Liturgia delle Ore - Letture
Domenica della 29° settimana del tempo ordinario
Vangelo secondo Marco 13
1Mentre usciva dal tempio, un discepolo gli disse: "Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!".2Gesù gli rispose: "Vedi queste grandi costruzioni? Non rimarrà qui pietra su pietra, che non sia distrutta".3Mentre era seduto sul monte degli Ulivi, di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte:4"Dicci, quando accadrà questo, e quale sarà il segno che tutte queste cose staranno per compiersi?".
5Gesù si mise a dire loro: "Guardate che nessuno v'inganni!6Molti verranno in mio nome, dicendo: "Sono io", e inganneranno molti.7E quando sentirete parlare di guerre, non allarmatevi; bisogna infatti che ciò avvenga, ma non sarà ancora la fine.8Si leverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno terremoti sulla terra e vi saranno carestie. Questo sarà il principio dei dolori.
9Ma voi badate a voi stessi! Vi consegneranno ai sinedri, sarete percossi nelle sinagoghe, comparirete davanti a governatori e re a causa mia, per render testimonianza davanti a loro.10Ma prima è necessario che il vangelo sia proclamato a tutte le genti.11E quando vi condurranno via per consegnarvi, non preoccupatevi di ciò che dovrete dire, ma dite ciò che in quell'ora vi sarà dato: poiché non siete voi a parlare, ma lo Spirito Santo.12Il fratello consegnerà a morte il fratello, il padre il figlio e i figli insorgeranno contro i genitori e li metteranno a morte.13Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato.
14Quando vedrete 'l'abominio della desolazione' stare là dove non conviene, chi legge capisca, allora quelli che si trovano nella Giudea fuggano ai monti;15chi si trova sulla terrazza non scenda per entrare a prender qualcosa nella sua casa;16chi è nel campo non torni indietro a prendersi il mantello.17Guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno in quei giorni!18Pregate che ciò non accada d'inverno;19perché quei giorni saranno 'una tribolazione, quale non è mai stata dall'inizio della creazione', fatta da Dio, 'fino al presente', né mai vi sarà.20Se il Signore non abbreviasse quei giorni, nessun uomo si salverebbe. Ma a motivo degli eletti che si è scelto ha abbreviato quei giorni.21Allora, dunque, se qualcuno vi dirà: "Ecco, il Cristo è qui, ecco è là", non ci credete;22perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno segni e portenti per ingannare, se fosse possibile, anche gli eletti.23Voi però state attenti! Io vi ho predetto tutto.
24In quei giorni, dopo quella tribolazione,
'il sole si oscurerà
e la luna non darà più il suo splendore'
25'e gli astri si metteranno a cadere' dal cielo
'e le potenze che sono nei cieli' saranno sconvolte.
26Allora vedranno 'il Figlio dell'uomo venire sulle nub'i con grande potenza e gloria.27Ed egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall'estremità della terra fino all'estremità del cielo.
28Dal fico imparate questa parabola: quando già il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che l'estate è vicina;29così anche voi, quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, alle porte.30In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute.31Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.32Quanto poi a quel giorno o a quell'ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre.
33State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso.34È come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare.35Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino,36perché non giunga all'improvviso, trovandovi addormentati.37Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!".
Esodo 38
1Fece l'altare di legno di acacia: aveva cinque cubiti di lunghezza e cinque cubiti di larghezza, era cioè quadrato, e aveva l'altezza di tre cubiti.2Fece i suoi corni ai suoi quattro angoli: i suoi corni erano tutti di un pezzo; lo rivestì di rame.3Fece anche tutti gli accessori dell'altare: i recipienti per raccogliere le ceneri, le sue pale, i suoi vasi per aspersione, le sue forchette e i bracieri: fece di rame tutti i suoi accessori.4Fece per l'altare una graticola, lavorata a forma di rete, di rame, e la pose sotto la cornice dell'altare in basso: la rete arrivava a metà altezza dell'altare.5Fuse quattro anelli e li pose alle quattro estremità della graticola di rame, per inserirvi le stanghe.6Fece anche le stanghe di legno di acacia e le rivestì di rame.7Introdusse le stanghe negli anelli sui lati dell'altare: servivano a trasportarlo. Fece l'altare di tavole, vuoto all'interno.
8Fece la conca di rame e il suo piedestallo di rame, impiegandovi gli specchi delle donne, che nei tempi stabiliti venivano a prestar servizio all'ingresso della tenda del convegno.
9Fece il recinto: sul lato meridionale, verso sud, il recinto aveva tendaggi di bisso ritorto, per la lunghezza di cento cubiti sullo stesso lato.10Vi erano le loro venti colonne con le venti basi di rame. Gli uncini delle colonne e le loro aste trasversali erano d'argento.11Anche sul lato rivolto a settentrione vi erano tendaggi per cento cubiti di lunghezza, le relative venti colonne con le venti basi di rame, gli uncini delle colonne e le aste trasversali d'argento.12Sul lato verso occidente vi erano cinquanta cubiti di tendaggi, con le relative dieci colonne e le dieci basi,13i capitelli delle colonne e i loro uncini d'argento. Sul lato orientale, verso levante, vi erano cinquanta cubiti:14quindici cubiti di tendaggi, con le relative tre colonne e le tre basi alla prima ala;15all'altra ala quindici cubiti di tendaggi, con le tre colonne e le tre basi.16Tutti i tendaggi che delimitavano il recinto erano di bisso ritorto.17Le basi delle colonne erano di rame, gli uncini delle colonne e le aste trasversali erano d'argento; il rivestimento dei loro capitelli era d'argento e tutte le colonne del recinto avevano aste trasversali d'argento.18Alla porta del recinto vi era una cortina, lavoro di ricamatore, di porpora viola, porpora rossa, scarlatto e bisso ritorto: la sua lunghezza era di venti cubiti, la sua altezza, nel senso della larghezza, era di cinque cubiti, come i tendaggi del recinto.19Le colonne relative erano quattro, con le quattro basi di rame, i loro uncini d'argento, il rivestimento dei loro capitelli e le loro aste trasversali d'argento.20Tutti i picchetti della Dimora e del recinto circostante erano di rame.
21Questo è il computo dei metalli impiegati per la Dimora, la Dimora della Testimonianza, redatto per ordine di Mosè e per opera dei leviti, sotto la direzione d'Itamar, figlio del sacerdote Aronne.
22Bezaleel, figlio di Uri, figlio di Cur, della tribù di Giuda, eseguì quanto il Signore aveva ordinato a Mosè;23insieme con lui Ooliab, figlio di Achisamach della tribù di Dan, intagliatore, decoratore e ricamatore di porpora viola, porpora rossa, scarlatto e bisso.
24Totale dell'oro impiegato per il lavoro, cioè per tutto il lavoro del santuario - era l'oro presentato in offerta -: ventinove talenti e settecentotrenta sicli, in sicli del santuario.25L'argento raccolto, in occasione del censimento della comunità, pesava cento talenti e millesettecentosettantacinque sicli, in sicli del santuario,26cioè un 'beka' a testa, vale a dire mezzo siclo, secondo il siclo del santuario, per ciascuno di coloro che furono sottoposti al censimento, dai vent'anni in su. Erano seicentotremilacinquecentocinquanta.27Cento talenti di argento servirono a fondere le basi del santuario e le basi del velo: cento basi per cento talenti, cioè un talento per ogni base.28Con i millesettecentosettantacinque sicli fece gli uncini delle colonne, rivestì i loro capitelli e le riunì con le aste trasversali.29Il rame presentato in offerta assommava a settanta talenti e duemilaquattrocento sicli.30Con esso fece le basi per l'ingresso della tenda del convegno, l'altare di rame con la sua graticola di rame e tutti gli accessori dell'altare,31le basi del recinto, le basi della porta del recinto, tutti i picchetti della Dimora e tutti i picchetti del recinto.
Giobbe 15
1Elifaz il Temanita prese a dire:
2Potrebbe il saggio rispondere con ragioni campate
in aria
e riempirsi il ventre di vento d'oriente?
3Si difende egli con parole senza costrutto
e con discorsi inutili?
4Tu anzi distruggi la religione
e abolisci la preghiera innanzi a Dio.
5Sì, la tua malizia suggerisce alla tua bocca
e scegli il linguaggio degli astuti.
6Non io, ma la tua bocca ti condanna
e le tue labbra attestano contro di te.
7Sei forse tu il primo uomo che è nato,
o, prima dei monti, sei venuto al mondo?
8Hai avuto accesso ai segreti consigli di Dio
e ti sei appropriata tu solo la sapienza?
9Che cosa sai tu che noi non sappiamo?
Che cosa capisci che da noi non si comprenda?
10Anche fra di noi c'è il vecchio e c'è il canuto
più di tuo padre, carico d'anni.
11Poca cosa sono per te le consolazioni di Dio
e una parola moderata a te rivolta?
12Perché il tuo cuore ti trasporta
e perché fanno cenni i tuoi occhi,
13quando volgi contro Dio il tuo animo
e fai uscire tali parole dalla tua bocca?
14Che cos'è l'uomo perché si ritenga puro,
perché si dica giusto un nato di donna?
15Ecco, neppure dei suoi santi egli ha fiducia
e i cieli non sono puri ai suoi occhi;
16quanto meno un essere abominevole e corrotto,
l'uomo, che beve l'iniquità come acqua.
17Voglio spiegartelo, ascoltami,
ti racconterò quel che ho visto,
18quello che i saggi riferiscono,
non celato ad essi dai loro padri;
19a essi soli fu concessa questa terra,
né straniero alcuno era passato in mezzo a loro.
20Per tutti i giorni della vita il malvagio si
tormenta;
sono contati gli anni riservati al violento.
21Voci di spavento gli risuonano agli orecchi
e in piena pace si vede assalito dal predone.
22Non crede di potersi sottrarre alle tenebre,
egli si sente destinato alla spada.
23Destinato in pasto agli avvoltoi,
sa che gli è preparata la rovina.
24Un giorno tenebroso lo spaventa,
la miseria e l'angoscia l'assalgono
come un re pronto all'attacco,
25perché ha steso contro Dio la sua mano,
ha osato farsi forte contro l'Onnipotente;
26correva contro di lui a testa alta,
al riparo del curvo spessore del suo scudo;
27poiché aveva la faccia coperta di grasso
e pinguedine intorno ai suoi fianchi.
28Avrà dimora in città diroccate,
in case dove non si abita più,
destinate a diventare macerie.
29Non arricchirà, non durerà la sua fortuna,
non metterà radici sulla terra.
30Alle tenebre non sfuggirà,
la vampa seccherà i suoi germogli
e dal vento sarà involato il suo frutto.
31Non confidi in una vanità fallace,
perché sarà una rovina.
32La sua fronda sarà tagliata prima del tempo
e i suoi rami non rinverdiranno più.
33Sarà spogliato come vigna della sua uva ancor
acerba
e getterà via come ulivo i suoi fiori,
34poiché la stirpe dell'empio è sterile
e il fuoco divora le tende dell'uomo venale.
35Concepisce malizia e genera sventura
e nel suo seno alleva delusione.
Salmi 9
1'Al maestro del coro. In sordina. Salmo. Di Davide.'
2Loderò il Signore con tutto il cuore
e annunzierò tutte le tue meraviglie.
3Gioisco in te ed esulto,
canto inni al tuo nome, o Altissimo.
4Mentre i miei nemici retrocedono,
davanti a te inciampano e periscono,
5perché hai sostenuto il mio diritto e la mia causa;
siedi in trono giudice giusto.
6Hai minacciato le nazioni, hai sterminato l'empio,
il loro nome hai cancellato in eterno, per sempre.
7Per sempre sono abbattute le fortezze del nemico,
è scomparso il ricordo delle città che hai distrutte.
8Ma il Signore sta assiso in eterno;
erige per il giudizio il suo trono:
9giudicherà il mondo con giustizia,
con rettitudine deciderà le cause dei popoli.
10Il Signore sarà un riparo per l'oppresso,
in tempo di angoscia un rifugio sicuro.
11Confidino in te quanti conoscono il tuo nome,
perché non abbandoni chi ti cerca, Signore.
12Cantate inni al Signore, che abita in Sion,
narrate tra i popoli le sue opere.
13Vindice del sangue, egli ricorda,
non dimentica il grido degli afflitti.
14Abbi pietà di me, Signore,
vedi la mia miseria, opera dei miei nemici,
tu che mi strappi dalle soglie della morte,
15perché possa annunziare le tue lodi,
esultare per la tua salvezza
alle porte della città di Sion.
16Sprofondano i popoli nella fossa che hanno scavata,
nella rete che hanno teso si impiglia il loro piede.
17Il Signore si è manifestato, ha fatto giustizia;
l'empio è caduto nella rete, opera delle sue mani.
18Tornino gli empi negli inferi,
tutti i popoli che dimenticano Dio.
19Perché il povero non sarà dimenticato,
la speranza degli afflitti non resterà delusa.
20Sorgi, Signore, non prevalga l'uomo:
davanti a te siano giudicate le genti.
21Riempile di spavento, Signore,
sappiano le genti che sono mortali.22Perché, Signore, stai lontano,
nel tempo dell'angoscia ti nascondi?
23Il misero soccombe all'orgoglio dell'empio
e cade nelle insidie tramate.
24L'empio si vanta delle sue brame,
l'avaro maledice, disprezza Dio.
25L'empio insolente disprezza il Signore:
"Dio non se ne cura: Dio non esiste";
questo è il suo pensiero.
26Le sue imprese riescono sempre.
Son troppo in alto per lui i tuoi giudizi:
disprezza tutti i suoi avversari.
27Egli pensa: "Non sarò mai scosso,
vivrò sempre senza sventure".
28Di spergiuri, di frodi e d'inganni ha piena la bocca,
sotto la sua lingua sono iniquità e sopruso.
29Sta in agguato dietro le siepi,
dai nascondigli uccide l'innocente.
30I suoi occhi spiano l'infelice,
sta in agguato nell'ombra come un leone nel covo.
Sta in agguato per ghermire il misero,
ghermisce il misero attirandolo nella rete.
31Infierisce di colpo sull'oppresso,
cadono gl'infelici sotto la sua violenza.
32Egli pensa: "Dio dimentica,
nasconde il volto, non vede più nulla".
33Sorgi, Signore, alza la tua mano,
non dimenticare i miseri.
34Perché l'empio disprezza Dio
e pensa: "Non ne chiederà conto"?
35Eppure tu vedi l'affanno e il dolore,
tutto tu guardi e prendi nelle tue mani.
A te si abbandona il misero,
dell'orfano tu sei il sostegno.
Spezza il braccio dell'empio e del malvagio;
36Punisci il suo peccato e più non lo trovi.
37Il Signore è re in eterno, per sempre:
dalla sua terra sono scomparse le genti.
38Tu accogli, Signore, il desiderio dei miseri,
rafforzi i loro cuori, porgi l'orecchio
39per far giustizia all'orfano e all'oppresso;
e non incuta più terrore l'uomo fatto di terra.
Ezechiele 21
1Mi fu rivolta questa parola del Signore:2"Figlio dell'uomo, volgi la faccia verso il mezzogiorno, parla alla regione australe e predici contro la selva del mezzogiorno.3Dirai alla selva del mezzogiorno: Ascolta la parola del Signore: Dice il Signore Dio: Ecco, io accenderò in te un fuoco che divorerà in te ogni albero verde e ogni albero secco: la fiamma ardente non si spegnerà e ogni sembiante sarà bruciato dal mezzogiorno al settentrione.4Ogni vivente vedrà che io, il Signore, l'ho incendiato e non si spegnerà".
5Io dissi: "Ah! Signore Dio, essi vanno dicendo di me: Non è forse costui uno che racconta delle favole?".
6Mi fu rivolta questa parola del Signore:7"Figlio dell'uomo, volgi la faccia verso Gerusalemme e parla contro i suoi santuari, predici contro il paese d'Israele.8Tu riferirai al paese d'Israele: Così dice il Signore Dio: Eccomi contro di te. Sguainerò la spada e ucciderò in te il giusto e il peccatore.9Se ucciderò in te il giusto e il peccatore, significa che la spada sguainata sarà contro ogni carne, dal mezzogiorno al settentrione.10Così ogni vivente saprà che io, il Signore, ho sguainato la spada ed essa non rientrerà nel fodero.11Tu, figlio dell'uomo, piangi: piangi davanti a loro con il cuore infranto e pieno d'amarezza.12Quando ti domanderanno: Perché piangi?, risponderai: Perché è giunta la notizia che il cuore verrà meno, le mani s'indeboliranno, lo spirito sarà costernato, le ginocchia vacilleranno. Ecco è giunta e si compie". Parola del Signore Dio.13Mi fu rivolta questa parola del Signore:14"Figlio dell'uomo, profetizza e di' loro: Così dice il Signore Dio:
Spada, spada aguzza e affilata,
15aguzza per scannare, affilata per lampeggiare!
16L'ha fatta affilare perché la si impugni,
l'ha aguzzata e affilata
per darla in mano al massacratore!
17Grida e lamèntati, o figlio dell'uomo,
perché essa pesa sul mio popolo,
su tutti i prìncipi d'Israele:
essi cadranno di spada insieme con il mio popolo.
Perciò battiti il fianco,
18perché è una prova:
che cosa accadrebbe se nemmeno un bastone sprezzante ci fosse
Parola del Signore Dio.
19Tu, o figlio dell'uomo,
predici e batti le mani:
la spada si raddoppi e si triplichi,
è la spada dei massacri,
la grande spada del massacro che li circonda.
20Perché i cuori si struggano e si moltiplichino le vittime,
ho messo ad ogni porta la punta della spada,
fatta per lampeggiare, affilata per il massacro.
21Volgiti a destra, volgiti a sinistra,
ovunque si diriga la tua lama.
22Anch'io batterò le mani e sazierò la mia ira.
Io, il Signore, ho parlato".
23Mi fu rivolta questa parola del Signore:
24"Figlio dell'uomo, traccia due strade per il passaggio della spada del re di Babilonia; proverranno tutte e due dallo stesso paese; tu metti un segnale a capo della strada che conduce nella città.25Traccia la strada per cui la spada giunga a Rabbà degli Ammoniti e in Giuda, a Gerusalemme nella città fortificata.26Infatti il re di Babilonia è fermo al bivio, all'inizio delle due strade, per interrogare le sorti: agita le frecce, interroga gli dèi domestici, osserva il fegato.27Nella sua destra è uscito il responso: Gerusalemme, per porre contro di essa gli arieti, per farle udire l'ordine del massacro, echeggiare grida di guerra, disporre gli arieti contro le sue porte, innalzare terrapieni, costruire trincee.
28Ma questo non è che un vano presagio agli occhi di quelli che hanno fatto loro solenni giuramenti. Egli però ricorda loro l'iniquità per cui saranno catturati".29Perciò dice il Signore: "Poiché voi avete fatto ricordare le vostre iniquità, rendendo manifeste le vostre trasgressioni e palesi i vostri peccati in tutto il vostro modo di agire, poiché ve ne vantate, voi resterete presi al laccio.30A te, sconsacrato, empio principe d'Israele, di cui è giunto il giorno con il tempo della tua iniquità finale,31così dice il Signore Dio: Deponi il turbante e togliti la corona: tutto sarà cambiato: ciò che è basso sarà elevato e ciò che è alto sarà abbassato.32In rovina, in rovina, in rovina la ridurrò e non si rialzerà più finché non giunga colui al quale appartiene di diritto e al quale io la darò".
33Tu, figlio dell'uomo, profetizza e annunzia: "Così dice il Signore Dio agli Ammoniti e riguardo ai loro insulti. Di' dunque: La spada, la spada è sguainata per la strage, è affilata per sterminare, per lampeggiare,34mentre tu hai false visioni e ti si predicono sorti bugiarde, la spada sarà messa alla gola degli empi perversi, il cui giorno è venuto, al colmo della loro malvagità.
35Rimettila nel fodero. Nel luogo stesso in cui tu fosti creato, nella terra stessa in cui sei nato, io ti giudicherò;36rovescerò su di te il mio sdegno, contro di te soffierò nel fuoco della mia ira e ti abbandonerò in mano di uomini violenti, portatori di distruzione.37Sarai preda del fuoco, del tuo sangue sarà intrisa la terra, non ti si ricorderà più perché io, il Signore, ho parlato".
Apocalisse 11
1Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: "Alzati e misura il santuario di Dio e l'altare e il numero di quelli che vi stanno adorando.2Ma l'atrio che è fuori del santuario, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani, i quali calpesteranno la città santa per quarantadue mesi.3Ma farò in modo che i miei due Testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni".4Questi sono i due olivi e le due lampade che stanno davanti al Signore della terra.5Se qualcuno pensasse di far loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di far loro del male.6Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiar l'acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli tutte le volte che lo vorranno.7E quando poi avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall'Abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà.8I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sòdoma ed Egitto, dove appunto il loro Signore fu crocifisso.9Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedranno i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permetteranno che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro.10Gli abitanti della terra faranno festa su di loro, si rallegreranno e si scambieranno doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra.
11Ma dopo tre giorni e mezzo, un soffio di vita procedente da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli.12Allora udirono un grido possente dal cielo: "Salite quassù" e salirono al cielo in una nube sotto gli sguardi dei loro nemici.13In quello stesso momento ci fu un grande terremoto che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti presi da terrore davano gloria al Dio del cielo.
14Così passò il secondo "guai"; ed ecco viene subito il terzo "guai".
15Il settimo angelo suonò la tromba e nel cielo echeggiarono voci potenti che dicevano:
"Il regno del mondo
appartiene al Signore nostro e al suo Cristo:
egli regnerà nei secoli dei secoli".
16Allora i ventiquattro vegliardi seduti sui loro troni al cospetto di Dio, si prostrarono faccia a terra e adorarono Dio dicendo:
17"Noi ti rendiamo grazie,
Signore Dio onnipotente,
che sei e che eri,
perché hai messo mano alla tua grande potenza,
e hai instaurato il tuo regno.
18Le genti ne fremettero,
ma è giunta l'ora della tua ira,
il tempo di giudicare i morti,
di dare la ricompensa ai tuoi servi,
ai profeti e ai santi e a quanti temono il tuo nome,
piccoli e grandi,
e di annientare coloro
che distruggono la terra".
19Allora si aprì il santuario di Dio nel cielo e apparve nel santuario l'arca dell'alleanza. Ne seguirono folgori, voci, scoppi di tuono, terremoto e una tempesta di grandine.
Capitolo XLVII: Ogni cosa gravosa va sopportata, per conseguire la vita eterna
Leggilo nella Biblioteca1. O figlio, non lasciarti sopraffare dai compiti che ti sei assunto per amor mio; non lasciarti mai abbattere dalle tribolazioni. In ogni evenienza ti dia, invece, forza e consolazione la mia promessa; ché io ben so ripagare al di là di qualsiasi limite e misura. Non durerà a lungo la tua sofferenza quaggiù; non continuerà per sempre il peso dei tuoi dolori. Attendi un poco, e li vedrai finire d'un tratto, questi dolori; verrà il momento in cui fatiche ed agitazioni cesseranno. E' poca cosa, e dura poco, tutto ciò che passa con questa vita. Fa quel che devi; lavora fedelmente nella mia vigna: io stesso sarò la tua ricompensa. Scrivi, leggi, canta, piangi, taci, prega, sopporta virilmente le avversità: premio a tutto questo, alle più grandi lotte, è la vita eterna. Sarà pace, in quell'ora che sa il Signore. E non ci sarà giorno e notte, come adesso, ma perpetua luce, chiarità infinita, pace ferma e sicura tranquillità. Allora non dirai: "chi mi libererà da questo corpo di morte?" (Rm 7,24); e non esclamerai "ohimé!, quanto si prolunga questo mio stare quaggiù" (Sal 119,5). Ché la morte sarà annientata e vi sarà piena salvezza, senza ombra di angustia; e, intorno a te, una gioia beata, una soave schiera gloriosa.
2. Oh!, se tu vedessi il premio eterno che ricevono i santi in cielo; se tu vedessi di quanta gloria esultano ora, essi che un tempo erano ritenuti spregevoli e quasi immeritevoli di vivere, per certo, ti getteresti subito a terra, preferendo essere inferiore a tutti, piuttosto che eccellere anche su di un solo; non desidereresti giorni lieti in questa vita, godendo piuttosto delle tribolazioni sopportate per amore di Dio,; infine crederesti che il guadagno più grande consiste nell'essere considerato un nulla tra gli uomini. Oh!, se queste cose avessero un gusto per te e ti scendessero nel profondo del cuore, come oseresti fare anche il più piccolo lamento? Forse che, per la vita eterna, non si deve sopportare ogni tribolazione? Non è cosa di poco conto, perdere o guadagnare il regno di Dio. Alza, dunque, il tuo sguardo al cielo: eccomi, insieme a tutti i miei santi, i quali sopportano grandi lotte, nella vita di quaggiù. Ora essi sono nella gioia, ricevono consolazione, stanno nella serenità, nella pace e nel riposo. E resteranno con me nel regno del Padre mio, per sempre.
De Poenitentia
Tertulliano - Tertulliano
Leggilo nella Biblioteca
CAPITOLO I.
Come i Gentili intendano male la Penitenza; in quanto talvolta provano rammarico d'avere agito bene.
Questa sorta d'uomini alla quale appartenemmo anche noi in passato; ciechi, in quanto privi della luce che proviene da Dio, conoscono e intendono che cosa sia la Penitenza, ma solo in quanto può suggerire la natura circa il fatto in sé e la considerano quindi come un sentimento dell'animo che nasce dal rincrescimento di una decisione presa anteriormente. Del resto sono essi tanto lontani dall'averne una nozione ragionevole, quanto lo sono da Colui che è fonte e lume di ogni principio razionale: la ragione è cosa di Dio: questi è creatore del tutto e nulla provvide, nulla dispose se non seguendo ragione: e a tutto dette ordine secondo i dettami di |166 essa e non volle che ci fosse cosa che non fosse governata e retta dalla ragione, suprema moderatrice dell'umano intelletto. Chi non riconosce Dio, deve necessariamente essere all'oscuro di quanto sia fulgore d'opera sua: non c'è tesoro che sia aperto ed esposto a persone estranee ed inesperte; ed è così che coloro che s'azzardano a traversare l'immenso oceano della vita, senza guida e il freno della ragione, non possono saper evitare la tempesta che sempre incombe minacciosa sul mondo. Quanto poi, lungi da ogni linea razionale, i Gentili si comportino nella dottrina della penitenza, sarà sufficiente dimostrarlo anche con una osservazione sola: essi applicano in principio della penitenza, anche qualora si tratti di azioni buone e lodevoli: della lealtà si pentono: e così pure dell'amore, dell'umiltà, della semplicità di vita, della tolleranza, della pietà e misericordia, secondo che talvolta tali virtù si possano imbattere nell'ingratitudine: sono capaci di maledire sé stessi per aver fatto del bene ed è sopratutto questa la forma di penitenza che essi cercano di fissare e d'imprimere bene nel loro spirito: proprio quella che si riattacca alle opere buone: e cercano di ricordarsene bene per non dover affatto fare più un briciolo di bene ad alcuno. Al contrario il rincrescimento d'aver commesso delle colpe, da loro ragione assai minore di preoccupazione.Insomma, in nome della penitenza è più facile che commettano opere meritevoli di |167 riprovazione, che piuttosto seguano nelle loro azioni una linea di rettitudine e di onestà.
CAPITOLO II.
Non si può chiamare Penitenza se non quella che si rivolge ai peccati.
Se chi segue tale linea di condotta, agisse nella piena conoscenza di Dio e se per mezzo di esso avesse chiaro il concetto e intero il possesso della ragione; questi tali, dico, comincerebbero anzitutto a calcolare e a valutare giustamente la grandezza del principio della penitenza; e non ricorrerebbero mai ad essa per sostenere e coonestare procedimenti errati; eppoi finalmente porrebbero un limite a questo continuo pentirsi, perché, evidentemente, avendo timore di Dio, saprebbero anche tenersi lontani dalle occasioni di mal fare. Ma dove non è affatto timore del Signore, non vi può neppure essere modo di rinascita morale; e là dove questa possibilità di resurrezione dello spirito non c'è, la penitenza necessariamente cade nel vuoto, perché viene a mancare di quello che è il frutto e la luce sua più bella e per cui Iddio l'ha seminata e largita all'uomo; intendo dire, la sua salvezza. Poiché Iddio, dopo tante e così grandi colpe commesse dall'umana superbia e che risalgono ad Adamo, primo di questa nostra terrena stirpe; dopo aver pronunziata solenne condanna sull'uomo, col |168 peccato che è il triste retaggio delle umane genti, dopo averlo scacciato dall'eterno giardino ed averlo assoggettato alla trista necessità della morte; essendosi poi egli novamente volto a sensi di misericordia, fin d'allora istituì e consacrò in sé stesso la penitenza, stracciando la sentenza che aveva lanciata nello scoppio del suo primo sdegno; e venne a patti, che avrebbe perdonato all'uomo che era stato creato da lui a sua stessa immagine. E infatti, si scelse e fece suo un popolo e lo colmò dei doni infiniti della bontà sua, ma avendolo pure riscontrato tante volte ingrato in sommo grado, l'esortò e lo richiamò sempre a penitenza; fece che la bocca di tutti i profeti s'aprisse alla luce della profezia e promise tosto fulgore di grazia, della quale negli ultimi tempi per opera dello Spirito Santo doveva spargere per tutto l'inesausto tesoro; e volle che il sacro lavacro della penitenza, precedesse l'altro, perché con tale segno sacro si trovassero già in stato di grazia, coloro che Egli chiamava alle promesse fatte alla stirpe di Adamo. Giovanni esclama; fate penitenza; e già infatti stava per apparire alle genti una via di salvezza; era il Signore che la portava secondo la promessa di Dio; e Giovanni, intendendo intimamente il volere divino, e volendolo eseguire bandisce il principio della penitenza, perché, quanto un antico errore avesse potuto nell'animo falsare e guastare; quello che nel cuore dell'uomo potesse essere stato dall'ignoranza contaminato e |169 corrotto, tutto questo la penitenza facesse scomparire e ricoprendo con un manto di innocenza e di purità, apprestasse allo Spirito Santo che doveva discendere, integra la sede dell'animo nostro, dove potesse fermarsi in letizia, con tutti i suoi doni celesti: in uno solo si riassumono tutti questi beni : la salvezza dell'uomo, premesso l'annullamento d'ogni colpa precedentemente commessa: il punto essenziale della penitenza è appunto questo; che mentre essa è in servigio dell'uomo, mantiene integro il suo divino principio ed è parte sostanziale della misericordia del Signore. Del resto la strada che segue la penitenza ha una linea ben determinata e precisa e di essa non possiamo aver conoscenza esatta se non possediamo prima quella di Dio: la penitenza non può forzare la mano su qualche cosa che si sia fatto e pensato di bene. Non può approvare il Signore che noi in qualche modo rinneghiamo quello che talvolta si può aver fatto di buono: tutto ciò che è bontà, è di lui, da lui muove: le opere buone egli le difende e protegge e rappresentano quindi quello che egli gradisca maggiormente e se Iddio le accetta, saprà anche ricompensarle a dovere. Considera e rifletti ora dunque, se quella che sia l'ingratitudine umana debba minimamente suscitare un senso di pentimento per avere agito bene e si consideri pure, d'altro lato, se l'idea d'esser fatto segno a manifestazioni di gratitudine, possa m sé stessa, essere d'incitamento ad ogni bene: l'ima e |170 l'altra sono povere cose della terra, hanno una breve vita esse; sarà ben piccolo il vantaggio che ricaverai dal ben fare a persona che poi te ne sarà grata; come sarà piccolo il danno, se agirai bene all'indirizzo di chi invece ti ricambierà coll'ingratitudine; il beneficio chiama Dio a suo debitore ed anche chi agisce male deve attendere quel che gli spetta da Dio: egli è giudice e compensa l'una e l'altra partita. E dal momento che c'è Iddio, che regge e guida in un principio di giustizia, che egli vuole, perché è figlia sua prediletta; dal momento che, conformemente alla sua natura, appunto, egli tempera e governa l'insieme della sua dottrina, si può forse dubitare che come in tutte le altre azioni della nostra vita, non sia da rendere a Dio il più grande tributo di giustizia, anche in materia di penitenza? E si potrà soddisfare a questo principio di equità, se in noi, solo per cattive azioni, sentiamo nascere nel nostro spirito un senso di pentimento; e invero non si può chiamare peccato che quanto è male e colpevolmente compiuto: non v'è nessuno che possa divenir peccatore col far benefizio. E se non commetti peccato, perché lasciar sorgere in noi questo senso della penitenza che è invece proprio di coloro che agiscono colposamente? perché dare alla bontà certi caratteri e certi elementi che sono propri soltanto della malvagità? E avviene così appunto che mentre qualche cosa si fa quando non bisognerebbe, si |171 trascuri invece, allorché giunga il momento giusto o la circostanza opportuna.CAPITOLO III.
Ci sono peccati materiali e spirituali.
È questo il punto nel quale si vuole fissare, stabilire, quello, che per altro potrebbe sembrare anche superfluo, cioè gli atti per i quali il pentirsi può apparire un procedimento giusto e doveroso; cioè quelle azioni che rientrano nell'ambito delle vere colpe. Conosciuto che sia una volta il Signore, l'anima nostra, con moto spontaneo, l'anima sulla quale s'è volto l'occhio di Dio, acquista nozione di quella che sia la verità ed è iniziata ai comandamenti del Signore: da essi subito conosce che quanto Iddio tiene lontano da sé, è da reputarsi colpevole, peccaminoso. Iddio è bene grandissimo, infinito e come chi ha attributo di somma bontà, non può riuscire non gradito, se non a tutto ciò che è male; perché fra principî diametralmente opposti non vi può essere relazione, né intesa di sorta, mai. Tuttavia non ci rincresca dire brevemente come, fra i peccati, ve ne siano alcuni carnali, a cui va soggetta la nostra fragile materia corporea; altri riguardino invece il nostro spirito. L'uomo è infatti composto dall'unione di due principî sostanziali e non può quindi incorrere in colpa, se non per |172 opera di uno di questi due. Ma i peccati non si differenziano in tal modo, perché diversi e separati sono lo spirito e il corpo; anzi se ci si basasse su tal principio, a maggior ragione sarebbero da considerarsi uguali, giacché i due elementi formano sostanzialmente un'unità; e non vi sia chi possa basare un criterio di differenziazione delle colpe sul fatto della diversità delle sostanze corporea o spirituale, da cui esse possono essere ingenerate; così che un dato peccato debba avere, per questo, un carattere di maggiore o minor gravita di un altro. Carne e spirito sono opera di Dio, infatti; dalla mano sua riuscì ad esprimere la materia e, col suo respiro, immise in noi l'elemento spirituale e divino; essi, dunque, provengono da Dio e sono ugualmente di Dio e in qualunque cosa o l'uno o l'altro possa venir meno al suo principio divino ed errare, esso offende ugualmente il Signore. Saresti tu in grado dunque di discernere esattamente gli atti della carne e dello spirito, dal momento che fra loro esiste, nella vita, nella morte, nella resurrezione, un'unione così intima, che essi sono così strettamente associati, da dover rinascere un giorno insieme o per godere la loro vita eterna o per ascoltare la parola della loro condanna, poiché, appunto, ugualmente, nella medesima intima comunione furono colpevoli od agirono piamente, lungi da ogni ombra di peccato? Abbiamo posto tali premesse per questo.... per intender bene che tanto alla carne che allo spirito, incombe la |173 necessità della penitenza, qualora sotto qualche riguardo siano incappati in colpa: il peccato è di entrambi, comune all'una e all'altro; perciò anche il rimedio della penitenza deve essere tanto dell'uno che dell'altro. Si chiamano le colpe, spirituali, dunque, o materiali, come il corpo: ogni azione cattiva infatti o si compie o si pensa; così, che corporale si chiamerà ciò che risulterà di un fatto, come il corpo è qualcosa che si può vedere e toccare: spirituale è il peccato che resta dentro l'animo nostro e non è soggetto ai nostri sensi, come infatti anche lo spirito non si vede né si tocca in alcun modo. Onde risulta chiaro che non solo le colpe che derivano da vere e proprie azioni materiali, ma anche quelle che implicano un segreto desiderio o un principio di volontà di peccare devono evitarsi e in ogni modo applicare ad esse il principio della penitenza. E non può essere ragione sufficiente che la facoltà umana di giudicare, nella sua mediocrità e nella sua deficienza, si limiti al solo esame dei fatti materiali, come incapace di penetrare nei più intimi recessi della volontà, perché noi non dobbiamo tenere in nessun conto nei riguardi di Dio le mancanze del nostro spirito. Iddio arriva a vedere, scoprire, a giudicare tutto e non c'è nulla che possa sfuggire al suo sguardo, di quanto, in qualche modo, costituisce atto colpevole: nulla vi è che ignori, niente che trascuri di quello che debba cadere sotto il suo giudizio e la sua sanzione. Egli non lascia che qualcosa |174 passi inosservata e non tralascia di usare in ogni momento la sua oculatezza, la sua perspicacia. Eppoi noi dobbiamo riconoscere nella volontà il movente di ogni nostra azione : si potrà tuttavia vedere se alcuni atti possano trovare i loro moventi nel caso, nella necessità, nell'ignoranza: ma, eccettuati pochi casi di questa natura, è per volontà nostra che cadiamo nell'errore. E dovendosi riconoscere nella volontà, la causa prima dell'azione nostra, è logico che sia sottoposta alla dovuta pena, appunto che questo, che essa rappresenta il motivo maggiore di peccare e da questo motivo di colpa non viene ad essere esonerata la volontà nostra, allorché, per qualche circostanza contraria, essa non riesca a condurre a termine quello che avrebbe voluto pur compiere. Essa è considerata in ogni modo responsabile di fronte a sé stessa e a giustificazione non potrà addursi il fatto di non aver compiuto, per sfavorevole circostanza, quello che stava in lei e giudicava compito suo. E infine, com'è che il Signore ha voluto darci la prova di aggiungere alla vecchia legge, qualcosa di nuovo e di diverso, se non col fissare una proibizione, e collo stabilire una condanna assoluta per. tutte le colpe della volontà nostra? adultero infatti non sarà soltanto colui che fa violenza e contamina il legame matrimoniale di altri, ma anche chi viola, chi macchia la santità di quella unione col solo sguardo, ardente di insano desiderio; ed è così che infatti anche quello che ci |175 troviamo nella impossibiltà materiale di compiere, l'animo nostro ama nella sua immagine e nel fervore del pensiero e con un atto di volontà, audacemente, ne considera come avvenuto l'effetto: e dal momento che la forza di questo voler nostro è tale che, di per sé, senza attendere la piena realizzazione dei suoi desideri, può quasi tener luogo dell'azione stessa, nei suoi effetti, ne viene che questa nostra facoltà volitiva debba essere giustamente riconosciuta colpevole. È mutile assolutamente dire : io avrei voluto far questo, ma però non lo feci: tu devi invece, se lo vuoi, portare a compimento quella data cosa. Se non intendi invece di portarla al suo completo svolgimento, non degnarla neppure della tua attenzione: altrimenti pronunzi un giudizio con la confessione che fai: se quello che è l'oggetto del tuo desiderio fosse vero bene, vivo avrebbe dovuto essere il volere tuo di condurlo a fine, e, d'altra parte, poiché non porti al suo termine il male, non avresti dovuto neppure desiderarlo: da qualunque parte tu ti metta, sarai stretto dalla colpa, o perché hai voluto il male, o perché non hai operato bene.CAPITOLO IV.
Esortazione alla penitenza
A tutte le colpe, adunque, compiute o col corpo o collo spirito nostro, sia colla materialità di |176 un atto, sia colla forza della volontà, Colui che decise e prescrisse che sarebbero state stabilite, per via di giudizio, sanzioni penali, promise anche che il perdono sarebbe venuto attraverso il Sacramento della penitenza. Disse infatti alle genti: Pentitevi ed io vi farò salve. E di nuovo il Signore disse: Io sono Iddio vivente, voglio piuttosto la penitenza che la morte: è vita dunque la penitenza, che viene preferita alla morte: tu, peccatore simile a me, anzi meno di me, poiché io riconosco d'esser più peccatore e colpevole di te, gettati su quella, abbraccia il principio della penitenza, come il naufrago s'attacca ad una tavola, unica àncora di salvezza per lui: sarà essa che riuscirà a sollevarti, quasi sebbene ormai travolto dalle onde minacciose della colpa e ti trasporterà nel porto della clemenza di Dio. Afferra l'occasione che ti pone dinanzi una fortuna insperata, così che tu, che una volta null'altro eri, di fronte a Dio, che una stilla d'acqua che gocciola da un'anfora capace, che un granello di polvere in un'aia, o un vaso di terraglia ordinaria e vile, divenga invece quell'albero piantato presso scorrer di fiume, che nel verde delle sue frondi, attesta la continua vitalità sua; l'albero che a suo tempo darà bellezza e squisitezza di frutti, che non conoscerà furia di fuoco, o violenza ed offesa di ferro. Trovata che sia la verità, ci si penta degli errori, ci si penta d'aver posto l'amor nostro in quel che Dio non predilige; poiché neppur noi lasciamo che i nostri servi non sentano disprezzo ed odio |177 per quanto a noi possa dispiacere. Il principio, la base dell'ossequio e della deferenza sono dati da una certa conformità di sentimenti. A materia troppo ampia e copiosa e che richiederebbe d'essere affidata a forza e a magnificenza di parola, andremmo incontro, se noi volessimo ricordare punto per punto i beni della Penitenza, ma noi non insistiamo che su un punto solo, data la nostra piccolezza e i limiti che c'imponiamo; e questo è, che ciò che Iddio comanda, ha in sé l'attributo della maggiore e della più assoluta bontà. Io penso che sia presunzione il voler discutere sulla bontà di un precetto divino. Noi non dobbiamo prestare orecchio ad una cosa, perché soltanto riconosciuta buona, ma perché ci è stata comandata da Dio. Volete voi dare una dimostrazione chiara e lampante d'ossequio e di venerazione? Primo punto, essa sia prestata alla maestà della potenza divina e prima si consideri quindi l'autorità di colui dal quale parte il comando che l'utilità e il vantaggio di chi presta l'opera sua. È un bene pentirsi o no? ma che cosa stai pensando e rimuginando? È Iddio che lo comanda; ma poi non è che Egli l'ordini solamente, ma compie opera anche di consiglio e di persuasione: Egli ci invita, facendoci splendere la speranza di una ricompensa; quella della salvezza e quando afferma colla solennità di un giuramento: io sono Iddio vivente, Egli vuole che gli si presti fede. Felici, noi; il Signore giura in nostro servigio; ma infelicissime creature |178 saremo qualora non prestiamo fede ai giuramenti del Signore. Quello che pertanto Iddio raccomanda con tanto fervore di passione e che anche consacra colla solennità di un giuramento, secondo la nostra usanza, noi lo dobbiamo accogliere e mantenere con un rispetto profondo, perché noi, rimanendo saldi nella sicurezza della grazia divina, possiamo raggiungere il frutto di essa e continuare a godere dei vantaggi che da essa derivano.CAPITOLO V.
Dopo la Penitenza, si guardi a non ricadere nella colpa.
Sostengo poi anche questo, che una volta che abbiamo conosciuto e seguito quel principio di penitenza che indicataci per grazia del Signore, ci riconduce appunto in seno a questa stessa grazia divina, non dobbiamo poi, da quel momento, renderla vana e rinnegarla in certo modo, tornando a commettere la colpa: tu non puoi ormai addurre a pretesto e cercare una difesa, nel fatto d'ignorare, quando, conosciuto che tu abbia nel tuo spirito, il Signore, ammessi i principi della sua religione, dopo esserti già rivolto a penitenza per le colpe da te commesse e riconosciute, di nuovo poi tu ti restituisca al peccato. È proprio in quanto tu ti allontani maggiormente dall'ignoranza, che tu invece ti avvicini, ti leghi a quella che sia contumacia; tu hai |179 cominciato ad avere quello che si chiama timor di Dio, ed hai provato un senso di pentimento per quanto operasti di colpevole; perché dunque hai poi preferito di spezzare, d'infrangere quello che tu pur facesti sotto l'impressione del timore e rinnegare quel principio di penitenza, se non perché appunto hai cessato di sentire quel timore da cui prima era occupato il tuo spirito? Non v'è altra cosa che possa implicitamente distruggere, annientare questo senso di timor di Dio, se non proprio il ritorno alla colpa. Ora, considera, che neppur coloro che sono ancora nell'ignoranza del Signore, possono sperare eccezione alcuna, che in certo modo li difenda e li salvaguardi dalla meritata pena, perché non è concesso ignorare Iddio che in tanto fulgore di luce si manifesta, che si comprende, che si sente dagli stessi beni divini che Egli ci prodiga; ebbene, quanto più pericoloso sarà il disconoscerlo, il disprezzarlo, quando Egli sia comparso già dinanzi all'intelletto nostro? E non v'è dubbio che questo disprezzo lo dimostri colui che dopo avere dal Signore avuta chiara la cognizione di quanto sia bene o male, seguendo poi, novamente, quello che una volta, già, capì, come meritevole d'esser fuggito e da cui già una volta s'allontanò come da male, fece offesa alla sua facoltà intellettiva che è appunto dono di Dio: disprezza il donatore, chi non considera o trascura ciò che gli vien donato; nega il beneficio, chi non tributa onore a chi deve questo atto benefico. E in che |180 modo egli può piacere a colui del quale dimostra di non gradire ed apprezzare i doni? E sarà così, che agli occhi del Signore egli apparirà non solo in contumacia; ma sarà colpa d'ingratitudine che peserà su di lui. E del resto non è lieve il peccato verso il Signore, che commette colui il quale, pur avendo una volta, rinnegato, allontanato con atto di penitenza ogni tentazione diabolica, e, sotto questo titolo, avendo al Signore sottomesso ogni forza satanica, col ritorno poi, alla colpa risolleva e nobilita questa stessa potenza del male e fa quasi sé stesso sostenitore ed esaltatore di essa, così che di nuovo la forza della colpa e del peccato si risollevi contro il Signore, e, recuperata che abbia la preda, esulti fiera e baldanzosa. E non è forse vero che in tal modo si viene a preporre Satana a Dio? (è pericoloso anche solo il pronunziare simili parole, ma pur bisogna dir tutto questo per altrui edificazione): sembra che sia come successo una comparazione fra le due potenze, da parte di chi abbia conosciuta l'ima e l'altra e che, a ragion veduta, sia stata proclamata, riconosciuta migliore quella, naturalmente, sotto la giurisdizione della quale si preferisce nuovamente di essere. Colui che aveva in certo modo deciso, e risoluto di rispondere a quanto Iddio vuole e suggerisce, col pentirsi delle colpe commesse, in un secondo momento, trovandosi in uno stato di rammarico per aver fatto azione di penitenza del male compiuto, seguirà i |181 suggerimenti del demonio e sarà quindi oggetto di sdegno tanto più, da parte del Signore, quanto più invece sarà gradito ed accetto all'avversano di Dio. Alcuni dicono che per Iddio è sufficiente che s'onori col cuore, coll'animo nostro, anche se poi i fatti non siano rispondenti a tali pensieri: così pensano, di peccare, sì, potendo mantenere per altro integro il principio di fede e di timor di Dio: ciò è perfettamente lo stesso che se uno pretendesse di mantenere un principio di castità, violando e corrompendo la santità e l'integrità del vincolo matrimoniale, oppure affermare un principio di pietà filiale, eppoi preparare il veleno ai propri genitori; anche costoro dunque potranno bensì essere perdonati; ma questo non toglierà che intanto siano cacciati fra le fiamme infernali, dal momento che essi commettono colpa, pure intendendo di mantenere integro il principio del timor di Dio!... La prima prova della loro colpevole stravaganza è questa: temono costoro Iddio, e seguono la vita del peccato: io penso dunque, che, se non avessero questo senso di timore, non dovrebbero cadere in colpe; e quindi sarebbe da concludere che colui che voglia non fare offesa a Dio, non dovrà avere verso di Lui sentimento di venerazione e di timore; dal momento che è proprio questo senso di rispetto e di onore, che, pare, autorizzi all'offesa. Ma tali idee e sottigliezze di simili disquisizioni sorgono solo dal seme della gente falsa e cattiva che hanno relazione stretta colle potenze del |182 male. La penitenza di costoro è atto di cui è bene non fidarsi affatto.CAPITOLO VI.
Chi sono quelli tenuti a far Penitenza: anche i catecumeni devono seguire questo principio.
Tutto quello che la nostra povera parola s'è sforzata di suggerire e di fermare sulla necessità di fare penitenza una volta, e di mantenere poi questo elemento di fede, in un modo sicuro ed inviolabile per sempre, si rivolge a quanti si sono dedicati e seguono le orme del Signore; in quanto tutti guardano alla propria salvezza nel rendersi meritevoli di Lui; ma sopratutto riguarda i catecumeni, i quali specialmente cominciano ora a fecondare i loro orecchi colla parola di Dio e che si potrebbero rassomigliare a tanti cucciolini: sono ancora ai primi giorni di vita e i loro occhi ancora non riescono a percepire la vera luce, fanno passi dubbiosi ed incerti, essi dicono bensì di rinunziare al passato e che s'iniziano per la strada della penitenza; ma trascurano di riportare la cosa ad una decisione: il fatto stesso che essi intendono di por fine al desiderio, richiama essi a desiderare qualcosa delle cose di un tempo: la stessa cosa avviene nei frutti che, quando anche cominciano ad inacidirsi, in parte a marcire per essere arrivati a soverchia maturazione, tuttavia in qualche piccola parte |183 mantengono qualcosa della loro bellezza e della loro bontà. È la soverchia fiducia nella potenza del battesimo che spiega questo difetto di lentezza, di tergiversazione nei riguardi della penitenza, dal momento che essi si reputano sicuri della remissione delle loro colpe; costoro vengono in certo modo a sottrarre al perdono di Dio quel periodo di tempo che essi frappongono, prima di scendere a penitenza, e si procurano in tal modo quasi una presunta libertà di peccare, piuttosto che stabilire a sé un principio di tenersi sempre lontani dalla colpa. Ed è davvero cosa sciocca non seguire la dottrina della penitenza e tenere così in sospeso il vero perdono delle nostre colpe. Agire così è lo stesso che non intendere di pagare il prezzo di una data mercé e allungare nello stesso tempo la mano per prenderla, perché è proprio a prezzo della penitenza che il Signore ha posto il principio del perdono e l'impunità appunto si può raggiungere, ma solo a patto che noi ci pentiamo. Quelli che vendono, osservano prima il denaro per il quale hanno contrattato e stabilito, ché, in qualche modo, non sia alterato, né guasto, né falso; ebbene, nello stesso modo reputiamo che Iddio guardi, anzi tutto, alla sincerità della penitenza nostra e che in seguito a tale esame egli ci vorrà concedere l'immenso premio che consiste appunto nella vita eterna. Ma indugiamo, si supponga, a seguire il principio della penitenza sincera e vera: sarà forse chiaro ed evidente io mi chiedo, che quando |184 riceviamo l'assoluzione delle nostre colpe, noi ci siamo davvero pentiti ed emendati di quelle? (1). No affatto; ma invece, dimostreremo il nostro intimo pentimento, quando la pena sta presente al nostro sguardo e il perdono è ancora sospeso; quando ancora non ci troviamo nel caso d'esser degni della liberazione dalla colpa, così che possiamo meritare poi il perdono; quando insomma Iddio può far sentire ancora il peso della sua minaccia, non solamente abbagliarci colla luce del perdono. Quale servo mai, una volta che sia giunto alla condizione d'uomo libero, si rimprovera i suoi furti e le sue fughe? qual'è il soldato che, ottenuto il congedo, penserà più alle ferite ricevute e vorrà preoccuparsi di esse? Chi pecca deve piangere sé stesso, prima che giunga il momento del perdono, ed infatti abbiamo che il periodo della penitenza ammette che vi possa essere ancora eventualità di pericolo e di timore. Ma io, del resto, non nego che il divino beneficio del perdono, della remissione quindi di ogni colpa, sussista integralmente anche per quelli che riescono a giungere solo sul punto di ricevere il sacramento del |185 battesimo (2), ma perché si possa arrivare fino a questo punto, bisogna non risparmiare fatiche e sofferenze. Chi sarà colui che vorrà aspergere di uno spruzzo d'acqua, anche se non consacrata, te, uomo che non dai garanzia alcuna sulla sincerità della Penitenza tua? Carpirlo il battesimo, furtivamente ed ingannevolmente, ed indurre in errore chi a tal sacramento è preposto, con tue affermazioni false, può essere anche facile; ma Dio tiene bene gli occhi aperti su quello che è il suo tesoro, né lascia che ci possano insidiosamente giungere gli indegni. Che dice infine il Signore? (3) niente vi è di occulto che non risplenderà in piena luce; per quante tenebre tu possa addensare sulle tue azioni, Iddio è luce. Alcuni poi sono di questo pensiero che Iddio sia costretto da necessità a dare anche agli indegni quel che ha promesso e trasformano quella che è sua liberalità e generosità, in costrizione: se dunque egli, spinto da necessità concedesse a noi il simbolo della morte (4), ciò verrebbe a significare che Iddio opera contro la sua volontà: ma |186 chi è che permetterebbe che permanesse in sé stesso quello che uno è costretto a dare suo malgrado? e infatti non si vede forse, si potrebbe dire, che questo dono divino, per molti si viene a perdere? non sono molti che decadono da questo stato di purificazione? ma ciò riguarda coloro che vi si sono avvicinati di soppiatto, insidiosamente e che essendosi fatto scudo prima del principio della Penitenza, hanno preteso di costruire sulla rena una casa, che non poteva non essere destinata alla rovina. Che nessuno dunque abbia una certa presunzione o stia nell'errore perché ancora è annoverato nello stuolo dei novizi, come se, per questo, fosse loro lecito il vivere in colpa: abbi del Signore, appena l'avrai conosciuto, timore e venerazione; quando Egli ti si sarà mostrato nel suo fulgore, prestagli la tua adorazione, il tuo rispetto profondo. Ed invero che t'importerebbe allora di conoscere Iddio, se tu dovessi insistere negli stessi errori e nelle stesse colpe delle quali eri macchiato allorché ancora non avevi la nozione di Dio? o che forse c'è un Cristo per chi ha avuto già battesimo, e un altro per i Catecumeni? è diversa la speranza loro, forse? differente la ricompensa che attendono, o il timore del giudizio? non è uguale l'obbligo che incombe loro di far penitenza? Il lavacro battesimale è il sigillo della fede, ma questa fede prende il suo punto di partenza e si basa e si raccomanda alla sincerità della penitenza: non è questa la ragione per la quale noi facciamo la santa |187 abluzione battesimale, l'uscire cioè da una condizione e da uno stato di colpa; noi abbiamo già posto fine a un tale stato, da quando ci siamo sentiti moralmente purificati: il battesimo primo del catecumeno è un senso di religioso ossequio e di timorosa venerazione: da quel momento finché avrai m te stesso sentito il Signore, la tua fede sarà salda e pura, e il tuo proprio spirito nella sua integrità e rettitudine, avrà una volta per tutte abbracciata la penitenza. Del resto, qualora noi ci allontanassimo dal peccato, solo dopo avere avuto il sacramento battesimale, noi ci rivestiremmo di un abito di incolpabilità sotto la forza della necessità, non per nostro libero volere; chi però, si può dire che possegga l'attributo della bontà in maggior grado? colui al quale non è permesso esser cattivo o chi invece sente il dispiacere d'esser tale? chi sta lontano dal peccato, perché così gli è ingiunto o chi prova gioia e soddisfazione di star lungi da quanto può rappresentar colpa? È lo stesso che non tener lontane le mani dal commetter furto, almeno che la solidità delle sbarre non ce l'impedisca; è lo stesso che non tener lontani gli occhi dalle concupiscenze più volgari del piacere, almeno che non ne siamo impediti da chi difende e protegge i corpi desiderati; qualora si riconosca che ognuno possa continuare a commettere atti colpevoli, per quanto si sia dedicato a Dio, se proprio non è legato e costretto ad astenersene per la forza del sacramento battesimale. |188 Se poi ci fosse qualcuno che potesse pensarla così, non so se una volta che abbia ricevuto il battesimo, sia maggiore il suo rammarico per essere stato allontanato dal peccato o la gioia perché ne sia stato liberato. I catecumeni possono desiderare il battesimo, non bisogna però che lo pretendano: chi lo desidera, lo tiene nel debito onore; chi lo pretende, cade in colpa di superbia; nell'uno appare un senso di rispetto e di verecondia; nell'altro si rende manifesta una certa pretensione superba; l'uno dimostra attività e buon volere; l'altro, negligenza ed abbandono; il primo desidera di rendersene meritevole; l'altro l'attende e se lo ripromette, come qualcosa che gli sia dovuta; l'uno lo accoglie, l'altro, se. ne impadronisce quasi colla violenza. Chi è che tu stimi più meritevole del battesimo, se non chi presenta una linea di maggior correttezza e purezza? e chi riveste tale abito, se non il più timorato e che ha seguito un principio di penitenza vera e profonda? Questi ebbe infatti timore d'incappare nella colpa, e perdere così il merito di ricevere il battesimo; ma colui invece il quale lo presume come un diritto e se ne vive sicuro e in stolta superbia, non può provare questo senso di religioso timor di Dio e quindi non adempie al santo obbligo della penitenza, perché non ha il senso di quel timore che è appunto lo strumento della penitenza stessa. La presunzione è in certo modo figlia della sfrontatezza: essa solleva vanamente ed inorgoglisce chi ha la |189 sfacciataggine di chiedere e non fa alcun conto di chi dà; ma talvolta può darsi che cada in inganni e in delusioni: essa fa sì che uno pretenda alcunché, prima che ciò sia a lui veramente dovuto; e da questo fatto colui che deve accordare qualcosa, è naturale che concepisca una specie di giusto risentimento.CAPITOLO VII.
Sarebbe bene, non incorrendo in colpe, non aver bisogno della seconda penitenza, dopo aver ricevuto il lavacro battesimale.
Possano così, o nostro Signor Gesù Cristo, fino a questo punto, i tuoi seguaci fedeli, avere la sorte d'imparare e ascoltare quanto si può dire e sostenere della disciplina della penitenza ed abbiano chiara l'idea di quanto sia necessario tenersi lontano dal peccato; ma al di là di questo grado sarebbe preferibile quasi che non avessero cognizione esatta della Penitenza e non vadano affatto su di essa riponendo il loro pensiero. Rincresce e provo proprio un senso di disagio nel dover far ricordo ora della penitenza in un secondo momento, in quanto cioè essa può rappresentare la speranza ultima di un peccatore: io temo che noi tornando a trattare di questo mezzo d'aiuto che rimane e che è appunto la penitenza, non si debba sembrare di lasciare in certo modo una via aperta al peccato. Iddio guardi che non |190 vi sia alcuno il quale interpreti le mie parole come se la facoltà che egli ha di ricoverarsi sotto le ali della penitenza, gli donasse anche piena licenza di peccare; e la grandezza e la liberalità della grazia divina non dovesse favorire davvero il capriccio di ogni maggiore umana temerità. Che non vi sia nessuno che pensi di poter essere peggiore... dal momento che Iddio è bontà tanto più grande di quel che dovrebbe e commetta colpa tante volte, pensando che altrettante Iddio possa scendere a lui col perdono. Del resto, una fine evidentemente vi sarà a chi pur riesce di sfuggire alla giusta sanzione, qualora egli non ponga termine al suo stato di colpa: c'è riuscito una volta d'uscirne salvo? ebbene, fino a qual momento noi ci vorremo esporre al pericolo, nonostante che possiamo sperare di ottenere una seconda volta perdono? I più, quando hanno fatto tanto di sfuggire ad un naufragio, dicono addio, d'allora, alla nave e al mare e il beneficio che il Signore ha voluto concedere col far loro ottenere salvezza, lo ricordano e l'onorano col tener sempre dinanzi al loro pensiero il pericolo da cui hanno potuto scampare. Io lodo il loro timoroso ossequio, la loro moderazione e la prudenza per l'avvenire: essi non vogliono certamente, una seconda volta, rappresentare un carico per la divina misericordia: essi temono evidentemente di sembrar d'insistere soverchiamente sulla grazia una volta loro concessa; e con un senso di misura e di equità, che non può altro che |191 riscuotere la nostra lode, evitano di mettere alla prova e di voler sperimentare quello di cui una volta già sentirono il dovuto timoroso rispetto. Testimonianza chiara di questo senso di rispettoso timore è porre un freno alla temerità e all'imprudenza nostra e il timore dell'uomo è appunto segno dell'onore che viene tributato alla divinità. Ma l'avversario nostro fierissimo, non lascia tregua mai al suo mal volere; ed anzi è proprio allora che maggiormente attacca ed infierisce quando appunto può aver sentore che l'uomo si trovi in uno stato di libertà e di sicurezza dal peccato; è quando si crede che la sua forza si estingua, che la fiamma del male si solleva più minacciosa e più fiera. Ed è del resto pur necessario che si volga ed esprima il suo rammarico vivo, quando venga concessa all'uomo, col perdono, la remissione delle colpe; egli vede infatti annientati, annullati, nella creatura tanti atti che l'avrebbero potuta condurre alla morte dello spirito; tante ragioni di legittima condanna da parte sua, egli le vede distrutte: si addolora, perché quello che fu un peccatore, in Cristo, s'erigerà a giudice di lui, potenza del male, e dei suoi spiriti cattivi. Ed è così appunto che costui non allontana mai gli occhi dalla preda; l'assale e la circonda, se in qualche modo, per qualche via, potesse penetrare attraverso gli occhi suoi colle inquietudini della carnale concupiscenza o avvolgere l'animo, colle insidie, negli adescamenti del mondo, o scalzare la fermezza di fede |192 collo spavento che può incutere la potenza terrena, o rivolgere da Tetto cammino con tradizioni false e bugiarde; e non rinunzia la forza del male, né retrocede di fronte a scandali o a tentazioni di ogni genere. Ma Iddio previde che tanti pericoli potessero veriflcarsi, che tante sottili vene di tossico s'infiltrassero e per quanto la via del perdono fosse chiusa ormai, serrata di fronte alla istituzione battesimale, pur tuttavia ancora permise che una strada di salvezza rimanesse aperta. E nel vestibolo pose la seconda penitenza perché essa apra a quelli che picchieranno; ma per questa volta soltanto, che è già la seconda; non più ormai dopo, dal momento che l'ultimo appello è stato vano. E non era del resto, sufficiente una volta sola? Tu hai quello che certamente, ti sei meritato, dal momento che lasciasti perdere quello che avevi già ricevuto. Se l'indulgente liberalità del Signore ti ha offerto il modo di riprendere quello che avevi perduto, dovrai esser grato di un beneficio che ti è stato ripetutamente concesso e che quindi puoi ritenere accresciuto. È molto più invero donare una seconda volta, che il semplice dare; ed è, nello stesso modo, più grave e doloroso l'aver perduto, piuttosto che il non aver ricevuto affatto. Ma in ogni modo non bisogna abbandonarsi e lasciarsi prendere dalla disperazione, quando taluno si trovi obbligato ad un secondo atto di penitenza. Ti rincresca d'esser caduto novamente nel peccato, ma non hai ragione di rammarico nel pentirti una |193 seconda volta: ti rincresca di trovarti di nuovo nella rischiosa incertezza sulla via della colpa, ma nessuna vergogna dovrai provare se ti riuscirà di uscirne una seconda volta integro e puro: se la malattia si rinnova, bisogna ripetere la medicina. È la gratitudine tua che mostrerai al Signore, se non ricuserai quanto il Signore ti offre: tu l'hai offeso, ma puoi ancora riconciliarti con Lui: tu hai ancora chi di buon grado accetta il tuo atto di contrizione, e di fronte al quale tu possa liberamente aprire l'animo tuo.CAPITOLO VIII.
Come il Signore sia disposto ad accogliere il pentimento del peccatore.
Se tu ne potessi dubitare, ritorna un po' a considerare quello che lo Spirito Santo disse alle sacre radunanze di fedeli (5): a quei di Efeso |194 rimprovera d'avere abbandonato ogni senso di carità; rinfaccia a quei di Tiatira la violenza carnale e di mangiare gli avanzi delle vivande consacrate agli Idoli; per la chiesa di Sardi usa parole gravi perché non ha portato a termine opera alcuna, quei di Pergamo, sentono la sua voce di rimprovero, per i perversi insegnamenti che essi impartiscono; rampogna i Laodiceni, che fanno conto delle ricchezze; ma tuttavia la sua parola è di esortazione ad ognuno nello stesso tempo, perché tutti seguano linea di penitenza, e non manca però nella sua parola, gravita di minaccia. E perché dunque minacciare chi non si volge a pentimento, se non ne conseguisse il perdono, per chi tale principio segue ed onora? potrebbe ancora essere cosa dubbia, magari, se non avesse dimostrato, già in altri casi, la larghezza e la liberalità della clemenza sua; ma non è il Signore che dice; chi cadrà, si solleverà di nuovo; chi si sarà allontanato da me, a me farà ritorno? Evidentemente egli è quello che preferisce la misericordia, al sacrificio ; i cieli e gli angeli, che in esso hanno dimora, si rallegrano della penitenza dell'uomo. O tu, che sei peccatore, solleva l'animo tuo, guarda dove ci si rallegra e si gioisce per il tuo ritorno ad un principio di bontà. Che ci |195 vogliono dire, a che mirano le parabole del Vangelo? Una donna perse una dramma (6), ed ella la ricerca e la trova ed invita le amiche perché con lei si rallegrino; ebbene non è questo l'esempio di un peccatore restituito alla grazia del Signore? Una pecorella di un povero pastore si smarrisce (7); ebbene; l'intero gregge non era per il pastore, più caro, di quella sola pecorella: è proprio lei, unicamente che egli va cercando, quella egli vuole a preferenza di tutte le altre ed infine la ritrova e sulle sue spalle la riporta all'ovile: ella era molto stanca infatti, dal lungo errare. E farò parola anche di quel padre buono e mansueto che richiama il figliuol suo, prodigo e con tanto amore l'accoglie, dopo che egli per la sua prodigalità era divenuto povero; ma si era pentito; ed egli sacrifica un vitello florido e grasso e manifesta la sua gioia coll'allegria di un convito. Perché ciò, dunque? perché il padre aveva infatti ritrovato un figlio che aveva perduto; e l'aveva sentito in sé, come qualcosa di più caro, perché era stato appunto in |196 certo modo riguadagnato. E quel padre per noi chi rappresenta? È Iddio stesso; nessuno ci è tanto padre come lui, nessuno ha tanta pietà di noi come lui. Egli accoglierà dunque te, figlio suo, sebbene tu abbia gettato via a piene mani quanto avevi da lui ricevuto; per quanto tu sia tornato nudo, egli ti accoglierà, perché ritornasti; e proverà letizia maggiore del tuo ritorno, che di tutta la saggezza di un altro figlio suo: ma a condizione che il tuo pentimento sia sincero, che venga dall'intimo del tuo cuore, che tu voglia confrontare la tua fame, con l'abbondanza di cui godono e s'allietano i servi del padre tuo; a condizione che tu abbandoni il gregge immondo dei porci, che tu ritorni al padre tuo e gli dica, per quanto egli possa essere mosso a sdegno: ho sbagliato padre mio, né io sono ormai più meritevole d'esser chiamato figliuol tuo. Tanto innalza e nobilita il riconoscimento delle proprie colpe, quanto invece le aggrava il volerle dissimulare: nella confessione dei peccati è implicito il riconoscimento e l'intima contrizione; se tu li dissimuli, ciò è segno di colpevole ostinazione.CAPITOLO IX.
Per i peccatori la confessione è necessaria: suo carattere e procedimento estenore.
Di questa seconda forma di penitenza ed ultima ormai, il procedimento è più difficile ed |197 aspro e la prova che uno deve dare, è, senza dubbio, più laboriosa, così che, non solamente debba esser offerta da un intimo esame della coscienza nostra, quanto da qualche nostro atto aperto e manifesto. Questo atto nostro viene chiamato, con parola Greca, di solito, esattamente, exomologesis, ed invero consiste nel confessare sinceramente al Signore la colpa da noi commessa; evidentemente, non perché Egli la ignori, ma perché colla confessione si procura una certa soddisfazione alla divina giustizia e dalla confessione nasce la penitenza e il Signore viene dalla penitenza mitigato nel suo giusto sdegno verso il peccatore. La exomologesis, comprende in certo modo tutto un processo per cui l'uomo s'abbassa e s'umilia alla maestà del Signore; così da prefiggersi tutto un sistema di vita adatto a fermare su di lui la divina pietà e misericordia. Riguardo anche al modo di vestire e di mangiare, raccomanda che il luogo del nostro riposo sia coperto di ruvido sacco e di cenere, vuole che si nasconda quasi la nostra persona sotto vesti squallide e rozze, vuole prostrare, abbassare l'animo nostro sotto gli assalti della tristezza e del dolore, correggere, in certo modo, il mal fatto, con atti di rigore e di costrizione dolorosa su noi stessi; richiede semplicità massima e assoluta nei cibi e nelle bevande, mirando quindi, evidentemente, non al nostro corpo, ma esclusivamente in servigio dello spirito nostro; vuole alimentare il valore delle preghiere che noi rivolgiamo al Signore, coll'asprezza dei |198 digiuni, cibarsi di lagrime e giorno e notte, invocare il Signor nostro e con tutto l'ardore e la nostra fede, gettarsi ai piedi dei sacerdoti, inginocchiarsi davanti a quelli che sono cari a Dio, incaricare quasi, tutti i fratelli di fede, d'essere suoi intercessori per ottenere il suo perdono. Tutto questo comprende e vuole, ciò che abbiamo chiamato exomologesis, per dar valore alla Penitenza, per onorare il Signore nel timore del pericolo; perché, in qualche maniera, agendo essa stessa direttamente sul peccatore, acquieti la collera divina e, con una sofferenza terrena, non dico che riesca a frustare e a sottrarsi ingannevolmente, ma soddisfaccia e allevi la legge della pena eterna. La Penitenza solleva l'uomo proprio quando l'abbatte e lo prostra a terra; è proprio quando lo fa povero e squallido, che l'illumina di una luce più fulgida e lo rende terso e splendido; quando l'accusa, lo giustifica; quando lo condanna l'assolve; quante più sarai severo con te stesso, tanto più Iddio, credimi, ti perdonerà e scuserà le tue colpe.CAPITOLO X.
Nessuna ragione hanno i peccatori di provar vergogna, nel confessarsi.
Ma tuttavia io ho ragione di credere che i più evitano o differiscono di giorno in giorno questo atto della penitenza, come qualcosa che |199 li metta troppo allo scoperto, direi quasi, alla berlina, dimostrando così di essere preoccupati maggiormente di un certo loro senso di vergogna, che della propria salvezza : mi sembrano davvero costoro da paragonare a chi, avendo contratto malattia in parti segrete e vergognose della propria persona, cercano di non mettere il loro stato a cognizione del medico e così se ne muiono, per un malinteso pudore. Evidentemente può essere anche cosa difficilmente tollerabile per un nostro senso di vergogna il dovere, in certo modo, dare soddisfazione a chi s'è offeso; ed è proprio il Signore questi; e riaccostarsi poi alla via della salvezza, che non era stata da noi curata per l'avanti. Ma dimmi dunque, tu, che mostri ora senso di pudore e di vergogna: quando si trattava di peccare, la tua fronte tenevi alta e superba, ed ora tu l'abbassi, invece, quando si tratta di acquietare il giusto sdegno del Signore? Per me, non riconosco, al rossore, alla vergogna, nessun merito, quando, da esso è maggiore il danno che ricevo, di quello che sia il vantaggio; in quanto è proprio questo senso di falso pudore che suggerisce all'uomo di dire: non aver pensiero di me; vai meglio che io, pudore, mi perda, piuttosto che tu. Certamente il rischio a cui uno si espone, nel riconoscimento delle proprie colpe, potrebbe esser grave, nel caso, che s'avesse da fare con chi, deridendoci, mosse, pronto ad insultarci; quando ci fosse chi attende la rovina dell'altro, per sollevarsi |200 sull'altrui sciagura e chi è anelante di calpestare quello che resta abbattuto; ma ciò non può avvenire fra fratelli, fra compagni, fra i quali brilla un raggio di speranza comune e comuni sono il timore, la gioia, il dolore, la passione; (e non hanno essi infatti una stessa anima, venuta loro dallo stesso Iddio, da un medesimo padre?) per-ché tu credi diversi i tuoi da te? perché fuggi quelli che sono, come te, soggetti alle tue cadute e ai tuoi errori, come fossero spettatori, che dovessero esser pronti all'applauso, e non invece qualcosa di vicino a te, di comune, di intimo con te? Il corpo non può rimanere impassibile e non risentire della condizione infelice di una parte; tutto se ne duole necessariamente, e richiede quindi, il rimedio. Là, dove vi sono uno o due fedeli, là è la Chiesa, ma la Chiesa s'identifica col Signore. Dunque, quando tu tendi le mani verso i ginocchi dei tuoi fratelli, è il Cristo che tu tocchi, è il Cristo che tu abbracci, che tu implori. E quando, per parte loro, i tuoi fratelli versano lagrime su di te, è Cristo che soffre, è il Cristo che per te supplica il padre suo e s'ottiene facilmente quello che il figlio domanda.Ma, diciamo francamente, se tu terrai nascosta la tua colpa, sarà forse grandissimo il vantaggio che ne potrai ritrarre e molto avrà da acquistare il tuo senso di rossore? Invero, anche se qualche cosa riusciremo a tener nascosto, per quanto è possibile, all'uomo; per questo, lo potremo celare anche a Dio? E si |201 potrebbe mai stabilire in ogni modo un paragone fra il giudizio e la stima degli uomini, e quello che può rappresentare la consapevolezza che Iddio avrà dei nostri colpevoli? Forse è meglio cadere nella condanna, ma rimanere occulto, che apertamente affrontare il riconoscimento esplicito della propria colpa? Ma quale triste cosa, si potrà dire, giungere al riconoscimento aperto delle proprie colpe, alla confessione di esse? ebbene, è dal male che si arriva alla guarigione; d'altra parte, quando si tratta di sentir pentimento, non bisogna più parlare di pena, perché quell'atto che noi compiamo, da luce e salvezza al nostro spirito. Cosa ben dolorosa è l'esser bruciato ed essere, in vario modo, tormentato sotto l'azione di polveri corroditrici; tuttavia quei rimedi che s'adoprano pure con tanta sofferenza del nostro misero corpo, trovano la giustificazione della loro azione dolorosa, nel vantaggio che essi portano dopo, nello svolgimento della malattia e fanno accettare di buon grado il male presente, colla visione di un bene di cui noi godremo in un momento avvenire.
CAPITOLO XI.
Usa parole di fiera ironia contro quei peccatori che temono le mortificazioni del corpo.
C'è un senso di vergogna nel riconoscersi colpevoli, ed è giusto, ma, a cui danno maggiore |202 importanza i peccatori, se ci fosse anche il timore, lo sgomento per quanto debbono soffrire materialmente sulla propria persona, che cosa mai dovrei dire allora? intendo riferirmi al fatto che essi debbano fare a meno del conforto dei bagni, che siano nel vestire, rozzi e squallidi, che ben lungi da ogni gioia e da ogni condizione di letizia, vivano nella tristezza di un abito di sacco; che in un senso di negazione e di rinunzia si lascino cospargere di cenere; che infine vedano la loro faccia squallida per le sofferenze del digiuno: ma, intendiamoci converrebbe proprio, sarebbe forse opportuno che noi che siamo stati pur peccatori, ci rivolgessimo supplicanti a Dio, in abiti di lusso, in magnificenza di porpora? Ebbene, per dividere elegantemente i tuoi capelli, ecco qui, proprio all'uopo, una specie di pettine particolare; perché i tuoi denti siano bianchi e pulitissimi, eccoti la polvere adatta; c'è poi qua un paio di forbici di ferro o di altro metallo, perché le unghie ti siano d'una perfezione inattaccabile; vantati pure di spandere sulle tue labbra o sulle tue gote qualche rossetto o qualche altra insidia di varia bellezza; vai in cerca di bagni lussuosi e deliziosi, per tuo godimento spendi pure in villeggiature eleganti e in parchi suntuosi sulla riva del mare; cerca pure d'avere il modo d'alimentare una quantità grande di volatili; bevi pure del vino vecchio e bene spogliato; e se qualcuno vi domanderà perché così, a vostro agio, con tanta magnificenza, voi vi mantenete; non |203 avrete altro da rispondere che: ho commesso colpa, ho peccato contro il Signore, e corro il rischio d'esser condannato in eterno ed è per questo che io ora debbo pagare, e mi macero e mi tormento, perché Iddio possa riconciliarsi con me, dal momento che io gli ho recato offesa col commetere peccato!Ma anche quelli che brigano e intrigano per arrivare ad occupare una carica pubblica, guardate un po' come si comportano: non c'è vergogna che essi provino, non c'è rincrescimento che essi abbiano, non ci sono sofferenze né fisiche né morali che essi riconoscano, e neppure offese di qualunque genere essi calcolano : pur di arrivare al soddisfacimento delle loro ambizioni, sono capaci di portare abiti della maggiore modestia: se ne fanno forse, essi, caso alcuno? anzi, se ne fanno un vanto, all'occorrenza : m qual casa poi essi son capaci di recarsi per portare il loro saluto la sera e la mattina? basta che incontrino una persona d'alta condizione perché s'inchinino vilmente a costoro; non prendono parte a nessuna riunione, a nessun convito, a nessun ritrovo allegro e spensierato; si tengono insomma ben lontani da ogni libera manifestazione di gaudio: ma tutto ciò si fa in fondo per avere la soddisfazione di ottenere per un anno, che pur passa veloce, l'onore di una carica pubblica. E noi dubitiamo forse di sopportare di fronte alla visione della vita eterna, quello che invece si trova legittimo di soffrire per una |204 semplice richiesta ambiziosa? E noi, dopo avere offeso il Signore, guarderemo a certe mortificazioni nel vitto e nell'abito nostro, mentre i gentili, senza aver recato affatto offesa, non fanno di ciò considerazione alcuna? Questi sono coloro dei quali la scrittura così fa ricordo: guai a quelli che legano le colpe loro come con una lunga fune (8).
CAPITOLO XII.
Le pene che patiremo nell'Inferno e i castighi di Dio ci esortano alla penitenza.
Se tu vai ripensando al fatto della exomologesis, rifletti anche però, nell'animo tuo, al fuoco eterno infernale che la penitenza saprà, in vantaggio tuo, estinguere; e quando, in un primo momento, tu abbia calcolato bene la grandezza della pena, non potrai avere dubbio alcuno ad abbracciare quanto ti si presenta possibile per il rimedio. Quale pensiero ci deve agitare; quale idea dobbiamo farsi noi di quel fuoco eterno, nel suo terribile insieme, se certe piccole parti di fuoco, certi lembi di fiamma che da quello si sollevano, sono capaci di suscitare incendi tali che le città che si sono trovate vicine al loro divampare sono rimaste distrutte, e quelle che ancora |205 sopravanzano, temono di subire la medesima fine? Monti altissimi e superbi s'infrangono e precipitano paurosamente, perché in sè stessi hanno la forza di questo fuoco; e ciò che, d'altra parte, è indice per noi di un castigo che non avrà fine, è che, per quanto essi siano sconvolti ed infranti, nonostante che siano consumati e divorati dal loro interno fuoco, pure non finiscono mai. Chi non riconoscerà che questi sconvolgimenti interni delle montagne non diano a noi l'esempio di quello che possa essere di noi in seguito ad un giudizio che sempre è a noi imminente e ci minaccia inesorabile? Chi non vorrà riconoscere che tali ignee scintille, non rappresentino quasi i dardi, i colpi impetuosi che contro di noi lancierà un giorno la furia di un fuoco inestinguibile e tremendo? Pertanto, dal momento che sai che dopo la prima difesa che Dio ti ha dato nel battesimo, contro l'eterna fiamma infernale, ti resta ancora nella Penitenza una seconda risorsa, perché tu vorresti abbandonare la salvezza dell'anima tua? perché tu ritardi a ricorrere a un rimedio che, sai, deve guarirti? Anche gli animali, che pur non hanno parola, né sono forniti di ragione, sanno tuttavia conoscere i rimedi loro adatti, che, per la bontà divina, la natura ha loro apprestato. Ecco qui un cervo ferito da un colpo di saetta: ebbene, per poter cacciare dalla ferita la punta mortale che se ne sta infitta terribilmente, esso sceglie l'erba del dittamo, per medicarsi; e la rondine, se ha disgraziatamente |206 offeso nella vista i suoi piccoli, saprà restituire loro la facoltà visiva integralmente, curandoli coll'erba chelidonia. E proprio il peccatore, pur sapendo che Iddio ha istituito la penitenza per riportarlo ad uno stato di grazia, vorrà trascurare quella che fu capace di restituire alla potenza sovrana il re di Babilonia sul trono? Per lungo tempo egli aveva offerto al Signore i segni del suo pentimento più intimo: ed aveva compiuto opera di penitenza, in uno stato di squallida umiliazione da ben sette anni: le sue unghie cresciute spaventosamente, erano simili agli artigli di un uccello di rapina; i suoi capelli, in disordine, potevano apparire come la criniera arruffata di un leoncello : trista condizione la sua; ma era proprio quello di cui gli uomini avevano orrore e da cui torcevano lo sguardo, che invece era accetto al Signore. Il contrario è accaduto al re di Egitto che, perseguitando il popolo di Dio già colpito ed oppresso e da lungo tempo negato al suo Signore, corse alla violenza delle armi contro di esso; ma dopo tanti evidenti esempi di sventure e di calamità, perì nei vortici delle onde che avevano saputo dividersi per lasciar passare attraverso il loro seno, soltanto il popolo eletto da Dio; egli aveva evidentemente trascurato di seguir penitenza e d'avvicinarsi a confessione che di essa è il necessario strumento. Ma perché parlare di di questi due mezzi di salvezza dell'uomo, e curare magari maggiormente una quistione diciamo formale, di stile, piuttosto che sentir ciò come |207 un dovere della coscienza mia? poiché appunto anche io sono un peccatore, gravato d'ogni colpa e d'ogni debolezza dell'umana natura e che quindi non sono nato che a far penitenza: è perciò che non posso tacere affatto su di essa, dal momento che Adamo stesso, il primo autore della razza umana e dell'offesa contro il Signore, una volta riportato per il riconoscimento e la confessione delle proprie colpe nel suo Paradiso, non mancò implicitamente di dire la sua parola sulla penitenza.Note
1. Intendi: si deve non attendere il battesimo quasi lavacro di ogni nostra colpa, ma seguir prima penitenza di quanto possiamo aver prima commesso, perché il fatto di ricevere la santa abluzione battesimale, non indica che noi ci siamo emendati, ma che speriamo da quella la remissione di ogni nostro peccato, nella infinita misericordia di Dio.2. Intendi: può esservi chi venga a mancare prima di ricevere il battesimo: ebbene costui avrà ugualmente possibilità di remissione e di perdono da parte di Dio, ma è pur necessario che chi si venga a trovare in tale condizione, si sia reso anteriormente degno di questo immenso dono, di tanta misericordia divina.
3. S. Luca, VIII, 17: Conciossiacché nulla sia nascosto che non abbia a farsi manifesto, né segreto che non abbia a sapersi e a venire in palese.
4. Chiamò simbolo della morte il battesimo, perché S. Paolo dice, che nel battezzarsi si muore e siamo sepolti con Cristo e con lui risuscitiamo a nuova vita.
5. Apocalisse, II, 4: All'Angelo della chiesa di Efeso scrivi... Ma io ho contro a te questo, che tu hai lasciata la tua primiera carità... 18: (alla chiesa di Tiatira) ma ho contro a te alcune poche cose: che tu lasci che la donna Iezabel, la quale si dice esser profetessa, insegni e seduca i miei servitori, per fornicare e mangiar dei sacrifici degli idoli... III, 2: (alla chiesa di Sardi) Sii vigilante e rafferma il rimanente che sta per morire: conciossiaché io non abbia trovate le opere tue compiute nel cospetto dell'Iddio mio... II, 14: (alla chiesa di Pergamo) Ma io ho alcune poche cose contro a te, cioè: che tu hai quivi di quelli che tengono la dottrina di Balaam, il quale insegnò a Balac di porre intoppo davanti ai figliuoli d'Israele, accioché mangiassero delle cose sacrificate agli idoli e fornicassero... III, 17-18: Perciocché tu dici: io son ricco e sono arricchito e non ho bisogno di nulla e non sai che sei quel calamitoso e miserabile e povero e cieco e nudo; io ti consiglio di comperar da me dell'oro affinato col fuoco, acciocché tu arricchisca: e dei vestimenti bianchi a ciò che tu sii vestito e non apparisca la vergogna della tua nudità, e d'ungere con un collirio gli occhi tuoi, acciocché tu vegga.
6. S. Luca, XV, 8: Ovvero, qual'è la donna che avendo dieci dramme, se ne perde una, non accende la lampada e non spazzi la casa e non cerchi studiosamente, finché l'abbia trovata?
7. S. Matteo, XVIII, 12-14: Che vi par egli? se un uomo ha cento pecore ed una di esse si smarrisse, non lascerà egli le novantanove e non andrà su per i monti, cercando la smarrita? e se pure avviene che egli la trovi, io vi dico in verità che egli più si rallegra di quella, che delle novantanove, che non si erano smarrite; così la volontà del Padre vostro che è nei cieli, è che neppur uno di questi piccoli perisca.
8. Isaia, V, 18: Guai a coloro che tirano l'iniquità con funi di vanità e il peccato come con corde di carro.
PARTE TERZA (3)
Il diario - Beata Elisabetta Canori Mora
Leggilo nella Biblioteca70 – L’AIUTO DEL SANTO RIFORMATORE TRINITARIO
70.1. La via che conduce al santo monte
Il dì 5 febbraio 1823, la notte mi trattenevo in orazioni, nel qual tempo tornai a vedere il suddetto monte, il Signore invitava la povera anima mia ad intraprendere il viaggio, ma io mi ritrovavo molto combattuta, perché avrei voluto subito accettare l’invito, per compiacere il mio Dio, ma un santo timore arrestava il mio passo, mi confondevo ancora per non sapere come intraprendere un incognito viaggio, così malagevole e disastroso.
Ero per questo mesta e dolente, piena di lacrime mi rivolsi al mio Dio e così gli dissi: «A me non mi dà l’animo di salire questo altissimo monte, le mie forze sono troppo deboli».Così mi intesi rispondere: «Hai ragione: né con le tue forze, né con la sola grazia ordinaria potresti al certo salire questa altura; ma sappi però che io sono per comunicarti una particolare grazia, perché tu possa intraprendere questo beato cammino, vieni con me ed osserva la via che conduce al santo monte. Questa è una via occulta e nascosta, non è a tutti palese la maniera di salire questo monte, a me solo è riservata io solo posso condurci quelle anime che più mi piacciono, senza far torto ad alcuno, perché io sono padrone dei miei doni, non c’è anima che possa questa grazia meritare, per quanto si adoperi per amor mio. figlia, il dono è gratuito, rifletti bene, quanto mi devi ringraziare!».
A queste divine parole l’anima mia profondamente si umiliò e liquefacendosi di tenerezza, d’amore e di santo timore insieme, tutta in lacrime si disciolse, con tanto affetto e amore, che non ho termini di poterlo spiegare.
In questo tempo il mio Dio mi condusse nell’interno del monte, e mi fece vedere la strada che alla sommità di detto monte conduceva. Allora l’anima mia esclamò con vivo affetto: «Mio Dio, quanto mai siete grande nelle vostre operazioni! Oh quanto è grande la vostra infinita bontà! L’anima mia resta sorpresa fino al grado di timore; per l’eccesso della vostra infinita carità il mio intelletto vien meno, e affatto si perde nell’eccessivo vostro amore». Con queste ed altre simili espressioni andavo sfogando la fiamma della carità che ardeva nel mio cuore.
Per non tediare tanto vostra paternità reverendissima non sto qui a ridire quanto lungo fosse lo sfogo d’amore e gli umili sentimenti con cui l’anima si trattenne con il suo Dio, e la ripulsa che fece prima di intraprendere il suo viaggio al monte santo; solo dirò che si degnò di condiscendere agli umili desideri che mi venivano comunicati dalla sua santa grazia, desideri erano questi di non oscurare la gloria di Dio; riconoscendomi affatto indegna di calcare la strada di quel santo monte, così dicevo piangendo: «Ah mio Dio, mi riconosco troppo indegna di questo favore! Abbiate riguardo alla vostra gloria, non mi conducete in questo monte santo, perché io sono la creatura più vile, più indegna che abita la terra, sono la stessa abominazione. Mio Dio, prima degnatevi di purificarmi nel vostro prezioso sangue, perché non sia tanto disonorata da me la vostra santità».
Si compiacque di esaudire la mia povera preghiera, e mi promise di purificarmi prima di farmi intraprendere il detto cammino, come di fatti seguì.
Tre giorni si trattenne il mio spirito ai piedi del santo monte, preparandosi con ritiro, mortificazioni, orazioni e dolore dei propri peccati, con atti di profonda umiltà e con lacrime abbondantissime, che mi venivano comunicate dalla grazia del Signore, compartendomi una propria cognizione, che mi faceva conoscere la mia propria viltà e miseria, riconoscendomi indegna di tanto favore mi trattenni in questi tre giorni lodando e benedicendo Dio, il quale si degnò di ammaestrarmi nella pratica delle sode e vere virtù, segnatamente della carità verso Dio e verso il prossimo.
70.2. I fondatori trinitari mi condussero verso il monte santo
Il giorno 8 febbraio 1823, festa di san Giovanni de Matha, fondatore dell’ordine trinitario, il mio spirito, con l’aiuto del Signore, intraprese il suddetto viaggio.
Ecco il fatto come seguì: fino dal giorno 7, vigilia del detto santo, il mio spirito sperimentò in se stesso un grande raccoglimento, unito ad una profonda umiltà. La mattina dell’8, nella santa Comunione viepiù si accrebbero in me questi umili sentimenti, riconoscendomi affatto indegna di intraprendere il suddetto santo viaggio, a questo oggetto mi portai dal mio padre spirituale, e dopo aver fatto una dolente confessione dei miei peccati, piangendo gli dissi: «Padre, come ministro del Signore lei deve zelare l’onore di Dio, dunque non permetta all’anima mia di salire il monte santo, perché Dio resterà da me disonorato. Padre questa è una grande pena per me».
Il mio padre spirituale così mi rispose: «Io voglio che siate umile, ma non vile, dovete confidare in Dio, lui vi invita, voi dovete accettare l’invito, confidate in Dio e non abbiate paura, ché lui vi darà la grazia di corrispondere con fedeltà a quanto vuole da voi, vi dico che non solo ve lo consiglio, che intraprendiate questo santo viaggio, ma ve lo comando. Non voglio assolutamente che rinunciate ai favori di Dio. Andate, andate», mi disse, «che siete una sciocca! Qualunque grazia vi possa fare Dio non sarà mai tanto grande in paragone di quella che vi ha creata e redenta con il suo prezioso sangue».
Alle parole del mio padre, mi umiliai profondamente, conoscendo che diceva benissimo, che io sono una sciocca col ricusare i favori di Dio.
Persuasa di questa verità, chiesi perdono al mio Dio, feci la rinnovazione dei voti, come mi aveva imposto il mio padre, ed accettai l’invito.
Nel tempo che si celebrava la messa cantata, nella chiesa dei trinitari, ecco cosa seguì nel mio spirito. Mi parve di ritrovarmi ai piedi di detto monte santo, Dio per sua bontà mandò un raggio di luce sopra di me, tanto forte e potente, che non solo purificò il mio spirito, ma gli comunicò una chiarezza indicibile, che mi rese tanto bella che non si può immaginare, nonostante che mi vedessi così bella, in luogo di compiacermi, mi sprofondavo umilmente, confessando la mia viltà, rendevo onore e gloria al mio Dio che si era degnato di ammantarmi con il suo divino splendore; vedevo dunque il mio spirito così risplendente e bello, vestito dell’abito trinitario. Il mio spirito si era prostrato sul suolo con la fronte per terra, umiliandosi fino al profondo del suo nulla, ammirando solo l’infinita bontà di Dio, che si degnava comunicarmi la sua divina grazia.
In questo tempo mi parve di vedere uno stuolo immenso di padri trinitari già trapassati all’altra vita, queste sante anime di già gloriose in cielo, venivano a schiere a schiere, uniti a molti santi angeli, venivano a rallegrarsi con la povera anima, per l’ottenuto favore. Dio, per la sua infinita bontà, faceva pompa della sua carità usata verso di me, si compiaceva mostrarmi a tutti quei beati cittadini del cielo. Oh come veniva glorificato Dio da tutti quei beati comprensori! oh come tutti si rallegravano con la sua infinita bontà!
Dio allora manifestò a tutti quei cittadini celesti l’opera che era per fare con questa sua creatura, manifestò ancora per qual fine tanto mi benefica. Così disse Dio: «Oggi sia manifesto in cielo. Verrà il giorno che sarà manifesto agli uomini: tutti dovranno confessare che questa è opera mia!». Tutto questo fu detto con voce sonante e sonora.
In questo tempo il mio spirito se ne stava, per umiltà e per il timore, annientato in se stesso, con la fronte sul suolo, per il grande timore, nonostante che il mio spirito fosse tutto raggiante di luce; si approssimarono i santi fondatori trinitari e mi sollevarono da terra, mi fecero fare tre profondissimi inchini ad onore della santissima Trinità, condussero l’anima mia per la strada del monte santo, assicurandomi di proteggermi e di guidarmi, dandomi la loro santa benedizione da me si partirono, lasciando nel mio cuore un indicibile contento. Piena di coraggio, sperando nella loro valevole intercessione, così l’anima mia diede principio a questo santo viaggio del monte santo, dove al presente si trova; a suo luogo dirò quanto mi andrà seguendo.
70.3. Accetta con umiltà la sua grazia
Il dì 14 febbraio 1823, festa del beato Giovanni Battista, riformatore dell’ordine trinitario, la mattina nella santa Comunione si sopì il mio spirito in Dio in modo molto particolare, restai astratta dai sensi, il Signore mi comunicò un lume molto particolare di propria cognizione; in questa umile situazione mi portai a San Carlo alle Quattro Fontane per ivi assistere alla Messa cantata, mi prostrai in ginocchioni, e così immobile restai per due ore circa, senza più distinguere la mia sensibilità; questo tempo lo passai in umili preghiere e abbondanti lacrime, che dagli occhi versavo in gran copia raccomandandomi al santo riformatore ad ottenermi la remissione dei miei gravissimi peccati, e la grazia di salvare questa povera anima mia. Lo pregavo ancora incessantemente a farmi conoscere se io andavo ingannata dallo spirito delle tenebre; sfogavo ancora, con questo benedetto santo, i miei sentimenti, le mie afflizioni, il mio aggravio nell’avere acconsentito al surriferito favore di Dio, così gli dicevo: «Come volete, santo mio benedetto, che io possa di buona voglia acconsentire di essere trinitaria, se sono la creatura più vile che abita la terra, come? io che sono una stracciona, un’ignorante, come potrò sostenere un simile incarico? Ah, santo mio benedetto, pensateci voi di pregare l’Altissimo, acciò si degni assentarmi da questo forte incarico, mio Dio, io rinunzio a questa grazia, a questo favore».
Piangevo intanto dirottamente: «Mio amorosissimo Dio, rinunzio, sì rinunzio a questo vostro favore, per non disonorare la vostra divina maestà! Mio Dio, voi pure lo sapete che io sono una povera spergiura, santo mio benedetto pensateci voi, che non venga da me disonorato Dio, che tanto cara mi è la sua gloria, il suo onore. Ah, non sia mai vero che per innalzare un verme vilissimo della terra, quale io sono, abbia da oscurarsi la gloria di un Dio di infinita maestà! Santo mio glorioso, zelate voi l’onore di Dio».
Speravo che le mie ragioni avessero convinto il santo zelo del beato Giovanni, mi pareva che i miei sentimenti fossero giusti e prudenti, e che il santo avrebbe preso a difendere l’onore di Dio con l’escludere a me da questo incarico ma fu tutto al contrario di quello che pensavo. Così mi rispose il santo, non facendosi però da me vedere: «Figlia mia», mi disse, «non ti negare ai favori dell’altissimo Dio, adora i suoi divini giudizi, accetta con umiltà la sua grazia».
A queste parole del santo, intesi tutta commuovermi, conoscendo il suo giusto parlare, e la mia stoltezza nel rifiutare le divine misericordie.
Ravveduta, dunque, volevo accettare di buon grado, ma non potevo, perché un forte timore me lo impediva, perché ponevo lo sguardo sopra la mia viltà, non mi reggeva il cuore di attendere a questa grande opera; tornai nuovamente a dire al santo: «Ah, che io mi trovo insufficiente, sono affatto incapace di regolare un’opera sì grande; voi, santo glorioso, sapete quanta fatica vi è costata, quanto avete patito e sofferto».
«Sì», mi rispose il santo: «è vero, mi costò grande fatica, ma tu non devi tanto faticare! altro non devi fare che venire appresso alle mie norme, questo ti basta per compiacere la divina maestà. Mira», mi disse, «o figlia, quanto facile ti sarà il regolare questa opera! Dio con la sua grazia ti faciliterà l’impresa».
Allora mi fece vedere una macchina quanto mai bella, stabile, ma nello stesso tempo movibile, ma io non la so descrivere. Dopo avermi fatto vedere questa bella macchina, soggiunse: «Ti pare adesso tanto ardua l’impresa, tu altro non devi fare che stare al registro di essa. Non temere, che Dio medesimo è l’autore e il regolatore di questa grande opera».
A questa vista restai altamente confusa e convinta, perché conobbi ad evidenza la mia ingratitudine di non voler fare tanto poco per compiacere il mio Dio, gli chiesi per questo umilmente perdono, poi tornai a pregare il santo così: «Mio carissimo padre, deh, per pietà, non mi abbandonate come meriterei, deh vi prego di proteggermi, vi dono la mia volontà, voi presentatela al mio Dio, acciò disponga di me come più gli aggrada».
Rivolta poi a Dio dissi: «Deh, mio amorosissimo Signore, degnatevi di ricevere la mia volontà per le mani di questo vostro fedelissimo servo, io ve la dono, ve la consacro, io ve la offro interamente, fate di me ciò che vi aggrada».
Fatta questa offerta Dio mi fece provare una consolazione di spirito tanto grande, che non lo posso spiegare, un abbandono totale della mia volontà nella divina volontà di Dio, tanto perfetta che può chiamarsi un’intima unione.
Dopo aver goduto questo grande bene, il mio Dio si degnò darmi a vedere il suo fedelissimo servo, il beato Giovanni Battista della santissima Concezione; cosa mai dirò della sua bellezza, della sua gloria? al certo non mi è possibile il poterlo manifestare; ma pure dirò qualche cosa, per non mancare alla santa obbedienza.
Io lo vedevo in atto estatico, tutto assorto in Dio, con tre raggi di splendida luce sopra il suo capo, che lo rendeva tanto bello, che non si poteva mirare il suo volto, per lo splendore.
Dalla croce del suo scapolare scintillava tanto splendore, che non si poteva fissare in lui lo sguardo, questa vista destò in me molta stima e venerazione, ed insieme un indicibile contento, che non posso esprimere, ma questo contento era unito ad un profondo di umiltà, che mi annientava in me stessa e mi faceva solo ammirare l’infinita bontà di Dio.
In questo tempo vidi apparire il glorioso stendardo trinitario, con grande numero di anime dei santi religiosi che militano sotto questo glorioso stendardo, accompagnati da molti santi angeli, che festosi facevano coro cantando inni di gloria all’Altissimo, con somma gioia fu annoverata la povera anima sotto questo glorioso stendardo della santissima.
70.4. Dio solo sa quanto mi costano questi scritti
Per ordine del mio padre spirituale riporto le gravi molestie che ho dovuto soffrire dal nemico tentatore, che voleva a tutto suo costo impedire che io scrivessi quanto passa nel mio spirito nel tempo delle orazioni, con le sue diaboliche suggestioni mi ha sempre perseguitata, acciò non scrivessi; solo Dio sa quanto mi costano questi scritti, quante fatiche e pene ho dovuto soffrire dalla diabolica suggestione, che si trova sempre pronta, quando scrivo per confondermi e farmi credere che quello che passa nel mio spirito nel tempo delle orazioni altro non è che un gioco della mia fantasia alterata, che mi fa vedere tutte quelle rappresentanze fantastiche.
La suggestione mi dice: «Non curare, né raccontare al confessore quello che ti salta per il capo nel tempo dell’orazione, disprezza tutte queste cose, se no andrai ad intisichire, vedi quanto aggravio ti porta il vivere così tediata e concentrata, sciocca che sei, potresti fare una vita allegra e contenta senza tanti pensieri; lascia lo scrivere, non far caso a quanto segue nel tuo spirito, allora potrai divertirti e stare allegra, non dare ascolto al confessore che non sei obbligata di obbedirlo quando ti comanda imprudentemente».
Non solo queste, ma tante altre cose mi suggeriva per persuadermi di lasciare affatto la vita interiore, era tanto forte la tentazione che mi dava gravissima angustia e molte volte sono stata sul punto di stracciare i miei scritti in minutissimi pezzi.
Il nemico mi voleva persuadere dicendomi che andavo formando il mio processo, che questi scritti sarebbero stati l’eterna mia condanna, a queste forti suggestioni io sentivo una pena grandissima, perché mi si ottenebrava la mente e non potevo discernere il vero dal falso, tanto più che mi diceva la verità. «Non vedi», diceva, «che sei una sciocca senza senno, non sei capace al certo di penetrare tanto alto, sei una miserabile, sei un’indegna, in te altro non c’è che sogni e vaniloqui».
Queste ragioni mi pareva che mi quadrassero, perché è vero, verissimo che io sono una scellerata, una sciocca, una insensata, perché ho offeso tante volte gravemente il mio Dio tanto buono; a questo riflesso mi mettevo a piangere e facevo forte ricorso al mio Signore Gesù Cristo, il quale, per sua infinita bontà, immantinente mi dava soccorso con l’illustrare la mia mente; così conoscevo il vero dal falso spirito, che mi voleva subornare con le sue menzogne, così tornava la calma al mio cuore e godevo una pace di paradiso, e una semplicità molto particolare mi campartiva Dio, allora raccontavo tutto al mio Dio quanto mi era seguito come se Dio niente ne sapesse di quanto avevo io patito e questo lo facevo con tanta puerilità, tutta propria dei fanciulli, quando raccontano ai loro genitori le loro angustie, così si convertiva la mia luttuosa scena, in un paradiso di contento, e potevo scrivere tranquillamente per molti giorni, ma poi si tornava da capo a combattere con la medesima suggestione e prosegue a molestarmi tuttora quando scrivo i noti fogli.
Ma non tutte le volte mi era permesso né potevo fare questo ricorso al mio Dio, perché permetteva il Signore che la diabolica suggestione mi inviluppasse di più la mente, e così dovevo patire e soffrire pene molto grandi, perfino a sospendermi le potenze dell’anima; in mezzo alla confusione delle suggestioni, che io non capivo più, tenevo le carte avanti ma non potevo fare neppure una parola, sentivo uno stringimento interno che mi pareva di morire, non ricordarmi più le lettere che compongono le parole, scrivevo una lettera per un’altra, scrivevo affatto fuori di senso.
Nel vedere questi cattivi effetti, ero ancora tentata di impazienza contro me stessa e contro ancora il mio direttore, per avermi imposto questa obbedienza, per quanto mai io possa dire, mai dirò quanto mi costino questi scritti, torno a dire che solo Dio lo sa, che mi ha dato la forza, la grazia di superare questi forti ostacoli.
Per ordine del mio padre spirituale prendo a raccontare un’altra sevizia sofferta dalla diabolica suggestione.
Nell’anno 1823, in cui ci troviamo, per la grazia di Dio, nel mese di febbraio, giorno 17, la sera stavo nel mio oratorio trascrivendo dal giornale vari fatti accadutimi negli scorsi mesi di ottobre, novembre e dicembre, per darne il dovuto discarico al mio padre spirituale. In questo tempo mi assalì improvvisamente la suggestione diabolica, che provò a fare crudo scempio di me, cosa non disse, cosa non fece per sovvertirmi, poco mancò che io non facessi in minutissimi pezzi i miei scritti, tanto fu la diabolica oppressione e l’angustia che mi dava, dicendomi: «Strappa quei fogli, che queste non sono cose da darsi alla luce, è un grande sciocco quell’uomo del tuo confessore, che ti fa scrivere queste baggianate, tu sei una pazza e non ti avvedi che dici cose che sono affatto non solo credibili, ma del tutto impossibili; queste sono cose tutte da riprovarsi e non da approvarsi. Non ti fidare, ché il tuo confessore ti inganna, bella figura fai tu di sollevarti tanto alto! non vedi che sei una miserabile, che sei piena di miserie e peccati?».
A queste verità io viepiù mi inviluppavo, perché conoscevo essere questa verità, che sono la creatura più miserabile, più peccatrice che abita la terra.
In questo caso così funesto mi rivolsi al mio Dio, piangendo dirottamente, confessando questa verità che sono una miserabile, una peccatrice. Mi posi in ginocchioni, con la fronte per terra, ed in questa positura mi trattenni più di mezz’ora, invocando il nome santissimo di Gesù, facendo fervide preghiere, ottenni la liberazione di questa diabolica molestia, ad un tratto tornò la calma al mio cuore, così potei tornare a scrivere con somma pace e tranquillità, godendo una quiete di paradiso.
71 – TI INVITO A MORIRE IN CROCE
71.1. Doloroso viaggio al Getsemani e al Calvario
Il dì 10 febbraio 1823, la sera del giovedì, circa le ore due di notte italiane, stavo nel mio oratorio, quando improvvisamente si concentrò il mio spirito, per attendere ad una intima chiamata del suo Signore; non sapendo cosa dovevo fare, stavo tutta raccolta e concentrata, aspettando l’ordine del mio Signore. Ecco che tutto ad un tratto sono condotta da mano invisibile all’Orto di Getsemani, e quivi sono invitata a patire, a soffrire le ambasce già sofferte dal nostro divino Redentore; ecco che fui assalita da gravissimo affanno e da pene intensissime, la desolazione, la mestizia, il timore, mi facevano agonizzare l’anima; mi trattenni in questo doloroso conflitto buone tre ore, che credevo veramente di finire la vita, per gli interni ed esterni patimenti, un gelido sudore bagnava tutto il mio corpo, uno svenimento interno mi privava di forze, la desolazione, la tristezza interna mi rendeva incapace di ogni umana sensazione; in questo stato, alla meglio che potei, mi coricai nel letto, per dare alquanto riposo alle mie afflitte membra, ma quando credevo di aver terminato il patire, e pensavo di dare qualche conforto all’afflitto mio spirito, fui nuovamente invitata a fare il viaggio afflittivissimo del monte Calvario.
L’anima mia, nonostante che si possa dire semiviva per le pene sofferte nel Getsemani, non ricusò l’invito, ma piena di coraggio, affidata al divino aiuto e agli infiniti meriti di Gesù Cristo, intraprese il doloroso viaggio.
Cosa mai patì, io non so dirlo! perché fu tanto grande e grave l’acerbità delle pene che soffersi, interne ed esterne, che restarono preoccupate le potenze dell’anima e i sentimenti del corpo; in mezzo a tante ambasce, che posso dire di essere stata immersa in un mare amarissimo di affanni e di pene, che io medesima che le soffrivo non le comprendevo, perché superavano la mia ragione, il mio intendimento, le mie forze; io debbo confessare, a mia confusione, che se non perdetti la vita in questo dolorosissimo conflitto, si deve attribuire alla particolare grazia di Dio, che si degnò sovvenire l’anima e il corpo. Io non so dire se terminato il doloroso viaggio l’anima fosse ancora crocifissa, perché l’intenso dolore del viaggio mi privò affatto di ogni altra cognizione.
Il fatto si è che, per lo strazio sofferto, interno ed esterno, mi si agitarono tutti gli umori del corpo, e mi venne una febbre tanto gagliarda e forte, che mi durò tre giorni continui, e dovetti guardare il letto, sentendomi molto male; questo fu sabato, domenica e lunedì.
71.2. Desidero diventare santa
Il martedì notte, 15 febbraio 1823, il Signore si degnò confortare il mio spirito e guarire il mio corpo con la sua divina presenza, stando tutta la notte in mia compagnia, mentalmente trattenendosi con il mio spirito in santi ragionamenti, comunicandogli particolari illustrazioni, mi fece sperimentare gli affetti più vivi del suo santo amore; oh come l’anima mia apprendeva le celesti dottrine che le insegnava il suo divino maestro! oh come si struggeva di santo e puro amore, disfacendosi in lacrime tenerissime di santi affetti, oh come si umiliava profondamente, desiderando di possedere tutte le sante virtù, per piacere al suo divino maestro! oh come desiderava di imitare i suoi esempi! oh quanto desiderava di diventare perfetta e santa, a sua maggior gloria!
Oh notte santa! oh notte benedetta, che si degnò Dio di tanto favorire l’anima mia! oh notte degna che un’altra simil notte forse per me non tornerà più, perché sono tanto scellerata, tanto peccatrice, che sono indegna di simili favori di Dio, perché non mi so approfittare delle sue divine misericordie, ma sempre ingrata qual tigre ircana ai benefici del mio Signore.
Ah, mio amorosissimo Dio, quando sarà che io termini di essere tanto ingrata con voi, che siete con me lo stesso amore, la stessa bontà? ah, mio buon Dio, io sono risoluta di corrispondervi con fedeltà, fino all’ultimo respiro della mia vita, vi supplico, con il più vivo sentimento del cuore, a concedermi la grazia della corrispondenza e della perseveranza.
La mia malattia, che compariva molto seria sul principio, in un istante cessò; perché, come già dissi, il Signore, per sua bontà, mi guarì in un istante, e così potei lasciare di guardare il letto, avendo riacquistato le primiere forze.
Non lasciò Dio, per sua bontà, di consolare la povera anima mia, che si trovava in una penosa desolazione di spirito, ma di tratto in tratto la favoriva con certe locuzioni interne, e così si faceva sentire dalla desolata anima mia, la quale esultava, in mezzo a quelle folte tenebre, al suono della sua divina voce; oh come in un momento passava dalla desolazione alla consolazione, e in un momento passava dalle tenebre alla luce, e dall’aridità passava ad una gioconda soavità; i miei occhi inorriditi ed asciutti in un momento erano arricchiti di abbondantissime lacrime, uniti ai sentimenti più eccellenti delle sode e vere virtù.
Ma tutto questo bene, o Dio, a mia confusione lo dico, non erano in me permanenti, ma solo duravano tanto quanto Dio si degnava trattenersi con me, appena Dio si ritirava la povera anima tornava nella sua amarissima desolazione, soffrendo pene non meno che mortali, che mi facevano agonizzare.
71.3. Buona a niente
In questa penosa situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di 24 giorni, cioè dal dì 25 febbraio 1823 fino al 19 di marzo del detto anno.
Riporto varie locuzioni interne, con le quali Dio consolava in questo tempo di desolazione il mio spirito, come mi istruiva e riprendeva nei miei difetti e mancanze.
Locuzioni interne o siano colloqui tenuti fra Gesù e l’anima nel mese di marzo 1823.
L’anima, conoscendo la sua viltà e miseria, si lamenta con il suo Dio, perché così imperfetta l’abbia condotta al monte santo, il quale è abitato da sante anime perfette, che possiedono tutto il cumulo delle sante virtù.
L’anima parla con se stessa e dice: «Come io, miserabile peccatrice, potrò salire questo santo monte, carica di miserie e peccati, se gli abitatori di questo santo luogo sono giusti e perfetti?».
Da questi umili sentimenti sopraffatta, l’anima fa un dolce ed amoroso rimprovero al suo amante Signore per averla condotta a questo santo monte, l’anima parla con Dio: «Mio Dio, il vostro infinito amore mi ha condotto in questo santo monte di altissima perfezione, gli abitatori di questo sono anime a voi carissime, come dunque volete voi che io, che sono tanto vile e peccatrice, possa abitare questo santo luogo? Io, Gesù mio, ve lo dicevo, non mi ci conducete, che ci farete una triste figura! I santi abitatori di questo luogo reclameranno alla vostra divina giustizia, e con ragione diranno: «Non vogliamo fra noi questo cane morto, che il suo puzzo ci nausea». Mio Dio, hanno ragione queste anime giuste di lamentarsi, io ve lo dicevo che il troppo amore che mi portate vi avrebbe fatto essere redarguito dai vostri servi fedeli, Gesù mio, voi mi ci avete spinta, voi mi avete obbligata di intraprendere questo cammino, io non volevo accettare l’invito, voi mi faceste intendere che il vostro amore sarebbe restato offeso e disgustato se io non obbedivo, dunque, per non disgustarvi, io prontamente obbedii ed accettai l’invito, sperando certo nella infinita bontà. Il vostro divino aiuto, e mediante la vostra santa grazia, che debbo confessare di provarne i buoni effetti, sentendo la mia volontà piena di santi desideri, disposta a patire grandi cose per potervi piacere; ma, Gesù mio, quanto mi confondo, perché mi vedo che non sono buona a niente, mi vedo senza virtù, e come dunque io potrò piacere a voi, che siete la stessa santità? Ah Gesù mio, ditemi voi cosa devo fare per potervi piacere, datemi voi tutte le sante virtù, così mi vedrete contenta, vedete in che stato di afflizione si trova il mio povero cuore per vedersi così povero, vedete quanto piango. Deh per pietà, muovetevi a compassione di me, Gesù mio, a voi mi raccomando per la vostra passione e morte, consolatemi per carità.
Gesù si degna rispondere all’anima: «Figlia, non ti affliggere, ma consolati, che ne hai giusta ragione, la mia grazia ti dà a conoscere la perfezione; vorresti praticarla, ma le forze ti mancano e per questo tanto ti angusti; figlia, confida in me, e non temere! Io non pretendo già dai miei servi quello che non possono fare, senza la mia particolare grazia, tu vorresti arrivare a tenere il tuo sguardo fisso in me, a non pensare che a me, a non parlare che di me».
L’anima risponde: «Ah, mio Signore, questo è quello che desidero, di fissare il mio sguardo in voi per mai più ritirarlo».
Gesù risponde all’anima: «Figlia, questo non è permesso alle anime viatrici, ma solo ai comprensori beati».
L’anima risponde: «Dunque fino che vivo su questa terra, io non potrò fissare il mio sguardo in voi, mio amorosissimo Dio, e se non lo posso ottenere, come dunque questo desiderio io lo sento tanto vivo in me, che per arrivare ad ottenere questa grazia, mio Dio, sarei pronta a fare qualunque sacrificio; ah Gesù mio, quanto sarei felice, ma voi mi dite che questo non è permesso alle anime viatrici, dunque questo che io vi chiedo non è giusto e forse non piace a voi. Gesù mio, ditemi come devo fare, questo desiderio è tanto forte che non posso fare a meno di non abbracciarlo con tutto il sentimento del cuore, degnatevi dunque dirmi Gesù mio cosa devo fare per piacervi e come posso rimediare a questi ingiusti miei desideri».
Gesù risponde all’anima: «Figlia, questi desideri nascono da quelle illustrazioni interne che io ti comparto, la cognizione che io ti dono del mio infinito essere ti fa conoscere il grande bene che sia di possedermi, tanto maggiore sarà la cognizione che acquisterai per mezzo della mia divina grazia, tanto più si accrescerà in te il desiderio di possedermi; figlia, non chiamare ingiusti questi santi desideri, perché sono originati dalla mia grazia, coltivali e non li disprezzare, umilmente ricevili e rendi a me le dovute grazie; sappi che questi sono favori molto speciali che non a tutte le anime io li comparto: se non puoi arrivare a tenere lo sguardo fisso in me, come io per compiacenza lo tengo fisso in te, non ti meravigliare di questo, perché io sono immenso e tu sei creatura limitata di fragil corpo rivestita; figlia, non puoi passare tanto oltre; ma, quando godrai la visione beatifica, ti sarà tolto ogni ostacolo, e allora potrai fissarmi per tutta l’eternità, desidero martirizzi il tuo cuore e il mio amore ti insegni a patire. Deh mirami, o figlia, sopra di una croce, come fui trafitto e schernito, io meco ti invito in croce a morire».
L’anima risponde: «Gesù mio, le vostre parole di vita eterna riempiono il mio cuore di dolcezza e di soavità, sebbene voi non mi parlate che di croce e di pene; ma convinta da queste infallibili verità, sento, per mezzo della vostra santa grazia, tutta la buona disposizione al patire, e adesso conosco che questa è la vera ricchezza dell’anima; sì, mio Dio, datemi da patire quanto vi piace, ma ricordatevi però che sono una povera miserabile, una povera peccatrice; Gesù mio, aiutatemi voi, per carità, deh non mi abbandonate in mezzo ai patimenti, aiutatemi con la vostra santa grazia che sono certa di tutto vincere e superare».
Gesù risponde all’anima: «Abbandona te stessa e troverai me; sta senza elezione e senza alcuna proprietà, se mi vuoi piacere, rasségnati umilmente alla mia volontà, tanto nelle piccole tribolazioni quanto nelle grandi, non eccettuo niente, ma voglio che ti spogli di ogni cosa, altrimenti come potrai esser mia ed io tuo, se tu non sarai spogliata di dentro e di fuori di ogni propria volontà? quanto più presto ciò farai, tanto più mi piacerai e molto più guadagnerai».
L’anima risponde: «Ah mio sapientissimo Signore, che celeste scuola è mai questa che voi mi insegnate, la quale mi rende tanto persuasa, che non posso fare a meno di apprendere quanto voi mi dite, e con piena volontà fare di me un totale sacrificio di tutta me stessa; sì, voglio spogliarmi, per amor vostro, di dentro e di fuori, come mi dite, per potervi davvero piacere. Ma cosa dico, stolta che sono! Gesù mio, io non lo so fare questo spoglio che voi volete da me, vi prego dunque che voi lo facciate in me come vi piace, come vi aggrada, io vi consegno la mia volontà, la mia libertà e quanto sono, per la vostra carità, che mi ha donato l’essere e l’esistenza che tuttora godo; dunque, Gesù mio, sono tutta, tutta vostra, fate di me quello che vi piace: Domine, quid de me vis facere, fiat voluntas tua».
Con queste ed altre simili parole terminò il santo colloquio.
72 – CONGIUNTA CON L’ETERNO BENE
72.1. Il cammino fatto in poco tempo
Riporto quanto mi seguì nello spirito il dì 19 marzo 1823, festa del glorioso patriarca san Giuseppe, dopo la santa Comunione era il mio cuore pieno di tristezza e timore, era tutto intento il mio spirito a considerare la propria sua miseria, la propria sua viltà, era tutto annientato in se stesso, si umiliava profondamente dinanzi al suo Dio, spargendo lacrime di compassione, si presentava al suo Signore, mostrandogli la propria viltà e miseria, quando Dio, per sua bontà, sollevò l’anima mia da questo grande inviluppo in cui giaceva, e le tornò a mostrare quel monte, e le diede a vedere quanto cammino ella aveva fatto in poco tempo, per mezzo della sua santa grazia.
L’anima stupì nel vedere che tanto aveva camminato, perché mi credeva di non avere ancora dato un passo, vidi dunque l’anima mia che aveva di già scorso l’aspra strada del monte e si era inoltrata in quella altura, avendo già fatto molte miglia di quella strada, vedeva di aver fatta la più malagevole, nel vedere che in tanto poco tempo aveva fatto un sì lungo e disastroso viaggio. Mi rallegravo nel Signore e prendevo un poco di coraggio e ne rendevo i più umili ringraziamenti al Signore, ma restavo attonita e confusa, perché conoscevo di non aver fatto niente per amore di Dio, anzi dovevo confessare di essermi portata malissimo e di aver commesso delle mancanze e difetti, di essere stata ingratissima a Dio: piangevo dunque la mia ingratitudine e la mia stoltezza e ne domandavo umilmente perdono al mio buon Dio, il quale prese a consolarmi con dolci ed amorose parole e per assicurarmi che l’anima mia godeva la sua particolar grazia; me la diede a vedere sotto l’immagine di leggiadra donzella, tutta vestita di candidissime e risplendentissime vesti, sopra le quali portava un adornamento di colore rosso, ma tanto bello che io ne restavo ammirata e piena di stupore nel vedere adornamento sì bello e maestoso, vedevo poi che Dio prendeva per sua bontà tanta compiacenza in questo puro spirito, così riccamente adornato della sua divina grazia, che l’univa a sé in un modo molto particolare e santo. L’anima intanto godeva in se stessa un bene così puro e perfetto, che in quei felici momenti mi pareva di godere l’eterna beatitudine, tanto l’anima mia era stretta, unita e congiunta con l’eterno suo bene Dio. Questo distinto favore mi tenne assorta in Dio per lo spazio di tre giorni, che poco e niente capivo le cose sensibili, nelle orazioni e nella santa Comunione restava il mio spirito tanto unito e stretto con il suo Dio, che l’anima mia non distingueva più di abitare in questo mondo sensibile; ero sopraffatta da un profondo e dolce riposo che mi faceva dimenticare le cose tutte della terra.
72.2. Nell’interno del monte
Passati i detti tre giorni, cioè dal dì 19 al 22 marzo 1823, in questa situazione.
Il dì 23 detto, domenica delle palme, nella santa Comunione l’anima fu invitata dal Signore a camminare una strada interna del riferito monte, sicché l’anima per qualche spazio di tempo non camminò al di fuori del monte, ma dentro, all’interno del detto monte. Alla meglio che posso mi spiegherò: questo monte non è di terra pieno, ma è nell’interno vuoto, e vi è la sua strada, ma ardua e scoscesa, che senza un aiuto speciale di Dio non si può al certo salire; questo monte è di pietra durissima, la strada interna è molto recondita ed occulta, solo a Dio è palese, ed è padrone di condurci quelle anime che a lui piace, per pura sua bontà, senza cercare il merito proprio delle anime, per essere questo dono gratuito della sua infinita liberalità, perché se non fosse così, l’anima mia peccatrice non potrebbe al certo trovarsi in questo santo monte; sicché, con ogni verità, possiamo dire che questo è un grande prodigio dell’infinita bontà di Dio, ed a lui si deve tutto l’onore e la gloria, e a me si deve la più profonda umiliazione per la mia cattiva corrispondenza.
Riprendo il filo del racconto, come il mio Dio mi condusse nell’interna strada del monte, mi apparve Dio per mezzo di una splendida luce e così mi parlò: «Mia dilettissima figlia, ti sei riposata per tre giorni, adesso conviene che riprendi il cammino».
Intanto per mezzo di quella luce fui introdotta nell’interno del monte; io restai molto sorpresa, non sapendo che questo monte avesse la strada interna, non poco mi contristai nel vedere la strada tanto stretta ed angusta ed insieme ripidissima, che mi sembrava veramente impossibile il poterla salire, ma il mio Dio mi fece coraggio, promettendomi la sua particolare assistenza; affidata alle sue promesse, intraprese l’anima il suo cammino. Fino a tanto che il Signore si degnò, per mezzo di quella luce, trattenersi con me, non mi avvidi dei disastri della strada ma quando da me si partì, oh Dio, in quali angustie io mi trovai, solo Dio lo sa; il trattenersi con me non fu che per poche ore, mi lasciò che non sapevo ancora camminare, mi lasciò sola e negletta; al buio di quella oscurità, non sapevo dove mettere il piede, ogni momento mi pareva di precipitare, pregavo, piangevo, mi raccomandavo, ma tutto invano, perché il mio Dio non mi ascoltava, anzi viepiù si addensavano in me le folte tenebre, e la desolazione cresceva a dismisura, ah Gesù mio, Dio mio», dicevo, riposare nel suo castissimo e purissimo seno, così la povera anima mia passò ad un tratto dalle tenebre alla luce, dalla fatica ad un dolce riposo di soavità ripieno; questo riposo fu in me permanente tutte e tre le feste della santa Pasqua, i buoni effetti restarono in me fino all’ottava di Pasqua, domenica in Albis, che fu il di 6 aprile 1823. Passati i suddetti 8 giorni, dovette l’anima proseguire il suo cammino il quale intraprese con molta agilità e celerità per avere riposato nei suddetti giorni.
72.3. L’immagine del mio spirito
Il mio Dio per sua bontà mi fece vedere l’anima mia con che agilità camminasse, per mezzo della sua divina grazia, i dirupi, le balze di quella disastrosa e montuosa strada, vidi dunque il mio spirito sotto forma di leggiadra donzella, il suo portamento era umile, savio e modesto, portava la sua croce in spalla, con molta attenzione camminava ed affrettava il suo passo, per compiacere l’amato suo bene, che la stava mirando per mezzo di un piccolo finestrino, che stava nell’altura del detto monte.
Era il piccolo finestrino di tersissimo cristallo, da dove Dio tramandava un raggio della sua divina luce, così veniva ad illustrare la mia mente di santi pensieri, di santi desideri, che riempivano il mio cuore di santo amore e di santo fervore, e così poteva con agilità camminare la povera anima mia e portare la sua croce in spalla, senza sentirne il peso, la portava tanto bene equilibrata, che faceva piacere il vederla scorta da quella divina luce che la rendeva tanto bella che pareva un angelo e non un’anima peccatrice come sono io.
In realtà questa vista destò in me molta afflizione, umiliazione e pianto, perché non trovavo in me quel bene che scorgevo in quello spirito.
Dicevo fra me stessa: «Io sono una grande superba e in questo spirito che mi si dimostra io altro non vedo che umiltà, purità e pazienza, in una parola vedo in questo delineate tutte le sante virtù. Mio Dio», dicevo, «illuminatemi acciò io non vada ingannata», piangevo, mi raccomandavo incessantemente: «Ah mio Dio», dicevo, «io non capisco come va questa cosa, vedo in questo spirito che voi mi fate vedere, che possiede tante belle virtù e mi dite essere questo l’immagine del mio spirito, ma io non trovo in me quel bene che scorgo in esso, anzi trovo tutto l’opposto, io non trovo in me che miserie e peccati».
Così piangevo e sospiravo. Riferii tutto il fatto con molte lacrime al mio padre spirituale, e lo pregai di dirmi se andavo ingannata, per vedermi nelle sante orazioni di raccoglimento tanto dissimile da quella che sono in realtà.
Il mio padre mi rispose così: «State quieta, non vi affliggete, perché, grazie al Signore, non c’è inganno, quello spirito, che voi vedete tanto bello e virtuoso, vuol significare quello che voi siete mediante la grazia di Dio e gli infiniti meriti di Gesù Cristo. Quello poi che voi conoscete in voi stessa è un’altra grazia molto particolare di Dio, che vi fa conoscere che per voi stessa non siete altro che miseria e peccati, per questo è molto ragionevole che vi umiliate profondamente e ringraziate infinitamente il Signore, che vi fa conoscere la vostra miseria».
Queste parole furono bastanti a potermi del tutto quietare conoscendo questa verità chiaramente: che io sono una grande miserabile peccatrice; il sentimento del mio padre spirituale tanto mi persuase che lasciai di piangere, dimessi ogni dubbio di essere ingannata, tanta è la fiducia che il Signore mi dà in questo suo ministro che al suono della sua voce la povera anima mia si quieta e resta del tutto persuasa e tranquilla, non solo adesso che sono sedici anni che dirige il mio spirito, ma fino dal bel principio che si degnò ricevermi per sua figlia spirituale; le sue parole sono state sempre per me così efficaci, che in tutti i casi di interni travagli che ho sofferto, mi ha sempre tranquillizzata e sono sempre tranquilla e contenta.
Tre giorni durò questa vista, tutte le volte che si raccoglieva nelle sante orazioni il mio spirito, io, ricordevole di quanto detto mi aveva il mio padre, mi umiliavo profondamente e dicevo al mio Dio: «Quanto mai siete buono, che ad una creatura tanto miserabile come sono io, voi fate tanto bene! Vedo questo mio spirito tanto bello, conosco bene che questo è l’amore che voi mi portate, mentre in esso vedo delineata la vostra santa grazia, per voi Gesù mio io sono tanto bella, e per me stessa sono tanto brutta e deforme, lasciatemi dunque piangere, Gesù mio, che ne ho giusta ragione, mentre con la mia malizia ho deformato l’anima mia, opera grande della vostra onnipotente mano. Mio Dio», dicevo, «vi domando perdono, vi domando pietà, conosco di aver fatto un grande male».
Così piangevo amaramente tutte le volte che il Signore mi tornava a far vedere il mio spirito, sicché questa orazione, atteso il consiglio del mio buon padre, era per me molto fruttuosa, perché terminava con un grande dolore dei miei peccati, che mi lasciava quasi tramortita, ma quando ci avevo preso piacere di fare questa sorta di orazione, ben presto terminò, facendo Dio per altissimi suoi fini passare il mio spirito ad una penosissima aridità e grave desolazione delle quali darò riscontro nel quarto cartolare, che copierò dal mio giornale del 1823, per poi unirli tutti quanti assieme, quando vostra paternità reverendissima li avrà esaminati. La prego di avvertirmi, per carità, se sono, queste cose che seguono nel mio spirito, inganni del demonio.
72.4. Lo sguardo fisso verso il finestrino
6 aprile 1823. Cartolare quarto. Riprendo il filo del racconto: passato che fu il mio spirito nell’anzidetta grave aridità e desolazione, altro conforto non avevo che tener fisso il mio sguardo in quell’anzidetto finestrino, da dove, di tratto in tratto, Dio si degnava di mandare i raggi del suo divino splendore, e così restava illustrata l’anima mia e confortata da un bene grande, che Dio si degnava comunicarmi, in mezzo a tanti patimenti, affanni e pene, proseguiva dunque l’anima il suo cammino nell’interno del monte, non ero per questo malcontenta; benché fossero grandi le pene che soffrivo ma il divino aiuto, che Dio mi compartiva, era molto grande, perciò camminavo per l’erto monte, quasi senza avvedermi del disastroso viaggio.
La mattina del 17 aprile 1823, nella santa Comunione, fui esortata ad affrettare il passo, per giungere a quel surriferito finestrino, da dove doveva sortire il mio spirito, per così riprendere il suo viaggio nell’esterno del monte; a questa cognizione non poco restai sorpresa, e non mi potevo persuadere come io potessi sortire da quel piccolo finestrino, che non era che un palmo di altezza e uno di larghezza, mi pareva davvero impossibile; mi umiliavo per questa difficoltà che insorgeva nella mia mente, e confessavo la mia ignoranza, assoggettando il mio intelletto ed il mio corto intendimento all’infinita potenza di Dio, al quale niente gli si rende impossibile. Nonostante, però, ne attendevo con ammirazione il successo, difatti la cosa ben presto si avverò. Passati tre giorni dopo questa esortazione, il mio spirito trapassò il detto finestrino e si trovò in un batter d’occhi al di fuori del monte, dove mi trovai tutta circondata da immensa luce; come seguisse il fatto io non lo so, perché non me ne avvidi, per essere stato come un improvviso rapimento, che non mi diede luogo né alla cognizione né alla riflessione di quanto seguiva nell’anima mia per mezzo di questo divino favore, solo posso dire che fui accesa di un grande amore di Dio, che credevo di perdere la vita per la piena dei santi affetti, che inondavano il mio cuore, i quali affetti non potevo contenere per essere molto superiori alle mie forze, e troppo energici e sublimi al basso mio sentimento e corto mio intendimento; qual dolce strazio provò il mio cuore non posso al certo spiegarlo, credevo sicuramente che questa piena di affetti così esuberanti avessero annegato il mio cuore nel mare immenso della divina carità.
Tenevo per certo che questo fuoco divino non si sarebbe in me né estinto né raffreddato, speravo al certo che i buoni effetti fossero in me permanenti; ma, oh Dio! chi lo crederebbe? questa grande piena di santi affetti che avevano non solo inondato il mio cuore, ma lo avevano del tutto annegato, non furono in me permanenti, ma durarono tanto quanto durò il favore divino, e poi ne restai priva affatto, sicché in un momento passò il mio spirito dalla luce alle tenebre, e dalla piena dei santi affetti in una penosissima aridità e gravissima desolazione; questo improvviso ed inaspettato cambiamento mise in grave timore il mio spirito, dubitavo di essere abbandonata dal mio Dio, trovandomi priva del suo divino aiuto, più non sapevo dove mi trovavo, credevo certo di essere abbandonata dal mio Signore per le tante ingratitudini da me commesse verso di lui; volevo piangere la mia sciagura e non potevo, mi volevo raccomandare al mio Dio e non lo sapevo più fare, cresceva per questo la mia angustia, trovandomi priva affatto di ogni sentimento e santo affetto, mi pareva di essere una creatura del tutto insensata; durò questo strazio così crudele per lo spazio di tre giorni. Tanto era forte questo patimento che il povero mio spirito non lo poteva più reggere, parevami perire in mezzo a tanti affanni e pene, mi assicurò di non avermi abbandonata, come io scioccamente credevo, mi promise ancora, per sua bontà, che non mi avrebbe giammai abbandonata; qual consolazione, qual gaudio di paradiso sperimentò il mio cuore a questa consolante nuova, il mio spirito esultò e, ripreso il suo vigore, ringraziò incessantemente il Signore.
Ma, o Dio, appena l’anima mia aveva esultato per avere rintracciato l’amato suo, che sul momento lo tornò a perdere di vista, eccomi dunque di nuovo afflitta e dolente, per aver perduto l’unico mio bene, quale affanno, quale pena, quale smarrimento provavo in me stessa, non so al certo spiegarlo.
Nel tempo di questa grave angustia, mi diede Dio a vedere il mio spirito, vidi dunque il mio spirito seduto giacente per terra, per la strada di quel vastissimo monte, stava appoggiato ad una grande e smisurata pietra, in una positura molto composta e devota, le mani giunte, gli occhi rivolti verso il cielo, l’aria del mesto suo volto dimostrava l’affanno del desolato suo cuore, per la cagione di non vedersi di appresso al suo amato Dio, girava il suo mesto sguardo or qua, or là, da ogni intorno guardava e non lo ritrovava, mandava infuocati sospiri ben lontani per ritrovarlo, ma tutto invano, piangevo amaramente la mia disavventura.
72.5. Vieni appresso a me
In questo stato di derilizione si trattenne il mio spirito per lo spazio di 12 giorni, vale a dire dal 21 aprile fino al 3 maggio 1823.
La notte del 2 maggio mi trattenevo nel mio oratorio orando, quando improvvisamente da interna voce sento dirmi: «Prepàrati, che domani devi di nuovo intraprendere il cammino», questa nuova commosse il mio spirito in affetti santi e devoti, ma molto mi intimorì l’invito, non sapendo qual arduo viaggio dovessi intraprendere; tutto si concentrò il mio spirito, umiliandosi profondamente chiedeva aiuto al Signore, pregandolo a volermi mostrare la strada per dove dovevo camminare, supponendo di riprendere la mia croce in spalla, per così salire l’erto monte.
La mattina del 3 maggio 1823, festa dell’Invenzione della santissima Croce, ricevetti la santa Comunione con sommo raccoglimento di spirito, passai buone tre ore in questo santo raccoglimento, mai niente vedevo di quanto la notte antecedente mi era stato promesso, mai nell’ora quarta della mia orazione ad un tratto si concentrò viepiù il mio spirito, e tornai di bel nuovo a vedere il mio spirito, giacente per terra appoggiato alla detta pietra, quando in un momento da mano invisibile fu il mio spirito levato in piedi, quello che mi recò sommo stupore fu nel vederlo non più con gli abiti di prima, ma vestito da pellegrino con lo sbordone in mano, i piedi scalzi, la testa scoperta.
«Mio Dio», dicevo, «che novità è questa mai? Mio Dio, io sono altamente confusa! Degnatevi di farmi intendere questo cambiamento, questa improvvisa mutazione, invece della croce trovo nelle mie mani uno sbordone, il mio solito abito si è convertito in abito da pellegrino, che improvvisa mutazione è mai questa? datemi la grazia di comprenderla».
In tempo che stavo così perplessa né sapevo consigliare me stessa, ignorando le divine disposizioni, ecco improvvisamente uno splendore che tutta l’interna vista mi abbagliò e riempì il mio cuore di celeste dolcezza. «Ah mio Dio, mio Signore», esclamai, «ecco ai vostri santissimi piedi la vostra misera serva», ma interrotte furono le mie parole dalla sua divina presenza; mi si fece vedere l’umanità santissima di Gesù Cristo, sotto la forma di pellegrino. «Figlia», mi disse, «ti conviene camminare per questa foresta. Io ti scorterò, vieni appresso a me».
Il mio spirito ritroso nell’obbedirlo restò per qualche momento, dubitando di essere ingannato, ma non ardiva spiegarlo, allora riprese a parlare il nobile pellegrino e mi disse: «Seguimi pure, non temere di inganno, io sono la vita, la via e la verità».
A queste parole tramandò dal suo petto una splendida luce di vita eterna, che mi assicurò non esservi inganno, ma quello che mi parlava era il divino mio Redentore; a queste parole, a questo splendore, il mio spirito profondamente si umiliò, e pieno di ammirazione e di santo timore, con santa fiducia e con sommo rispetto e riverenza, intrapresi il cammino per la foresta, andando appresso al divino pellegrino, il quale dopo poco tempo mi si rese invisibile, lasciando un raggio, di luce per guida al mio spirito; scortata da questo raggio, feci il mio viaggio con molto profitto, mercé il divino aiuto. La mia ignoranza non mi permette di spiegare i santi affetti, i buoni desideri, le celesti illustrazioni, le alte cognizioni che il mio Dio, per sua bontà, mi comunicò; oh, come in questo solitario viaggio conoscevo bene la differenza, la diversità che passa fra i beni transitori di questa misera terra da quei veri beni eterni che ci promette Dio, per mezzo degli infiniti meriti del nostro divino Redentore.
Internata l’anima in queste infallibili verità formava le idee più alte, i sentimenti più puri per poterle contemplare, gustando in modo molto particolare queste eterne verità, ad onore e gloria del medesimo Dio e con somma soddisfazione e consolazione del mio spirito, aborrendo ed odiando i vani e superbi beni di questa misera terra che non sono che tristezza e afflizione di spirito.
Il camminare in questo solitario luogo altro non fu che un disporre il mio spirito a proseguire il suo viaggio al monte santo, come appresso dirò.
Il divino pellegrino, nell’invitarmi a camminare presso di lui per quella foresta, mi fece bene intendere che in questa solitudine dovevo apprendere per via di meditazioni e riflessioni molte cose appartenenti alla perfezione. In questa solitudine l’anima mia fu ammaestrata in vari modi, vale a dire, per cognizione, per illustrazione, per intelligenza. Al mio poco giudizio mi pare di conoscere che la cognizione, l’illustrazione, l’intelligenza siano tre gradi di scienza, l’uno diverso dall’altro, come ancora per gli effetti che ne ho sperimentati nel mio spirito, questi tre gradi di divina scienza mi pare ancora che siano l’uno maggiore dell’altro; salva la verità, mentre io mi protesto di essere digiuna affatto di questa dottrina, per non avere mai letto nessuno di questi libri, appartenenti a questa scienza, mi servo dunque degli effetti che ne ho sperimentato in me stessa, per spiegarmi dico così: la cognizione sollevava l’anima mia verso il suo Dio, e gli faceva conoscere le sue divine perfezioni molto da vicino, e con molta chiarezza le ravvisava per immense e incomprensibili che l’anima ne restava ammirata.
L’illustrazione, poi, infiammava la mia volontà, e così la rendeva innamorata di Dio, in guisa tale che l’anima uscì fuori di se stessa, per il grande amore che sente verso l’unico suo vero bene; la divina intelligenza somministra al mio intelletto i mezzi proporzionati per unirsi con l’amato suo Dio, nella santa unione poi, molto maggior lume acquista, e così viepiù va crescendo la fiamma della divina carità. Questo divino fuoco ha preso in me tanta possanza che mi consuma giorno e notte, che sono ridotta pelle e ossa, e sono tanto indebolita nelle forze che mi pare ogni giorno di cessare di vivere, questo pensiero però non mi funesta, ma riempie il mio cuore di giubilo, mercé la grazia di Dio, in cui ho posto tutte le mie speranze.
Tutto quello che ho detto e tutto quello che sono per dire intendo assoggettarlo al savio consiglio e parere di vostra paternità reverendissima, per quiete del mio spirito.
72.6. Vidi Dio con le braccia aperte qual Padre amante
Riprendo il filo del racconto: dopo essere stata così favorita dal Signore in quella foresta, come dicemmo.
Il giorno dell’Ascensione del Signore, che fu il dì 8 maggio 1823, l’anima mia rintraprese il viaggio al monte santo dove prosegue il suo penoso viaggio, perché più si inoltra verso la sommità del santo monte, tanto più si accrescono i travagli e le angustie, andavano sempre più aumentando i santi desideri di possedere Dio.
L’anima dunque, così accesa di santo amore, famelica andava in traccia dell’amato suo bene, desiderando di possederlo e possederlo per sempre. Quali e quante fossero le brame di questo cuore ferito, io non so al certo dirlo, né ho termini di dimostrarlo, ma posso dire, per verità, che neppure io potei comprendere la viva fiamma che mi bruciava il cuore, il forte incendio del divino amore fa dolce strazio del mio povero cuore, altra grazia non cercavo al mio buon Dio, che di morire, per così sciogliermi dai vincoli di questo fragil corpo, così volare liberamente nel castissimo seno del mio Dio.
Questo ardentissimo desiderio martirizza l’anima mia giorno e notte, in guisa tale che io non lo posso più contenere, e sono persuasa mi darà presto la morte, in questi termini, con questi spasimi al cuore, andava l’anima facendo il suo viaggio per l’erto monte, portando con sé l’affanno, la pena, il dolore. Mossosi a compassione, il mio Dio improvvisamente mi si fece vedere alla sommità del monte, vidi il mio Dio che stava con le braccia aperte qual padre amante, significandomi l’ardente brama che in sé conserva di abbracciare la povera anima mia.
Questa vista riempì il mio cuore di somma consolazione, e di tanta dolcezza e gaudio fu ripieno il mio spirito, che per godere di quella sola vista, tenni per bene impiegato tutto quello che avevo patito e faticato nel decorso di tutta la mia vita. Ardisco dire di più, a gloria del medesimo Dio, che mi contenterei di godere di quel bene che godetti in quei felici momenti, di godere questo solo bene per tutta l’eternità, sì, quella sola vista mi basterebbe per farmi eternamente beata; vorrei, per rispetto e riverenza dovuta all’infinita maestà di Dio, tacere e non parlare di quanto vidi alla sommità di quel vastissimo monte, ma la santa obbedienza mi obbliga contro mia voglia il manifestarlo: ma io cosa dirò mai, se la mia bassa mente non poté neppure comprenderlo?
Qual vasto oceano di eterna immensità mi si presentò Dio, alla vista della mia bassa mente. Oh felicissimi momenti, degni solo dell’infinita bontà di un Dio, che tutto si dona per amore alle sue creature! La sola vista, e non il possesso di questo grande bene, mi bastò di farmi beata sopra la terra per quei felici momenti; mi fu mostrato il simbolo della triade sacrosanta, sotto la forma di una splendidissima e vastissima nube, questa aveva tre rappresentanze, benché una sola fosse la nube.
Tre immensi raggi di eterna luce, in essa nube risplendevano, uno distinto dall’altro, benché una sola fosse la luce, conservava, conteneva in se stessa tre qualità di splendori, uno distinto dall’altro.
Cosa così meravigliosa e bella che non si può spiegare, vista che rapisce lo spirito e lo tiene assorto in Dio, vista che dona all’anima tutta la sua felicità, vista che dona all’anima tutte sorte di beni soprabbondanti, inarrabili e incomprensibili.
Non so spiegarmi altrimenti, mentre mi avvedo che lo scrivere su di ciò, altro non è che un oscurare l’alta gloria di un Dio di eterna maestà; spero però che l’infinita bontà di Dio mi abbia per scusata, mentre la santa obbedienza me lo comandò. Non intendo, mai e poi mai, sostenere quello che passa nel mio spirito, ma solo intendo di assoggettarlo al savio consiglio di vostra paternità reverendissima, a cui umilio questi miei scritti, con tutto il dovuto rispetto e massima soggezione filiale alla paterna sua carità.
72.7. Tornai a salire l’erto monte
Questo divino favore mi fu comunicato il dì 6 giugno 1823, giorno che ricorreva la festa del Cuore santissimo di Gesù.
Dopo avere goduto di questo grande bene, che tenne assorto il mio spirito per lo spazio di tre giorni, tornai di bel nuovo a salire l’erto monte con fatica e stento, e ancora con maggior pena, perché dopo aver goduto un sì grande bene, dopo essermi trovata in mezzo a tanta luce, tornare in mezzo a tanta oscurità, dover calcare una terra adusta e montuosa con il grave peso della croce in spalla, ognuno lo può intendere, qual pena sia stata questa per me; oltre ciò si aggiungeva a questa pena un’altra assai maggiore, ed era che l’anima, dopo aver goduto di questo grande bene, ardentemente ne desiderava il possesso, e con ardenti desideri cerca di svincolarsi da questo misero carcere del suo corpo, lo chiedeva con umili preghiere al Signore, così, piangendo e sospirando, mi affaticavo a salire l’erto monte per piacere al mio Dio e per arrivare a goderne il possesso.
In questa situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di giorni 22, vale a dire dal giorno 10, che l’anima riprese il suo viaggio al monte santo, mentre dal giorno 6 giugno, per il favore surriferito, stette il mio spirito assorto in Dio dal dì 6 fino al dì 9, il dì 10 riprese il suo viaggio fino al dì 2 luglio 1823, festa della visitazione di Maria santissima, fatta a santa Elisabetta, giorno molto memore per me, per avere ricevuto in questa festa altri insigni favori, come a suo luogo si è detto.
72.8. Ferisci tu il mio cuore
La mattina, dunque, del 2 luglio, dopo la santa Comunione, si raccolse tutto in Dio il mio spirito, nel tempo che stava così raccolto era tutto occupato a considerare se stesso, il suo niente, il suo nulla, la sua cattività, la sua profonda malizia nell’avere tanto offeso il suo Dio, si umiliava profondamente avanti la sua divina maestà, piangevo amaramente le mie gravi colpe, quando, tutto ad un tratto, fu rapita da Dio l’anima mia e sollevata in modo molto particolare, che non so spiegarlo.
In questo tempo, mi si fece vedere il mio Dio, tutto raggiante di eterna luce, il quale teneva nelle sue santissime mani come un pugnale, mi servo di questo basso termine, per non sapermi altrimenti spiegare, ma cosa più bella io non vidi giammai, né posso ad alcuna cosa sensibile paragonare, dunque dirò, col nobile pugnale Dio l’anima mia ferì: oh dolce ferita, che di santo amore il mio cuore riempì! la nobile ferita, di santo languore; nelle braccia del suo Signore l’anima semiviva se ne restò, perché il colpo amabile trapassò il mio cuore, dal dolore dei peccati e dal divino amore io mi sentivo morire.
L’anima, rivolta a Dio, così prese a parlare: «Amato mio soccorrimi, deh non mi abbandonare, il nobile tuo pugnale il cuore mi trapassò; mio Dio, come farò? E se tu mi hai ferita sanami ancora tu».
Così intesi rispondermi: «Sì, mia cara amica, la nobile ferita io ti risanerò, deh prendi nelle tue mani, il misterioso segnale, sorella mia carissima, ferisci tu il mio cuore».
L’anima ritrosa, ricusa di ciò fare, le mancano gli accenti di potersi con il suo Dio spiegare, il santo timore ingombrava il mio cuore e mi impediva di obbedire; così nuovamente intesi parlare: «Deh, non ti arresti il colpo il santo timore, perché il divino mio amore questo esige da te; deh non mi privare, diletta mia sposa, di questo piacere, ferisci suvvia, l’amante mio cuore».
A queste parole, una forza imponente mi prese la mano e mi obbligò a ferire l’amante cuore del mio Signore. Mandato il colpo, oh colpo fatale, di santo orrore il mio spirito si ricolmò, fra me dicevo, tremante e confusa: «Oh santo ardire, cosa mi facesti fare? ferire un Dio di eterna maestà! questo è un delitto di lesa maestà. Oh Dio, il mio confessore cosa mi dirà, di certo mi griderà, io non ho il coraggio di manifestargli questo fatto, che al solo pensarlo mi sento morire», piangendo dirottamente, dicevo: «Mio Dio, ditemi voi quello che devo fare».
Così mi intesi rispondere: «Dirai al tuo direttore che il tuo Creatore a questo ti obbligò; digli che un uomo Dio ferito fu da te, digli che il dolce strale ti fu dato da me, che tu feristi, oh cara, l’ampiezza del cuore mio, che tu feristi un Dio di eterna maestà! E questo lo volli io, in segno del tuo amore. Con quanta compiacenza io ricevetti il colpo, che mi fu dato da te, sposa carissima, a te mi unisco con perfetta unione e divina congiunzione, per non separarmi mai più da te! Ricevi gli sponsali amplessi, che sono i prodotti del mio parziale amore».
In mezzo a queste e ad altre sante espressioni, Dio, con quel medesimo pugnale, tornò l’anima a ferire. Mi mancano i termini e le espressioni di potermi spiegare, per poter ridire i santi affetti di questi due cuori feriti; ognuno lo può intendere a seconda dei lumi che gli comparte il Signore, ma spiegarlo al certo non si può; lascio dunque a vostra paternità reverendissima l’intendere quanto rozzamente ho detto; come ancora, per quiete del mio spirito, soggetto tutto al savio suo consiglio, per timore di non essere ingannata dal demonio. La prego di esaminare con tutto il rigore i miei scritti, e dirmi con santa libertà se sono ingannata dal demonio.
73 – SPROFONDATA NEL MIO NULLA
73.1. Vidi Dio sopra il monte
Il dì 11 agosto 1823, giorno che ricorreva la festa di santa Chiara, la mattina nella santa Comunione si raccolse il mio spirito in modo molto particolare; in questo tempo, Dio si degnò darmi un lume chiarissimo di propria cognizione, che mi faceva conoscere la mia viltà, la mia miseria, i miei gravi peccati, per i quali piangevo amaramente e ne domandavo al mio Dio umile perdono; dando ero tutta sprofondata nel proprio mio nulla e nella mia cattività, non avevo più ardire di alzare la fronte per chiedere di nuovo perdono al mio Dio, mentre credevo in quel momento di essere dalla divina giustizia punita con un fulmine che al momento mi avesse incenerito, perciò, con umile sentimento, ne attendevo il colpo: tanto l’anima si era internata nella propria sua iniquità, che giusto chiamava Dio, che l’avesse a punire e da sé la volesse dividere, e dividere per sempre.
Ma, oh Dio, qual pena provava l’anima in se stessa, al solo pensarlo inorridiva, diceva fra sé: «Dunque io sarò divisa, e da chi? Dall’amato mio bene Dio? E perché? Forse, anima mia, tu vuoi fare questa divisione? Ah no», diceva l’anima, «io no, certo, vorrei piuttosto morire mille volte, che dividermi dall’amato mio bene! No, non sono io, ma è la divina giustizia che mi vuole dividere dal mio Dio».
Rivolta alla divina giustizia così dicevo: «Oh divino attributo del mio Dio, io ti adoro col più profondo rispetto, ti prego a degnarti di sospendere il fatale colpo di divisione, questo lo chiedo per i meriti del mio Redentore»; rivolta all’umanità santissima, dissi: «Ah Gesù mio, fatemi sperimentare gli effetti della paterna vostra misericordia; oh bontà incomprensibile, e chi mai potrà lodarti sufficientemente, né il cielo né la terra potrà al certo renderti le dovute lodi, e chi mai ti potrà comprendere?».
Appena l’anima mia si rivolse ai meriti di Gesù, che il paterno suo cuore, pieno di misericordia, si rivolse verso l’anima mia, mi si fece vedere il mio Dio sopra l’altura del monte, tutto amore e tutta carità, si mostrava fedele amante all’anima e la invitava al suo divino tabernacolo, il quale vedevo in qualche distanza, ma Dio, acceso della sua divina carità, venne ad incontrare l’anima, per dimostrarle il suo affetto e per donargli anticipatamente le disposizioni dovute a sì eccelso favore, qual è quello di entrare nel divino tabernacolo, dove risiedeva Dio, non incognito, ma bensì sfavillante di eterna luce.
Si degnò Dio di farmi intendere le sante disposizioni che donato aveva al mio spirito, per così farlo degno di questo particolare favore. Nell’incontro che fece Dio all’anima, ebria del suo divino amore, le anticipò un amoroso abbraccio, con il quale abbraccio le comunicò molte grazie e doni spirituali; ricevuti l’anima questi doni, in un momento si trasformò in uno spirito più che celeste, mentre mi pareva di essere come divinizzata, provando in me i mirabili effetti del paterno amplesso, che si degnò Dio donare all’anima mia, per il quale restò come divinizzata.
Dio mi diede a vedere questo spirito così bello, così ricco delle sue grazie e dei suoi doni; lo vedevo molto più bello degli stessi angeli, che intorno di questo spirito gli facevano corona, e pieni di ammirazione stavano contemplando l’infinita bontà di Dio, che tanto bello avesse reso questo spirito con la sua divina grazia, ne encomiavano la sua infinita bontà, lodavano la sua divina carità.
73.2. Figli dell’eterno Padre
Lascio per un momento questo racconto, e prendo a parlare di volo, dei sentimenti propri del mio spirito. Mercé la grazia infusagli da Dio, questo conservava in se stesso una umiltà profondissima, benché si vedesse assai più bello che gli angeli stessi, conosceva chiaramente essere questa sua bellezza un gratuito prestito della divina grazia del suo Signore, non dimenticava essere per se stesso un vile giumento, immeritevole affatto di ogni favore; spiegava con sommo rispetto e riverenza i suoi sentimenti al suo divino Signore, umiliandosi fino al profondo del suo nulla, e con lacrime di tenerezza e di gratitudine, tutta in santi affetti si discioglieva l’anima di puro amore.
Altro non dico, perché il mio dire altro non è che un oscurare la gloria di un Dio, che diede la sua vita per nostro amore e per rendere noi simili a lui, consanguinei ci volle dell’amante Gesù, fratelli suoi ci chiama, partecipi ci fece della sua eterna eredità. Dunque esultiamo di gioia, noi siamo figli dell’eterno, divino Padre. Mio Dio, qual consolazione è questa che inonda il mio cuore, di essere figlia a voi, Dio di eterno amore, di eterna maestà! Adesso comprendo perché tanto mi amate e tante grazie voi mi donate, questi sono gli effetti della paterna vostra bontà, qual figlia mi amate e mi date prova del vostro amore. L’anima mia nella cognizione di queste eterne verità, si umiliava profondamente e ne rendeva le dovute grazie al suo Signore.
73.3. Nel divino tabernacolo
Riprendo il filo del racconto: Dio, di propria mano, introdusse l’anima nel divino tabernacolo, e a sé la unì intimamente e la riempì di gaudio celeste, di amore ardente, che distruggeva la proprietà dell’anima e la medesimava in Dio. Non posso dire di più, ma cosa dirò mai della magnificenza di questo divino tabernacolo? al certo non mi riesce di poterlo manifestare, né tanto poco posso narrare il glorioso ricevimento che ricevette l’anima dall’amante suo Dio, che per l’esuberanza del suo divino amore pareva si fosse dimenticato della sua sovranità per deliziarsi con la povera anima mia.
Altro non dico, perché il savio sapere di vostra paternità reverendissima, intorno a questa divina scienza, molto bene le fa intendere il significato di questi divini favori.
Io non ardisco dire di più, perché sono confusa abbastanza per il rossore che ne provo in me stessa, nello scrivere quanto passa nel mio spirito, questo lo faccio per sola obbedienza, ma mi costa grande ripugnanza, e mi protesto che non intendo in nessuna maniera di dar credito a quanto passa nel mio spirito, ma tutto soggetto col più umile sentimento al savio parere di vostra paternità reverendissima, per quiete del mio spirito.
73.4. Vidi il passaggio di quest’anima in paradiso
Il dì primo ottobre 1823, essendo passata all’altra vita la figliola di un mio grande benefattore, signor G. S., il dì 30 settembre 1823, molto mi impegnai, da miserabile come sono, nella lunga malattia di detta defunta, acciò il Signore si degnasse salvare quest’anima eternamente.
Molte grazie il Signore si degnò farle nella sua dolorosa infermità, segnatamente di visitarla, per ben quattro volte, per mezzo della santissima Comunione sacramentale, compartendole molta pazienza e rassegnazione al suo divino volere, benché si trovasse di fresca età e gravata di numerosa famiglia di figli otto, di tenera età. Ciò nonostante, chinò il capo alla divina volontà.
Si esercitava in atti di somma pazienza, soffrendo il grave suo male per amore di Dio, facendo molte elemosine in vantaggio dell’anima sua.
Io, da miserabile peccatrice, accompagnavo il suo patire con la continua preghiera, essendo io ogni giorno notiziata dal suo buonissimo padre di tutti i mali che pativa la paziente sua figliola.
Subito che fu spirata la bell’anima, il padre mandò ad avvisarmi che la figlia era passata agli eterni riposi, alle ore tre di notte. E questo fu la notte del dì 30 settembre 1823.
Ricevuta questa nuova, immantinente mi portai al mio oratorio; pregai con molto fervore il mio Dio, acciò si degnasse liberare quest’anima dal purgatorio, avendomi il Signore, per sua bontà, permesso di salvare quest’anima, la quale in principio della sua malattia non si trovava troppo disposta, ma per mezzo delle continue preghiere che si fecero a suo vantaggio, il Signore, per gli infiniti suoi meriti, la dispose a morire santamente.
Proseguo. Fui ispirata dal Signore la mattina seguente, che era il primo di ottobre, di farle celebrare la santa Messa dal mio confessore, applicando alla suddetta il santo sacrificio, ancora la povera mia Comunione in suffragio della suddetta.
Ricevuta che ebbi la santa Comunione, pregai incessantemente il mio sacramentato Signore, acciò si degnasse di presto liberare la suddetta anima dal purgatorio. Al Signore piacque di esaudire la mia preghiera, e per sua infinita bontà, mi promise che il giorno seguente mi avrebbe consolata col condurre quest’anima in cielo, a godere la visione beatifica.
All’ora della Messa cantata, al Libera me, Domine, sarebbe liberata dal purgatorio, per mezzo del suo Angelo custode, nel qual giorno ricorreva la festa. Il mio Dio mi fece ben conoscere che questa era una grazia ben grande che mi faceva, di tanto abbreviare il tempo alle sue misericordie, mentre la suddetta anima doveva, per la divina giustizia, ritenersi in purgatorio per lungo spazio di tempo, ma essendo figlia di un mio benefattore, attesa la promessa fattami, mi compartiva, per sua bontà, la grazia.
Quali e quanti fossero i miei ringraziamenti non so dirlo, piangevo di tenerezza nel vedermi favorita dal mio Dio, confessandomi indegnissima di ricevere le sue grazie.
La mattina dei santi Angeli custodi, 2 ottobre, ricevetti la santa Comunione, applicandola in suffragio della suddetta anima. Quando stavo ascoltando la quinta Messa, improvvisamente si raccolse intimamente il mio spirito. In questo tempo vidi il felice passaggio di quest’anima benedetta al paradiso, accompagnata dal suo santo Angelo custode. Vidi ancora una moltitudine di Angeli che vennero ad incontrarla, con grande festa ed applauso la condussero nell’altezza dei cieli, e in un baleno disparve la celeste visione, restando nel mio cuore un gaudio di paradiso e tanto di celeste consolazione nell’anima, che mi tenne assorta in Dio tutta la giornata e buona parte della notte.
La notte del 4 ottobre 1823 stavo nel mio oratorio orando, quando, per mezzo di una interna illustrazione, Dio si degnò chiamare il mio spirito, e conducendolo con lui gli fece scorrere le sue divine magnificenze, gli fece penetrare la sua potenza nel creare tutto il mondo sensibile, condusse il mio spirito nell’altezza dei cieli, e mi fece penetrare la luna, le stelle, il firmamento, mi fece penetrare il sole, i suoi pianeti e tante altre belle cose celesti, che io non so dire. Con tono maestoso e bello diceva Dio all’anima mia: «Vedi, queste sono opere fatte dalla mia onnipotente mano, in un momento le feci: Ipse dixit et facta sunt».
Questo parlare di Dio con l’anima non era con parole sensibili, ma in una maniera che io non so spiegare.
73.5. Un Dio che soffre per l’uomo ingrato!
Proseguo: mi fece Dio scorrere tutti questi vastissimi luoghi con tanta agilità, penetrazione e sottigliezza, che mi pare di poter dire così: il mio spirito, unito al suo Dio, ha penetrato il sole, la luna, le stelle e il firmamento tutto, con altre magnificenze celesti, create dall’onnipotente mano di Dio, che io non so spiegare. Questi milioni di miglia le fece il mio spirito in breve spazio di tempo, conducendo Dio il mio spirito con lui, con tanta velocità e agilità, trasportandomi da un luogo all’altro senza la minima confusione, ma con somma placidezza, di maniera tale che con ponderata intelligenza tutto vedevo e tutto conoscevo: l’infinita potenza, l’infinita sapienza, l’infinita bontà di Dio.
L’anima mia restò estatica nel vedere tante magnificenze. Non posso al certo narrare cosa alcuna di quanto vidi, mancandomi la maniera di parlare di tante stupende cose, né tampoco posso ridire qual fosse lo stupore e la grande ammirazione del mio spirito, nel vedere tanta grandezza e tanta magnificenza, mancandomi l’intelletto per comprendere le tante belle cose che vedevo e conoscevo.
Mi servo di una similitudine, sebbene molto languida, per potermi spiegare, e dico così: come quando si fissa lo sguardo nel vasto oceano, che più la vista è acuta tanto più si vede grande, ma non si può arrivare a vedere il suo fine, il suo termine, per la vastità che esso contiene, in simil guisa, ma senza paragone, è quanto ho detto assai maggiore e senza fine e senza termine fu quanto Dio si degnò farmi intendere. Questa similitudine è molto languida, e non esprime le magnificenze che Dio si degnò manifestare alla povera anima mia, la quale si saziava, si perdeva in quelle bellissime opere, fatte dalla divina mano onnipotente di Dio.
Dopo aver contemplato tutte queste grandezze, Dio condusse con lui il mio spirito a contemplare la sua passione e morte, mi fece scorrere tutta la sua vita fin dalla sua nascita, per così darmi ad intendere quanto è grande l’amore che porta a noi miseri mortali. Oh che tratto d’amore è mai questo: un Dio patire per l’uomo ingrato, ah non è al certo penetrabile!
Potei, per la grazia infusami dell’amoroso mio Dio, penetrare i cieli, il sole, la luna, le stelle e quanto altro di grande e di raro e di bello Dio diede a vedere al mio spirito, ma l’amore grande che è racchiuso nella vita, passione e morte di Gesù Cristo, salvatore nostro, vero Dio e vero uomo, non potei certamente comprenderlo, perché il suo infinito amore, mostratoci nell’incarnazione del Verbo, è un’opera tanto grande, che la mente umana non può comprenderlo, oltrepassando ogni intelligenza angelica.
La povera anima mia, chiamata da Dio a penetrare l’eccesso del suo infinito amore, contenuto in questo vastissimo mistero, restò tanto preoccupata per l’altezza e magnificenza di sì alto e profondo mistero, che si perdette in quella vastità, e per la piena dei santi affetti, che Dio mi comunicò, credevo veramente di perdere la vita nell’immersione vastissima di questo incomprensibile mistero, con trasporto d’amore non posso fare a meno di esclamare: oh opera immensa di amore! oh eccesso incomprensibile di carità, che la sola intelligenza divina ti può comprendere! La mia mente, nonostante la tua particolar grazia, Dio mio, altro non può fare che ammirare l’eccesso infinito dell’immensa tua carità e di compiacermi e rallegrarmi in te, Dio mio, Signore mio, amor mio, eterna mia felicità, possessore di ogni incomprensibile perfezione e bontà. Anzi, Dio mio, tu sei la stessa perfezione e bontà infinita, dunque te solo amo, te solo adoro, te solo desidero godere per tutta l’interminabile eternità.
73.6. Il mio corpo… dondolava
Quando tornai nei propri sensi, trovai il mio corpo che balzava da terra, e per la sua leggerezza faceva come fa una corda appesa nell’alto, che avendo un peso legato al fine di essa, essendo questa alta da terra, si vede dondolare all’urto di una leggera mano che la percuota, in simile guisa trovai che faceva il mio corpo, e per un buon spazio di tempo dovetti soffrire nel corpo questo dondolamento, senza poterlo fermare; questo moto, però, non alterava il mio spirito, che proseguiva a godere la dolcezza e la soavità di quel bene che il mio Dio mi aveva comunicato a larga copia, di quel bene ne godetti per molti giorni, perché restò sopito in Dio il mio spirito.
73.7. Sempre sul monte santo
Digressione: quando dico che il mio spirito è andato scorrendo le campagne, le amene colline, non si è mai per questo dipartito dal monte santo, dove Dio, nello scorso tempo, si degnò condurre l’anima mia di propria sua mano, come ho detto nei passati fogli, essendo queste amene colline e vaste campagne unite e congiunte al medesimo monte santo. L’anima mia ha sempre proseguito il suo viaggio alla sommità di quel monte; ma, di tratto in tratto, Dio si degna condurre l’anima ora sopra le amene colline ora nei vasti e deliziosi campi di questo vastissimo monte, per ricrearla dalla fatica, e per facilitarle il disastroso cammino, per mezzo dei suoi divini favori, ammaestrandola delle celestiali dottrine, con la sua divina sapienza fa sì che l’anima si trasformi da terrestre in celeste, voglio dire che quest’anima, dimentica di tutto il sensibile, non attende che al suo Dio, per amarlo e servirlo con tutta l’ampiezza del suo povero cuore, con tutta l’estensione dell’anima e delle sue forze, donando cento e mille volte la sua volontà al suo Dio, lo prega con trasporto d’amore e somma compiacenza a farsi padrone della sua volontà, tiene per sommo onore che Dio la regoli, la guidi secondo il suo divino beneplacito. In una parola, la povera anima mia si compiace di vivere senza volontà per fare quella del mio Dio, unico e vero bene dell’anima mia, questo lo faccio per quanto valgano le povere mie forze, e per quanto me lo permette la mia grande imperfezione, non lasciando io di essere la più vile ed imperfetta creatura che abita la terra, nonostante i favori che si degna compartirmi Dio, per la sua infinita bontà e misericordia.
73.8. Il mio angelo custode
Il dì 18 ottobre 1823, trovandomi al paese di Marino stavo in orazioni, quando ad un tratto il mio Dio sollevò il mio spirito ad una celeste visione, mi trovai con lo spirito in una amenissima campagna di soavità ripiena; vedevo da quelle amene colline che la circondavano, scendere una moltitudine di santi angeli, i quali festosi venivano a congratularsi con l’anima, per vederla in questo sacro luogo. Queste schiere angeliche mi facevano di intorno corona. Ma bisogna premettere, a mia confusione, che Dio nel condurmi in questo luogo aveva comunicato all’anima mia un celeste splendore, che illuminava tutta quella vasta campagna, la quale risplendeva come risplende il sole nel suo meriggio. Queste schiere angeliche erano tutte accorse all’inaspettato chiarore, e riconoscendo in questa anima l’opera del Signore si congratulavano con lei, lodando e benedicendo l’increata sapienza.
La povera anima era ripiena di confusione e di rossore, per il sentimento, che mi aveva comunicato il mio Dio, di propria cognizione, mi umiliavo fino al profondo cupo abisso del mio nulla, e pregavo quegli angelici spiriti a lodare e ringraziare il mio Dio per me. Fra questi celesti spiriti mi si dava a conoscere il mio angelo custode, il quale vedevo assai più bello di tutti i suoi compagni. Non posso al certo spiegare con qual tenerezza, rispetto e venerazione la povera anima mia ossequiò il suo santo angelo, oh con quanto affetto lo ringraziò di tanti aiuti, di tante grazie, di tanta assistenza che mi ha prestato nel custodirmi. Gli domandai mille volte perdono di tanti disgusti che gli ho dato, in tutto il decorso della mia vita, lo pregai ad aiutarmi e custodirmi, gli promisi di essere fedele al mio Dio, per mezzo della sua divina grazia.
Questo mio santo angelo custode conoscevo essere un angelo delle alte gerarchie degli angeli, di quelli che sono assistenti all’augusto trono di Dio, i quali meritano maggior rispetto e stima. La povera anima mia molto ringraziava il Signore per avergli dato per custode questo inclito personaggio.
Come già dissi, l’anima mia la vedevo sotto il simbolo di leggiadra donzella, cinta di celeste splendore, né la bellezza né il celestiale splendore toglieva all’anima il lume di propria cognizione, che il mio Dio mi aveva donato, anzi, il celeste splendore annientava l’anima nel profondo del proprio suo nulla, e tutto questo bene che vedeva in sé, lo attribuiva giustamente all’infinita bontà di Dio, che sol trionfare nelle più vili sue creature.
73.9. L’anima rapita in Dio
Camminava dunque l’anima mia nel profondo della santa umiltà, quando quei celesti spiriti additarono all’anima il divino tabernacolo, che posto era sopra un altissimo monte, a questa notizia l’anima frettolosa là diresse il suo passo, portata da santi affetti, volando e non camminando si trovò l’anima vicino al divino tabernacolo, dove risiedeva il mio Dio: non posso al certo spiegare di qual tempra fossero i santi affetti e i santi desideri dell’anima, prodotti dal santo e divino amore di Dio.
Alla porta del sacro tabernacolo vi erano due incliti personaggi riccamente vestiti, la loro maestà e bellezza destava nel mio cuore venerazione e rispetto; questi due grandi principi, vedendo l’anima mia accompagnata da quella moltitudine di spiriti celesti, segnatamente dal mio santo angelo custode, che fra tutti quei beati spiriti si distingueva per la sua sovrana bellezza, per essere della gerarchia maggiore. I due principi custodi del divino tabernacolo si degnarono introdurre nel divino tabernacolo la povera anima mia. Cosa dirò mai, se mi manca la lena di proseguire il racconto? Ma la santa obbedienza mi obbliga di manifestare, alla meglio che so e posso, quanto segue nel mio spirito. Dunque, a maggior gloria di Dio, proseguo il racconto con i soliti rozzi miei termini.
La povera anima mia ebbe la sorte di adorare Dio in spirito e verità. Introdotta che fui in quel sacrosanto tabernacolo, l’anima fu rapita in Dio: tante furono le bellissime cose che vidi, tante furono le belle cose che comprese il mio spirito, per mezzo di particolare cognizione e intelligenza, che non so né posso esprimerle né ridirle, tanta fu la piena dell’illustrazione divina, che l’anima restò assorbita, medesimata in Dio.
Non ho al certo termini di spiegare con qual tenerezza di affetto Dio si degnò trattare la povera anima mia, in questo divino suo tabernacolo, non è possibile al certo di manifestarlo.
Di santo orrore era ripieno il mio cuore, fisso tenevo nella mente la mia ingratitudine, la mia infedeltà. In mezzo a tanto bene, la contrizione, il dolore di avere tanto offeso il mio Dio mi crucciava il cuore; l’amore di corrispondenza e la gratitudine da un’altra parte mi struggeva, mi si stemperava il cuore, e con lacrime abbondantissime di dolore e di gratitudine, in questa guisa si liquefaceva il mio spirito. Dio si compiaceva di vedermi in quello stato ridotta per amor suo, a sé univa l’anima intimamente, abbracciandola la stringeva al castissimo suo seno, imprimendo nell’anima affettuosi baci. Oh mia grande confusione! devo aggiungere anche di più, il mio buonissimo Dio poi si degnò di invitare la peccatrice anima mia a fare con lui il simile contraccambio.
A questo invito cresceva a dismisura il sacro orrore dell’anima, e restava fuori di se stessa per lo stupore, e viepiù si accresceva in me il lume della propria cognizione, che mi umiliava profondamente, in maniera tale che non saprei bilanciare se sia più il godere di questi divini favori o la pena che si soffre nel conoscersi immeritevole di queste grazie; la santa umiltà che Dio comparte all’anima mia in questi casi è tanto grande, che l’anima si profonda sotto i piedi degli stessi demoni, benché anche si veda favorita dall’amoroso suo Dio, perché giustamente conosce che questo non è che un tratto purissimo della sua infinita carità.
73.10. Datemi i vostri cuori per amarvi
Il dì primo novembre 1823, festa di tutti i Santi, a maggior gloria di Dio e a mia confusione, scrivo il favore che ricevetti dall’infinita bontà di Dio.
Nei giorni antecedenti a questa festività, con preghiere e lacrime chiedevo, con grandi istanze, il santo amore di Dio, e lo chiedevo per intercessione di tutti i santi che sono in cielo; e per ottenerlo mi rivolgevo alla Madre del santo amore, Maria santissima, e al suo divino figliolo Gesù: «Madre mia», dicevo, «caro mio Gesù, datemi i vostri cuori, per amarvi!».
Questa preghiera la feci per molti giorni, con molto fervore e grande istanza, con lacrime e penitenza, per quanto la santa obbedienza me lo permetteva.
La mattina suddetta, tutto ad un tratto si concentrò il mio spirito in Dio. In questo tempo mi trovai con lo spirito in una amenissima campagna, mi trovai circondata da molti celesti spiriti, i quali invitavano l’anima mia a lodare e benedire l’eterno Dio. L’anima, con profondo rispetto, si unì a quei beati spiriti, e adorò e benedì l’eterna maestà di Dio. Poi mi condussero con loro sopra un altissimo monte, dove io vedevo il mio Dio, che assiso se ne stava nella sua gloria, come riposando, compiacendosi nel suo medesimo splendore. Si degnò invitare la povera anima mia ad approssimarsi a lui.
L’anima, piena di confusione, confessava di essere indegnissima, si copriva di rossore e di santo timore insieme; sbalordita resta l’anima per il divino suo splendore; per questa cagione ricusò il paterno invito. Il mio Dio non si offese per questo, ma, compatendo il mio smarrimento, così prese a parlare: «Diletta mia figlia, il mio splendore ti abbaglia la vista, ti riempie il cuore di santo timore, perciò non ardisci di avvicinarti, hai ragione! ma io per tuo amore oscurerò il mio splendore».
In questo tempo mi si diede a vedere il mio Dio, sotto un’altra forma, e così la povera anima poté a lui avvicinarsi, conservando nel mio cuore il dovuto rispetto e la dovuta stima alla sua divina maestà.
Ricevette l’anima doni e grazie per il suo profitto spirituale, segnatamente il lume di propria cognizione e contrizione dei propri peccati, santo fervore, come ancora si degnò Dio, per sua bontà, alle povere mie preghiere di liberare un grande numero di anime del purgatorio, per le quali incessantemente pregavo in quei santi giorni, in cui ricorreva il loro anniversario. Si degnava il mio Dio di farmele vedere come a schiere a schiere, per mezzo dei loro santi angeli custodi, si compiaceva di introdurle alla celeste magione, per renderle beate per tutta l’interminabile eternità.
L’anima godeva, per questo bel trionfo della divina misericordia, una dolcezza di paradiso, ma da un’altra parte sentiva una santa invidia per la loro sorte, sicché il contento mi si convertiva in pena.
Il dì 10 novembre ritornai dal paese di Marino in Roma, dopo essermi trattenuta 25 giorni, nei quali feci giorni 20 di santi esercizi e di santo ritiro.
73.11. La nave della Chiesa
Il dì 10 gennaio 1824 l’anima fu ammessa a parlare familiarmente con il suo Dio, trattenendosi per sua infinita bontà a parlare con la povera anima delle presenti circostanze della nostra santa religione cattolica e della santa Chiesa.
L’anima mia così pregava il suo Dio per i presenti bisogni della santa Chiesa: «Mio Dio», diceva l’anima, «quando sarà che io vi veda da tutti gli uomini onorato e glorificato come conviene? Ma, oh mio Dio, quanto sono pochi quelli che vi amano! oh quanto è mai grande il numero di quelli che vi disprezzano, mio Dio, che grande pena è questa per me! Credevo con questa nuova elezione di pontefice si fosse rinnovata la santa Chiesa, e che il Cristianesimo avesse a mutare costume; ma, per quanto vedo, camminano ancora nello stesso piede».
A questo mio affannoso parlare, Dio così mi rispose: «Figlia, non ti ricordi che io ti dissi che la nave era la stessa e che poco gioverebbe ai naviganti di questa nave l’aver cambiato il pilota?».
L’anima: «Ah sì, mio Dio, mi ricordo che, tre giorni dopo l’elezione di questo sommo pontefice Leone, mi faceste bene intendere che la serie delle persecuzioni non era per terminare. Mio Dio, se la nave sarà sempre la stessa, noi andremo sempre soggetti agli stessi mali! Ah Signore, metteteci riparo voi, fate una nave nuova, che ci conduca tutti al porto della beata eternità del paradiso! Sì, mio Dio, vi chiedo questa grazia, deh non me la negate, per i vostri infiniti meriti, mi avete promesso di esaudire le povere mie preghiere, deh, per vostra bontà, ascoltatemi dunque, che io vi prego per tutto il Cristianesimo: rimetteteci sul buon sentiero, ve ne prego, ve ne supplico, per il vostro sangue preziosissimo; deh fabbricate la nave di nostra sicurezza!».
Così mi intesi rispondere: «Figlia, prima di costruire questa nave, si devono recidere cinque alberi che sono in terra sopra le loro radici».
A questo parlare, l’anima mia molto si rattristò, pensando che vi fosse un lunghissimo tempo per formare questa nave. «Dunque», dicevo piangendo, «non basteranno due secoli per fabbricare questa nave! Mio Dio, che pena è questa per me, se Noè mise cento anni per fabbricare l’Arca, voi dunque, mio Dio, proseguirete ad essere offeso per tanto spazio di tempo? Io non ci posso pensare, mi sento venir meno dal dolore. Gesù mio, levatemi la vita, mentre non reggo a vedervi tanto offeso».
Piangevo dirottamente ed ero sopraffatta da grande afflizione di spirito; nel tempo che stavo in questa afflittiva situazione, così intesi parlarmi: «Rasserena il tuo spirito, rasciuga pure le tue lacrime. Sappi che questo non è un lavoro terrestre, come quello di Noè, ma un lavoro celeste, mentre i fabbricatori di questa nave sono i miei angeli. Rallègrati, o mia diletta figlia, e non ti rattristare! Il tempo è nelle mie mani, posso abbreviarlo quanto mi piace, prega, non ti stancare, non sarà tanto lungo quanto tu pensi».
L’anima così rispose: «Quanto mi rallegrate, mio Dio, col farmi sapere che vi compiacerete di abbreviare il tempo alle vostre misericordie, venga presto questo tempo benedetto, o mio Signore, che da tutti siate conosciuto, amato e adorato come conviene».
73.12. Il significato dei cinque smisurati alberi
Intanto il mio spirito in un baleno fu condotto a vedere il grande arsenale, dove vedeva molti santi angeli, che erano tutti intenti a dare di mano a questa grande opera; vi erano nel grande arsenale molti legni da costruzione, come ancora gli ordigni per costruire la detta nave, altri legni di costruzione vedevo fuori dell’arsenale allo scampagnato di una grande macchia, fui condotta poi nell’interno di detta macchia, dove mi furono additati i cinque alberi di smisurata grandezza. Osservai che questi cinque alberi con le loro radici alimentavano e producevano un foltissimo bosco di milioni di piante sterili e selvatiche, alla rimembranza di queste, non potei contenere le lacrime, restai attonita e piena di afflizione mi raccomandavo ai santi angeli, acciò disbrigassero la grande opera che gli aveva commessa il Signore.
Comunicai il suddetto fatto al mio padre spirituale, il quale in quel momento niente mi rispose su di ciò, ma il giorno appresso mi disse: «Pregate il Signore, acciò si degni farvi intendere il significato di quei cinque smisurati alberi che vi ha fatto vedere».
Puntualmente obbedii, e pregai il Signore a manifestarmi il significato di quei cinque smisurati alberi; si raccolse il mio spirito in Dio, e in quel tempo feci l’umile petizione al mio Dio, mostrandogli l’obbedienza che mi aveva imposto il mio padre spirituale. Dio, per sua infinita bontà, ricondusse il mio spirito in quella foltissima macchia, dove tornai a vedere i sopraddetti alberi di smisurata grandezza. Per mezzo di intellettuale intelligenza mi si fece intendere essere in questi smisurati alberi denotate le cinque eresie che infettano il mondo in questi nostri tempi, eresie che si oppongono del tutto al nostro santo Evangelo, e ne cercano la propria distruzione, queste maligne piante con le loro venefiche radici davano alimento a tutte quelle piante, che si trovavano in quella foltissima macchia, che altro non vedevo che alberi secchi e sterili.
74 – AFFERRAI IL BRACCIO ONNIPOTENTE DI DIO
74.1. I cattolici del suo tempo
Il dì 22 gennaio 1824, il mio spirito fu di nuovo ricondotto in quella sopraddetta macchia, dove con somma mia pena distinguevo in quella tetra rappresentanza di sterilissimi alberi, come già dissi, la sterilità lacrimevole di tante povere anime, che sono senza numero, che, depravate le loro coscienze, possono chiamarsi senza fede, senza religione, perché a tutto pensano fuorché a quello che ogni buon cattolico è obbligato di pensare, tutto operano fuori di quello che devono operare; ma, tutti intenti e sovvertiti dalle false massime della filosofia dei nostri tempi, conculcano la santa legge di Dio e i suoi divini precetti: queste misere piante sono riguardate dal divino padrone non solo per sterili, ma per nocive e pessime, meritevoli di essere gettate nel fuoco eterno.
Si trovava dunque il mio povero spirito in questa sterilissima terra, guardava con occhio di compassione quelle misere piante, conoscendo il significato di esse, piangeva dirottamente, compassionando lo stato infelicissimo di queste povere anime viatrici; quale e quanta fosse la pena e l’afflizione che ne provava il mio spirito non posso al certo ridirlo. Mi pascevo di amarissime lacrime e dei più affannosi sospiri, pensando che tante anime, redente col sangue preziosissimo di Gesù Cristo, si trovassero in stato così deplorabile; pregavo per queste anime infelici, mi raccomandavo; ma nella preghiera si accresceva in me a dismisura l’affanno e la pena, perché Dio, per sua bontà, mi dava una chiara cognizione della loro malizia, della loro sfacciataggine, della loro temerarietà nell’offenderlo, nel disprezzarlo.
Oh Dio, a questa cognizione il mio spirito restò interdetto, e non poté più pregare, perché la giustizia di Dio me lo vietava. Intanto nel mio cuore si accresceva la pena, l’affanno, ed era trapassato da fiero dolore; il grave timore di vedere un Dio sdegnato mi faceva tremare da capo a piedi e mi riempiva di sacro orrore.
74.2. Dio sdegnato
Quando fui in questo stato ridotta, che già più non distinguevo me stessa per lo spavento, né sapevo se più abitavo la terra dei viventi, allora mi si fece vedere Dio sdegnato, minacciando un subitaneo castigo, vedevo scorrere il suo braccio onnipotente or qua or là per incendiare, per distruggere, per mezzo di fulmini dell’irritato suo sdegno, quasi tutto il mondo.
Nel vedere questo eminente e terribile castigo, che Dio voleva mandare sulla terra, la povera anima mia, benché così atterrita e spaventata, per mezzo della grazia di Dio, riunì le indebolite sue forze, e correndo appresso all’irritato braccio onnipotente di Dio, ritenendolo forte, come un tenero figlio che si stringe al braccio del suo amato padre, quando vede che sdegnato vuole punire con severo flagello i suoi discoli figli, il fanciullo fratello, mosso dalla carità e dall’amore dei suoi fratelli, benché conosca le deboli sue forze, ciò nonostante spera nella pietà del suo buon padre, in simil guisa si diportò il povero mio spirito in questa funesta occasione, ma questo paragone è assai languido per esprimere la verità del fatto.
Il mio spirito dunque riunì le poche sue forze e per mezzo della grazia del Signore, con gemiti e sospiri, gridava misericordia, piangendo dirottamente per muovere a compassione il bel cuore del mio Dio, ma tutto questo non giovava, perché il suo braccio vendicatore si fermasse, tenendo nella sua onnipotente mano cento e mille fulmini racchiusi insieme. Mossa la povera anima mia da santo zelo, per non veder patire tante anime nel fuoco eterno, mi slanciai dunque verso il divino furore di Dio, che procedeva il suo braccio onnipotente e, oltrepassando i limiti del mio proprio dovere e della mia dovuta soggezione, afferrai con le mani dell’anima il braccio onnipotente di Dio e così, tenendomi fortemente stretta ed abbracciata, facevo a lui dolce violenza, ma intanto il braccio onnipotente, preso dal suo giusto furore, scorreva con violenza qual rapido vento, per fulminare, per castigare tutto l’universo. Ciò nonostante, il mio spirito, benché fosse molto malmenato, non lasciò mai di tenere forte il braccio vendicatore di Dio, perché io non volevo che avesse scagliato quei fulmini, che teneva racchiusi nella sua mano onnipotente. La tenevo dunque fortemente stretta con quanta forza avevo, con lacrime e sospiri così gridavo: «Giustissimo giudice, avete ragione, meritiamo per i nostri peccati questo tremendo castigo, ma vi muovano a pietà i meriti infiniti del nostro divino Redentore. Mio Dio, placatevi, per Gesù Cristo vostro figliolo».
Andavo, piena di affanno, ripetendo queste ed altre simili espressioni, invocando ancora l’aiuto di Maria santissima, per ottenere la grazia, non lasciavo intanto di tenere fortemente stretta la mano onnipotente di Dio, acciò non avesse scagliato i fulmini che teneva racchiusi, stretti nella sua mano. Intanto il suo divino braccio, mosso dal suo giusto furore, scorreva per l’aria qual rapidissimo vento. Il mio spirito, benché fosse così dibattuto, che credevo propriamente di morire, per avere scorso così rapidamente per l’aria centinaia e migliaia di miglia, così portato dal braccio onnipotente di Dio, finalmente vinsi la vittoria, anzi, per meglio dire, dico che dopo di avere, per gli infiniti meriti di Gesù Cristo, espugnata la grazia, Dio, per sua infinita bontà, si degnò di cedere alla costanza della povera anima mia, Dio si degnò di farsi vincere cortesemente dalle deboli mie forze, per così magnificare la sua grandezza.
Fatta questa operazione, che al mio povero spirito costò molta fatica e strazio, sia detto tutto alla maggior gloria di Dio, e a mia somma confusione, questa operazione, fatta dalla povera anima mia, si deve tutta a Dio, perché è un sommo ardire di una poverissima creatura peccatrice come sono io, di fare violenza alla divina giustizia di un Dio di infinita maestà.
A dire il vero io non so come la cosa andasse, mi pare di certo che io spontaneamente non deliberassi di commettere un simile ardire, mentre alla sola cognizione che ebbe l’anima dello sdegno di Dio, tremavo di spavento da capo a piedi, conoscendo che anche io entro nel numero dei peccatori, e non sapevo se in quel momento Dio era per mandarmi all’inferno per i miei peccati, e per l’attentato commesso di oppormi alla sua divina giustizia, con fargli violenza, sebbene mi pareva di non essere colpevole del detto attentato, mentre io non avevo deliberato volontariamente di fare al mio Dio una simile resistenza, ma per accrescimento delle mie pene non distinguevo se la mia operazione fosse stata grata al mio Dio.
74.3. Il mio male pareva mortale
Quando tornai nei propri sensi, mi trovai stramazzone per terra nel mio oratorio privato, piena di timore e di spavento, non sapevo dove mi trovavo, dubitavo di essere già nel baratro dell’inferno, perché ricordavo Dio sdegnato, ricordavo il mio sommo ardire, e non sapevo se questa mia operazione fosse stata approvata o riprovata da Dio. Tanto grande fu lo spavento prima e dopo, che io non distinguevo più i propri sensi, ero come stupida, ed il fatto lo comprovò, perché, sopraffatta dallo spavento e dal grandissimo strazio sofferto, per essere stata così malmenata e così portata l’anima in aria rapidamente e così velocemente dalla divina giustizia, ne venne, per conseguenza, a soffrire ancora il corpo, sicché un forte stravaso di umori mi fece gonfiare tutta da capo a piedi, e mi rese cagionevole di salute, in guisa che il mio male pareva mortale, ed io infatti ne provavo i cattivi effetti, e credevo ogni notte di rendere l’anima a Dio.
Soffrivo, per grazia del Signore, con somma pazienza questo grave mio male senza lamentarmi, ma tutto soffrivo con molta ilarità di spirito; compiacendomi nella divina volontà del mio Dio, non ignorando qual fosse la cagione del grave mio male. Ma non passarono molti giorni che le mie due figlie ed altri miei parenti si avvidero del grave mio male, benché a tutto mio costo lo dissimulassi, ma il gonfiore non lo potevo nascondere, si misero questi in molta apprensione nel vedere che non potevo più dare un passo senza grande fatica e stento, per l’affanno di petto e per la gravità di tutta la macchina; vollero dunque le figlie chiamare il medico, e questo si fece con il permesso del mio padre spirituale, il quale sapeva la vera cagione del mio male, ciò nonostante mi disse il suddetto che il medico si doveva chiamare per più riflessi, e che mi fossi soggettata, per amore di Gesù Cristo, a prendere quanto avesse ordinato.
Venne dunque il medico a visitarmi, quando vide il mio aspetto ed intese la narrativa del mio male, mi fece un brutto pronostico, il male lo dichiarò quasi incurabile, disse che era una idropisia pessima e che, attese le deboli mie forze, non avrei certamente retto alla violenza del male. Disse il medico alla mia figlia che il male era veramente mortale e che non potevo sopravvivere.
Io tutto riferii al mio padre spirituale, il quale mi rispose: «Voi sapete l’origine del vostro male, Dio penserà a guarirvi, se a lui piace, una visita che vi faccia Dio vi troverete guarita; ma ciò nonostante la prudenza vuole che vi abbiate cura, e date un poco di nutrimento al vostro corpo, i medicamenti prendeteli con parsimonia, acciò non incorriate in un male peggiore».
Non feci né più né meno di quanto mi disse il mio padre spirituale; e difatti non i medicamenti umani, ma varie visite amorose che si degnò farmi il Signore, in pochi giorni mi trovai da questo male mortale guarita.
Come qui appresso dirò, la maggior pena che mi crucciava il cuore, e mi abbatteva nelle forze, era di non sapere se Dio fosse sdegnato con me, per aver fatto violenza alla sua divina giustizia, sebbene avevo acquistato molta tranquillità, dopo che questo fatto lo avevo comunicato al mio padre spirituale, il quale vedendomi così angustiata, mi disse: «State quieta, che questa operazione non potevate farla da voi spontaneamente, ma Dio è stato quello che ve l’ha fatta fare, dunque non può essere sdegnato con voi, state quieta, se Dio per darvi a patire ve lo vuole tenere occulto ci vuole pazienza, Adorate i suoi divini decreti, patite questa pena per amore di Dio, compiacetevi nella sua santissima volontà».
74.4. Dio mi consolò con una sua amorosa visita
Riprendo il filo del racconto. Ero nella forte ambascia e fuori di modo crucciata da questo funesto pensiero, che Dio fosse sdegnato con me per il motivo già accennato di sopra, una folta tenebra mi occupava l’intelletto, un grave timore mi stringeva il cuore, che mi pareva ogni momento di essere maledetta da Dio, ogni momento mi pareva di piombare nell’inferno, alle volte non sapevo neppure distinguere se abitavo più in questo mondo, tanto era grande il timore di Dio sdegnato.
Passai molti giorni in questa deplorabile situazione, cioè dal 22 gennaio 1824 fino al 12 febbraio, nel qual giorno il mio Dio si degnò consolarmi con un’amorosa sua visita, mi fece intendere che era in pace con me, e amava l’anima mia con particolare predilezione. Questo fu un favore molto particolare dell’infinita bontà di Dio, che io non so spiegare; il Signore si diede a vedere alla povera anima mia tutto raggiante di luce, e qual padre di misericordia, abbracciò teneramente il mio spirito, qual padre amante mi assicurò che io stavo in sua grazia, che grato gli era stato quanto avevo fatto e patito per il mio prossimo, con l’interpormi presso la sua divina giustizia, acciò sospendesse il flagello.
Questa amorosa visita fu per me un’ottima medicina, perché mi fece riacquistare la pace e la tranquillità, che in questa occasione avevo perduta, e così principiarono a mitigare i miei malori; non lasciò Dio per sua bontà di consolarmi nel tempo che era ancora infermo il mio corpo, così per mezzo dei suoi divini favori andavo riacquistando la perduta salute.
Era già passato il mese di febbraio 1824 e ancora ero impotente di poter sortire di casa per andare alla chiesa, sebbene, per grazia del Signore, in questo tempo ed in tutte le altre occorrenze che sono stata inabile di sortire, mai mi è mancata la santa Messa, che si è celebrata nel mio oratorio privato, così la quotidiana Comunione questo ancora si deve attribuire ad una grazia speciale di Dio, mentre in tutte le occasioni che io non sono potuta sortire di casa per incomodo di salute, il Signore mi ha mandato sempre molte elemosine di Messe da celebrarsi nel mio oratorio privato, con tanta abbondanza e provvidenza che io ne restavo ammirata, mentre la mia povertà non mi permetteva questo dispendio.
74.5. Un miracolo perenne
Giacché mi trovo di parlare di questo tratto della divina provvidenza, intorno alle elemosine delle Messe, dirò ancora, a maggior gloria di Dio, varie altre cose non meno mirabili di queste.
Io sono una povera donna gravata dal peso di due figlie, abbandonata dal proprio consorte; il quale, ritiratosi a convivere con sua madre e sorelle, non pensa di dare neppure un soldo per mantenere le figlie, sicché io con le due figlie viviamo di elemosina e di quello che possiamo guadagnare con i lavori. Eppure, chi lo crederebbe? fino ad ora nella povera nostra casa, che sono adesso che scrivo lo spazio di circa dodici anni, che Dio si degna di fare questo perenne miracolo, di non farci mancare niente dell’occorrente, ma secondo il bisogno provvede, e provvede in abbondanza, c’è tanto di farne elemosina anche agli altri, questi caritatevoli sussidi mi vengono somministrati da pie persone, che le sono cognite, che conoscono le mie indigenze, questo lo fanno di loro spontanea volontà, ispirati dal Signore, senza che io chieda niente a nessuno.
Altri tratti della divina provvidenza molto mirabili che ho sperimentati, mi pare meglio di tacerli che raccontarli, mentre il mio Dio tanto mi benefica per sempre più umiliarmi e confondermi per mezzo della sua infinita bontà.
75 – IL MIO RE VUOLE CELEBRARE LE NOZZE CON TE
Riprendo il filo del racconto: il mese di marzo feci portare il quadro del glorioso patriarca san Giuseppe nel mio oratorio privato, per ossequiarlo in tutto il mese quotidianamente, con la celebrazione del santo sacrificio la mattina, e la sera con altri ossequi in suo onore. Io pensai di chiedere al santo patriarca che mi avesse ottenuto dal Signore la sua umiltà, la sua castità, la purità della sua intenzione. Lo pregavo incessantemente a concedermi la grazia di amare Dio quanto lui l’amò in questa vita mortale. Nonostante questi buoni sentimenti io sentivo in me un’aridità di spirito, che mi dava una pena molto considerabile; ma, per mezzo della grazia di Dio, la soffrivo con molta rassegnazione e pazienza.
La festa del glorioso patriarca, nonostante i miei incomodi di salute, con il permesso del mio padre spirituale, mi portai alla chiesa, dove subito intesi una gioia, un contento di paradiso, mi umiliai profondamente dinanzi all’augustissimo sacramento esposto, lo ringraziai di avermi fatto la grazia, dopo due mesi, di poterlo adorare, intanto andava crescendo in me il contento di trovarmi alla reale presenza di Gesù sacramentato. Mi sentivo liquefarmi il cuore dall’amore, e spargendo un profluvio di lacrime non mi saziavo di ringraziarlo, di domandargli mille volte perdono di tanti peccati commessi, e gli promettevo di vero cuore di emendarmi e di fare una buona vita. Gli chiesi, in grazia, di poterlo visitare quotidianamente nel santissimo sacramento dell’altare, e poi gli dissi tante altre cose che mi venivano suggerite dal divino amore. Sfogato che ebbe l’anima questi suoi desideri e questi amorosi affetti, si sopì in Dio.
Quando l’anima si era profondata in questo dolce riposo, ecco un messaggero celeste, che col suono della dolce sua voce destò l’anima e così le disse: «Vieni, o nobile sposa, il mio Re, tuo sposo, ti invita: Vuole con te celebrare le nozze».
A queste parole si destò l’anima, e a questa ambasciata si riempì di santo timore e si profondò nel cupo abisso del suo nulla, si smarrì nel suo niente, non sapendo cosa rispondere, rivolta al suo Dio, con voce tremante, così esclamò: «Eterno mio Dio, e come da questo profondo di miserie, in cui mi ritrovo, dovrò io passare a tanta altezza?Ah, mio Dio, non ne sono degna! Ah, non mi regge il cuore! Un sacro orrore di confusione mi ricopre da capo a piedi».
75.1. Sposa diletta, amica mia, vieni
Intanto che l’anima stava così perplessa e vacillante per il timore, fissò in alto lo sguardo e vide il sovrano suo re, tutto premuroso, acciò l’anima si affrettasse ad andare, spedisce altri sei messaggeri celesti, acciò questi conducano alla sua reale presenza l’anima mia. Oh Dio, a questa seconda spedizione non mi resse più il cuore di più indugiare, ma così ricoperta di confusione e di rossore, spronata dall’amore che sentivo verso il mio sommo bene, frettolosa mi inviai alla sommità del santo monte, dove mi si fecero incontro tutti festosi i sei messaggeri celesti, e come in trionfo accompagnarono l’anima al loro sovrano re. Non fummo là giunti, che le nobili porte del divino tabernacolo aperte si videro, un bello splendore di là sortiva e dolce voce così diceva: «Sposa diletta, amica mia, colomba mia, vieni, deh vieni al talamo del tuo Signore, vieni non più tardar».
Oh Dio, qui mi perdo, non so più parlare, non so cosa dire, mi mancano i termini di potermi spiegare, parlate voi per me, o messaggeri celesti, che mi onoraste con l’accompagnarmi, dite voi per me, che io non so ridire, qual fu il nobile ricevimento che mi fece il mio Dio. Io al certo non lo so ridire, la mente umana non ci può arrivare, né a cose sensibili si possono paragonare; ma, per non mancare alla santa obbedienza, alla meglio che posso, qualche cosa dirò.
Quel divino tabernacolo era un vero paradiso, la bellezza, lo splendore non si può spiegare; nel mezzo di quella luce inaccessibile, vedevo molti nobilissimi personaggi riccamente vestiti, pieni di gloria e di maestà. Questo che dico sono le più piccole cose di quella magnificenza incomprensibile, inarrivabile, impenetrabile. Cosa dirò mai del re della gloria, se questi incliti personaggi altro non erano che suoi cortigiani, che assistevano all’augusto soglio della sovrana sua maestà? L’anima, intanto, ebria di amore, e per il grande splendore, mi credevo di morir in mezzo alla gioia, e l’interno gaudio non potevo più contenere, ma disciolta l’anima e liquefatta come in odore di soavità, grato all’amante divino mio sposo, nelle sue braccia mi fece riposare.
Altro non dico, perché più non so dire, godeva l’anima un paradiso di beni senza distinguere, senza capire l’altezza grande del divino favore; godevo i mirabili effetti di questo favore che mi comunicò l’amante Signore, sentendo il mio cuore ripieno di sante virtù, una umiltà così profonda, un annientamento di me stessa, una interna ed esterna mortificazione, un raccoglimento interno ed esterno, una purità, una semplicità molto particolare, una certa unione speciale col mio Dio, che per molti giorni non mi ricordavo di abitare questo mondo sensibile, ma vivevo come in una solitudine, quasi fuori di me stessa, e il mio spirito si trovava tutto concentrato in Dio.
75.2. Il Signore si degnò di portarmi sopra le sue divine spalle
Da questo grande bene che godetti, per lo spazio di giorni sette, il mio spirito passò in una profonda oscurità di mente, unita ad una derelizione di spirito, che mi portava ad un gravissimo patimento. In questo stato, così, altro sollievo non trovavo, che di portarmi con il pensiero all’orto del Getsemani, unendo le mie pene a quelle dell’amante mio Redentore; mescolando le mie pene con le sue gravissime pene, così veniva sollevato l’afflitto mio spirito, benché si accrescessero di molto i miei patimenti, per la compassione che sentivo della passione e morte del mio Redentore. L’amore e il dolore di averlo tanto offeso lacerava il mio cuore, conoscendo essere stata io la cagione di tanto sudor di sangue, che versò l’amato mio bene nell’orto. Alla rimembranza di tanta mia ingratitudine, piangevo amaramente le mie colpe e ne domandavo umilmente perdono al mio appassionato Signore.
In questa afflittiva situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di giorni quindici. Una mattina, improvvisamente, dopo la santa Comunione, il Signore sollevò il mio spirito per mezzo della sua divina grazia, fui condotta dallo Spirito del Signore, in un luogo del tutto nuovo: mi trovai alla sponda di un grande lago, alla vista del quale si atterrì il mio spirito, e rivolta al mio Dio, così esclamai: «Dio mio, per la tua infinita bontà, non mi abbandonare in questo grave pericolo».
A me pare, se non erro, dicevo fra me stessa, che questo lago sia il lago dei leoni, dove fu posto Daniele profeta, questo mi pare un torrente di affanni e di pene insuperabili, e come farò io che sono tanto debole e miserabile, come farò a resistere a tanti urti di tentazioni, mio Dio, dubito di mancarvi di fedeltà, mio Dio, mio Signore, ricordatevi che me lo avete promesso, che mi avreste liberata da queste brutte tentazioni. Degnatevi mantenermi la parola, deh non mi abbandonate in questo penoso conflitto!».
Nel tempo che ero così abbattuta dal forte timore di intraprendere questa nuova battaglia, ecco che tutto ad un tratto sento rinvigorire il mio spirito dal dono della fortezza: «Mio Dio, riprendo con costanza invitta, se voi volete, eccomi pronta, sono contenta di soffrire per amor vostro ogni sorta di travagli, non dubito punto della vostra particolare assistenza».
Ero già determinata di gettarmi in quel profondo lago, quando il mio Signore si degnò farsi da me vedere alla sponda di quel lago, tutto raggiante di luce, con volto piacevole, così mi disse: «Figlia arrèstati, il tuo coraggio ha pagato il mio cuore. Mia diletta figlia, vedi fin dove giunge il mio amore verso di te, ah non regge il mio cuore di vederti in mezzo a questo doloroso conflitto di tentazioni. Figlia, sopra le mie spalle affidati, ed io ti tragitterò da questa all’altra sponda, e ti condurrò sopra quel monte».
L’anima dunque alle dolci parole del suo Signore, piena di rispetto e di venerazione, con santa fiducia, sopraffatta da santo timore sopra le divine sue spalle si abbandonò. L’amante Signore non solo mi tragittò da quella all’altra sponda, ma si degnò portarmi, sopra le divine sue spalle, fino alla sommità di quell’altissimo monte, che io molto da lontano vedevo, e di sua propria mano mi collocò in un piccolo recinto, contornato di altissime muraglie, adagiandomi sopra una risplendente nube, che era in questo recinto, e lì mi fece riposare. Oh dolce riposo! veramente degno dello Spirito del Signore, e chi mai potrà manifestare la sublimità di questo misterioso riposo? Nel tempo che l’anima mia stava così assorta in Dio e riposava nella sua immensità, il Signore di propria sua mano chiuse la porta impenetrabile ma prima di chiudere si degnò assicurarmi che mi amava con parziale amore, dandomi parola che in questo luogo non sarei molestata dai miei nemici, e che nessuno dei miei avversari avrebbe ardito di perturbarmi.
Molte altre cose mi disse l’amante Signore, per rendere quieta e contenta la povera anima mia peccatrice, mi disse inoltre che in ogni mio bisogno avessi invocato il suo santissimo nome in aiuto. Non poco restai contenta e sopraffatta dal dolce riposo, il quale durò per lo spazio di tre giorni, nei quali io posso dire che, l’anima mia non esisteva più nel mondo, ma riposava nelle braccia santissime dell’amante suo Signore, tanto era unita l’anima mia al suo Dio, che in qualche maniera posso dire che per lo spazio di tre giorni, vissi di una vita quasi divina, mentre il mio respirare era un atto continuato di amore di Dio, che pacificamente incendiava il mio cuore, e lo faceva ardere di puro e santo amore, veniva questo divino amore corredato da tutte le sante virtù.
75.3. Sopra un’altura i miei capitali nemici
Beata me, felice me, se questo stato fosse stato in me permanente, ma, passati i tre giorni, mi trovai in quella solitudine senza la presenza dell’amato mio bene, sola, raminga e piena di timore, benché circondata fossi dalle alte muraglie, che mi rendevano sicura del tutto, come ancora ricordavo l’immancabile parola datami dal mio Signore Gesù Cristo, prima di chiudere la porta impenetrabile del detto recinto, dove io mi trovavo. Ciò nonostante nel tempo che stavo fra il timore e la speranza, sento da lungi un forte mormorio, fisso lo sguardo e vedo sopra un’altura riuniti i miei capitali nemici, che congiuravano contro di me, e macchinavano, a danno mio, una forte insidia.
A questa cognizione l’anima mia, con tutto l’affetto del cuore, invocò il santissimo nome di Gesù in aiuto e, palpitando per il timore, piangevo dirottamente e chiedevo al mio Dio soccorso per difendermi dai miei capitali nemici.
Non ebbi terminata la preghiera che il mio buon Dio, per sua bontà, fu in mio soccorso, e così mi parlò al cuore con voce sonante e piena di maestà: «In manibus portabunt te, ne forte offendas ad lapidem pedem tuum». L’anima mia, rivolta al suo Dio, così esclamò: «Ah mio Dio, mio Signore, non sono le pietre che mi offendono, ma sono i miei capitali nemici che mi insidiano, deh aiutatemi per pietà».
Dio così tornò a parlarmi, con voce imponente e autorevole verso i miei avversari nemici, e tutto piacevole ed affabile verso l’anima mia: «Super aspidem et basiliscum ambulabis, et conculcabis leonem et draconem». Con suono di voce dolcissima, e piena di carità, così mi soggiunse: «Quoniam in me speravit, liberabo eum; protegam eum, quoniam cognovit nomen meum».
A questo parlare del sovrano mio bene, l’anima, piena di santa fiducia nell’onnipotenza di Dio, dolcemente riposò, dileguandosi dal mio cuore ogni ombra di timore. Restai nella mia solitudine, dove tuttora mi ritrovo, senza essere stata più molestata dai miei nemici, ma non lascio però di soffrire grandi pene e travagli, in mezzo ad una pace e tranquillità di spirito. Il santo e divino amore fa crudo strazio di me. Oh Dio, di qual tempra sei, o divino amor mio, che tanta possanza hai tu di me, non mi fai requiare né notte né dì. Con mille spade tu ferisci il mio cuore, deh per pietà, guariscimi tu. Ah, tu ben sai qual sia il mio desio: di essere sciolta da queste catene del corpo mortale, per venire in cielo a regnare con te, questo solo è il rimedio per guarire il mio povero cuore, questa è la pena, questi sono i travagli che tuttora soffro in questa solitudine, in mezzo alla pace e alla tranquillità, come dissi di sopra.
Non lascio, in questa solitudine, di meditare la passione e morte del mio amante redentore Gesù, a cui affido, ai suoi meriti infiniti, la causa della mia eterna salvezza. Conoscendomi immeritevole di questa grazia, per i miei gravi peccati ed enormissima ingratitudine, piango amaramente le mie colpe, e gli domando umilmente perdono, gli domando pietà e misericordia, e così mi inabisso nel proprio mio nulla, tutto questo lo faccio per mezzo della divina grazia.
75.4. Vedo una città bella e magnifica
Erano passati quaranta e più giorni che l’anima mia si trovava ancora in quel sopraddetto recinto dove Dio l’aveva posta, un giorno, all’improvviso, vedo uno splendore che mi sollecitò a fissare lo sguardo alla sommità del cielo. Quanto vedo, con sommo mio stupore, una città quanto mai bella e magnifica. L’atrio, ossia lo spiazzo vastissimo, che conduceva a quella santa città, era di tersissimo cristallo. Le mura erano altissime, alla sommità delle quali vedevo tre lucidissimi cristalli in forma di tre occhi, i quali avevano la loro corrispondenza nell’interno, nella gloriosa magione, dove la povera anima mia sempre fisso teneva il suo sguardo, aspirando e sospirando con infuocati sospiri al possesso di quella beata patria da dove, di tempo in tempo, vedevo cose molto meravigliose e belle.
Una volta, dall’occhio di mezzo, mi si fece vedere il mio Dio tutto raggiante di luce, che veramente mi rapì il cuore, tanta era la sua bellezza, che non ho termini di poterlo spiegare. A questa vista si accrebbe a dismisura il mio amore verso il mio Dio, gli affetti dell’anima non potevo più contenere, per la cognizione che mi veniva comunicata dalla divina grazia. Il veemente desiderio di possederlo, formava un dolce ma penoso martirio nell’anima mia, che ogni poco credeva di morire. Per abbreviare lo scritto non dico di più.
75.5. Teneva una corona preparata per me
Un’altra volta mi fu mostrata una corona quanto mai bella, unita a varie palme gloriose che la circondavano; e il mio Dio, dopo avermela mostrata, con il suo braccio onnipotente e maestoso, mi fece intendere che quella corona a quelle palme unita, mi era stata meritata dall’unigenito suo divino Figlio, Signore mio Gesù Cristo, mi fece intendere che mi fossi affaticata per conquistarla, che per me la teneva preparata.
Oh quante lacrime mi costò questa vista, oh quanto si umiliò la povera anima mia, per mezzo della divina cognizione che Dio si degnò compartirmi! Oh Dio, qual pena fu la mia, nel conoscere col lume soprannaturale la mia passata e presente ingratitudine, oh qual confusione, oh qual rossore, oh qual dolore provai di avere tante e poi tante volte offeso il mio Dio di bontà infinita! Dicevo piangendo, con il cuore contrito e umiliato: «Dio mio, e perché mai volete voi coronare la mia fronte con quella preziosa corona che mi avete fatto vedere? Io altro non ho fatto che offendere la vostra divina maestà».
Nel tempo che l’anima era portata dall’eccesso del dolore, e si era profondata nell’abisso del suo proprio nulla, Dio per sua bontà, per non vederla perire nell’eccessivo dolore, dolcemente la fece riposare nel castissimo suo seno, e così la ricreò con meravigliosa soavità e dolcezza, facendomi comprendere, con alta intelligenza, l’amore grande che porta alle anime redente col sangue preziosissimo del suo divino Figliolo.
Non dico più, per brevità, e per confusione di manifestare l’eccesso incredibile e incomprensibile dell’amore infinito che Dio porta a quelle anime che si donano a lui, col consacrargli la loro volontà e con purità di intenzione, non altro cercano che piacere a lui solo, altro non cercano che la perfetta unione della divina sua volontà.
Oh che amor grande dimostra il Signore a queste anime, in certe occasioni, propriamente pare che dimentichi se stesso, la sua grandezza, la sua immensità. Quello che ho detto, sia detto a mia confusione, e alla maggior gloria della sua divina bontà.
76 – L’ANIMA MIA RESTÒ PURIFICATA
76.1. Adorna di tutte le virtù
Il dì 25 giugno 1824 festa del Santissimo Cuore di Gesù, dopo la Santa Comunione, la povera anima mia, ad un tratto fu sopraffatta dallo Spirito del Signore, il quale operò in me, con l’effusione della sua divina grazia, cose molto eccellenti, che io non so spiegare, quello che posso dire è che, ad un tratto, la povera anima mia si trovò adorna di tutte le sante virtù morali e teologali, le quali mi fecero operare degli atti interni di virtù così eccelsi e sublimi, che io ne restai meravigliata e confusa per lo stupore.
Oh quanto bene era assistita l’anima dalla virtù della fede, della speranza, della carità verso Dio e verso il prossimo, come bene ero assistita dalla santa umiltà, purità e semplicità. Tutto questo lo dico a gloria del mio Dio e a mia somma confusione. In quei felici momenti io non conoscevo più me stessa, tanto l’anima si era avvicinata al suo Dio e per riverbero riceveva e scolpiva in se stessa la santità di Dio medesimo, mentre Dio, di sua volontà, ne faceva all’anima mia un dono gratuito.
Nel tempo che mi trattenevo in questi santi esercizi di virtù, segnatamente nell’annientamento di tutta me stessa, riconoscendomi indegnissima di possedere tutte queste sante virtù, ne rendevo umili grazie al mio Dio. Ecco che vedo dalla santa città sortire una luce inaccessibile, nella quale riconoscevo il mio Dio. Da veemente attrazione l’anima mia fu tirata in alto, oltrepassando le alte mura dell’anzidetto recinto, e approssimata fu l’anima a quella bellissima luce, ed a questa luce, in un baleno, mi vidi intimamente unita e strettamente abbracciata, per ben tre volte, provando nell’anima un bene indicibile e inarrabile, che sopravanzava il mio corto intendimento. In questa maniera l’anima restò netta e purificata da ogni colpa e mancanza. Restò il mio spirito, per lo spazio di tre giorni, tutto assorto in Dio, desideroso di esercitarsi nella pratica delle sante virtù con maggiore premura e impegno di prima.
Lascio a gloria di Dio, senza prolungarmi di più, non so se mi sarò saputa spiegare, con la rozza mia dicitura, ma spero che vostra paternità reverendissima saprà condonare alla mia ignoranza l’oscuro ed ottenebrato mio scritto, che mi fa rossore e vergogna di presentarlo a vostra reverenza.
Nel secondo cartolare, appresso di questo, darò conto a vostra paternità reverendissima come nel giorno 29 giugno 1824, festa dei gloriosissimi santi apostoli Pietro e Paolo, il Signore si degnò cambiare situazione alla povera anima mia, conducendola sopra un altro monte, molto più elevato dell’anzidetto monte.
76.2. Sopra un altro monte molto più elevato
Secondo cartolare dell’anno 1824. Il dì 29 giugno, festa dei gloriosi santi apostoli Pietro e Paolo, dopo la santissima Comunione, mi trattenni in orazioni per lo spazio di tre ore e più, senza distinguere, senza capire la propria sensazione, mentre Dio, per sua bontà, aveva come sottratto il mio spirito dal corpo, ovvero sollevato fosse il mio spirito sopra i propri sensi.
In questo tempo il Signore cambiò situazione alla povera anima mia, ma prima di fare questa divina operazione, molti furono i lumi interni che si degnò compartirmi di propria cognizione di me stessa, compartendomi cognizioni ed intelligenza molto alta per conoscere l’ineffabile suo amore.
Rapita l’anima da questa divina cognizione, si inabissò nel proprio suo nulla, umiliandosi profondamente, confessando l’alta bontà di questo grande ed incomprensibile Dio onnipotente, e con ogni giustizia inabissando me stessa nel profondo del mio nulla. Quando, per mezzo di questa divina illustrazione, ero così profondata ed annientata, il mio Dio si degnò manifestarsi alla povera anima mia, ed ecco il fatto come seguì. Stava l’anima in quell’anzidetto recinto sopra quel monte dove Dio l’aveva collocata, come si è già detto nei passati fogli del primo cartolare del 1824.
In questo giorno piacque al mio Dio di condurmi sopra un altro monte, molto più elevato di quello di prima. Il mio spirito si trovava in quell’anzidetto monte, dentro a quel recinto bene muragliato ed impenetrabile. L’anima mia, dopo la santa Comunione, si era dolcemente sopita in Dio, dopo le anzidette cognizioni. Come in soave sonno riposavo nell’infinita bontà di Dio, quando, ad un tratto, fu destata l’anima da un armonico canto di dolcezza e di soavità ripieno. Il rimbombo dell’amabile voce in quel solitario luogo lo rendeva un vero paradiso, mi desta l’anima e fissa lo sguardo e vede aperta la porta del surriferito recinto, e con sommo suo stupore vede l’agnello immacolato. Vedo il mio Gesù, che con l’armonica sua voce invita l’anima a sortire da quel luogo ed andare presso di lui. L’anima si arresta prima di accettare l’invito, e con umile preghiera al suo Signore ricorre, per timore di essere ingannata, ma l’agnello divino bene si fa conoscere dall’anima, per quello che egli è. Assicurata dal vero, prontamente obbedisce, sorte dal recinto e se ne va presso al divino agnello, il benignissimo Signore avverte l’anima di porre il suo piede nelle sue orme divine, altrimenti, le dice, che non potrà salire sopra quell’altissimo monte.
L’anima intimorita da questa istruzione divina, con somma diligenza, attenta badava di porre il suo piede sopra le orme di quel puro ed immacolato agnello, che scintillava fiamme della più pura carità, e inebriava l’anima del santo e divino amore. In questa guisa, camminando mi trovai, senza avvedermi del disastroso viaggio, sopra quell’altissimo monte. Arrivata che fu l’anima alla sommità di quello, sopraffatta da interna dolcezza, ebria di santo amore, si riposò in quella benedetta terra del santo monte, che può chiamarsi vera abitazione di Dio.
Non posso al certo spiegare la bellezza, l’amenità, la soavità di questo benedetto monte. L’anima dunque, sopraffatta da un tanto bene inarrabile ed incomprensibile, dolcemente si riposò, e il divino agnello, compiacendosi di avere trasportata la povera anima mia tanto oltre, dolcemente nel seno dell’anima, graziosamente anch’esso si addormentò. Oh dolce riposo, che trasformò l’anima nel suo Signore, io non ho termini, io non ho lena di potermi spiegare; i santi affetti, l’ardente amore strettamente mi univano, mi congiungevano al mio divino Signore. Altro non dico, perché non so ridire, che cose grandi siano questi favori divini, che Dio comparte alle anime per sua infinita bontà.
Il dì 6 luglio 1824, il divino agnello pur si degnò farsi vedere, ma per mettere tutto in chiaro, alla meglio che mi sarà possibile, per mezzo della divina grazia, descriverò la situazione di questo benedetto monte. Era questo monte altissimo, amenissimo e di soavità ripieno, ai piedi di questo monte vi era un mare placidissimo, le dolcissime sue acque cristalline, spumeggianti di splendore, da dove si vedeva in prospettiva la beata magione. Benché quel beato soggiorno io lo vedevo in distanza, sotto la similitudine di un magnificentissimo fabbricato triangolare, come ho di già detto nel primo cartolare del 1824. Conosco in vero la mia ignoranza, non avendo termini sufficienti di spiegare la bellezza, la vastità, la magnificenza di queste spirituali intelligenze, o siano divine rappresentanze intellettuali, che il Signore si degna mostrarmi, nel più segreto ed intimo dell’anima mia. Ed è ben vero che non si possono alle cose sensibili paragonare, per quanto grandi e belle siano le cose che vediamo in questa terra mortale, c’è una grande diversità dalle celesti alle terrestri, dalle cose spirituali alle temporali; mi pare al certo che lo scrivere i favori e le grazie che Dio comparte alle anime, per sua infinita bontà, altro non sia che segnare al muro, con un nero carbone, la bellezza e lo splendore del sole.
76.3. Voglio farmi santa
Riprendo il filo del racconto. Il divino agnello pur si degnò farsi vedere dalla povera anima mia. Oh qual consolazione provò il mio cuore! Di santi affetti fu ricolma la povera anima, alla vista del suo divino Signore! Dopo dolci e varie espressioni, il divino agnello si compiacque nel seno dell’anima di riposare, ed intanto che l’anima dolcemente dormiva, unita all’amato suo bene, ad un sol cenno dell’agnello divino, le dolci acque del placido mare gonfiar si videro, ed innalzare fin sopra al monte, per così bagnare ed immergere l’anima, che unita stava e riposava con il suo agnello divino. Si scosse l’anima alla dolce immersione, e più strettamente al suo bene si unì. Le preziose acque di questo mare divino, più bella e più pura resero l’anima, e più accettabile divenne all’amato suo bene. Di più spiegarmi non mi conviene. L’intenda chi intende, quanto grande sia l’amore immenso di un Dio creatore, di un Dio redentore. Non so spiegarmi, non so parlare, perdono ti chiedo, o Dio immortale, dei rozzi termini che mi conviene usare, la mia ignoranza non sa encomiare la tua alta bontà. Deh, padre mio, rivolta a lei perdono chiedo a vostra paternità, se non so esprimere, se non so dire l’amore grande del mio Gesù.
Questi divini favori, che di tratto in tratto mi comunicava il mio Dio, per pura sua bontà, rendevano viepiù illuminata l’anima mia a conoscere qual bene sia Dio, e quanto mai sono grandi le sue divine perfezioni; a questo chiaro lume, l’anima si inabissava nel proprio suo nulla, riconoscendosi immeritevolissima di questi divini favori. Riconoscendo i propri miei peccati, difetti e mancanze, con tanta chiarezza, che, sopraffatta da santo orrore, odiavo me stessa per le gravi offese fatte al mio buon Dio, piangevo amaramente, e con tutto il fervore possibile domandavo in grazia al Signore, che mi avesse liberata da tutti questi difetti e mancanze, che in me conoscevo, per mezzo della sua divina grazia.
Concepii una certa speranza, di ottenere questa grazia in virtù dei meriti del mio salvatore Gesù, al giusto riflesso che me lo aveva meritato con tutto lo sborso del suo preziosissimo sangue. Dicevo dunque al mio Dio con santa fiducia: «Non mi spaventano i miei peccati, le mie mancanze e difetti. Io voglio farmi santa, Gesù mio. L’opera ha da essere tutta vostra. Sì, voglio farmi santa a vostra maggior gloria, e non ad altro fine vi chiedo questa grazia».
La suddetta preghiera era fervente, umile, frequente, insistente e semplice, piena di fiducia, sperando, per gli infiniti meriti di Gesù Cristo, per certo di ottenere la suddetta grazia, di maniera che tutte le mattine, nell’accostarmi a ricevere la santissima Comunione, speravo di divenir santa, con il prodigioso contatto dell’eucaristico sacramento. Con umili e ferventi proteste dicevo al mio Gesù sacramentato: «Il fine per cui vi ricevo, Gesù mio, voi lo sapete. Fate, mio Dio, in questo momento, questo miracolo: Santificate la povera anima mia peccatrice», e con santa fiducia ne speravo assolutamente la grazia, e benché nella giornata cadessi in molti difetti, pur non mi perdevo di coraggio, dicevo fra me stessa: se non sono divenuta santa questa mattina, spero certo che domani mattina otterrò da voi la grazia, Gesù mio.
77 – CON L’AGNELLO DIVINO
77.1. Diventare santa per mezzo della comunione
Passai tutto il mese di luglio 1824 in questo ardente desiderio, mettendo in pratica, con ogni attenzione, tutti i mezzi opportuni per non mancare nella giornata. Raccomandandomi di frequente al Signore, procuravo di vigilare sopra me stessa, per non mancare né con opere, né con parole, chiedendo umilmente grazie al Signore di esercitarmi nelle sante virtù. Una mattina, più del solito toccata l’anima mia dalla grazia di Dio, nel comunicarmi chiesi la grazia di diventar santa, per mezzo di questo divino sacramento. Era tanta la santa fiducia che mi compartiva il mio Dio, che arrivai a non poterne dubitare. Dicevo al mio santo Angelo custode: «Pregate anche voi, o Angelo mio tutelare; anzi vi dico ringraziate per me il mio Dio, perché questa mattina, di certo, mi fa santa, con il suo divino contatto. Rallegratevi, Angelo mio benedetto, perché se vi siete degnato assistermi peccatrice, avrete la gloria di assistermi giustificata, per il sangue prezioso del mio Gesù, io confido e spero di ottenere la santificazione dell’anima mia».
Con queste, ed altre simili espressioni fiduciali, mi accostai a ricevere questo cibo divino, questo pane di vita eterna, con umili sentimenti e con abbondanza di lacrime, che versavo in larga copia. Dopo essermi trattenuta nei più umili ringraziamenti, ricevuto che ebbi il mio Dio sacramentato, l’anima mia si sopì in Dio, facendo uno spoglio totale di tutta me stessa, abbandonandomi in tutto e per tutto al suo divino beneplacito. Questo spoglio totale, ossia staccamento di tutta me stessa, fu molto singolare, perché mi fu comunicato dal Signore per speciale grazia. Sicché io non posso ridire di qual tempra fosse questo spoglio, questo staccamento di tutta me stessa, per il quale l’anima purificata, assottigliata, poté liberamente penetrare ed essere introdotta nell’immensità di Dio, dove conobbi, con molta chiarezza, cosa mai corre dal finito all’infinito, in una parola, cosa siamo noi e cosa sia Dio, cosa siano i beni transitori e quali gli eterni.
77.2. Il divino Agnello mi invitava ad andare da lui
Nel tempo che l’anima conosceva queste grandi verità, e che ne godeva un bene sommo in Dio medesimo, per essere l’anima mia tanto racchiusa e intimamente unita alla divina immensità di Dio, che non ho termini di saperlo spiegare; nel tempo che godevo di questo bene inarrabile, nel quale stavano occupate tutte e tre le potenze dell’anima mia, e si erano in questo immenso bene smarrite, e affatto perdute, tutto ad un tratto, cessò l’illustrazione, tornarono le potenze ad agire tutte innamorate di Dio, in quell’istante mi trovai sopra un altissimo monte, dove vedevo una moltitudine di santi Angeli, tutti in bell’ordine disposti. Questa sola vista sarebbe bastata, per riempire il mio cuore di contento, perché era tanta la loro bellezza, la loro vaghezza, la loro maestà e purità, che in quei sovrani spiriti risplendeva la beltà del mio Dio.
Le legioni di questi angelici spiriti, che circondavano questo santo monte, bastavano per renderlo un vero paradiso. Ma quanto più attonita restò la povera anima mia, quando si vide assai più favorita dal suo Dio, restai piena di smarrimento e di stupore, quando vidi dall’alto dei cieli un’immensa luce, nel mezzo della quale, vedevo tutto raggiante il divino agnello, che placidamente riposava ad occhi aperti, sopra quella luce inaccessibile. Fisso teneva il suo sguardo sopra la povera anima mia, e mi invitava acciò mi approssimassi a lui. Ma, oh Dio! l’anima sopraffatta da sommo timore, non aveva il coraggio di fare ciò; ma, annientata in se stessa, si profondava con umile rispetto e particolare reverenza, senza potermi muovere da dove mi trovavo, ma tremavo da capo a piedi, piena di rossore, mi confessavo indegnissima di trovarmi in luogo sì eccelso; ma siccome a questo portento prodigioso di misericordia vi era presente la grande imperatrice del cielo, Maria Vergine santissima, ah non resse il materno cuore della sovrana Regina nel vedere che tanto di pena provava la povera anima mia e che non poteva, per il grande timore, obbedire al cortese invito del divino Signore.
77.3. La Regina Maria mi accompagnò al trono dell’Agnello
Mossasi a compassione, la Madre di misericordia, di vedermi tanto annichilata, e priva di coraggio, per compiacere l’agnello divino, in persona venne l’amorosa Signora, piena di gloria e di maestà e di bellezza, a farmi coraggio, e lei stessa si degnò accompagnarmi vicino all’augusto trono dell’agnello divino. Quando fummo in una certa distanza, tre santi Angeli sollecitamente portarono tre ricchi sgabelli, in uno dei quali si adagiò la grande regina Maria santissima, nell’altro sgabello sedette il grande precursore Giovanni Battista, riccamente vestito e pieno di splendore, il quale, prima di adagiarsi sopra lo sgabello, fece tre profondi inchini. Io stavo in piedi, accanto a Maria santissima. Il suo splendore ricopriva la mia confusione. Io ero fuori di me stessa, nel vedere cose così grandi e così meravigliose, ed insieme così misteriose, che io non sapevo come andassero a terminare. Nel tempo che stavo così concentrata e piena di ammirazione, sopraffatta da santo timore, la Vergine santissima mi obbligò di adagiarmi sopra lo sgabello, seduta che fui anche io accanto alla divina Madre, il santo precursore sciolse la sua profetica lingua, ed encomiò il divino agnello e la sua Vergine Madre. Indirizzò il suo discorso alla povera anima mia, dicendomi parole di vita eterna; alle parole di questo santo glorioso, tutta mi disciolsi in lacrime d’amore e di compunzione. Terminato il suo discorso, ci alzammo tutti e tre in piedi, e in questo tempo vedo che un Angelo delle prime gerarchie, genuflesso ai piedi di Maria santissima, le presentò un ricchissimo calice, adorno di preziosissime gemme. Era questo calice coperto con la sua patena. La grande madre di Dio, prese il calice nelle sue santissime mani, il messaggero celeste, con profondo rispetto e riverenza, con un candidissimo panno levò dal calice la preziosa patena, e la divina Signora dette all’anima mia a bere di quel prezioso liquore. Oh balsamo! oh liquore divino di soavità ripieno! Quali mirabili effetti in quei preziosi momenti mi facesti provare! Quale trasmutazione facesti tu dell’anima mia! Qual fiamma di carità accendesti nel povero mio cuore! Quale illustrazione al mio intelletto! Qual lume alla mia mente! E chi potrà mai ridirne i prodigiosi effetti? Io no di certo. Sicché taccio, senza passare più oltre, mentre mi pare, che certi favori di Dio siano, per l’infinita bontà di Dio, compartiti alle anime, senza termini, senza misura, senza limiti. E chi ardirà di parlarne! Mi permetta, dunque, vostra paternità reverendissima, che io ponga fine a questo mio racconto gaudioso, e mi dia licenza di narrare come da questo gaudio passai a soffrire le pene più afflittive di spirito, di aridità, di oscurità, di foltissime tenebre, che la povera anima mia si ridusse in uno stato deplorabile. Sono certa che non recherà meraviglia a vostra paternità reverendissima questo mio racconto così luttuoso, benché al vivo e io non lo posso manifestare di qual tempra siano queste sorte di patimenti, in cui Dio pone le anime dopo di averle favorite; ma vostra reverenza, come perito di questa scienza, bene intende il tutto, benché io non mi sappia, per la mia ignoranza, spiegare. A me pare così: quanto più Dio si degna sollevare le anime con i suoi divini favori, tanto più gli dà a patire, sprofondandole nel cupo abisso del patire. Questo basti per dire tutto.
In questi gravissimi patimenti passò la povera anima mia il mese di agosto, settembre, ottobre, novembre e dicembre 1824; ma devo dire però, a gloria del medesimo Dio, che in questi quattro mesi, non mancò l’amorosissimo Signore, di tratto in tratto, favorire la povera anima mia, e così risorgerla dalle agonie mortali in cui si trovava; ma questi divini favori erano di poca durata, e formati tanto nell’intimo dell’anima, che appena ne aveva la cognizione, che si dileguavano dalla mia mente e tornavo nel mio doloroso conflitto. Qualcuno che ne ricordo lo scriverò, avendo trascurato lo scrivere, per i gravi patimenti che mi hanno ridotta come insensata.
77.4. L’imperatrice del cielo mi coronò con una preziosa corona
Il dì 15 agosto 1824, festa di Maria Santissima Assunta in cielo, dopo la santissima Comunione fu l’anima trasportata in un luogo amenissimo, bellissimo, dove vedevo questa divina Signora, cinta da immensa luce, corteggiata da una moltitudine di sante vergini e da stuolo immenso di Angeli. A questa vista, non posso al certo spiegare qual gioia, qual contento provò il mio cuore, godetti un paradiso di contento, allora sì non sentivo più le pene mie, ma un torrente di celeste gaudio inondava l’anima mia. La divina Signora si degnò chiamare a sé l’anima mia, ma io, per rispetto e riverenza, stavo ritrosa nell’obbedire al cenno della Vergine e Madre, ma due Angeli delle prime gerarchie si degnarono di accompagnarmi all’augusto suo trono, dove mi prostrai ginocchioni con umile rispetto e profonda riverenza, piena di confusione per vedermi così favorita in mezzo a tante sante vergini, che la loro bellezza e il loro splendore era incomprensibile; io non avevo coraggio di mirarle, perché ero tutta annientata in me stessa. Intanto la divina Signora si degnò coronare la mia testa con una preziosa corona; così disparve la celeste visione lasciando nel mio spirito i sentimenti più vivi di affetto e di amore verso l’Imperatrice del cielo. Riconoscendomi indegnissima di sì alto favore, la supplicavo con lacrime e con preghiere, acciò si degnasse concedermi la grazia di corrispondere ai tanti divini favori, che Dio mi ha compartiti per sua pura bontà.
77.5. Il purgatorio rimase poco meno che vuoto
Nel mese di settembre e ottobre 1824, per avere trascurato lo scrivere, so di avere ricevuti dei celesti favori, ma adesso che scrivo sono tanto avvolta nelle dense tenebre, non mi ricordo, né saprei dire, cosa siano questi celesti favori, perché dove mi volgo trovo il patire, se mi concentro mi par di morire. Il mio diletto se ne fugge da me. Invano lo cerco, con affanni e sospiri, l’amore si compiace nel vedermi patire, l’anima intanto, per compiacere l’amore, ansiosa brama di viepiù patire.
Nel mese di novembre 1824, nell’ottava dei defunti, fui favorita in tutti gli otto giorni di particolare grazia, in vantaggio delle anime sante del purgatorio. Dopo lunghe orazioni che facevo per suffragare le suddette anime, si degnava farsi vedere l’agnello divino. Con tutta piacevolezza mi domandava cosa bramavo. L’anima frettolosa rispondeva: «Ah, mio Signore, voi lo sapete, desidero liberare le anime sante dal purgatorio».
L’agnello divino così mi rispose piacevolmente: «Te ne concedo la grazia; a tuo arbitrio libera quante anime vuoi dal purgatorio». L’anima rispose: «Mio Dio, mio Signore, e come volete che io faccia a liberarle, se sono tanto miserabile e peccatrice? Gesù mio, venite voi con me a quel carcere, allora sono certa di liberarle!». «Sì», rispose il divino agnello, «andiamo, voglio compiacerti!».
Allora l’anima fu invitata dal suo Signore ad abbandonarsi sopra i sacri omeri del misterioso agnello, e così preceduti e seguiti da stuolo immenso di santi Angeli e da una splendidissima luce, che circondò l’agnello immacolato Gesù, l’anima intanto riposava sopra le spalle dell’agnello divino.
All’apparire quella splendida luce, nel tenebroso carcere, si sentivano i gemiti e le preghiere di quelle sante anime, che chiedevano misericordia e pietà. La povera anima mia, alle lamentevoli voci, si sentiva scoppiare il cuore, e soffocata mi sentivo da tenero pianto, dalla compassione mi pareva di morire.
Ognuno può immaginare con quanto fervore pregassi il mio buon Signore, stringendolo forte al mio cuore. Con sommo amore per quelle sante anime chiedevo misericordia e pietà. L’amante agnello così mi disse: «Figlia diletta mia, poni la tua mano nel forame del mio cuore, e lascia scorrere il mio sangue a larga copia». L’anima prontamente obbedì, ponendo con sommo rispetto e riverenza tre dita nel forame del sacro costato di Gesù Cristo, e immantinente si vide quel divino Agnello intriso del proprio sangue. Oh, sangue preziosissimo! io ti adoro profondamente.
L’anima, a questo prodigioso portento di amore, restò estatica per l’ammirazione e per il grande amore che sentiva verso l’amorosissimo Gesù. Quel sangue divino, che scorreva in larga copia, andò ad estinguere quelle atroci fiamme. Allora si vide la moltitudine di quelle sante anime purganti ripiene di gioia e di contento. Scesero allora in quel carcere i loro santi Angeli custodi, e le condussero con sommo gaudio al cielo, in mezzo ad una risplendente luce. La povera anima mia restò piena di contento, e fuori di se stessa, ammirando l’infinita bontà di Dio.
In tutti gli otto giorni dell’anniversario dei fedeli defunti mi seguì questo fatto, sempre nei medesimi termini. L’ultimo giorno ebbi il contento di vedere, con sommo mio stupore, quel carcere poco meno che vuoto.
Quali e quanti furono i ringraziamenti che fece l’anima al suo Dio, non ho termini di poterlo spiegare.
77.6. Verso una vita deiforme
Nel mese di dicembre 1824, proseguì l’anima a soffrire il suo martirio interno di abbandoni penosissimi, di desolazioni crudissime, di tenebre densissime. Solo provavo di tratto in tratto qualche interno soccorso, ma tanto intimo che l’anima appena lo poté distinguere.
Mentre mi pare che Dio stia facendo nell’anima mia un’opera, la quale non voglia manifestarla all’anima, sicché l’anima sente in sé l’opera del Signore, ma ne vive digiuna affatto.
L’opera per se stessa è molto dolorosa per lo spirito e per il corpo. Ciò nonostante, Dio si degna, per sua infinita bontà, di comunicare all’anima tanta fortezza, tanta compiacenza di adempire, di compiacere la sua santissima volontà, che lo stesso patire mi si converte in un gaudio di dolcezza; mentre le pene che soffro, interne ed esterne, non le cederei per tutto l’oro del mondo.
Conosco che questa è una sciocca comparanza: dico che le tengo tanto care, perché in queste pene trovo tutto il mio Dio. Dunque, felici pene, benedette pene, che mi unite al mio divino Signore!
L’opera che sta facendo Dio nella povera anima mia, se non sbaglio, mi pare che sia di mio grande profitto. Mentre Dio mi va spogliando di tutte le cose sensibili e intelligibili, immaginarie e ideabili, per lo ché in tutte le mie operazioni, esterne ed interne, mi pare di vivere secondo il divino beneplacito, non ricercando io alcun proprio utile, gusto e onore, ma l’unico compiacimento, interesse e gloria di Dio, al quale mi sono interamente tutta donata e consacrata, quindi mi pare che la bontà del Signore voglia ammettere la povera anima al passaggio di una vita deiforme.
Tutto soggetto con umile rispetto al savio consiglio di vostra paternità reverendissima, mentre non so se questo passaggio convenga ad un’anima tanto scellerata, tanto peccatrice come sono io.
Prego il mio Gesù crocifisso a dar lume a vostra riverenza, acciò possa conoscere e chiaramente distinguere se la povera anima mia vivesse mai ingannata da un falso spirito. Il tutto rimetto al dotto suo parere, dal quale dipende, per obbedienza dovutale, la mia quiete di spirito.
23-42 Marzo 8, 1928 Come Iddio creò l’uomo per tenerlo sulle sue ginocchia e farlo fare il ripetitore degli atti suoi. Come Gesù faceva vedere che metteva tutti i volumi scritti sul suo Volere, tutti ordinati nel suo Cuore. Amore di Gesù per gli scritti ed il bene che faranno. Come chi si decida di
Luisa Piccarreta (Libro di Cielo)
(1) Continuavo a starmi tutta abbandonata nel santo Voler Divino, seguendo i suoi innumerevoli atti come più potevo, ché è tanta la loro molteplicità, che molte volte non posso né seguirli, né numerarli tutti, e debbo contentarmi di guardarli, ma non di abbracciarli; la sua attività supera in modo incredibile l’attitudine umana, e perciò alla mia piccolezza non mi viene dato di tutto fare, ma di fare quanto più posso, e di non mai uscire da dentro le opere del Fiat Divino. Onde mentre la mia mente si sperdeva nelle opere del Voler Divino, il mio dolce Gesù movendosi nel mio interno mi ha detto:
(2) “Figlia mia, la nostra paterna bontà creò l’uomo per tenerlo sulle nostre paterne ginocchia per godercelo continuamente, e lui per godersela in modo perenne col suo Creatore, e per essere stabili i suoi ed i nostri godimenti lo tenevamo sulle nostre ginocchia; e siccome la Volontà nostra doveva essere anche la sua, Essa portava l’eco di tutti i nostri atti nel fondo dell’uomo che amavamo come figlio nostro, ed il nostro figlio nel sentire l’eco nostro faceva il ripetitore degli atti del suo Creatore. Quali contenti non si formavano tra lui e Noi nel risuonare nel fondo del cuore del nostro figlio questo nostro eco creante, che formava in lui l’ordine degli atti nostri, l’armonia delle nostre gioie e felicità, l’immagine della nostra santità? Che tempi felici per lui e per Noi. Ma sai tu chi strappò dalle nostre ginocchia paterne questo figlio tanto da Noi amato? Il voler umano, ce lo allontanò tanto, che perdette il nostro eco creante, e non ne seppe più nulla che cosa faceva il suo Creatore, e Noi perdemmo la felicità di vedere il nostro figlio felice e trastullarsi sulle nostre ginocchia paterne, perché in lui sottentrò l’eco del suo volere che lo amareggiava, tiranneggiava con passioni le più degradanti, da renderlo tanto infelice, da far pietà. E’ proprio questo che significa vivere nel nostro Volere, vivere sulle nostre ginocchia paterne, a cura nostra, a spese nostre, nell’opulenza delle nostre ricchezze, gioie e felicità. Se tu sapessi il contento che sentiamo nel vedere la creatura vivere sulle nostre ginocchia, tutta attenta a sentire l’eco della nostra parola, l’eco delle nostre opere, l’eco dei nostri passi, l’eco del nostro amore per farne la ripetitrice, tu saresti più attenta per fare che nulla ti sfuggisse dell’eco nostro, per darci il contento di vedere la tua piccolezza, far da ripetitrice agli atti del tuo Creatore”.
(3) Ond’io nel sentire ciò gli ho detto: “Amor mio, se si deve vivere nel tuo Volere, vivendo sulle tue ginocchia paterne non si deve far nulla, né operare, né camminare, altrimenti come si può stare sulle tue ginocchia?” E Gesù:
(4) “No, no, si può fare tutto, la nostra immensità è tanta, che dovunque troverà le nostre ginocchia paterne, sempre pronte agli atti suoi, che si prestano a tenerlo dovunque stretto sulle ginocchia divine, molto più che ciò che essa fa, non è altro che l’eco di ciò che Noi facciamo”.
(5) Dopo di ciò, mi sentivo preoccupata sopra di questi scritti sulla Divina Volontà, ed il mio dolce Gesù si faceva vedere nel mio interno che teneva tutti i volumi scritti su di Essa, e che uno per uno li prendeva nelle sue mani, li guardava con tale tenerezza amorosa, come se gli volesse scoppiare il cuore, e come li prendeva così se li metteva tutti ordinati nel suo cuore santissimo, io ne sono restata meravigliata nel vederlo con quanto amore amava quegli scritti, e con quanta gelosia se li chiudeva nel suo cuore per custodirli, e Gesù nel vedere la mia maraviglia mi ha detto:
(6) “Figlia mia, se tu sapessi quanto amo questi scritti, essi mi costano più della stessa Creazione e Redenzione, quanto amore e lavoro ci ho messo in questi scritti, mi costano assai assai, c’è dentro tutto il valore della mia Volontà, sono la manifestazione del mio regno e la conferma che voglio il regno della mia Volontà Divina in mezzo alle creature, il bene che faranno sarà grande, saranno come soli che sorgeranno in mezzo alle tenebre fitte dell’umano volere, come vite che metteranno in fuga la morte alle povere creature, essi saranno il trionfo di tutte le opere mie, la narrazione più tenera, più convincente come amai e amo l’uomo. Perciò l’amo con tale gelosia che li custodirò nel mio cuore divino, né permetterò che neppure una parola vada perduta; che cosa non ho messo in questi scritti? Tutto, grazia soprabbondante, luce che illumina, riscalda, feconda, amore che ferisce, verità che conquidono, allettamenti che rapiscono, vite che porteranno la resurrezione del regno della mia Volontà. Perciò anche tu apprezzali e farne quella stima che meritano e godi del bene che faranno”.
(7) Dopo ciò, seguivo il mio abbandono nel Fiat, mi sentivo tutta investita dalla sua luce interminabile, ed il mio adorabile Gesù ha soggiunto:
(8) “Figlia mia, come l’anima si decide di vivere nella mia Volontà Divina, senza più dare vita alla sua, Io per essere sicuro e per dare sicurezza ad essa, la lego con catene di luce e faccio ciò per non togliere il libero arbitrio, dono datogli alla creatura nella Creazione, ciò che Io do una volta non tolgo, menochè la creatura, essa stessa rigetti i doni miei, perciò la lego di luce, ché volendo se ne può uscire quando vuole, ma per uscire deve fare uno sforzo incredibile, perché queste catene di luce investiranno gli atti suoi, ed in ogni suo atto sentirà e vedrà la bellezza, la grazia, la ricchezza che questa luce comunica ai suoi atti e formerà l’incanto ed il vero eclisse all’umano volere, in modo che si sentirà felice e onorata di essere legata con catene sì nobili che le portano tanto bene, e ambirà che l’umano non abbia più vita negli atti suoi e sospirerà con ardore che il Voler Divino prenda il suo posto. Sicché si sentirà libera e legata, ma non sforzata, ma spontanea di sua libera volontà, alettata dal gran bene che le viene, in modo che vedrà i suoi atti circondati da tanti anelli di luce che formando catene la trasformano nella stessa luce, ed in ogni suo atto, l’anima uscirà tante voci armoniose e belle, come suoni argentini, che ferendo l’udito di tutto il Cielo, farà conoscere che la mia Volontà Divina sta operando nella creatura”.