere nella capitale del {12 [206]} romano impero, sia anche per amministrare i beni temporali che in gran copia avevano in Roma, risolse d'accordo con Pancrazio di recarsi in quella città.

            Eccoli pertanto ambidue in viaggio. Vanno a Roma per amministrare beni temporali, ignari affatto de' grandi disegni della divina provvidenza che loro preparava beni di gran lunga migliori, quali sono le verità del Vangelo, il battesimo, la corona del martirio.

 

 

Capo II. S. Pancrazio con suo zio in Roma. - Persecuzione di Diocleziano. - Eglino fanno conoscenza col sommo Pontefice. - Tenera accoglienza loro fatta dal medesimo.

 

            Tre anni dopo la morte di suo padre, s. Pancrazio in compagnia di suo zio dalla Frigia si trasferì a Roma e andò a stabilire dimora in un suo podere posto in un aggregato di case dello Cuminiana sopra il monte Celio, proprio vicino a quel sito ove oggi sorge il Palazzo Vaticano. {13 [207]} - Intorno al monte Celio eranvi molte caverne alcune fatte dalla natura, altre a bella posta scavate.

            In questi antri o caverne solevansi nascondere i cristiani in tempo di persecuzione quando erano cercati a morte.

            In quei tempi infieriva la persecuzione di Diocleziano, che si conta la decima delle sanguinose persecuzioni mosse contro ai cristiani nei tre primi secoli della chiesa. Quell’imperatore aveva un odio implacabile verso la religione cristiana, perchè la santità della cristiana religione era una condanna della viziosa di lui condotta, ed anche perchè eragli stato detto che il romano impero non avrebbe avuto pace finchè non fosse interamente distrutto il cristianesimo. Da prima egli studiava ogni mezzo per far patire i cristiani a fine di farli prevaricare. Al vedere poi che più li tribolava e ne faceva morire, più grande diveniva il loro numero, risolse di volere a qualunque costo distruggere interamente il cristianesimo e far rifiorire l'idolatria, persuaso di poter così portare la pace e la prosperità all'impero.

            Sì grande fu in quel tempo il numero dei martiri di ogni età e condizione, sì {14 [208]} atroci e prolungati erano i tormenti con cui facevansi morire, che quel periodo di tempo fu appellato era dei martiri; perchè non avvi tempo nella storia ecclesiastica, in cui si noverino tanti martiri quanto in quell'epoca. Uomini e donne, vecchi e fanciulli, ricchi e poveri, dotti ed ignoranti, e persino di quelli che appartenevano alla famiglia imperiale, si videro abbandonare impieghi, onori, ricchezze, parenti ed amici, tollerare il disprezzo, lasciarsi mandare in esiglio, esporsi ad ogni genere di tormenti e spargere il proprio sangue per la fede.

            In quei calamitosi momenti governava la santa romana chiesa s. Caio succeduto a s. Eutichiano nel 283. Questo zelante pontefice nel desiderio di poter continuare ad istruire i fedeli nella fede, incoraggire quelli che erano condotti al martirio, ed anche mantenere l'unità di fede fra Sacri pastori, si appigliò al consiglio del salvatore, che disse: quando sarete perseguitati in una città fuggite in un'altra; cum persequantur vos in civitate ista fugite in aliam. Perciò andò a nascondersi in una caverna del monte Celio, in un sito appartenente a s. Pancrazio. Da quel nascondigli {15 [209]} o il santo pontefice usciva di quando in quando o per recarsi ad amministrare i santi sacramenti; o per confortare i deboli, incoraggire i giusti a perseverare nella fede ed anche tentare di convertire gli idolatri.

            La moltitudine di miracoli che operava s. Caio[2], le luminose virtù che praticava, giunsero presto a notizia di Pancrazio e {16 [210]} di Dionigi. Commossi da tante maraviglie risolsero di soddisfare ad una innocente curiosità e andare anch'essi a vedere quell'uomo, che era divenuto l'oggetto della comune ammirazione. Vuolsi qui notare che i cuori dello zio e del nipote erano buoni: facevano limosine e pregavano ambidue il Dio del cielo e della terra a voler loro far conoscere la strada della salvezza. E Dio che è sempre buono e misericordioso, siccome aveva già esaudite le preghiere di Cornelio detto centurione, e gli aveva mandato un angelo per fargli conoscere s. Pietro ed essere poscia da lui istrutto nelle verità della fede; così inspirò a Dionigi e a Pancrazio di recarsi dal successore di s. Pietro per acquistare la scienza della salute.

            Corrispondiamo, andavano tra di loro dicendo, corrispondiamo a queste interne inspirazioni del cielo, chi sa che i cristiani non siano giunti a conoscere il vero Dio! Certamente lo splendore delle virtù di cui è singolarmente adorno il loro pontefice non possono avere origine se non dal cielo. Nemmeno può darsi che sì gran numero d'uomini di tanto senno offrano con tanta gioia il loro petto alle spade {17 [211]} dei barbari per una fede che Don conoscessero per vera; non può essere che tanti illustri personaggi siano pronti a cimentare le mille volte al giorno la propria vila per difesa di una fede, che ammettesse sospetto di falsità od ombra di dubbio.

            Così andavano tra di loro ragionando quando si accorsero di trovarsi alla porta dell'abitazione del romano pontefice.

            Al loro picchiare corse il portinaio del papa, di nome Eusebio, uomo da tutti tenuto in fama di gran santità; totius sanctitatis vir[3]. Aperse egli una finestrella che con la sua picciolezza davagli agio di vedere gli altri senza essere veduto, e alla vista dei due cavalieri Pancrazio e Dionigi posti in ginocchioni a pie' della porta, dimandò che cosa chiedessero. Chiediamo, risposero, di essere ammessi alla udienza del pontefice.

            Intesi i loro desideri, Eusebio li assicurò del pronto suo uffizio, e coll'ansietà propria di chi desidera la gloria di Dio e il guadagno delle anime, volò a partecipare l'ambasciata al papa. Beatissimo {18 [212]} padre, egli disse, sono qui alla porta due illustri personaggi, che io non conosco, e dimandano come special favore di essere ammessi alla vostra presenza.

            Il santo pontefice aveva già avuto poco prima rivelazione di due pecore erranti che cercavano salvezza. Perciò alle parole di Eusebio provò grande allegrezza e prostrandosi a terra pregò, dicendo: vi ringrazio, o Signor mio G. C. re dei re, e Signore dei signori, che vi siete degnato di far conoscere me, ultimo vostro servo, a quelle vostre anime da voi elette. Di poi comandò che fossero immediatamente introdotti a lui.

            Giunti alla sua presenza pieni di ammirazione e di stupore si prostrarono ai suoi piedi. Cercò subito di farli rialzare, al che non potendo riuscire, disse loro: che volete adunque? Noi vogliamo, risposero, che voi ci facciate conoscere quel Dio che voi stesso adorate. Allora pieno di contentezza li abbraccia egli stesso e li rialza in piedi stringendoli amorosamente al seno, e assicurandoli che sarebbesi adoperato di far loro conoscere il vero Dio e la santa sua legge: poscia soggiunse: Dio vi benedica e vi sia ognor propizio; {19 [213]} Egli ha ascoltate le vostre suppliche. Ora calmate i vostri affanni, poichè la divina bontà è infinita ed incomprensibile: posso accertarvi che per via del santo battesimo giungerete al possesso della fede cristiana. Vi basti per ora di sapere, che il nostro Dio è tanto buono che non potrete a meno di provare grande rincrescimento d'aver tanto ritardato di venire a lui.

            Per lo spazio d'un mese circa, Dionigi e Pancrazio si recarono regolarmente dal Pontefice per essere istruiti nelle verità della fede.

 

 

Capo III. Il papa continua ad istruire s. Pancrazio e s. Dionigi nella fede. Loro battesimo. Morte di s. Dionigi.

 

            Non si può esprimere la consolazione dei due catecumeni nel conoscere le verità della fede cristiana, e l'assurdità dell'idolatria. Provavano la più grande consolazione al conoscere che vi esiste un Dio creatore del cielo e della terra, il quale ci conserva e provvede ai bisogni della {20 [214]} presente vita. Ammiravano l'immensa sua bontà verso gli uomini; perciocchè per la salvezza loro egli era disceso dal cielo in terra, vissuto nella povertà e nei patimenti, operando luminosissimi miracoli, e morendo fra i più atroci dolori per salvare il genere umano. Fin da quel momento cominciavano già a persuadersi che essendo un Dio solo non può esservi che un solo G. C, una sola fede, un solo battesimo e per conseguenza una sola chiesa, il cui capo invisibile era lo stesso G. C, e il capo visibile era il Romano Pontefice, vicario di G. C. sopra la terra. Quando poi il pontefice giunse a spiegare loro come il battesimo era quella grande chiave che chiudeva loro le porte dell'inferno ed apriva quella del paradiso, facendoli veri figli di Dio ed eredi di una felicità infinita, si sentirono ardere del più vivo desiderio di riceverlo.

            Rivolgendo pertanto il loro discorso al papa, «e a che fine, dicevano, prolungate «voi le nostre pene, perchè differite, o «Beato Padre, di aprirci colle vostre chiavi «quel cielo, di cui Iddio vi ha fatto «l’usciere. Perchè non lavar tosto le «macchie delle anime nostre coll'acqua del {21 [215]} «santo battesimo? temete forse che le «persecuzioni debbano far vacillare la «nostra costanza? No, non sarà. Quel «medesimo Iddio onnipotente, che a tanti «cristiani ha già infuso forza e «coraggio da disprezzare onori, ricchezze, «piaceri per amor suo, infonderà la «medesima forza e il medesimo coraggio «a noi, e ci renderà forti e pronti anche «a dare la vita per amore di quel Gesù ce che prima è morto per noi. Ah Dio, ci «sarà gioia e non pena il patire per voi, «sì per voi, amorosissimo Iddio, che per «nostro amore avete tanto patito!»

            Allora il Pontefice non istimò di differire più a lungo il battesimo; ma prima di amministrarlo indirizzò loro queste parole: «miei figli, godo che la grazia di «Dio siasi diffusa nei vostri cuori; godo «che gli occhi vostri siansi aperti per «conoscere le tenebre dell'idolatria, e la «luce della fede. Senza Cristo tutto è «disordine ed oscurità. Egli è la vera «luce, la vita, la verità, e chi vive «lontano da lui vive nelle tenebre, «nell’errore e nelle ombre di morte. Ma «ricordatevi bene, che il nostro Iddio non è «come gli Dei del paganesimo. Egli solo {22 [216]} «è eterno, onnipotente, infinito, e «infinitamente benefico. Egli calca col piede «le stelle; Egli è nella maestà «invariabile, nella gloria inesplicabile, e nei «suoi decreti imperscrutabile. In una «parola Egli è colui che ha creato e «conserva tutte le cose; colui che ha «preparato un bene eterno a chi lo serve, «e minaccia un eterno supplizio a chi «oltraggia la sua santa legge. Questo «Dio di bontà infinita, mosso a «compassione del genere umano, mandò il suo «Divin Figliuolo dal cielo in terra a «patire e morire per nostro amore. A fine «poi di comunicare alle anime nostre i «meriti infiniti della sua passione e morte, «Egli instituì i suoi sacramenti. Tra essi «havvi il battesimo che voi con ragione «sospirate e che tra breve andate a «ricevere. Ravvivate adunque la vostra fede «nel gran pensiero che mentre alcune «goccie d'acqua lavano il corpo, la grazia «di Dio purifica le anime vostre, e le «rende monde da ogni colpa sia «originale, sia attuale.

            «In questa guisa voi diverrete figli del «vero Dio, fratelli di G. C., eredi delle «ricchezze del cielo.» {23 [217]}

            Giunto a questo termine il santo padre si mise indosso i sacri abiti per la santa funzione del battesimo; e assistito da alcuni ministri, che con inni e cantici rendevano grazie a Dio, li battezzò, dicendo a ciascuno: io ti battezzo nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia.

            Siccome erano già abbastanza istrutti nelle verità della fede, così fu loro amministrato il sacramento della Cresima e il sacramento dell'Eucaristia, che ricevettero con ammirabile divozione e fervore.

            Così quei novelli cristiani partirono dal sommo pontefice pieni di una allegrezza che tale non mai avevano provato in vita loro. Sentivansi ardere il cuore di amore verso Dio che li aveva colmati di tanti favori; e sebbene da poco tempo battezzati, erano già fervorosi al punto di offerirsi pronti a dare la vita per la fede qualora Iddio ne avesse data loro occasione.

            Oh noi mille volte felici, andava dicendo Pancrazio, se ci fosse dato di sacrificare noi medesimi colla morte, per giungere più presto al nostro Dio!

            Noi avventurosi, rispondeva Dionigi, se {24 [218]} fossimo fatti degni di morire per amore di un Dio, che per nostro amore morì crocifisso! Beati noi, replicò Pancrazio, se col perdere questa vita faremo acquisto di una gloriosa eternità.

            Ah noi fortunati, conchiuse Dionigi, se per la fede di Cristo dando questa miserabile vita, potessimo dall'esiglio volare alla patria beata del paradiso. Non sarebbe questo, o caro nipote, un bel cambio? morire per amor di Dio una volta penando, per vivere con Dio eternamente godendo?

            Finalmente dissero ambidue insieme: fate, o grande Iddio, che da noi si provi la soavità di morire per voi, e di noi fate poscia ciò che volete. Iddio però disponeva altrimenti di Dionigi. Col battesimo egli avea acquistato la bella stola della innocenza, e Dio lo voleva chiamare a sè con una morte tranquilla. Diffatti cadde tosto in malattia sì grave, che pochi giorni dopo il battesimo volò a ricevere la ricompensa eterna del cielo.

            Il nipote Pancrazio ne fu dolentissimo perchè rimaneva privo di chi gli aveva fatto da padre, da amico, da fratello. Offerì egli a Dio fervorose preghiere pel {25 [219]} riposo dell'anima di suo zio, e come colui, che nulla più desiderava in questo mondo, pregava Iddio che lo facesse presto degno di poter raggiungere l'amato zio nella patria dei beati.

 

 

Capo IV. I Pagani fomentano la persecuzione. S. Pancrazio alla presenza di Diocleziano e suo interrogatorio.

 

            Come abbiamo sopra accennato, infieriva in quei dì la crudele persecuzione di Diocleziano contro ai cristiani. I pagani vedendo, che col dilatarsi del vangelo i loro templi divenivano deserti ed i loro idoli abbandonati, e che più cristiani uccidevano, più grande ne diveniva il numero, risolvettero di dare un terribile assalto al cristianesimo.

            Nel loro furore mandarono una deputazione all'imperatore Diocleziano e Massimiano con queste parole: degnissimi e piissimi imperatori, allontanate da questa città i cristiani che sono altrettanti maghi {26 [220]} infami e crudeli, essi ingannano tutto il mondo, e mettono in rivolta il vostro regno.

            Era questa una calunnia atroce. Quegli imperatori non già erano pii, ma feroci. La loro vita privata era piena di turpitudini, e provavano il più gran piacere a spargere il sangue de' loro sudditi. I cristiani poi non erano nè maghi, nè crudeli. Erano sudditi fedeli, disposti a dare la vita pel bene del prossimo; la loro crudeltà consisteva nell'intrepidezza, con cui si mostravano pronti a dare onori, ricchezze e vita, piuttostochè fare cosa alcuna contraria alla santa legge di Dio. Nemmeno i cristiani cercavano di ingannare il mondo: anzi facevano ogni sforzo per far conoscere l'errore, e insinuare nel cuore di tutti le verità della fede; la qual cosa facevano predicando il vangelo a fronte dei più gravi pericoli, spesso in mezzo ai più spietati tormenti. È parimenti calunnioso, che i cristiani mettessero lo impero romano in rivolta, imperciocchè essi furono sempre mai i più fedeli soldati, e la storia ci fa conoscere come nei più gravi pericoli i soldati cristiani si sono sempre segnalati nella fedeltà e coraggio. {27 [221]}

            Tuttavia Diocleziano o per far cosa grata agli idolatri, o che credesse alle mentovate calunnie, montò in collera, e nel suo furore decretò con legge che qualunque cristiano venisse scoperto nel suo impero fosse immediatamente punito senza essere ascoltato in giudizio.

            Fu allora che un gran numero di persecutori, alcuni mossi dalla mercede che era data agli scopritori di qualche cristiano, altri eccitati da odio contro alla fede, si diedero a ricercare e perseguitare i cristiani da tutte parti. Non vi fu genere di tormento che non fosse usato per maltrattare e fare morire i seguaci di G. Cristo. Onde Diocleziano non solo in Roma, ma nelle più remote parti del suo impero aveva aperto pubbliche carnificine di sangue cristiano. I piombi liquefatti, le caldaie bollenti, i pettini e gli uncini acuti, l'eculeo, i lori arroventati, le botti di acuti chiodi ripiene, i teatri pieni di bestie affamate, i patiboti infami, le mannaie infuocate, i pali, i coltelli, le spade erano gli strumenti di morte, famigliari al barbaro Diocleziano.

            Provò questa crudeltà, prima delle altre, Artemia sua figliuola, che per comando {28 [222]} di lui fu dal proprio fratello sacrificata all'ira del padre, solo perchè era cristiana. Altro suo stretto parente di nome Claudio, colla propria moglie e con due figliuoli, fu trucidato per ordine del barbaro imperatore. E per non andar troppo a lungo, ci basti il sapere che un'intiera città della Frigia, patria fortunata del nostro glorioso s. Pancrazio, fu circondata dai soldati, quindi la città ed i cittadini furono consegnati alle fiamme.

            Il giovane Pancrazio dopo la morte di Dionigi non incontrava più oggetto alcuno, che potesse allegrare il suo cuore. Il suo conforto era il pensiero di presto poter raggiungere l'amato zio. E siccome sperava che tal momento potesse essergli accelerato per mezzo del martirio, così Pancrazio era quasi sempre travagliato dal desiderio di conseguire la gloriosa palma dei Confessori di G. C.

            Un giorno mentre era assorto in questi pensieri accadde che una turba di birri scorrazzando per le vie di Roma andavano in cerca di cristiani, e avuta notizia che Pancrazio apparteneva al numero di quelli, si portarono immediatamente a casa di lui per condurlo in prigione. {29 [223]}

            Pancrazio significò loro con franchezza che egli era veramente cristiano e adoratore di Gesù Crocifìsso, e senza opporre alcuna difficoltà si diede nelle loro mani. Quegli esecutori di barbarie stimavano di aver fatta ricca preda scoprendo un nobile e dovizioso cristiano. Ma quando vennero a sapere che Diocleziano era stato intimo amico di Cleonio, padre del nostro giovine, vollero usargli un tratto di particolare bontà col renderne partecipe lo imperatore prima di dargli la morte.

            Diocleziano era estremamente desideroso di vederlo, e mandò tosto alcuni cavalieri affinchè lo accompagnassero, e sciolto da ogni catena lo conducessero al palazzo imperiale. Pancrazio vi andò con indicibile intrepidezza, e come giunse al cospetto dell'imperatore fu interrogato così:

            Diocleziano. Chi sei tu?

            Pancrazio. Io son cristiano.

            L'imperatore ammirò una risposta così pronta e precisa, e stupito del coraggio grande che ravvisava in quel piccolo corpo, rimirando la rara bellezza che nel gesto, nella persona e nel volto di Pancrazio si manifestava, sforzossi di temperare la sua ferocia, per indurlo ad adorare gli idoli, {30 [224]} allettandolo colle lusinghe e colle promesse.

            Onde rasserenato con un sogghigno l'aria tenebrosa, fìngendo compassione e nascondendo il veleno del suo cuore prese a dire:

            Diocleziano. Giovinetto, credi alle parole di chi t'ama, e non voler dimostrarti ostinato a troncare il filo de' tuoi giorni con una morte dolorosa. Compatisco la tua giovinezza facile ad essere delusa. So che tu sei figlio del mio carissimo Cleonio, perciò ti amo assai! procura pertanto di sbandir da te ogni strana idea di cristiano. Rinunzia a Cristo ed alla sua fede. Ed io ti prometto onori, dignità, ricchezze, e ti avrò qual mio carissimo figlio, e come tale sarai onorato, e chi sa che un giorno la fortuna non ti porti a succedermi nell'impero!

            Pancrazio. Bel cambio, o imperatore, volete che io faccia! lasciare il regno celeste, che è certo, per l'impero del mondo che è incerto! E poi quand'anche mi collocaste sul vostro trono, vestito della vostra porpora, incoronato del vostro diadema, attorniato dai vostri cavalieri, io vi assicuro che per tali motivi non mi {31 [225]} lascierò giammai indurre ad abbandonare il mio Gesù che ho promesso di amare e servire fino alla morte.

            Voleva parlare di più l'infervorato giovine, ma la rabbia del tiranno non gli permise di andare più oltre, e dalle lusinghe passando alle minacce prese a dire così:

            Diocleziano. Fanciullo presuntuoso ed arrogante, con chi tu credi di parlare? Non t'avvedi, che se la mia bontà ti apre la strada all'insolenza, con questo ti rendi maggiormente colpevole? io saprò vincere la tua ostinatezza coi più atroci tormenti. Risolvi adunque: o sacrificare vivo al Dio Giove, o sarai tu stesso sacrificato alla giustizia di Diocleziano. Che se tu rifiuti di approfittare della mia clemenza, comanderò che tu sii immediatamente ucciso, ed il tuo corpo consegnato alle flamme.

            Di tali minacce niente affatto sbigottito Pancrazio, pieno di confidenza in Dio, e confortato dalla grazia di G. C. si volse al tiranno e così parlò: «Non vi persuadere, o Cesare, che le vostre minacce siano per intimorirmi. Inutilmente voi tentate di spaventarmi col farmi perdere la vita; la morte ha nulla di spaventoso pei cristiani; per essi è una gran fortuna il {32 [226]} poter dare il proprio sangue per G. C.; i vostri supplizi acquistano loro un'eterna felicità; e lo spirare fra i tormenti è per loro una gloriosa vittoria. Deliberate pure adunque sulla mia persona, fate di me quel che volete: io vi assicuro che mi farete un gran favore facendomi morire fra i tormenti.»

            Parve frenarsi alquanto Diocleziano, e ciò fu solo per fare l'ultima prova. «Orsù, gli disse, fin qui non c'è grande male, con un'adorazione a Giove, offerendo un po' d'incenso agli altri dei, tu puoi rimediare al passato. Che dici, che rispondi? sei tu pronto a farlo? Da questa risposta dipende o la tua morte o la tua vita.»

            Pancrazio, che era sempre lieto ogni qualvolta, tacendo il tiranno, aveva campo a parlare, fatto più sereno in volto, prese a parlare così: «A che tante instanze? Pare di essermi abbastanza spiegato. Invano tentate di indurmi ad adorare i vostri dei. Quegli dei, cui mi esortate ad offerire incenso, sono adulteri ed ingannatori, che non risparmiano ad alcuna empietà. Ed io mi stupisco che voi non abbiate rossore di adorare quegli Dei, mentre sono {33 [227]} certo che se voi conosceste avere dei servi loro somiglianti, o li caccereste da voi, o li fareste uccidere.»

            Diocleziano confuso, ma non convinto dalle parole mentovate, diede in eccesso di furore. «Orsù, disse: presto mi si tolga davanti questo temerario garzone e se gli tronchi quel capo in cui siede tanta baldanza. E voi, miei ministri, sotto pena della mia disgrazia, non mi parlate di favore; voglio che l'esempio di costui sia di terrore agli altri, e che il suo sangue sconti la pena della sua temerità.»

 

 

Capo V. Martirio di s. Pancrazio.

 

            Nel coraggio e nelle risposte di Pancrazio noi vediamo avverate due promesse del Salvatore colle quali predisse che egli avrebbe in ogni tempo assistito i suoi fedeli, e che in mezzo ai più grandi pericoli sarebbero stati come agnelli in mezzo ai lupi, ma che egli avrebbe loro dato coraggio e sapienza tale, cui niuno avrebbe {34 [228]} potuto resistere. Di più dobbiamo ammirare nel coraggio di questo giovanetto quella viva fede, quella ferma speranza, quella infiammata carità, per cui niun pericolo della vita, nemmeno la morte più spietata, può separarlo da quella carità che trovasi nei veri seguaci di Gesù C.

            Appena pronunziata la fatal sentenza, tosto una turba di manigoldi assalgono Pancrazio, lo legano strettamente con funi e catene per condurlo al supplizio. Come mansueto agnello Pancrazio si abbandonò nelle loro mani. Rimirando poi le catene che lo stringevano esclamò: «Oh fortunate catene, a me è più prezioso il vostro ferro che ogni tesoro del mondo! Di quanto sono a voi obbligato, poichè per mezzo vostro comincio ad essere simile al mio Gesù!»

            Rivolgendosi poi ai ministri di giustizia, «voi, o ministri, riferite pure allo imperatore, che non poteva offerirmi un dono più prezioso di queste catene, le quali a me sono più care di tutti i diamanti della terra. Che cosa mai io potrò più oltre desiderare se non finire la vita con un colpo di scimitarra, e così liberare l'anima mia dalle carceri del corpo {35 [229]} e volare al cielo? Ma dove andiamo, o fratelli? deh non indugiate più, conducetemi presto al luogo dove io dovrò essere colpito dal vostro ferro!»

            A questi generosi sentimenti gli astanti ed i medesimi idolatri erano fuori di sè per maraviglia e compassione. Alcuni andavano dicendo: «peccato che un sì bel giovanetto vada alla morte. È possibile che un garzoncello il quale ha ancora le labbra bagnate di latte abbia di già commesso un errore degno di essere punito col proprio sangue?»

            «E no, rispondevano altri: è più colpevole chi l'ha condannato, che non è egli medesimo, poichè quantunque egli fosse un scellerato, pure dovrebbesi avere qualche riguardo alla sua tenera età. Chi sa che col tempo non avesse cangiato proposito, chi sa che non si fosse di poi guadagnato a Giove!

            «O questo no, altri rispose, disingannatevi pure, non vedete con qual coraggio va incontro alla morte? Ciò è chiaro segno che vi ha un cuor grande in quel corpo di fanciullo.»

            Tra la numerosa turba che accompagnava il generoso confessore di Cristo, {36 [230]} ritrovaronsi due occulti cristiani, che maravigliati della costanza del tenero fanciullo andavano l'un l'altro dicendo: «in questo nobile garzoncello io miro rinnovarsi il nobilissimo esempio di Isacco. Egli è questi come quell'innocentissimo agnello prossimo ad essere sacrificato al grande Iddio; ma con quanta diversità! Quello era mesto pel dubbio di morire, lieto è questi per la certezza e pel desiderio della morte; quello aveva il pianto sugli occhi; questi ha la gioia sulle labbra; quello interrogava: dove è la vittima? questi se fosse interrogato, arditamente risponderebbe: io sono la vittima. Ah quanto adunque egli è glorioso e fortunato! Egli fra alcuni istanti comincierà a godere e godrà per tutta un'eternità quel G. C. di cui Isacco ne era figura, e di cui Pancrazio ne è seguace.»

            Intanto Pancrazio giunse al bramato luogo del supplizio. Assorto egli nei più sublimi affetti verso Dio; pieno della santa gioia che provano quelli, che sono vicini a conseguire il più gran bene del mondo, si prostrò ginocchioni e baciò il terreno dicendo: «o fortunato Campidoglio, tale era il nome del luogo del martirio di Pancrazio, {37 [231]} o fortunato Campidoglio! Eccomi finalmente giunto a godere in te la gloria del trionfo. Gli antichi guerrieri erano quivi condotti in trionfo dopo di avere vinto i nemici della patria, ed erano accolti fra gli applausi de' cittadini; io spero di riportare compiuta vittoria dei nemici di Dio per essere accolto da Gesù e dai santi in cielo.» Alzati poi gli occhi al cielo, e incrocicchiate le braccia al seno, tutto elevato in pensieri verso Dio, favellò così: «Dio onnipotente, Dio pietoso, avvalorate le deboli mie forze, degnatevi di assistermi in questo ultimo mio combattimento. Voi mi chiamaste alla vera fede e con un tratto di special bontà ora mi concedete di dare la vita in testimonio di questa fede medesima. Grazie, o grande Iddio, grazie vi rendo che mi fate degno di morire per voi. Spiacemi solo di non potere, come vorrei, non una volta ma mille volte mor ... (voleva dir morire). E in quel momento gli fu vibrato un colpo di scimitarra, che troncandogli le parole sulle labbra gli spiccò il capo dal busto, e l'anima sua innocente e piena di meriti volò al cielo.        Il corpo di lui rimase insepolto lungo {38 [232]} il giorno; fattasi notte una pia matrona romana, di nome Ottavilla, andò di nascosto a prenderlo e ungendolo di odoriferi aromi, lo avviluppò in pannilini e rispettosamente lo seppellì in un sepolcro nuovo fatto per lui preparare.

            Il maraviglioso coraggio di Pancrazio serva a noi d'esempio ad essere fermi nella fede. L'insolito fervore con cui piange e sospira il battesimo c'inviti a piangere i nostri peccati nella presente vita per non piangerli inutilmente nell'inferno.

            Dal coraggio poi con cui andò incontro alla morte impariamo come non si possa venire a Dio senza morire al mondo; e che quelli i quali attaccano i loro affetti ai beni della terra, difficilmente potranno giungere a possedere i beni del cielo.

            Finalmente che non possiamo essere partecipi della gloria del cielo senza essere seguaci di Gesù Cristo non di nome ma di fatti; cioè col patire per suo amore, o se fa bisogno anche dare la vita piuttosto che fare la minima cosa contraria alla santa legge di Dio. Chi vuole godere un giorno con G. C. bisogna che patisca con G. C., dice S. Paolo: qui vult gaudere cum Christo, oportet pati cum Christo; {39 [233]} e niuno è coronato di gloria in cielo se non combatterà da valoroso cristiano sopra la terra: non coronabitur nisi qui legitime certaverit.

 

 

Capo VI. Tomba di s. Pancrazio in Roma, chiesa a lui dedicata, maraviglie ivi operate.

 

            L'anima fortunata di s. Pancrazio gode e godrà per tutti i secoli la gloria dei beati in cielo colla fronte cinta delle due corone, dell'innocenza e del martirio. Ma le sue reliquie furono e sono tuttora l'oggetto di tenera divozione presso ai cristiani, come sorgente feconda di grazie e di benedizioni verso chi le venera. Noi cominceremo a parlare della tomba di s. Pancrazio a Roma, di poi parleremo del suo culto e delle sue reliquie venerate in altri paesi della cristianità.

            Uscendo di Roma per la porta Aurelia della anche Janiculense ed oggidì detta porta di s. Pancrazio in onore del nostro santo, in distanza di circa mezzo miglio {40 [234]} dalla città si giunge all'ingresso del cimitero di Calepodio. È questo uno de' più famosi cimiteri di Roma, così appellato, o perchè s. Calepodio lo abbia ristorato od ampliato, oppure perchè egli stesso sia stato ivi sepolto. Molti martiri ebbero ivi la loro sepoltura e fra gli altri san Pancrazio. La pia Ottavilla, come si è detto, appena potè avere a sua disposizione il corpo di s. Pancrazio di notte tempo lo portò segretamente nel cimitero di s. Calepodio nel luogo per lui preparato.

            Cose maravigliose, grandi miracoli cominciarono ad operarsi alla tomba di s. Pancrazio. Appena cessate le persecuzioni, sopra il suo sepolcro fu edificata una chiesa che sussiste ancora oggidì, e il sepolcro di s. Pancrazio fin dai primi tempi divenne una specie di santuario. - Il sommo pontefice s. Simmaco commosso dal gran concorso di fedeli che in folla correvano a quel sepolcro; e vie più commosso dalle grazie che si ottenevano, e dai luminosi miracoli che alla tomba di lui si operavano; cento anni dopo il martirio del santo (398) fece ristorare ed abbellire quella chiesa. - Per dare poi un pubblico segno {41 [235]} della sua grande pietà e divozione verso s. Pancrazio, quel pontefice fece fare un arco sopra l'altare di quella chiesa con ornati che pesavano oltre a quindici libbre di argento. - Cosa assai considerevole, avuto riguardo alla scarsezza d'oro e di argento in cui trovavansi in quei tempi i nostri paesi.

            La cosa poi che mirabilmente servì a dilatare il culto verso le reliquie del nostro santo, fu la maniera sensibile con cui gli spergiuri erano puniti. Ecco quello che dice a tal proposito S. Gregorio vescovo di Tours città di Francia: «S. Pancrazio martire, egli dice, è terribile vendicatore contro a quelli che giurano il falso. Se taluno giunge alla pazzia di proferire uno spergiuro, e che di poi abbia l'ardimento di recarsi al sepolcro del santo, prima che giunga ai cancelli che ne circondano la urna, dove sogliono stare i sacerdoti mentre cantano le lodi di Dio, viene immediatamente assalito dal demonio o cade morto sull'istante. Da ciò avvenne che chiunque voglia far prova se uno abbia della la verità o no intorno a qualche cosa, non fa altro che condursi alla basilica del santo, e tosto l'innocente è riconosciuto e il colpevole {42 [236]} prova il severo giudizio del santo.» (Greg. Turonensis de miraculis, cap. 39).

            Il medesimo vescovo di Tours fra altri fatti racconta quello che segue: «Era nata contesa tra due uomini, che da qualche tempo litigavano con arte la più accanita. Il giudice sapeva benissimo discernere il reo dall'innocente, tuttavia per zelo di giustizia costrinse il colpevole a provare con giuramento la pretesa sua innocenza. Giunti perciò al sepolcro di s. Pancrazio, e il presuntuoso reo avendo di nuovo giurato il falso, gli rimase inaridita la temeraria mano con cui affermava quanto diceva, e poco dopo cadde a terra e spirò.»

            Nel secolo VI s. Gregorio Magno, anche prima del suo pontificato, soleva spesso recarsi alla chiesa di s. Pancrazio. Divenuto papa ne promosse il culto con grande zelo e sollecitudine. Osservando che coloro i quali erano destinati a mantenere il decoro in quella chiesa trascuravano i propri doveri, egli ne tolse loro la direzione e la diede ad alcuni menaci affinchè la custodissero. Scrivendo a tal proposito allo abate di quei monaci, di nome Mauro, gli indirizzava queste affettuose parole: io vi raccomando soprattutto di aver gran cura {43 [237]} che ogni giorno sia celebrato il santo sacrifizio della messa vicino al santo corpo del beato Pancrazio.

            Lo stesso pontefice si recava soventi volte a visitare quella chiesa, che fin da quei tempi per la sua magnificenza cominciò a chiamarsi basilica, e ne faceva talvolta le sacre funzioni. Un anno recitò nel giorno della festa del santo martire un discorso al popolo, che è la vigesima tra le sue omelie, il quale egli conchiude colle seguenti parole: «noi stiamo avanti alla tomba del santo martire Pancrazio, il quale sappiamo con quale morte sia pervenuto al regno de' cieli. Se a noi non è dato di esporre la vita del corpo per amore di Gesù Cristo, come egli fece, almeno adoperiamoci di vincere le passioni dell'animo. È questo eziandio un grande sacrifizio gradevole al Signore, il quale approva, e nella sua bontà ricompensata vittoria che noi riportiamo di noi medesimi, specialmente per conservare la pace col nostro prossimo. Egli mira benignamente dal cielo il combattimento che si fa nei nostri cuori per vincere le ripugnanze delle nostre passioni contrarie alla sua santa legge. Egli rimira dal cielo chi {44 [238]} combatte, per rimunerare i vincitori, i quali aiuta e conforta colla sua grazia, acciocchè riportino vittoria.» (Greg. Mag. Om. XX.)

            Ventidue anni dopo di s. Gregorio, Onorio papa si adoperò eziandio per abbellire la chiesa di s. Pancrazio. Aggiunse egli pure novelli ornamenti a quella chiesa e fra le altre cose fece ornare il suo sepolcro con parecchi lavori d'argento, il cui peso eccedeva libbre dugento ottantatre.

            Finalmente Innocenzo X nel desiderio di promuovere sempre più il culto verso di questo Santo, ne affidò l'amministrazione ad un cardinale, che ancora oggidì ne porta il titolo, ed ha speciale incumbenza di adoperarsi a promuovere colla massima sollecitudine il decoro di quella chiesa e il culto di questo santo.

 

 

Capo VII. Reliquie di s. Pancrazio in varie chiese della cristianità.

 

            Le grazie che quasi senza numero si ottenevano alla tomba di s. Pancrazio, i {45 [239]} miracoli strepitosi che Iddio operava per intercessione di lui, eccitarono vivo desiderio nel cuore dei cristiani sparsi nelle varie parti del mondo di avere qualche reliquia di quell'eroe cristiano, persuasi che i medesimi favori celesti sarebbonsi anche potuti ottenere altrove qualora si potessero avere alcune sue reliquie; la qual cosa succedette realmente. La maggior parte dei suo corpo si conservò e si conserva tuttora a Roma nella chiesa di cui più volte abbiamo sopra parlato. Il capo di Lui venne trasferito nella Basilica di s. Gioanni in Laterano che è il capo e la madre di tutte le chiese della Cristianità; dove si fa una gran festa ai 12 di maggio.

            Di questa insigne reliquia del capo di s. Pancrazio si racconta che in un incendio, che consumò una gran parte di quella chiesa, sebbene per tre giorni intieri le fiamme abbiano circondato il capo del martire Pancrazio tuttavia si conservò illeso. Dopo tal fatto fu esposta alla venerazione la prodigiosa reliquia con grande solennità, e mentre un canonico circondato da molti lumi teneva elevato quel prezioso deposito esponendolo alla venerazione {46 [240]} dei fedeli, i cantori cantavano alternativamente in latino ed in italiano queste precise parole: il capo di s. Pancrazio martire, da cui usci sangue, mentre questa sacrosanta Basilica si andava consumando dalle fiamme fu serbato illeso.

            Avvi pure un insigne reliquia di s. Pancrazio in Venezia, tenuta in grande venerazione nel monastero delle monache di s. Zaccaria, ed un'altra eziandio nella città di Bologna.

            Anche in Milano avvi un'insigne reliquia di s. Pancrazio. S. Gregorio Magno mandò questa reliquia a s. Fortunato vescovo di questa città, e d'allora in poi ne fu sempre celebrata festa solenne ogni anno ai 12 di maggio.

            Molte reliquie di s. Pancrazio furono trasportate in varie chiese di Francia.

            Un accreditato autore di nome Saussai nel Martirologio gallicano ha queste parole: oggi è il natale di s. Pancrazio martire, di cui alcune reliquie, donateci da papa Pelagio, trasportate in Marsiglia, sono tenute in grande venerazione pei luminosi miracoli che intorno a quelle ogni giorno si vanno operando.

            S. Gregorio vescovo di Tours racconta {47 [241]} il fatto seguente succeduto quando le suddette reliquie erano portate in Marsiglia. «Pelagio sommo Pontefice aveva conceduto una reliquia di questo Santo, e la consegnò in un bellissimo scrigno affidandola ad un Diacono che doveva portarla in Francia. S'imbarcò egli insieme con altri compagni verso Marsiglia con vento favorevole, ma quando furono in alto mare sorse d'improvviso un vento furioso, che li espose ad imminente pericolo di essere sommersi nelle onde: già i marinai avevano perduta ogni speranza di salvezza, i viandanti colle mani levate al cielo invocavano la misericordia divina piangendo la vicina loro morte, quando il pio Diacono tra i gemiti e sospiri alzando verso il cielo le sante reliquie invocò l'aiuto di s. Pancrazio. Nel medesimo momento si sollevò un altro vento contrario che sospinse la nave fuori di pericolo. Intanto, fatte tranquille le onde, ebbero agio di proseguire sicuramente il loro cammino fino al luogo destinato.» De gloria Mart. Capo 83.

            Nell'anno 995 alcune reliquie di s. Pancrazio furono da Roma trasportate nel Belgio nel convento di Gand, per mezzo {48 [242]} di un monaco di nome Andrea Eremboldo, che fu poi abate di quel convento. Ecco come egli fa la relazione di questo fatto. «Andrea abate ad Odovino abate. In nome del Signore. Queste sono le reliquie di s. Pancrazio martire, che Andrea umile abate trasportò da Roma fino al convento del castello di Gand non per danaro, ma per unico motivo di carità verso Dio e di carità verso il prossimo essendo pure a tale oggetto pregato dalla signora Tetta, matrona inglese di grande probità. Aveva essa promesso a noi di far mettere queste reliquie in un luogo sacro dove fossero tenute in grande venerazione da' fedeli e intorno ad esse ogni giorno fosse celebrato gran numero di messe. Così che voi dovete accogliere con grande riverenza e col dovuto onore le reliquie staccate dal sacratissimo corpo del B. Pancrazio; cioè una parte del suo capo, la parte di una costa, ed un osso staccato da una gamba. Vi raccomando poi caldamente che riponiate tali reliquie in luogo sacro, dove ogni giorno e senza interruzione con sacrifizii, inni, e cantici siano onorate. Ma anche noi per amore di lui conserviamo fra noi medesimi la vera fratellanza, e ricordiamoci {49 [243]} l'uno dell'altro nelle nostre orazioni e nel s. sacrifizio della Messa. State bene nel Signore. Vedi Molanus in natalibus Sanctorum. Boll. luogo citato.

            S. Gregorio Magno, come si è detto, nutriva special divozione verso s. Pancrazio; e fra le altre cose aveva fatto edificare un convento nel podere che era stato di proprietà del nostro Santo sul monte Celio. Questo pontefice un giorno vide sulle piazze di Roma alcuni nobili fanciulli inglesi, che erano venduti come schiavi. Commosso egli a tal vista, e pieno di rincrescimento che il vasto paese dell'Inghilterra fosse tuttora sepolto nelle folle tenebre dell'idolatria, determinò di adoperarsi per convertire alla fede quel paese che nutriva così vezzosi e ben fatti giovanetti.

            Mandò egli pertanto s. Agostino (diverso da s. Agostino dottore della Chiesa che visse 100 anni prima) con altri ecclesiastici a predicare colà il vangelo, dando alcune reliquie di s. Pancrazio, quasichè volesse dare un fanciullo per protettore di quella nazione, perchè alcuni fanciulli inglesi, che si vendevano in Roma, erano stati occasione di tale spedizione. {50 [244]}

            Quella predicazione produsse copiosi frutti e s. Agostino dopo aver convertito molti alla fede era giunto al bel momento di purgare un tempio idolatra dalle sozzure dei gentili per consacrarlo al culto cattolico. Ma incontrava gravissime difficoltà da parte del nemico delle anime, e solamente si potè compiere la sacra funzione quando s'invocò la protezione di s. Pancrazio martire e fu deciso di dedicare a lui quella chiesa.

            Allora lo spirito maligno lasciò quella abitazione che continuò ad essere aperta al culto cattolico. Vedi Spelman, pag. 114. Bolland, die 12 maii.

            Altro fatto curioso avvenne in Praga città della Boemia. Fu colà fatto edificare un tempio e dedicato a S. Pancrazio. Sopra quel tempio eravi una campana con cui solevansi invitare i fedeli cristiani ad ascoltare le messe che entro si celebravano con gran frequenza specialmente in suffragio dei defunti che erano sepolti in un cimitero vicino. Avvi questo di memorabile che questa campana suonava da sè ogni qual volta soprastava qualche calamità alla città di Praga. E poichè quel segno straordinario non mancava mai di {51 [245]} presagire qualche funesto avvenimento, gli abitanti della città gli prestavano intera fede. Ma in un'invasione degli Svedesi Praga fu oppressa in mille guise, la città fu saccheggiata, la stessa chiesa di san Pancrazio spianata al suolo, e la prodigiosa campana spezzata e fusa. Vedi Boll. loco citato.

            Le cose che abbiamo finora esposte intorno al culto di s. Pancrazio e intorno alla venerazione delle sue reliquie dimostrano quanto la divozione verso questo Santo sia dilatata nella cristianità; e quali grandi maraviglie Iddio abbia in ogni tempo ed in ogni luogo operato ad intercessione del venerabile suo servo san Pancrazio.

 

 

Capo VIII. Santuario di s. Pancrazio in Lantosca.

 

            Finora abbiamo parlato delle maraviglie operate da s. Pancrazio in paesi a noi remoti, ora veniamo a quelle che furono operate a benefìzio dei nostri paesi. Comincerò dal Santuario di Lantosca. {52 [246]}

            Lantosca è un paese assai popolato, distante circa 18 miglia dalla città di Nizza sul Mediterraneo. Siccome i fatti che colà avvennero e tuttora avvengono sono assai strepitosi, così io esporrò l'atto autentico deposto e segnato da persone degne di fede.

            Secondo questo documento risulta come Monsignor Ponzio vescovo di Nizza informato che una straordinaria affluenza di gente interveniva al Santuario di s. Pancrazio in Lantosca, e come da secoli e secoli si raccontavano cose prodigiose, invitò il sindaco, il segretaro, i membri del Municipio insieme con altre persone per età, moralità e saviezza ragguardevoli, e dando loro preventivo avviso di che si trattava, raccomandò loro di esporre conscienziosamente la verità di quanto sapevano intorno alla fondazione di quella chiesa e delle cose niaravigliose che ivi di continuo si raccontavano avvenute.

            Questa deposizione mi pare di grave importanza epperciò degna di essere conosciuta dal lettore. Eccone la traduzione dal latino come trovasi presso ai Bollandisti al giorno 12 di maggio.

            Premesse molte formalità si passa al fatto che viene deposto così: {53 [247]}

            «Per secondare la volontà del Rever. Vescovo, i Sindaci, i membri del Municipio ed altri ragguardevoli personaggi (ivi è esposta la serie dei nomi), i quali tutti toccano l'età chi di 90, chi di 80, altri di 60 anni, in presenza del nostro segretario sottoscritto e di molti altri di simile età, avvisati di esporre la pura e sincera verità; attestarono e deposero concordemente essere vero che hanno udito dai loro antenati siccome noi abbiamo udito dai nostri medesimi genitori quando vivevano, quanto segue: la prima occasione di fabbricare questa chiesa fu data da un sacerdote, il quale venendo dalle parti d'Oriente portava seco alcune reliquie. Giunto egli al luogo ove presentemente esiste la chiesa, quelle reliquie si mossero, e gli sfuggirono dalle mani; cosicchè fu costretto di ritornare in Lantosca, e manifestare ciò che gli era accaduto.

            «I sacerdoti di questo paese, si recarono sul luogo e colla debita riverenza avendo accolto quelle reliquie, e di più avendo inteso che erano portate da Roma, e staccate dal corpo del glorioso S. Pancrazio, la comunità fece edificare in onore di lui una chiesetta che in progresso di {54 [248]} tempo fu accresciuta ed ornata, e finalmente ai nostri giorni parte per liberali largizioni del medesimo municipio e delle persone private, parte colle limosine dei pellegrini, e di altri che di lontani paesi vengono qui, giunse a tale bellezza ed ampiezza, che forma l'ammirazione di chi la visita, con grande vantaggio spirituale e temporale dei ricchi, dei poveri e degli orfani.

            «Aggiungono inoltre che ad intercessione del medesimo Santo si fecero e si fanno quasi infiniti miracoli rendendo la sanità a coloro che per cagione delle loro malattie venivano a visitare la chiesa mentovata. Ai medesimi nostri tempi accadde che certa donna Grasenois la quale era rimasta immobile in tutta la persona, trasportata quivi e compiuta la sua divozione ritornò a casa guarita. Parimenti nell'anno 1560 un fanciullo di Torre, il quale non poteva nè camminare, nè parlare, essendo stato qui portato dai suoi parenti, e fatta da loro orazione ai piedi dell'altare del Santo, si alzò immediatamente sopra i suoi piedi, camminò e disse: pa, ma. I quali pieni di maraviglia e di allegrezza lodarono Iddio rendendo grazie a Lui ed al glorioso {55 [249]} Santo, per la cui intercessione avevano ottenuta tal grazia.

            «Quel fanciullo era in età di circa 12 anni. Il fatto succedette in presenza di più centinaia di persone, ed in presenza del sottoscritto notaro il quale allora serviva la messa di un suo fratello sacerdote.

            «Sono circa 18 anni che dal suo marito fu condotta qui una donna sopra un cavallo dal luogo di s. Martino nella seconda festa di Pasqua. Quella donna nella domenica seguente ritornò a casa a piedi, mentre nella prima volta ricuperò la facoltà di camminare e nella seconda volta la facoltà di parlare, la qual facoltà da cinque anni aveva intieramente perduta per cagione di una malattia. L'uno e l'altro fatto avvenne in presenza di migliaia di persone.

            «Altro cittadino di Nizza venendo di città e strascinandosi coi piedi e colle mani, ritornò sano e diritto nella persona, dopo di aver quivi compiuta la sua divozione.

            «Similmente un magistrato di nome Capello Petronio, da alcuni anni tenuto in letto da una infermità che gli cagionava acutissimi dolori, acquistò perfetta guarigione appena incominciò a fare quivi una {56 [250]} novena, secondochè ne era stato consigliato. Noi abbiamo udito tali cose da lui medesimo che soleva raccontarle pubblicamente, quando si trovava in Lantosca.

            «Similmente or sono due anni fu guarito il figlio di certo Domenico Provinciale, che era albergatore in Nizza. Egli non poteva nè parlare, nè camminare. Ma appena venne in questa chiesa condotto sopra un cavallo da' suoi parenti, rimase guarito, e andò liberamente a casa sua.»

            «Si legge eziandio essere stato operato un altro gran miracolo a favore di alcuni marinai che erano in imminente pericolo di essere sommersi nel mare. Invocato il glorioso santo Pancrazio furono salvi, e in segno della loro gratitudine verso il santo offerirono un quadro che è tuttora testimonio della grazia ricevuta.

            «Tralasciamo moltissimi altri favori, miracoli, e benefizi ricevuti in questo luogo, di cui vi sono sicuri testimoni, accenneremo ancora alcuni esempi di vendetta divina, ivi pure occorsi.

            «Primieramente è notevole quello che riguarda ad un negoziante che passò di queste parti per andare con un giumento ad Utella. Egli tolse un bastone da questa {57 [251]} chiesa e continuando il suo cammino, era giunto sopra il colle Picaio. Di là rivolto a questa medesima chiesa gli si contorse la faccia e rimase rivolta verso la schiena senza potere nè andare avanti, nè ritornare indietro. Avendo di poi riconosciuta la sua colpa e dimandandone perdono, promise che qualunque volta fosse per lo avvenire passato in quelle parti per vendere olio in Lantosca, ne avrebbe donata una misura alla chiesa. In quel momento il suo volto ritornò nello stato di prima.

            «Non fuggirono la punizione del cielo alcuni soldati nell'anno 1542, quando Nizza era assediata dai Turchi. Costoro passando qui vicino avevano rubato le lampade e le candele di cera di questa chiesa, ma nell'alto che traghettavano il fiume Varo, furono tutti sommersi nell'acqua, siccome raccontarono altri soldati che erano stati testimoni oculari del fatto. Tralasciamo moltissime altre cose per parlare delle medesime reliquie.

            «Per fare adunque ritorno alle sante reliquie, i signori parroci, sindaci ed altri ragguardevoli personaggi di Lantosca, non avendo mai per lo innanzi fatta alcuna indagine a questo riguardo, pochi anni {58 [252]} addietro determinarono di adoperarsi per avere notizie sicure intorno alle medesime. Frugando adunque nell'altare maggiore di questa chiesa, vennero a scoprire nel mezzo dell'altare una certa cavità sotto alla pietra, ed in quella una teca bianca che sembrava di marmo, e dentro a quella una pisside di legno. Allora fatti accendere i lumi, il priore ricevendola colla massima riverenza, ed aprendola ritrovò cinque parti di ossa, che sembravano essere di braccia e di mani.

            «Il municipio comandò che quelle reliquie venissero riposte in un reliquiario d'argento fatto in forma di braccio e di mano. Pel qual fatto viepiù crebbe e cresce la divozione di s. Pancrazio. Nel 12 di maggio e nella seconda festa di Pasqua e di Pentecoste si fa una processione, durante la quale queste sante reliquie sono esposte alla pubblica venerazione.

            «Dalla mentovata festa di Pasqua fino al giorno otto di settembre, in cui si celebra la nascita della Beata Vergine, si può dire che avvi una continua processione di forestieri di ogni condizione che da tutte parti vengono a questo santuario. Questa chiesa è ottimamente amministrata, {59 [253]} e tutti i buoni e fedeli cristiani l'hanno in grande venerazione. E poichè queste cose sono la pura e schietta verità, siccome di sopra si è detto, raccontato e deposto, io Nicolao Taoni, Balivo Ducali di Lantosca, a richiesta dei signori sindaci, per mano del segretario mio proprio e della comunità, mando agli scritti le presenti lettere testimoniali.

            «Dato in Lantosca 21 novembre 1588.»

            Ho giudicato bene di riferire questo atto autentico che rende pubblica e certa testimonianza delle maraviglie del nostro glorioso Martire operate in Lantosca. Ma la maraviglia più grande si è, che le grazie continuano a concedersi in abbondanza in quel medesimo santuario, e i miracoli strepitosi, che tuttora si vanno operando, attraggono di continuo gente da tutte parti che va a quel santuario come ad una vera sorgente di celesti favori e di benedizioni. {60 [254]}

 

 

Appendice sul santuario di S. Pancrazio vicino a Pianezza.

 

Capo I. Racconto storico di questo Santuario.

 

            Il culto che in tanti luoghi della cristianità si rende al glorioso martire san Pancrazio, le grazie straordinarie che ovunque si ottengono a sua intercessione servono a rendere credibili le cose che si raccontano avvenute in un santuario a lui dedicato in vicinanza di Pianezza. Questo santuario è distante circa cinque miglia da Torino camminando dà porta Susa verso Rivoli, e mezzo miglio al di là di Pianezza in un borgo chiamato col nome del nostro santo; e conta l'esistenza di oltre quattrocento anni.

            Io te ne espongo, o lettor cristiano, l'origine tale e quale ci viene testificata dalla tradizione di quattro secoli, che viva {61 [255]} tuttora si conserva presso agli abitanti di quel borgo, e dell'intero paese di Pianezza; come è testificata dai quadri, dalle antiche iscrizioni che la confermano, e dai documenti stampati e manoscritti che tuttora si conservano. Tutte le notizie ricavate da questi tre fonti storici convengono nel seguente racconto[4].

            L'anno mille quattrocento cinquanta, il dodici di maggio, certo Andrea Casella era applicato a segare l'erba in un suo praticello. Venuta l'ora del pranzo sua moglie portavagli quel ristoro che allo stato di contadino si conveniva. Giunta costei in vicinanza del marito e vedendolo tutto intento ai lavoro, non ardiva disturbarlo; ma accostatasi da un lato stava osservando con quanto grande gusto il marito attendesse al faticoso suo impiego. Il marito senza accorgersi che la moglie era a lui vicina, stendendo inconsideratamente il braccio, coll'affilata falce le troncò intieramente la gamba sinistra.

            La meschina cadde tutto ad un tratto a terra, ed il marito accortosi del colpo inconsiderato, mischiava le proprie lacrime {62 [256]} col sangue della moglie. Uno era fuori di sè per l'affanno, l'altra cominciava a provare le angustie di morte, quando si videro comparire innanzi in sembiante militare, un leggiadrissimo giovine che alla serenità del volto, e allo splendore, de' suoi abiti si poteva credere disceso dal cielo per loro soccorso. Egli era pieno di grazia e di candore; palesava l'età di circa quattordici anni. Era di statura e di forme eleganti, di complessione forte e robusta.

            Il verecondo suo aspetto, la fronte spaziosa, sopra cui ondeggiavano biondi ed inannellati capelli, lasciavano trasparire uno splendore abbagliante. L'abito suo era una pretesta, ossia una veste che gli giungeva fino sotto ai ginocchi; ed una bulla, ovvero globetto d'oro, gli pendeva dal collo. Egli in amabili e dolci maniere si fa vicino all'addolorato marito ed alla agonizzante moglie, e dimostrando di prendere parte alla loro disgrazia, assicurò il Casella che qualora facessero voto di fabbricare quivi un pilastro o cappelletta in onore di s. Pancrazio martire; (la cui memoria era onorata in quel giorno da santa Chiesa), e insieme promettessero di festeggiarlo ogni anno, conseguirebbe la {63 [257]} disperata salute della moglie. Ciò detto disparve.

            Il povero contadino, che mai in vita sua era stato testimonio di cose soprannaturali, rimase spaventato; e col cuore pieno di consolazione e nel tempo stesso confuso, si accostò all'orecchio della moglie quasi agonizzante, e fortemente gridò: su via, moglie, tu sei sana, se al glorioso s. Pancrazio martire fai voto ... Non potè più oltre parlare l'affannato marito, e la moglie sforzandosi con le tremole labbra di far eco agli ultimi accenti del marito: fate pur volo, rispose. In quel medesimo istante il piede tagliato si riunì alla gamba, che rimase consolidata e senza piaga alcuna.

            Ma spesso avviene che gli uomini promettano a Dio quando si trovano in bisogno, e poi facendo poco conto dei favori ricevuti, dimenticano il supremo loro benefattore.

            Così fu in questo caso: fosse per povertà o per avarizia il Casella trascurò di costruire il pilastro alla cui costruzione erasi con voto obbligato. L'anno seguente (mille quattrocento cinquant'uno) il giorno stesso, l'ora medesima in cui erate stato concesso {64 [258]} il favore, si sentì in un momento con dolor incredibile disgiungere la gamba.

            Sbalordito il buon contadino ricorse al parroco, il quale con altra gente si recò colà a fine di essere testimonio del fatto, ed esorlò il Casella a rinnovare solennemente il volo e di essere più fedele alle promesse fatte a s. Pancrazio, che gli aveva ottenuto dal cielo un favore così segnalato.

            Rinnovato il voto ottenne di nuovo la grazia e la mortale ferita apparve intieramente sanata.

            Un curioso incidente avvenne nella costruzione di quel pilastro. Il buon contadino, certamente per illusione diabolica, nel timore che se avesse fatto fare quel pilastro a s. Pancrazio, nel celebrare la festa ogni anno in tempo che l'erba può essere danneggiata, egli ne avrebbe riportato notevolissimo danno, deliberò di fabbricarlo sulla strada vicina al suo podere. Ma che possono mai valere gli umani disegni quando non sono conformi al volere del cielo? Tutto ciò che si fabbricava di giorno nella strada, di notte tempo era trasportato in mezzo al podere e propriamente in quel luogo, dove era accaduto il fatto sopra riferito. {65 [259]}

            Ognuno può immaginarsi qual concorso di gente traesse la novità di questi insoliti prodigi! Fin d'allora cominciarono a correre da tutte le parti, come si fa ancora oggidì, e paesani e stranieri, per modo che nei giorni antecedenti e consecutivi al 12 maggio, i forestieri fabbricano città portatili, poichè nel seno di verdi prati, in un istante fanno nascere mille mobili case. Nella vigilia poi della sua festività una folla immensa di divoti cristiani accorrono colà, dormendo a cielo scoperto o passando vigilanti la notte per secondare gl'impulsi della loro divozione e ottenere da s. Pancrazio le grazie che loro fanno bisogno.

            Intorno a quel pilastro fu di poi edificata una chiesetta che per lo spazio di circa dugento anni veniva affidata ad un romito, che ne aveva cura; ed il parroco di Pianezza ne faceva le sacre funzioni in occasione di solennità. Ma il continuo concorso che i fedeli spesso ivi facevano in rendimento di grazie pei favori da Dio ricevuti, e la protezione speciale che ne presero i doviziosi marchesi di Pianezza accrebbero e la chiesa e i locali vicini a segno che nell'anno 1648 il pilastro del Casella era {66 [260]} divenuto un vero santuario circondato di case ed affidato ad una famiglia di monaci Agostiniani. Chi volesse tessere la serie delle maraviglie operate da s. Pancrazio in questo luogo, e riferire ad uno ad uno gli infermi guariti, gl'invasi dallo spirito maligno liberati, i sordi che acquistarono l'udito, i ciechi che ricuperarono la vista, i muti che ritornarono a parlare speditamente, le febbri scacciate, gli storpii raddrizzati, se ne dovrebbero fare parecchi volumi.

            Io mi limito solamente a riferirne alcuni, invitando chi ne desiderasse di più, di leggere il citato libro Delle maraviglie di s. Pancrazio, o di recarsi a questo santuario, dove potrebbe vedere coi propri occhi testimonianze certe intorno alle cose che quivi per brevità sono ommesse oppure soltanto accennate. {67 [261]}

 

 

Capo II. I Reali di Savoia. Le Compagnie di Pianezza e di Druent al Santuario di s. Pancrazio. Energumeni liberati, storpi guariti ed altre maraviglie ivi operate.

 

            Non solamente gente volgare o di poca istruzione corse a questo santuario come a fonte di grazie o di favori; ma persone commendevolissime per dignità, pietà e dottrina.

            La regina di Sardegna, Cristina di Francia, soleva recarsi a questo santuario con suo figlio Carlo Emanuele e coi principali signori di corte, ed assicurò che tutte le grazie che dimandò a Dio per intercessione di quel santo tutte le ottenne. Dopo di lei continuarono i reali di Savoia, i grandi di corte a recarsi spesso a visitare quel santuario, cui intervenivano fedeli ora in privato, ora in pubblica processione.

            L'anno mille seicento quarantotto, alli diciannove di aprile, essendo intervenute {68 [262]} processionalmente alla chiesa del santo, come solevasi fare ogni anno, per nove giorni la compagnia di Pianezza e quella di Druent, avvenne che la chiesa rimase piena di gente divota, sicchè le compagnie non vi potevano nemmen più entrare. Uno di quei religiosi, di nome padre Domenico, salì in pulpito per trattenere quell'adunanza coll'esposizione della parola di Dio. In quel momento sentironsi per aria canti soavissimi, che parevano ogni momento accostarsi vieppiù alla chiesa. Per la qual cosa rivolgendosi indietro parte dell udienza e parte restringendosi per dare luogo alle genti che supponevansi venire, il buon padre terminò il suo ragionamento con dire: «è bene che io tronchi il filo del mio discorso acciocchè parte di voi uscendo, doni luogo a così devoto concorso.» Discese il padre dal pulpito, usci con molti altri di chiesa per dar orecchio a quei canti armoniosi, ma non vedendo mai alcuno e sentendo sempre i medesimi cantici conchiusero con dire: è questa una armonia celeste.

            L'aiuto celeste di s. Pancrazio fu provato efficace in tutte le necessità della vita. L'anno 1652, certa Giovanna Vacara {69 [263]} di Rivoli, per motivo di parto era per tramandare l'ultimo respiro. Mentre era travagliata da mortali angustie pensò di ricorrere a s. Pancrazio promettendo con voto di dare il nome di Pancrazio se avesse avuto un figlio, e di Maria ove fosse una figlia. Appena fatto il voto fu libera interamente dai mali che la privavano di respiro, e nel battesimo quel ragazzo fu in particolar maniera consacrato a s. Pancrazio chiamandolo con tal nome.

            La protezione del nostro santo fu provata in parlicolar maniera efficace verso gli energumeni, cioè verso di quelli che sono travagliati dallo spirito diabolico.

            L'anno 1562 il 12 di maggio, un certo Michele nativo di Arvio nella Savoia, era da molti anni tormentato orribilmente da spiriti maligni. Pareva che in lui abitasse una legione di demonii, che lo agitassero come quell'energumeno di cui si parla nel vangelo, il quale talvolta era portato nell'acqua, nel fuoco, sopra i tetti delle case e sopra le montagne senza che alcuno il potesse rattenere. Essendo riusciti vani tutti gli altri rimedii, mosso dalla fama e dal gran numero di maraviglie che udiva operarsi da s. Pancrazio di Pianezza, {70 [264]} in momento che egli era pienamente consapevole di se stesso, fece voto di venire in persona a questo santuario, onde essere da Dio liberato da quegli spiriti che lo tiranneggiavano. Egli venne diffatto, e mentre pregava in presenza di una folla di popolo, tra urli e strida terribili, quegli spiriti maligni l'abbandonarono.

            Se ti accadesse, o lettore, di andare a quel santuario, al lato destro della cappella interna, vedrai un gran quadro che rappresenta tal fatto, in fondo a cui avvi un'iscrizione latina che viene a significare quanto segue:

 

            L'ANNO 1562 IL 12 DI MAGGIO

            MICHELE, NATIVO DI ARVIO

            CASTELLO DI SAVOIA, DIOCESI DI S. GIOVANNI

            DI MORIANA

            MENTRE ERA TERRIBILMENTE TRAVAGLIATO

            DAL DEMONIO

            QUIVI PREGANDO ALLA PRESENZA

            D'IMMENSO POPOLO

            PER INTERCESSIONE DI S. PANCRAZIO

            FU LIBERATO DALLA SUA INFERMITÀ.

 

            Il Dottore Francesco Arpino, medico della corte del re di Sardegna, aveva un suo figliuolo d'anni tre così rilassato di {71 [265]} nervi che non poteva camminare. I pii genitori lo votarono al nostro Santo e in breve gli ottennero l'intiera e perfetta sanità.

            Che mai dirò degli storpii guariti, che si possono dire senza numero! Lodovico Rossano era da molti anni zoppo ed impotente a camminare, tuttavia si risolse di andare al tempio di s. Pancrazio. Trascinatosi colà al meglio che potè co' suoi genitori fece voto di far questo viaggio ogni anno sino alla morte; subito ne riportò l'effetto della grazia desiderata. Il che avveniva il 12 di maggio l'anno 1649. Il buon ragazzo lasciando le stampelle nella chiesa se ne ritornò alla casa paterna con massima ammirazione e contentezza di lui e de' suoi genitori.

            L'anno 1650 nello stesso giorno della festa del nostro Santo ottenne eziandio una grazia segnalata la figliuola di certo Giovanni Costa, che già da molto tempo nelle braccia e nelle coscie era tutta raggruppata. Essendo stata condotta nella chiesa del Santo, ricuperò la desiderata sanità, e rimase disposta della sua persona, come se mai avesse patito verun male. {72 [266]}

 

 

Capo III. Rotture, piaghe, ernie, febbri maligne, elisie guarite per intercessione del Santo.

 

            Grazie di altro genere, ma sempre dirette a procacciare beni al prossimo, o a tenere da noi lontano qualche male, sono le seguenti che noi in parte andremo esponendo.

            L'anno 1652 certo Antonio Folea, cocchiere di corte, il 4 di luglio disponevasi per un viaggio secondochè gli era stato ordinato. Sferzando egli di troppo i cavalli, li spinse a corso così precipitoso, che traviando dalla strada, trassero la carrozza in luogo dove a caso trovavasi il figliuolo del cocchiere medesimo, in età di anni 9. Il misero fanciullo non solo fu dai destrieri calpestato, ma due ruote della carrozza passarono sopra di lui, senzachè il padre potesse per poco impedire il sinistro accidente. Corsa precipitosa la madre prende il figlio tra le braccia e con indicibile suo dolore si accorge che le coscie {73 [267]} erano state rotte in quattro parti; e tutta la vita contusa e sfracellata per modo, che il suo fanciullo pareva al punto di tramandare l'ultimo respiro. Quella madre cristiana, certamente inspirata da Dio, s. Pancrazio, si fece a gridare, venite in mio soccorso e salvate mio figlio. Maraviglia a dirsi! si vide rinvigorirsi lo spirito del fanciullo quasi morto, e in poco tempo fu restituito alla primiera sanità, come se non avesse mai in dette parti patito lesione alcuna.

            Gioanni Ballista Foassa di Chieri l'anno 1647 provò egli pure la protezione di san Pancrazio. Era egli salito sopra di un'alta scala, quando essendosi scossa quella, egli medesimo piombò a rompicollo a terra, sicchè rimase quasi tutto pesto nella persona. Fu portato a letto, ed esaminandosi dai chirurghi le parti offese, non sapevasi dove incominciare o dove finire la cura; a segno che da tutti gli astanti fu compianto come morto. Egli solo incoraggito dalle grazie che altri avevano ricevuto da s. Pancrazio, pose a parte ogni umano rimedio e a lui solo si raccomandò. La protezione del Santo fu per lui larga ed efficace; immediatamente si mitigarono i dolori, e saldate le {74 [268]} piaghe, e restituite le rotture nello stato di perfetta sanità potè tosto ripigliare le sue primiere occupazioni.

            L'anno medesimo nelle feste Pasquali certo Costanzo Gandolfo di S. Michele dopo avere adoperati quanti rimedii furongli suggeriti per curarsi da una piaga che da molti anni portava in una gamba, vedendo che tutto riusciva invano, ed il male erasi inoltrato orrìbilmente, gli fu perultimo proposta l'ampulazione della parte. Consultatosi con varii periti dell'arte e dandosi da tutti disperata la guarigione era quasi risoluto di sottoporsi all'atrocità del rimedio proposto. Quando gli nacque in cuore un pensiero di confidenza in Dio e nel maraviglioso s. Pancrazio. Raccomandandosi a Lui fece voto di portargli una gamba di cera appena guarito, e ne ottenne la grazia: poichè l'infracidita piaga tra poco si saldò e il giorno della festa del Santo potè venire a compiere il suo volo e raccontare ai religiosi di quel convento le maraviglie, che eransi in lui operate.

            La malattia dell'ernia, male pericoloso, di difficile guarigione, e che talvolta produce funeste conseguenze, fu pure oggetto delle maraviglie del nostro Santo. Secondo {75 [269]} ed Ortensia Bussi di Torino ebbero un figliuolo che dalla nascita portava seco un'ernia, a cui eransi inutilmente applicati varii rimedii. Ebbero un altro ragazzo, e andò soggetto al medesimo male. Quei buoni genitori erano sommamente addolorati al vedere i loro due figliuoletti con tale indisposizione, che per certo li avrebbe condotti in età immatura alla tomba. Delusi dalle speranze umane ricorsero ai favori del cielo. Ricorriamo, dicevano tra di loro, ricorriamo a Dio, mondiamo la nostra coscienza, andiamo ai piedi del confessore, e chi sa che sciogliendoci dai legami delle colpe e armandoci della s. Comunione non otteniamo da Dio ciò che non possiamo ottenere dagli uomini? facciamo voto di portarci ambidue alla chiesa di san Pancrazio.

            Pertanto l'anno 1649 il giorno festivo del Santo giunsero coi loro indisposti figliuoli al Santuario, pieni di quella fede che muove il cuore di Dio a concedere i suoi favori. Mentre stavano ascoltando la santa Messa, sul far del giorno, raccomandando i lor miseri fanciulli al glorioso Santo, volsero lo sguardo, e con maraviglia li videro, che colle legature tra {76 [270]} le mani andavano scorrazzando vicino all'altare del Santo, quasicchè coi loro innocenti trastulli rendessero grazie a Dio e a s. Pancrazio per la compiuta guarigione che avevano ottenuto.

            Certo Domenico ed Anna Verani avevano un figliuolo da sei anni infermo e già pervenuto ad una irrimediabile etisia e consunzione. Egli era così estenuato dal male che pareva un sacco di ossa. Dopo di aver esauriti tutti i mezzi umani, i buoni genitori ricorsero al Gran Medico del Cielo facendo voto di portare il meschino ragazzo al tempio di s. Pancrazio. Giunsero colà il 12 di maggio 1650, ed ebbero la consolazione di ottenere dalla divina misericordia per l'intercessione del nostro Santo la guarigione del loro figlio, il quale fece ritorno a casa totalmente guarito.

            Il medesimo favore provarono Andrea e Catterina Ficcardi di Torino nella persona del loro figliuolo di nome Pietro. L'anno 1652 egli divenne infermo di febbre maligna con delirio e frenesia. Si provarono medici e medicine d'ogni genere senza alcun risultato: il giovinetto era per tramandare l'ultimo respiro.

            In quello estremo, essendo la vigilia di {77 [271]} s. Pancrazio, que' genitori fecero ricorso al Santo con fervore di spirito, e come ebbero compiuta la loro preghiera, il figlio riacquistò la cognizione, si estinsero le fiamme febbrili, e ne rimase intieramente guarito.

 

 

Capo IV. Paralitici, ciechi, sordo-muti ed altri mali guariti ad intercessione del Santo.

 

            Per accrescere sempre più la confidenza in s. Pancrazio nei varii bisogni della vita aggiungo ancora qui alcuni prodigiosi avvenimenti. Comincerò dal caso strano di un paralitico risanato l'anno 1561. Era esso un tedesco di nome Cristoforo Eerta della guardia reale, cui l'essersi dato smoderatamente al bere cagionò un colpo di paralisia che lo rese del tutto immobile. Riuscì vana ogni arte dei medici. Da otto settimane era come inchiodato in un letto. Allora quel militare cristiano, riputando essere i suoi peccati la cagione principale della malattia, pensò di purificare la sua coscienza e promettere a san Pancrazio di fare al più presto possibile una {78 [272]} buona confessione. E ciò bastò perchè fosse risanato. Poco dopo potè venire in persona a rendere grazie al Santo suo liberatore.

            Ma che dirò di tanti ciechi che per intercessione del nostro Santo ottennero maravigliosamente la vista? di tanti muti che acquistarono la loquela, di tanti sordi, che ricuperarono l'udito? Si possono ben con ragione applicare al nostro Santo le parole del Vangelo: coeci vident, claudi ambulant, muti loquuntur. Ne andrò solo accennando alcuni fatti. Una fanciulla di Rivoli era giunta all'età di anni otto cieca d'ambi gli occhi. L'anno 1612 essendo stata condotta con gran confidenza al nostro Santo, mentre in compagnia di molte divote persone assisteva al santo sacrifizio della Messa, le si aprirono gli occhi, e con indicibile contento vide per la prima volta la luce del giorno, e il primo oggetto che potè rimirare fu il glorioso s. Pancrazio, per la cui intercessione aveva acquistata la vista.

            Io, depone certo Vachero di Pianezza, io sono in obbligo di impiegare la mia lingua a pubblicare le maraviglie di san Pancrazio, giacchè per opera sua la snodai {79 [273]} da quei legami che la tenevano impedita e non mi permettevano di poter articolare neppure una parola. Misero mei che avrei fatto senza l'aiuto di s. Pancrazio. L'anno 1615 in occasione di grave malattia la mia lingua rimase arida ed i miei piedi immobili. Mi venne in pensiero di farmi portare alla chiesa di questo Santo con voto di far ivi ad onor suo celebrare una messa. Il che avendo adempiuto, appena il sacerdote giunse all'elevazione dell'Ostia io snodai la lingua, e finita l'elevazione del calice, mi alzai in piedi, e potei parlare spedito come se non avessi mai patito indisposizione alcuna.

            Certo Carlo Spatorno, che fu poi rinomato presso alla Real Corte, all'età di anni 12, trastullandosi con alcune monete affidategli dalla genitrice, ne inghiottì una. Il misero giovinetto soffocato così nella gola si dibatteva e si agitava qua e là senza poter profferire parola. Agli strepiti del figlio corse tostamente la madre, sollevò da terra il figlio languente, ma si accorse che egli era all'estremo della vita, essendogli interamente soffocato il respiro. Quella madre cristiana istruita delle verità del Vangelo, che ci assicurano venire {80 [274]} Iddio in aiuto di chi lo invoca con fede, alzando le mani al cielo, invocò fortemente l'aiuto del glorioso s. Pancrazio. Al profferire tal nome l'agonizzante fanciullo diede in un vomito veemente, e rigettò la soffocante moneta. In quel momento cessando gli strepiti rimase guarito e potè prendere placido sonno. La madre riconoscente adempì il voto che aveva fatto al Santo, e fra le altre cose portò all'altare di Lui la micidial moneta.

            Succedeva questo fatto l'anno 1655 nella città di Torino.

 

 

Capo V. Fatti contemporanei.

 

            Nel parlare delle maraviglie di s. Pancrazio mi sono specialmente tenuto ai fatti antichi come quelli di cui si può parlare più liberamente e di cui mi parvero più sicuri i documenti. Ciò non ostante attesa l'autorità delle persone che mi somministrano gli scritti, la pubblicità dei fatti, l'unanime e costante asserzione dei testimonii oculari, e di quelli stessi che furono. {81 [275]} l'oggetto delle maraviglie mi persuadono a riferirne alcuni dei più recenti.

            Una giovane donna di Savoia[5] era tiranneggiata da sì terribile malore che pareva da forza incognita trascinata a stranezze inudite. Ora giaceva a letto, ora si alzava e fuggiva di casa. Notte e giorno per lei era lo stesso. Alle volte si immergeva nell'acqua; talvolta si precipitava giù dalle finestre; correva, smaniava, infuriava, e ci volevano parecchie persone a trattenerla. Suo marito e gli altri parenti dopo averle invano prodigate tutte le cure ed i rimedii umani, risolsero di ricorrere all'aiuto del cielo e condurre l'inferma al Santuario di S. Pancrazio. Compierono quel luogo viaggio che per loro fu penosissimo.

            Quelli che la videro giugnere al Santuario asseriscono, che pareva avere indosso tutti i demoni d'inferno, e ci volle la forza di parecchi uomini robusti per poterla introdurre nel Santuario. Entrata e condotta all'altare del Santo, dopo breve preghiera apparve interamente guarita. Ma la sua lunga malattia l'aveva per modo estenuata, {82 [276]} che sebbene sia di qui partita sana di mente, rimase sfinita di forze.

            Ritornò poco dopo per ringraziare il suo celeste benefattore: e ritornò in perfetto stato di salute. Ella si presentò agli abitanti di questo borgo e disse loro: Eccomi: non mi conoscete più? No, risposero, non ci sovviene di avervi veduta. L'altra soggiunse: io sono quella sgraziata, condotta poco fa a questo Santuario, quella che sembrava una furia d'inferno. Ora sono perfettamente guarita di mente e di corpo, e sono venuta qua per dimostrare la mia riconoscenza a voi della bontà che mi avete usata in quella occasione, e per rendere umili ringraziamenti al glorioso s. Pancrazio da cui riconosco il benefizio di mia guarigione. Sia ringrazialo Iddio, sia benedetto s. Pancrazio, siate voi benedetti ora e sempre.

            Altro fatto espongo tale quale è riferito da chi ne fu testimonio di veduta. Io Pelino Giovanni ad onore della verità, a maggior gloria di Dio e di s. Pancrazio asserisco quanto segue: Mentre era dinanzi al Santuario con alcuni amici, vidi giungere un ammalato condotto sopra un carrettone proveniente dalla città, di Genova. Sette {83 [277]} persone lo accompagnavano, così esigeva la frenetica sua malattia. Malgrado la forza dei sette uomini forti e robusti, giunto innanzi alla porta della chiesa non fu più possibile farlo progredire un passo. Allora io ed altri miei compagni ci siamo uniti ai suddetti e come se avessimo da trasportare un lupo arrabbiato a viva forza l'abbiamo portato in chiesa.

            Tanto si dibatteva e si divincolava, che noi andavamo dicendo: costui è veramente un indemoniato.

            Ma che? portato avanti all'altare del Santo, fatta dal Sacerdote e dagli astanti breve preghiera, in pochi minuti apparve guarito; sicchè niuno più si accorgeva che fosse quello di prima. Uscì poscia da sè dalla chiesa, e ristoratosi alquanto in un vicino albergo, rientrò in chiesa per ringraziare nuovamente colui che dal cielo gli aveva ottenuta la guarigione di una così terribile infermità.

            Circa due mesi dopoegli ritornò per adempiere la promessa che aveva fatta al Santo, e gli portò un cuore d'argento indorato con altri doni del valore di oltre franchi 100. - Egli trovavasi tuttora nello stato di floridissima salute. Questo fatto avveniva nel 1826. {84 [278]}

            L'anno 1815 in Rivoli il giorno del Corpus Domini era morto il Sacerdote D. Glionetti. Mentre gli si suonava il transito, un ragazzo di nome Giovanni Casale, figlio del Sacrestano di s. Martino, non si sa se per isbadataggine del ragazzo, o per un urto della campana, fatto sta che egli cadde dalla sommità del campanile. Alla vista di così tristo spettacolo corrono parecchie persone ansiose di poter recare qualche soccorso al misero giovanetto; ma lo trovano quasi senza respiro e simile ad un morto. Lo portano in braccio alla madre, che a sì fiera vista cadde svenuta. Come ritornò in sè, alzò gli occhi al cielo esclamando: S. Pancrazio, s. Pancrazio, vi raccomando mio figlio, usatemi pietà. Intanto giunge il chirurgo a fine di far prova dell'arte sua. Si avvicina al letto in cui era stato riposto l'agonizzante fanciullo, e con universale sorpresa lo trova privo d'ogni male. La madre riconoscente diede ordine che fosse fatto un quadro che in modo commovente rappresenta il fatto, e tal quadro conservasi tuttora nella chiesa del Santuario. Questo racconto mi fu esposto con unanimità di parole e di sentimento da molte persone che tuttora {85 [279]} vivono e sono state testimoni del fatto; e fra gli altri un fratello del giovanetto Giovanni Casale.

            Un fatto che a mio credere può dar peso alle maraviglie che si raccontano avvenute in questo Santuario è il seguente.

            Otto anni sono, mentre alcuni distaccamenti di artiglieria trovavansi di stazione nei varii casolari situati attorno al Santuario, gli ufficiali di questo corpo, in numero di dodici circa, mossi piuttosto da curiosità che da divozione si portarono colà alla vigilia della festa. Era loro intenzione di verificare coi loro occhi le molte cose che udivano dire operarsi da s. Pancrazio in quella notte. Per vedere ogni cosa si mischiarono colla folla della gente accorsa, e passarono la intera notte ora in chieda, ora fuori di chiesa. Tutto osservarono, tutto vollero vedere. Ma ad una cert'ora della notte, alla vista delle grazie che in più lati miravano operarsi rimasero sbalorditi; ed una persona che trovavasi seco loro li ha ripetutamente uditi a dire: E vero quanto abbiamo inteso raccontare di s. Pancrazio, e commossi non potevano trattenere le lacrime.

            Questo fatto mi pare di grave peso, {86 [280]} avuto riguardo alle persone che lo depongono; perciocchè i militari e specialmente ufficiali, non sono certamente facili a credere a miracoli, se non ne fossero mossi dalla stessa evidenza.

 

 

Capo VI. Stato attuale di questo Santuario.

 

            Prima di por fine al racconto delle maraviglie da Dio operate ad intercessione di s. Pancrazio credo far cosa grata al lettore col dare un cenno sullo stato attuale di questo Santuario.

            Giugnendo colà ti si presenta alla vista una chiesa abbastanza bella per darli una idea esservi qualche grave motivo che in tante guise e da tante parti attrae genti di ogni condizione. Da una iscrizione scolpita sull'alto della facciata apparisce come gli Agostiniani andarono al possesso di questa chiesa nel 1647 e la arricchirono di molti ornamenti.

            Nell'anno 1771 i medesimi Padri ristorarono il fabbricato annesso e la medesima chiesa che continuarono ad ufficiare fino al 1801 quando nella soppressione {87 [281]} quasi generale degli ordini religiosi, quei monaci dopo oltre un secolo e mezzo di dimora ne furono allontanati. D'allora in poi la direzione di questa chiesa venne affidata ad un cappellano che ha il titolo di Rettore. Sopra la porta della chiesa è scritto: Indulgenza plenaria quotidiana. Tale indulgenza fu conceduta da Pio VI.

            Questo Pontefice nel desiderio dianimare i fedeli cristiani a ricorrere spesso e con fiducia a s. Pancrazio ne varii bisogni della vita con un decreto dato in Roma il 17 marzo 1778 concedette indulgenza plenaria a tutti quelli che confessati e comunicati in qualsiasi giorno dell'anno visiteranno questa chiesa.

            Appena entrato in chiesa l'occhio resta portato sopra la cappella del Santo che forma un vero Santuario. Dietro l'altare esiste tuttora il pilone fatto costruire dal Casella nel 1451. In esso è rappresentata la comparsa di s. Pancrazio siccome fu detto quando abbiamo raccontata l'origine del Santuario. A' pie' del Santo avvi la moglie e il marito col parroco i quali rendono grazie a Dio pei benefizi ricevuti. Sotto l'altare avvi un'insigne reliquia del Santo, che pare essere una parte considerevole {88 [282]} dell'osso di un braccio. Sopra l'altare avvi una statua del Santo. La nicchia, l'altare, le pareti sono ornate di quadri, pitture, cuori, gambe, braccia, busti di cera e di argento portati dai fedeli in segno di gratitudine per le grazie da loro ricevute.

            Il presbiterio è cinto da cancelli di ferro, e sormontato da una cupola coperta di pitture antiche, le quali rappresentano i prodigiosi favori che in parte noi abbiamo riferito. Fuori del cancello, sulla facciata della cappella interna, vi sono pitture che rappresentano minutamente i fatti prodigiosi che diedero origine al Santuario.

            Dietro e attorno della cappella del Santo trovasi uno spazioso corridoio, le cui mura sono tutte coperte di quadri rappresentanti un'immensità di grazie ricevute, e di miracoli operati. Nè essendoci spazio bastante perpoterli appendere tutti, in gran numero rimangono ammucchiati a parte. Tra gli altri uno tira l'occhio dell'osservatore. Esso è assai recente e rappresenta un cannoniere, che l'anno scorso in Crimea trovandosi in grave pericolo della vita si raccomandò a s. Pancrazio e ne fu salvo. Ritornato in patria, andò a ringraziare il suo celeste benefattore, ed alcuni mesi fa {89 [283]} portò un quadro che con viva espressione rappresenta tale avvenimento. Qua e là poi si vedono bastoni di varia grossezza e lunghezza, stampelle e gruccie di ogni forma, di cui parecchi infelici servironsi per venire al Santuario; nè più occorse loro doversene servire pel ritorno, partendosi interamente guariti. Queste stampelle, gruccie, bastoni sono a fasci appesi alle mura e formano il più bel trofeo della potenza divina, e della efficace protezione di s. Pancrazio.

            Nella Chiesa ci sono quattro altari, nella sacrestia avvi un'altra reliquia del Santo, che da quanto appare deve essere l'osso di un dito delle mani. Ogni angolo della Chiesa inspira rispetto e venerazione.

            Queste sono in compendio le notizie che riguardano la vita e le virtù di s. Pancrazio, le grazie a sua intercessione ottenute, e i miracoli da lui operati. E poichè la divozione a questo Santo è fonte copiosa di tante benedizioni, sarebbe vivamente a desiderarsi che in ogni città o paese gli fosse innalzata una chiesa o almeno qualche altare; in ogni famiglia ci fosse almeno qualche statua o immagine, la quale nei bisogni spirituali e temporali {90 [284]} della presente vita ci rammentasse di ricorrere a quel celeste e fedele amico.

            Io conchiudo col rispondere alla difficoltà di quelli che dicono: Io vorrei essere testimonio oculare di qualcheduno dei tanti miracoli che si raccontano di s. Pancrazio; ma questo finora non l'ho ancora potuto ottenere.

            Se tu, o lettore, desideri di essere testimonio oculare di qualche prodigioso avvenimento operato da s. Pancrazio non hai a fare che recarti al suo Santuario la notte del dodici maggio e ne sarai ampiamente soddisfatto. Anzi qualora volessi provare col fatto quanto valga la protezione di s. Pancrazio, io ti prego di fare a lui ricorso in qualche tuo bisogno. Se avrai viva fede io ti assicuro che sarai esaudito alla sola condizione che la tua dimanda non sia di cose contrarie al bene dell'anima tua.

            Che se taluno venisse a dirli che queste grazie e questi miracoli atteso la loro quantità e grandezza potrebbero rendersi meno credibili; tu gli risponderai: a chi ha fede tutto è possibile. Il Salvatore ha operato miracoli assai più strepitosi che non sono quelli riferiti in questo libretto. {91 [285]}

            Pare egli stesso assicurò che coloro i quali avessero credato in lui con viva fede ne avrebbero operato dei maggiori.

 

 

Capo VII. Coroncina spirituale in onore di s. Pancrazio.

 

            Deus, in adjutorium meum intende.

            Domine, ad adjuvandum me festina. Gloria etc.

 

            I.

 

            Glorioso s. Pancrazio, voi che dalle folte tenebre dell'idolatria per tratto speciale della misericordia divina foste chiamato alla luce del Vangelo, deh! vi prego, ottenetemi dal Signore la grazia che io possa scoprire le tenebre che oscurano la mente mia, e conosca gli errori della mia trascorsa vita, per detestarli, e corrispondere alla voce di Dio che mi chiama a farne la penitenza.

            Pater, Ave, Gloria etc.

 

            II.

 

            Glorioso s. Pancrazio, voi che appena ricevuto il battesimo siete divenuto fervoroso cristiano, pronto a dar la vita per la fede, ottenetemi dal Signore Iddio, che {92 [286]} io possa mantenere le promesse e le rinunzie battesimali, vivendo da buon cristiano nella fuga del male e nella pratica della virtù, pronto a patire qualunque male piuttosto di commettere qualche azione contraria alla santa legge di Dio.

            Pater, Ave, Gloria etc.

 

            III.

 

            Glorioso s. Pancrazio, voi che per amore di Gesù Cristo vinceste ogni rispetto umano, rinunciaste a tutti i piaceri e a tutte le grandezze della terra, ottenetemi dal Signore che io possa interamente distaccare il mio cuore dalle cose del mondo per seguire Gesù Cristo fino alla morte.

            Pater, Ave, Gloria etc.

 

            IV.

 

            Glorioso s. Pancrazio, voi che per amore di Gesù Cristo avete patito atroci tormenti ed avete dato coraggiosamente la vita, vi prego di ottenermi da Dio il dono della fortezza, onde io sia ognora pronto a patire qualunque male, fosse anche la morte, per professare la fede di Gesù Cristo e vivere fino all'ultimo respiro di mia vita nella santa Cattolica Religione fuori di cui niuno può salvarsi.

            Pater, Ave, Gloria etc. {93 [287]}

 

            V.

 

            Glorioso s. Pancrazio, voi che in premio delle vostre virtù, e in ricompensa del sacrifizio che a Dio faceste di vostra vita per la fede, ora godete la gloria del Paradiso, e la godrete per tutta l'eternità, fate che io possa camminare per la strada della virtù in tutto il corso di mia vita, e così possa essere un giorno partecipe della vostra gloria in Paradiso.

            Pater, Ave, Gloria etc.

 

            PREGHIERA.

 

            Glorioso s. Pancrazio, coraggioso martire di Gesù Cristo, eccomi prostrato ai vostri piedi supplicandovi umilmente di volermi ricevere tra i vostri divoti. In questo momento vi scelgo per mio protettore. Deh! fin d'ora intercedete presso l'onnipotente Iddio che io possa conseguire il perdono de' miei peccati, la grazia di non più ricadere in avvenire, e la forza di perseverare nel bene fino alla morte. Fate che io imitando le vostre virtù in vita sia pronto ad abbandonare gli onori, le ricchezze, i piaceri della terra e dare anche la vita per amore di quel Gesù che è morto per l'anima mia. Io son debole, {94 [288]} e ripongo in voi tutta la mia fiducia. Deh! aiutatemi affinchè io mi mantenga fermo nella fede cristiana fino alla morte; e morendo in seno alla santa Chiesa Cattolica possa un giorno pervenire con Voi al cielo per ringraziarvi delle grazie ottenute a vostra intercessione, e lodare e benedire Iddio con voi e coi beati tutti del paradiso in eterno. Così sia.

            Lodato sempre sia, il nome di Gesù e di Maria.

            Sia benedetta la santa ed immacolata concezione della Beata Vergine Maria.

 

            PROTESTA DELL'AUTORE.

 

            Per ubbidire al decreto della santa memoria di Urbano VIII protesto che a tutti i miracoli e grazie inseriti in questo libretto non intendo di attribuire altra autorità che puramente umana, eccettuato ciò che è già stato approvato o confermato dalla Santa Sede Apostolica.

 

            Con Approvazione Ecclesiastica. {95 [289]}


Rubbio (Vicenza), 15 agosto 1992. Assunzione di Maria Santissima al Cielo. I raggi del mio splendore.

Don Stefano Gobbi

«Guardate allo splendore celeste del mio Corpo assunto alla gloria del Paradiso, figli prediletti, e camminate con Me verso il porto sicuro della vostra liberazione ormai vicina. Voi siete la mia gioia e la mia corona. Voi siete le stelle lucenti, che fanno risplendere ancora di più il mio manto regale. Per questo vi invito a vivere con Me, in questo giorno, insieme alle anime sante del Paradiso ed alle anime beate, che si purificano nel Purgatorio. Oggi, contemplando nella luce del Paradiso, il corpo glorioso e glorificato della vostra Mamma Celeste, esultano gli angeli e tutte le schiere angeliche, godono i santi del cielo, trasaliscono di gioia le anime purganti, e la Chiesa pellegrina e sofferente, che cammina nel deserto del mondo e della storia, è rafforzata nella sua speranza e viene consolata in mezzo a tante sue tribolazioni.

Portate ovunque il balsamo del mio materno conforto. Diffondete la mia Luce nella profonda tenebra che vi avvolge. Voi siete i raggi del mio splendore. Per mezzo di voi voglio che questi raggi si diffondano in ogni parte e scendano, come celeste rugiada, sulla povera umanità, ormai posseduta dal Maligno, e sulla mia Chiesa che vive l'ora della sua passione dolorosa.Diffondete i raggi della fede, in questi tempi di grande apostasia; della speranza in un mondo pervaso dal materialismo e dalla esasperata ricerca dei piaceri; della carità in mezzo all'egoismo, all'odio e ad una grande indifferenza verso i deboli, i poveri, i sofferenti; della purezza fra tanta diffusa impurità; del silenzio nel frastuono di voci assordanti; della preghiera nella generale dissipazione; della umiltà in mezzo a tanta superbia e della ubbidienza fra una così vasta ribellione.

Fate scendere ovunque i raggi della mia gloria, voi che siete le stelle lucenti del mio manto luminoso e materno. Così formate la nuova Chiesa; raccogliete da ogni parte i miei figli, chiamati a fare parte del piccolo resto fedele; abbreviate i tempi della vostra durissima schiavitù; preparate i cuori e le anime a ricevere il Signore che viene. In questo giorno, in cui il paradiso si unisce alla terra, Io vi confermo nel mio disegno; vi accolgo nel profondo del mio Cuore Immacolato; vi conduco con fermezza sulla strada della vostra liberazione, per giungere finalmente ai nuovi cieli ed alla nuova terra».