Liturgia delle Ore - Letture
Mercoledi della 27° settimana del tempo ordinario
Vangelo secondo Marco 7
1Allora si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi venuti da Gerusalemme.2Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani immonde, cioè non lavate -3i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi,4e tornando dal mercato non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame -5quei farisei e scribi lo interrogarono: "Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?".6Ed egli rispose loro: "Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto:
'Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me'.
7'Invano essi mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini'.
8Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini".9E aggiungeva: "Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione.10Mosè infatti disse: 'Onora tuo padre e tua madre', e 'chi maledice il padre e la madre sia messo a morte'.11Voi invece dicendo: Se uno dichiara al padre o alla madre: è Korbàn, cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me,12non gli permettete più di fare nulla per il padre e la madre,13annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte".
14Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: "Ascoltatemi tutti e intendete bene:15non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo".16.
17Quando entrò in una casa lontano dalla folla, i discepoli lo interrogarono sul significato di quella parabola.18E disse loro: "Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo,19perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?". Dichiarava così mondi tutti gli alimenti.20Quindi soggiunse: "Ciò che esce dall'uomo, questo sì contamina l'uomo.21Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi,22adultéri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza.23Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo".
24Partito di là, andò nella regione di Tiro e di Sidone. Ed entrato in una casa, voleva che nessuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto.25Subito una donna che aveva la sua figlioletta posseduta da uno spirito immondo, appena lo seppe, andò e si gettò ai suoi piedi.26Ora, quella donna che lo pregava di scacciare il demonio dalla figlia era greca, di origine siro-fenicia.27Ed egli le disse: "Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini".28Ma essa replicò: "Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli".29Allora le disse: "Per questa tua parola va', il demonio è uscito da tua figlia".
30Tornata a casa, trovò la bambina coricata sul letto e il demonio se n'era andato.
31Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.32E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.33E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua;34guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: "Effatà" cioè: "Apriti!".35E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.36E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano37e, pieni di stupore, dicevano: "Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!".
Deuteronomio 5
1Mosè convocò tutto Israele e disse loro: "Ascolta, Israele, le leggi e le norme che oggi io proclamo dinanzi a voi: imparatele e custoditele e mettetele in pratica.2Il Signore nostro Dio ha stabilito con noi un'alleanza sull'Oreb.3Il Signore non ha stabilito questa alleanza con i nostri padri, ma con noi che siamo qui oggi tutti in vita.4Il Signore vi ha parlato faccia a faccia sul monte dal fuoco,5mentre io stavo tra il Signore e voi, per riferirvi la parola del Signore, perché voi avevate paura di quel fuoco e non eravate saliti sul monte. Egli disse:
6Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile.7Non avere altri dèi di fronte a me.8Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra.9Non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai. Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano,10ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti.
11Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio perché il Signore non ritiene innocente chi pronuncia il suo nome invano.
12Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato.13Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro,14ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te.15Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato.
16Onora tuo padre e tua madre, come il Signore Dio tuo ti ha comandato, perché la tua vita sia lunga e tu sii felice nel paese che il Signore tuo Dio ti dà.
17Non uccidere.
18Non commettere adulterio.
19Non rubare.
20Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
21Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo.
22Queste parole pronunciò il Signore, parlando a tutta la vostra assemblea, sul monte, dal fuoco, dalla nube e dall'oscurità, con voce poderosa, e non aggiunse altro. Le scrisse su due tavole di pietra e me le diede.
23All'udire la voce in mezzo alle tenebre, mentre il monte era tutto in fiamme, i vostri capitribù e i vostri anziani si avvicinarono tutti a me24e dissero: Ecco il Signore nostro Dio ci ha mostrato la sua gloria e la sua grandezza e noi abbiamo udito la sua voce dal fuoco; oggi abbiamo visto che Dio può parlare con l'uomo e l'uomo restare vivo.25Ma ora, perché dovremmo morire? Questo grande fuoco infatti ci consumerà; se continuiamo a udire ancora la voce del Signore nostro Dio moriremo.26Poiché chi tra tutti i mortali ha udito come noi la voce del Dio vivente parlare dal fuoco ed è rimasto vivo?27Avvicinati tu e ascolta quanto il Signore nostro Dio dirà; ci riferirai quanto il Signore nostro Dio ti avrà detto e noi lo ascolteremo e lo faremo.28Il Signore udì le vostre parole, mentre mi parlavate, e mi disse: Ho udito le parole che questo popolo ti ha rivolte; quanto hanno detto va bene.29Oh, se avessero sempre un tal cuore, da temermi e da osservare tutti i miei comandi, per essere felici loro e i loro figli per sempre!30Va' e di' loro: Tornate alle vostre tende; ma tu resta qui con me31e io ti detterò tutti i comandi, tutte le leggi e le norme che dovrai insegnare loro, perché le mettano in pratica nel paese che io sto per dare in loro possesso.
32Badate dunque di fare come il Signore vostro Dio vi ha comandato; non ve ne discostate né a destra né a sinistra;33camminate in tutto e per tutto per la via che il Signore vostro Dio vi ha prescritta, perché viviate e siate felici e rimaniate a lungo nel paese di cui avrete il possesso.
Salmi 110
1'Di Davide. Salmo.'
Oracolo del Signore al mio Signore:
"Siedi alla mia destra,
finché io ponga i tuoi nemici
a sgabello dei tuoi piedi".
2Lo scettro del tuo potere
stende il Signore da Sion:
"Domina in mezzo ai tuoi nemici.
3A te il principato
nel giorno della tua potenza
tra santi splendori;
dal seno dell'aurora,
come rugiada, io ti ho generato".
4Il Signore ha giurato
e non si pente:
"Tu sei sacerdote per sempre
al modo di Melchisedek".
5Il Signore è alla tua destra,
annienterà i re nel giorno della sua ira.
6Giudicherà i popoli:
in mezzo a cadaveri
ne stritolerà la testa su vasta terra.
7Lungo il cammino si disseta al torrente
e solleva alta la testa.
Salmi 109
1'Al maestro del coro. Di Davide. Salmo.'
Dio della mia lode, non tacere,
2poiché contro di me si sono aperte
la bocca dell'empio e dell'uomo di frode;
parlano di me con lingua di menzogna.
3Mi investono con parole di odio,
mi combattono senza motivo.
4In cambio del mio amore mi muovono accuse,
mentre io sono in preghiera.
5Mi rendono male per bene
e odio in cambio di amore.
6Suscita un empio contro di lui
e un accusatore stia alla sua destra.
7Citato in giudizio, risulti colpevole
e il suo appello si risolva in condanna.
8Pochi siano i suoi giorni
e il suo posto l'occupi un altro.
9I suoi figli rimangano orfani
e vedova sua moglie.
10Vadano raminghi i suoi figli, mendicando,
siano espulsi dalle loro case in rovina.
11L'usuraio divori tutti i suoi averi
e gli estranei faccian preda del suo lavoro.
12Nessuno gli usi misericordia,
nessuno abbia pietà dei suoi orfani.
13La sua discendenza sia votata allo sterminio,
nella generazione che segue sia cancellato il suo nome.
14L'iniquità dei suoi padri sia ricordata al Signore,
il peccato di sua madre non sia mai cancellato.
15Siano davanti al Signore sempre
ed egli disperda dalla terra il loro ricordo.
16Perché ha rifiutato di usare misericordia
e ha perseguitato il misero e l'indigente,
per far morire chi è affranto di cuore.
17Ha amato la maledizione: ricada su di lui!
Non ha voluto la benedizione: da lui si allontani!
18Si è avvolto di maledizione come di un mantello:
è penetrata come acqua nel suo intimo
e come olio nelle sue ossa.
19Sia per lui come vestito che lo avvolge,
come cintura che sempre lo cinge.
20Sia questa da parte del Signore
la ricompensa per chi mi accusa,
per chi dice male contro la mia vita.
21Ma tu, Signore Dio,
agisci con me secondo il tuo nome:
salvami, perché buona è la tua grazia.
22Io sono povero e infelice
e il mio cuore è ferito nell'intimo.
23Scompaio come l'ombra che declina,
sono sbattuto come una locusta.
24Le mie ginocchia vacillano per il digiuno,
il mio corpo è scarno e deperisce.
25Sono diventato loro oggetto di scherno,
quando mi vedono scuotono il capo.
26Aiutami, Signore mio Dio,
salvami per il tuo amore.
27Sappiano che qui c'è la tua mano:
tu, Signore, tu hai fatto questo.
28Maledicano essi, ma tu benedicimi;
insorgano quelli e arrossiscano,
ma il tuo servo sia nella gioia.
29Sia coperto di infamia chi mi accusa
e sia avvolto di vergogna come d'un mantello.
30Alta risuoni sulle mie labbra la lode del Signore,
lo esalterò in una grande assemblea;
31poiché si è messo alla destra del povero
per salvare dai giudici la sua vita.
Isaia 64
1Come il fuoco incendia le stoppie
e fa bollire l'acqua,
così il fuoco distrugga i tuoi avversari,
perché si conosca il tuo nome fra i tuoi nemici.
Davanti a te tremavano i popoli,
2quando tu compivi cose terribili che non attendevamo,
3di cui non si udì parlare da tempi lontani.
Orecchio non ha sentito,
occhio non ha visto
che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto
per chi confida in lui.
4Tu vai incontro a quanti praticano la giustizia
e si ricordano delle tue vie.
Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato
contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli.
5Siamo divenuti tutti come una cosa impura
e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia
tutti siamo avvizziti come foglie,
le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.
6Nessuno invocava il tuo nome,
nessuno si riscuoteva per stringersi a te;
perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto,
ci hai messo in balìa della nostra iniquità.
7Ma, Signore, tu sei nostro padre;
noi siamo argilla e tu colui che ci da' forma,
tutti noi siamo opera delle tue mani.
8Signore, non adirarti troppo,
non ricordarti per sempre dell'iniquità.
Ecco, guarda: tutti siamo tuo popolo.
9Le tue città sante sono un deserto,
un deserto è diventata Sion,
Gerusalemme una desolazione.
10Il nostro tempio, santo e magnifico,
dove i nostri padri ti hanno lodato,
è divenuto preda del fuoco;
tutte le nostre cose preziose sono distrutte.
11Dopo tutto questo, resterai ancora insensibile, o Signore,
tacerai e ci umilierai sino in fondo?
Prima lettera di Giovanni 1
1Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita2(poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi),3quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.4Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta.
5Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre.6Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità.7Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato.
8Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi.9Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa.10Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi.
Capitolo II: Nel Sacramento si manifestano all’uomo la grande bontà e l’amore di Dio
Leggilo nella BibliotecaParola del discepolo
1. O Signore, confidando nella tua bontà e nella tua grande misericordia, mi appresso infermo al Salvatore, affamato e assetato alla fonte della vita, povero al re del cielo, servo al Signore, creatura al Creatore, desolato al pietoso mio consolatore. Ma "per qual ragione mi è dato questo, che tu venga a me?" (Lc 1,43). Chi sono io, perché tu ti doni a me; come potrà osare un peccatore di apparirti dinanzi; come ti degnerai di venire ad un peccatore? Ché tu lo conosci, il tuo servo; e sai bene che in lui non c'è alcunché di buono, per cui tu gli dia tutto ciò. Confesso, dunque, la mia pochezza, riconosco la tua bontà, glorifico la tua misericordia e ti ringrazio per il tuo immenso amore. Infatti non è per i miei meriti che fai questo, ma per il tuo amore: perché mi si riveli maggiormente la tua bontà, più grande mi si offra il tuo amore e l'umiltà ne risulti più perfettamente esaltata. Poiché, dunque, questo ti è caro, e così tu comandasti che si facesse, anche a me è cara questa tua degnazione. E voglia il Cielo che a questo non sia di ostacolo la mia iniquità.
2. Gesù, pieno di dolcezza e di benignità, quanta venerazione ti dobbiamo, e gratitudine e lode incessante, per il fatto che riceviamo il tuo santo corpo, la cui grandezza nessuno può comprendere pienamente. Ma quali saranno i miei pensieri in questa comunione con te, in questo avvicinarmi al mio Signore; al mio Signore che non riesco a venerare nella misura dovuta e che tuttavia desidero accogliere devotamente? Quale pensiero più opportuno e più salutare di quello di abbassarmi totalmente di fronte a te, esaltando, su di me la tua bontà infinita? Ti glorifico, o mio Dio, e ti esalto in eterno; disprezzo me stesso, sottoponendomi a te, dal profondo della mia pochezza. Ecco, tu sei il santo dei santi, ed io una sozzura di peccati. Ecco, tu ti abbassi verso di me, che non sono degno neppure di rivolgerti lo sguardo. Ecco, tu vieni a me, vuoi stare con me, mi inviti al tuo banchetto; tu mi vuoi dare il cibo celeste, mi vuoi dare da mangiare il pane degli angeli: nient'altro, veramente, che te stesso, "pane vivo, che sei disceso dal cielo e dai la vita al mondo (Gv 6,33.51). Se consideriamo da dove parte questo amore, quale degnazione ci appare; quanto profondi ringraziamenti e quante lodi ti si debbono!
3. Quanto fu utile per la nostra salvezza il tuo disegno, quando hai istituito questo sacramento; come è soave e lieto questo banchetto, nel quale hai dato in cibo te stesso! Come è ammirabile questo che tu fai; come è efficace la tua potenza e infallibile la tua verità. Infatti, hai parlato "e le cose furono" (Sal 148, 5); e fu anche questo sacramento, che tu hai comandato. Mirabile cosa, degna della nostra fede; cosa che oltrepassa la umana comprensione che tu, o Signore Dio mio, vero Dio e uomo, sia tutto sotto quella piccola apparenza del pane e del vino; e che tu sia mangiato senza essere consumato. "Tu, o Signore di tutti", che, di nessuno avendo bisogno, hai voluto, per mezzo del Sacramento, abitare fra noi (2 Mac 14,35), conserva immacolato il mio cuore e il mio corpo, affinché io possa celebrare sovente i tuoi misteri, con lieta e pura coscienza; e possa ricevere, a mia salvezza eterna, ciò che tu hai stabilito e istituito massimamente a tua glorificazione e perenne memoria di te.
4. Rallegrati, anima mia, e rendi grazie a Dio per un dono così sublime, per un conforto così straordinario, lasciato a te in questa valle di lacrime. In verità, ogni qualvolta medito questo mistero e ricevi il corpo di Cristo, lavori alla tua redenzione e ti rendi partecipe di tutti i meriti di Cristo. Mai non viene meno, infatti, l'amore di Cristo; né si esaurisce la grandezza della sua intercessione. E' dunque con animo sempre rinnovato che ti devi disporre a questo Sacramento; è con attenta riflessione che devi meditare il mistero della salvezza. E quando celebri la Messa, o l'ascolti, ciò deve apparirti un fatto così grande, così straordinario e così pieno di gioia, come se, in quello stesso giorno, scendendo nel seno della Vergine, Cristo si facesse uomo, patisse e morisse pendendo dalla croce.
LIBRO QUINDICESIMO
La Trinità - Sant'Agostino
Leggilo nella BibliotecaAgostino vuole esercitare il lettore attraverso le cose create, affinché intenda, se può, in qualche modo la Trinità
1. 1. Volendo esercitare il lettore nella contemplazione delle cose create per condurlo alla conoscenza di Colui che le ha create, eccoci già giunti ora fino alla sua immagine: l’uomo, più esattamente ciò per cui esso supera gli altri animali, cioè la ragione, l’intelligenza, ed ogni altra caratteristica dell’anima razionale ed intellettiva, che appartenga a quella realtà che chiamiamo spirito (spiritus), o animo (animus) 1. Con questa parola alcuni scrittori di lingua latina, secondo il modo di parlare che hanno adottato, distinguono ciò che vi è di più nobile nell’uomo e non si trova nelle bestie, dall’anima (anima), che si trova anche nelle bestie 2. Dunque, al di sopra di questa natura, se cerchiamo qualcosa, e cerchiamo la verità, incontriamo Dio, cioè la natura non creata, ma creatrice. Che Dio sia Trinità, è ciò che dobbiamo ora dimostrare allo sguardo della fede con l’autorità delle Scritture, ma anche, se lo possiamo, allo sguardo dell’intelligenza con una riflessione razionale. Perché io abbia detto: "se lo possiamo", l’oggetto stesso lo mostrerà meglio, quando ne avremo iniziata la discussione.
Sebbene Dio sia incomprensibile non ci si deve stancare di cercarlo: si cerca per trovarlo con maggior dolcezza e si trova per cercarlo con maggior ardore
2. 2. Dio stesso, che cerchiamo, ci aiuterà, spero, perché il nostro sforzo non sia infruttuoso e perché comprendiamo come lo scrittore santo abbia potuto dire nel Salmo: Si rallegri il cuore di coloro che cercano Dio: cercate Dio e siate forti; cercate sempre il suo volto 3. Sembra, infatti, che ciò che si cerca sempre, non si trovi mai e come allora si rallegrerà e non si rattristerà invece il cuore di coloro che cercano, se non avranno potuto trovare ciò che cercano? Perché il Salmista non dice: "Si rallegri il cuore di coloro che trovano", ma: di coloro che cercano il Signore 4? E che tuttavia Dio Signore si possa trovare, quando lo si cerca, lo testimonia il profeta Isaia, quando afferma: Cercate il Signore e appena lo troverete, invocatelo; e quando si sarà avvicinato a voi, l’empio abbandoni le sue vie e l’iniquo i suoi pensieri 5. Se dunque, cercandolo, si può trovare Dio, perché è scritto: Cercate sempre il suo volto 6? Sarà forse che, anche una volta che lo si è trovato, bisogna cercarlo ancora? È così infatti che bisogna cercare le cose incomprensibili perché non ritenga di aver trovato nulla colui che abbia potuto trovare quanto è incomprensibile ciò che cercava. Perché allora cerca, se comprende che è incomprensibile ciò che cerca, se non perché non deve desistere, fino a quando progredisce nella ricerca dell’incomprensibile e diventa sempre migliore cercando un bene così grande, che si cerca per trovarlo e lo si trova per cercarlo? Perché lo si cerca per trovarlo con maggior dolcezza, lo si trova per cercarlo con maggiore ardore. È in questo senso che si può intendere l’affermazione che l’Ecclesiastico pone in bocca della Sapienza: Coloro che mi mangiano avranno ancora fame e coloro che mi bevono avranno ancora sete 7. Mangiano infatti e bevono, perché trovano, e, poiché hanno fame e sete, cercano ancora. La fede cerca, l’intelligenza trova; per questo il Profeta dice: Se non crederete, non comprenderete 8. E d’altra parte l’intelligenza cerca ancora Colui che ha trovato; perché Dio guarda sui figli dell’uomo, come si canta nel Salmo ispirato, per vedere se c’è chi ha intelligenza, chi cerca Dio 9. Dunque per questo l’uomo deve essere intelligente, per cercare Dio.
Non inutilmente si cercano le vestigia della Trinità nella creatura
2. 3. Ci siamo dunque sufficientemente soffermati sulle cose che Dio ha creato per conoscere, per mezzo di esse, lui, che le ha create 10: Infatti le sue perfezioni invisibili, dopo la creazione del mondo, sono rese visibili all’intelligenza per mezzo delle cose che sono state fatte 11. Per questo nel libro della Sapienza vengono rimproverati coloro che dai beni visibili non seppero conoscere Colui che è, né, considerando le opere, seppero conoscere il loro artefice, ma il fuoco o il vento, o l’aria veloce, la volta stellata, le acque violente o i luminari del cielo, credettero dèi, governatori del mondo. Se quelle cose credettero dèi, perché dilettati dalla loro bellezza, sappiano quanto è migliore il padrone di esse, perché l’autore della bellezza le ha create. Se poi ciò che li ha colpiti è la loro forza e la loro energia, comprendano da queste cose quanto è più potente Colui che le ha formate, poiché dalla bellezza e dalla grandezza delle creature, argomentando, si poteva conoscere il loro Creatore 12. Ho citato queste parole del libro della Sapienza per impedire che qualche fedele giudichi vano ed inutile il mio tentativo con cui, partendo dalle cose, che nel loro ordine sono degli abbozzi di trinità, per elevarmi, come per gradi, fino allo spirito dell’uomo, ho cercato nelle creature le tracce di quella suprema Trinità, che cerchiamo quando cerchiamo Dio 13.
Riassunto dei libri precedenti
3. 4. Ma, poiché le esigenze della discussione e del ragionamento mi hanno costretto, nel corso di quattordici libri, a dire una quantità di cose, che non possiamo tutte abbracciare con un solo sguardo per riferirci con un rapido movimento di pensiero alle verità che vogliamo attingere, lasciando da parte ogni discussione, tenterò, per quanto lo potrò, con l’aiuto del Signore, di riassumere in breve ciò che, in ciascun libro, ho cercato di far comprendere, discutendolo ampiamente, e porrò, come sotto lo sguardo dello spirito, non gli argomenti con cui ho provato le mie asserzioni, ma le verità provate, facendo in modo che le conclusioni non siano talmente lontane dalle premesse, che l’esame delle conclusioni faccia dimenticare le premesse, o che, almeno, se ciò accadrà, si possa rapidamente, con una nuova lettura, ricordare ciò che si sarà dimenticato.
3. 5. Nel libro primo, basandomi sulle sacre Scritture, ho mostrato l’unità e l’uguaglianza di quella suprema Trinità 14. Nel secondo, terzo e quarto ho trattato lo stesso argomento; ma la trattazione diligente ed esauriente delle questioni delle missioni del Figlio e dello Spirito Santo costituisce l’argomento dei tre libri, ed ho dimostrato che Colui che è stato mandato non è minore di Colui che manda, per il fatto che questo manda e quello è mandato, perché la Trinità, che è uguale in tutto, è ugualmente indivisibile nel suo operare, essendo, per sua natura, immutabile, invisibile e ovunque presente 15. Nel quinto libro, a causa di coloro che ritengono che il Padre e il Figlio non sono di una stessa sostanza (perché pensano che tutto ciò che si dice di Dio si riferisca alla sostanza e, poiché generare ed essere generato, o essere generato ed essere ingenerato sono termini distinti, pretendono che si tratti di sostanze diverse) 16, ho dimostrato che non tutto ciò che si dice di Dio lo si dice sotto l’aspetto della sostanza come quando lo si afferma buono e grande e gli si danno altri simili attributi. Si dice anche sotto l’aspetto della relazione, ossia non rispetto a quello che è in se stesso, bensì rispetto a qualcosa che non è l’assoluto in Dio 17; per esempio quando si dice Padre in relazione al Figlio o si dice Signore in relazione alle creature che lo servono 18. Se queste attribuzioni relative hanno anche un riferimento al tempo come nell’invocazione del Salmista: Signore, tu sei divenuto per noi un rifugio 19, allora non è che a Dio accada qualcosa che lo faccia cambiare, ma egli rimane assolutamente immutabile nella sua natura o essenza 20. Nel libro sesto mi sono chiesto in che senso Cristo sia stato chiamato dall’Apostolo forza di Dio e sapienza di Dio 21, differendo a più tardi, per studiarla con più diligenza, la seguente questione: si deve dire che Colui che ha generato Cristo non è egli stesso sapienza, ma soltanto Padre della sapienza, o, al contrario, che egli è sapienza che ha generato la sapienza 22? Ma qualunque sia la risposta a questa alternativa, anche in questo libro appariva l’uguaglianza della Trinità, e come Dio non è triplice, ma Trinità, ed apparve che il Padre e il Figlio non sono qualcosa di duplice in rapporto allo Spirito Santo, realtà semplice, là dove i Tre non sono un qualcosa di più che uno solo di loro 23. Si è anche discusso come si possa intendere l’espressione del vescovo Ilario: L’eternità nel Padre, la bellezza nell’Immagine, la fruizione nel Dono 24. Nel settimo libro si spiega la questione che era stata differita e si giunge alla conclusione che Dio, in quanto ha generato il Figlio, non solo è il Padre della sua forza e della sua sapienza, ma è anche lui stesso forza e sapienza, come pure lo Spirito Santo, ma tuttavia non ci sono tre forze o tre sapienze, ma una sola forza ed una sola sapienza, come vi è un solo Dio ed una sola essenza 25. Poi mi sono chiesto in che senso si parli di una sola essenza e di tre Persone, o, come dicono alcuni scrittori greci, di una essenza e di tre sostanze 26, e ho risposto che sono le esigenze del linguaggio che vogliono che noi facciamo ricorso ad una sola parola per rispondere alla domanda: "Che cosa sono questi Tre?", perché noi confessiamo con piena verità che sono tre: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo 27. Nel libro ottavo ho fatto ricorso anche alla riflessione per mostrare chiaramente all’intelligenza che nella verità sostanziale non solo il Padre non è più grande del Figlio, ma che nemmeno tutti e due insieme sono un qualcosa di più grande del solo Spirito Santo; che due Persone qualsiasi nella medesima Trinità non sono un qualcosa di più grande di una sola; che tutte e tre prese insieme non sono un qualcosa di più grande che ciascuna considerata singolarmente 28. Poi, argomentando dalla verità immediatamente attinta dall’intelligenza, dal Bene supremo dal quale deriva ogni bene, dalla giustizia a motivo della quale l’anima giusta è amata anche dall’anima che non è ancora giusta, mi sono sforzato di far comprendere, per quanto è possibile, quella natura, non solo immateriale, ma anche immutabile, che è Dio 29; infine, riflettendo sulla carità, che è chiamata Dio nelle Sacre Scritture, ho incominciato a fare intravedere all’intelligenza, per quanto poco, la Trinità stessa, per analogia dell’amante, dell’amato, dell’amore 30. Nel libro nono la mia analisi giunge all’immagine di Dio: l’uomo, considerato nel suo spirito. Nello spirito umano ho trovato una specie di trinità, ossia lo spirito, la conoscenza con cui si conosce, l’amore con cui ama se stesso e la conoscenza che ha di sé; ho mostrato che queste tre cose sono uguali tra loro ed appartengono ad una medesima essenza 31. Nel libro decimo, ho ripreso lo stesso argomento con più attenzione e precisione e sono stato condotto a trovare nello spirito una trinità più manifesta: quella della memoria, dell’intelligenza, della volontà 32. Ma, poiché ho scoperto pure che lo spirito non può mai esistere senza ricordarsi di sé, senza comprendersi, senza amarsi, sebbene esso non pensi sempre a se stesso e, quando pensa a sé, non sempre riesca in questo stesso atto di pensiero a distinguersi dagli oggetti sensibili, ho rimandato a più tardi lo studio circa la Trinità, di cui lo spirito è immagine, per cercare una trinità nella stessa percezione degli oggetti visibili e permettere all’attenzione del lettore di esercitarsi su realtà che essa percepisce più chiaramente 33. Per questo, nel libro undicesimo mi sono soffermato sullo studio del senso della vista sapendo che ciò che vi avrei scoperto si sarebbe potuto applicare anche agli altri quattro sensi, senza bisogno di ripeterlo. E così è apparsa la trinità dell’uomo esteriore: trinità costituita dal corpo percepito, dalla forma da esso impressa nello sguardo del soggetto percipiente, e dall’attenzione della volontà che unisce l’uno all’altra 34. Ma apparve manifesto che questi tre elementi non sono uguali tra loro e non appartengono alla medesima sostanza. Poi, nell’anima stessa, a partire da ciò che, sentito all’esterno, è come introdotto in noi, ho scoperto un’altra trinità in cui i tre elementi sembrano appartenere alla medesima sostanza: l’immagine del corpo presente nella memoria, la forma che la riproduce quando lo sguardo del soggetto che pensa si volge ad essa, e l’attenzione della volontà che unisce l’una all’altra. Ma si è visto che questa trinità appartiene ancora all’uomo esteriore, perché ha la sua origine nei corpi che percepiamo dall’esterno. Nel libro dodicesimo ci è parso di dover distinguere la sapienza dalla scienza 35, e di dover cercare prima in quella che si chiama propriamente scienza, perché è inferiore alla sapienza, una specie di trinità nel suo genere; sebbene essa appartenga già all’uomo interiore, tuttavia non bisogna né dire né pensare che sia immagine di Dio 36. È questo l’argomento trattato nel libro tredicesimo, mostrando il valore della fede cristiana 37. Nel libro quattordicesimo invece è proprio la vera sapienza dell’uomo, cioè quella che gli è data per dono di Dio nella sua partecipazione a Dio stesso e che è distinta dalla scienza 38, che costituisce l’oggetto della mia indagine. Tale indagine è giunta a scoprire una trinità nell’immagine di Dio, che è l’uomo considerato nel suo spirito, che si rinnova nella conoscenza di Dio secondo l’immagine di Colui che ha creato l’uomo 39 a sua immagine 40, e così si percepisce che la sapienza si trova là dove c’è contemplazione delle realtà eterne.
Tutta la natura ci spinge a risalire a Dio
4. 6. Cerchiamo dunque ormai quella Trinità che è Dio in quelle realtà eterne, incorporee ed immutabili, nella cui piena contemplazione ci è promessa la vita beata, che è tale solo perché eterna 41. Infatti, non è soltanto l’autorità delle divine Scritture che ci insegna che Dio esiste, ma tutta intera la natura stessa che ci circonda, e di cui noi stessi facciamo parte, proclama l’esistenza di un supremo Creatore 42, che ha dotato la nostra natura di uno spirito e di una ragione, con cui vediamo di dover preferire gli esseri viventi ai non viventi, quelli dotati di senso ai non senzienti, quelli intelligenti ai non intelligenti, quelli immortali ai mortali, quelli potenti ai privi di potenza, quelli giusti agli ingiusti, quelli belli ai deformi, quelli buoni ai cattivi, quelli incorruttibili ai corruttibili, quelli immutabili ai mutevoli, quelli invisibili ai visibili, quelli incorporei ai corporei, quelli felici agli infelici. Per questo stesso motivo, perché noi poniamo senza esitazione il Creatore al di sopra delle creature, dobbiamo confessare che egli possiede la pienezza della vita, che sente e comprende tutto; che egli non può morire, corrompersi, mutare; che egli non è corpo ma lo spirito di tutti più potente, più giusto, più bello, più buono e più beato.
Le numerose perfezioni vengono ricondotte a poche fondamentali
5. 7. Ma queste affermazioni e tutte le altre che, espresse in modo simile con linguaggio umano, sembrano degne di Dio, convengono sia alla Trinità tutta intera, che è un Dio solo, sia, in questa stessa Trinità, a ciascuna Persona. Chi infatti oserà dire che o questo Dio unico, che è la stessa Trinità 43, o il Padre, o il Figlio, o lo Spirito Santo, non vive, o non sente nulla o non intende nulla, oppure che in quella natura, che fonda la loro mutua uguaglianza 44, qualcuna delle Persone è mortale, corruttibile, mutevole, corporea; ovvero infine ci sarà qualcuno che negherà che nella Trinità qualcuna delle Persone sia in sommo grado potente, giusta, bella, buona, beata 45? Se dunque tutte queste perfezioni e tutte le altre dello stesso ordine possono essere attribuite alla Trinità e, in essa, a ciascuna delle Persone, dove e come potremo scoprire la Trinità? Riduciamo dunque anzitutto queste numerosissime perfezioni ad alcune soltanto. La vita che si afferma esistere in Dio è la sua stessa esistenza e la sua natura. Per questo Dio vive di una vita che non è altro che ciò che egli stesso è per se stesso. Questa vita non è della stessa sorte di quella dell’albero, che è privo di intelligenza e di sensibilità, né della stessa sorte di quella degli animali; infatti la vita dell’animale è dotata di sensibilità che si diversifica in cinque sensi, ma è del tutto priva di intelligenza. Invece quella vita che è Dio sente e comprende tutto, ma Dio sente spiritualmente, non corporeamente, perché Dio è spirito 46. Infatti Dio non sente per mezzo del corpo, come gli animali che hanno un corpo, perché non è composto di anima e di corpo, e per questo 47, essendo semplice, quella natura sente come comprende, comprende come sente; in essa senso ed intelletto sono identici. Né la sua natura è tale che possa ad un dato momento cessare di esistere o incominciare ad esistere: è infatti immortale. Non invano di lui è detto che è il solo a possedere l’immortalità 48, perché è veramente immortalità l’immortalità di Colui la cui natura è priva di qualsiasi mutazione. Vera è pure l’eternità per la quale Dio è immutabile, senza inizio e senza fine e per ciò stesso incorruttibile. Si esprime dunque una sola e medesima cosa, sia che si dica che Dio è eterno, sia che si dica che è immortale, che è incorruttibile, che è immutabile; similmente quando si dice che è vivente, e intelligente o, che è lo stesso, sapiente, si dice la medesima cosa. Dio infatti non ha ricevuto una sapienza che lo abbia reso sapiente, ma egli stesso è la sapienza. E questa vita è la stessa cosa che la forza o la potenza, la stessa cosa che la bellezza, per cui è detto potente e bello. Che c’è infatti di più potente e di più bello della sapienza che si estende con potenza da una estremità all’altra del mondo e tutto amministra con dolcezza 49? La bontà e la giustizia differiscono forse tra loro nella natura di Dio, allo stesso modo che nelle sue opere, come se vi fossero due qualità distinte in Dio: una, la bontà, l’altra, la giustizia? Certamente no: la sua giustizia è la sua stessa bontà, e la sua bontà è la sua beatitudine stessa. E Dio è detto incorporeo, immateriale perché si creda e si comprenda 50 che egli è spirito, non corpo.
Tutto ciò che sembra affermato di Dio secondo la qualità deve essere compreso come detto dell’essenza
5. 8. Se dunque diciamo: "Eterno, immortale, incorruttibile, immutabile, vivente, sapiente, potente, bello, giusto, buono, beato, spirito", potrebbe sembrare che, fra tutti questi termini, solo l’ultimo designi la sostanza, mentre gli altri sembrerebbero designare solo le qualità di questa sostanza, ma non è così in quella natura ineffabile e semplice. Tutto ciò che ivi sembra venir affermato come concernente le qualità, deve essere compreso come riguardante la sostanza o l’essenza. Sia lungi da noi il pensare che, quando si dice che Dio è spirito, questa affermazione riguardi la sostanza, e quando si dice che è buono, tale affermazione concerna la qualità: l’una e l’altra affermazione riguardano la sostanza. Lo stesso si dica di tutte le altre perfezioni che abbiamo ricordato e di cui abbiamo già lungamente parlato nei libri precedenti. Fra le quattro prime perfezioni che abbiamo enumerato e distinto, cioè: eterno, immortale, incorruttibile, immutabile, scegliamone dunque una, perché, come ho già detto, queste quattro designano una sola realtà; affinché la nostra attenzione non si disperda nella considerazione di molte cose, scegliamo quella che abbiamo nominato al primo posto, cioè l’eternità. Facciamo la stessa cosa per le quattro del secondo gruppo: vivente, sapiente, potente, bello. E poiché anche gli animali hanno la vita, per quanto imperfetta, mentre non hanno la sapienza; poiché d’altra parte quando paragona la sapienza alla potenza, che sono tutte e due perfezioni dell’uomo, la Sacra Scrittura dice: Il sapiente è superiore al forte 51; poiché infine si chiamano correttamente belli anche i corpi, tra queste quattro perfezioni fra le quali abbiamo da scegliere; scegliamo la sapienza, sebbene occorra dire che queste quattro perfezioni in Dio non sono ineguali: ci sono infatti quattro parole, ma una sola realtà. Veniamo alle quattro del terzo ed ultimo gruppo. Benché in Dio essere giusto sia la stessa cosa che essere buono e beato, essere spirito la stessa cosa che essere giusto, buono e beato; tuttavia poiché negli uomini lo spirito può non essere beato, può essere giusto e buono, ma non ancora beato; poiché invece colui che è beato è inevitabilmente giusto, buono e spirito; scegliamo di preferenza la perfezione che nemmeno negli uomini può esistere senza le altre tre, cioè la beatitudine.
Come possiamo non solo credere, ma capire che Dio assolutamente semplice è Trinità?
6. 9. Quando dunque diciamo: "Eterno, sapiente, beato", queste tre perfezioni costituiscono forse quella Trinità che si chiama Dio? Abbiamo ridotto quelle dodici perfezioni al piccolo numero di tre; forse allo stesso modo noi possiamo ridurre queste tre ad una sola. Perché se nella natura divina sapienza e potenza, o vita e sapienza, possono essere una sola e medesima realtà, perché non potrebbero essere una sola e medesima cosa nella natura divina eternità e sapienza, o beatitudine e sapienza? Allora, allo stesso modo che era indifferente parlare di dodici o di tre perfezioni, quando abbiamo ridotto quelle molteplici perfezioni ad alcune, così è indifferente parlare di tre perfezioni o di un’unica perfezione alla quale si possono ridurre le altre due come abbiamo mostrato. Ma allora quale metodo di discussione, quale forza e quale potenza di intelligenza, quale vivacità di ragione, quale penetrazione di pensiero ci mostreranno, per tacere delle altre, come questa sola perfezione, questa sapienza che è chiamata Dio, è Trinità? Infatti Dio non percepisce una sapienza che gli proviene da qualcuno, come noi percepiamo una sapienza che ci proviene da lui, ma è egli stesso la sua sapienza, perché non sono due cose diverse la sapienza e l’essenza per Colui per il quale è una stessa cosa essere ed essere sapiente. Certo le Sacre Scritture affermano che Cristo è la forza di Dio e la sapienza di Dio 52, ma si è discusso nel libro settimo come si debba intendere questa espressione 53, perché non sembri che sia il Figlio a far sì che il Padre sia sapiente, ed il nostro ragionamento ci ha condotto a concludere che il Figlio è sapienza da sapienza, come è luce da luce, Dio da Dio. Riguardo allo Spirito Santo le nostre conclusioni non hanno potuto essere differenti: anch’egli è sapienza e tutte e tre le Persone insieme sono una sola sapienza, come sono un solo Dio, una sola essenza 54. Ma allora come comprendere che questa sapienza, che è Dio, è Trinità? Non ho detto "come credere", perché per i fedeli è questa una verità che non deve essere messa in questione, ma se possiamo in una certa maniera vedere per mezzo dell’intelligenza ciò che crediamo, quale sarà questa maniera?
Le analogie trinitarie nell’uomo
6. 10. Se infatti cerchiamo di ricordarci in quale momento, nel corso di questi libri, la nostra intelligenza ha cominciato ad intravedere la Trinità, troviamo che fu nel libro ottavo. In questo libro infatti, per quanto lo abbiamo potuto, abbiamo tentato con le nostre analisi di innalzare l’attenzione dello spirito fino all’intelligenza di quella suprema e immutabile natura che il nostro spirito non è. Tuttavia noi la contemplavamo non lontana da noi e al di sopra di noi, non spazialmente, ma per la sua adorabile e meravigliosa trascendenza, in modo che sembrava stare presso di noi per la pienezza della sua luce. In essa tuttavia non ci appariva ancora la Trinità, perché non tenevamo fermo lo sguardo dello spirito su quello splendore per cercarla; tutt’al più perché ciò che appariva non era una massa materiale, che ci obbligasse a vedere che la grandezza di due o tre era maggiore di quella di uno, cominciavamo ad intravedere quel mistero. Ma quando si giunse alla carità, che è stata chiamata Dio nelle Sacre Scritture 55, il mistero si chiarì un poco con la trinità dell’amante, dell’amato e dell’amore 56. Ma, poiché quella luce ineffabile abbagliava il nostro sguardo e poiché avvertivamo che la debolezza del nostro spirito non poteva ancora raggiungerla, inserendo una digressione tra ciò che avevamo iniziato a dire e ciò che avevamo deciso di dire, ci siamo rivolti al nostro spirito, secondo il quale l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio 57, trovandovi un oggetto di studio più a noi familiare, per riposare la nostra attenzione affaticata, e così ci siamo soffermati dal libro IX al libro XII sulla creatura che siamo noi per poter, attraverso le cose create, vedere con l’intelligenza le perfezioni invisibili di Dio 58. Ed ecco che ora, dopo aver esercitato la nostra intelligenza nelle cose inferiori, quanto era necessario o forse più di quanto fosse necessario, vogliamo elevarci alla contemplazione di quella suprema Trinità che è Dio e non ne siamo capaci. Forse come vediamo delle trinità assai certe, quelle che hanno origine, venendo dal di fuori, dalle cose corporee, quelle che hanno origine quando vengono pensati gli oggetti percepiti esteriormente; o quando quelle cose che hanno origine nell’anima e non appartengono ai sensi del corpo, come la fede, come le virtù, che regolano la vita, sono conosciute dalla ragione con chiarezza e costituiscono oggetto della scienza; o quando lo spirito con cui conosciamo tutto ciò che a questo titolo diciamo di conoscere, conosce se stesso o si pensa; o quando discerne qualcosa di eterno e immutabile che non è esso stesso; forse che dunque come in tutti questi casi vediamo delle trinità assai certe, perché si producono in noi o sono in noi quando ricordiamo, vediamo, vogliamo tali cose, allo stesso modo vediamo anche il Dio Trinità, perché anche là vediamo con l’intelligenza uno che "dice" e il suo verbo, cioè il Padre e il Figlio, e, procedente dall’uno e dall’altro, la carità che è loro comune, cioè lo Spirito Santo? O non si deve invece dire che queste trinità che appartengono ai nostri sensi o alla nostra anima le vediamo più che crederle, mentre invece crediamo più che vedere che Dio è Trinità? Se è così, certamente o non vediamo, in quanto non la comprendiamo, alcuna delle perfezioni invisibili di Dio per mezzo delle cose create 59, o, se ne vediamo alcune, non vediamo in esse la Trinità, ed è là ciò che dobbiamo vedere, è ciò che, anche se non vediamo, dobbiamo credere. Ma che noi vediamo il bene immutabile, sebbene noi non siamo questo bene, lo mostra il libro ottavo 60, e l’abbiamo ricordato nel libro quattordicesimo, parlando della sapienza che l’uomo riceve da Dio 61. Perché dunque non vi riconosciamo la Trinità? Forse che questa sapienza, che è chiamata Dio, non comprende se stessa, non ama se stessa? Chi oserà dirlo? Chi non vede che là dove non c’è nessuna scienza non potrebbe in alcun modo esservi sapienza? O si dovrà ritenere forse che la sapienza, che è Dio, conosce le altre cose e non conosce se stessa o ama le altre cose e non ama se stessa? Sia affermare sia credere tali cose è stolto ed empio. Ecco allora che c’è qui la Trinità, cioè la sapienza, la conoscenza che essa ha di sé, l’amore che essa ha di sé. Allo stesso modo infatti anche nell’uomo abbiamo trovato una trinità, costituita dallo spirito, dalla conoscenza con cui esso si conosce, dall’amore con cui si ama 62.
L’analogia tra le trinità create e Dio è molto imperfetta
7. 11. Ma questi tre elementi sono nell’uomo, non sono l’uomo. L’uomo è infatti, secondo la definizione degli antichi, un animale ragionevole, mortale 63. Quelle realtà sono dunque ciò che c’è di migliore nell’uomo 64, ma esse non sono l’uomo. Ed una persona da sola, cioè ciascun uomo considerato singolarmente, ha quei tre elementi nello spirito o lo spirito. Se diamo dell’uomo quest’altra definizione: "l’uomo è una sostanza razionale che consta di anima e di corpo" 65 è fuori dubbio che l’uomo possiede un’anima che non è il corpo, possiede un corpo che non è l’anima. Di conseguenza quei tre elementi non sono l’uomo, appartengono all’uomo o sono nell’uomo. Supponendo anche che noi facciamo astrazione dal corpo e consideriamo solo l’anima, lo spirito è una parte di essa, ne è come il capo, l’occhio, il viso. Ma queste cose non si devono pensare come se fossero corporee. Non dunque l’anima, ma la parte migliore dell’anima è chiamata spirito 66. Ma possiamo forse dire che la Trinità si trova in Dio in modo da essere un qualcosa di Dio senza essere essa stessa Dio? Perciò ogni singolo uomo, chiamato immagine di Dio non secondo tutta l’ampiezza della sua natura, ma soltanto in quanto è spirito, è una sola persona, e l’immagine della Trinità è nello spirito. Invece quella Trinità di cui è immagine non è, tutta intera, nient’altro che Dio; tutta intera, nient’altro che Trinità. E nulla appartiene alla natura divina che non appartenga a quella Trinità: le tre Persone sono una sola essenza 67, non come ogni singolo uomo che è una sola persona.
7. 12. Ma vi è un’altra differenza importante: se nell’uomo consideriamo lo spirito e la conoscenza e l’amore che ha di sé o la memoria, l’intelligenza, la volontà 68, non c’è alcuna parte dello spirito di cui ci ricordiamo se non per mezzo della memoria, nessuna parte che comprendiamo se non per mezzo dell’intelligenza, nessuna parte che amiamo se non per mezzo della volontà 69. Ma in quella Trinità chi oserà dire che il Padre non comprende se stesso, il Figlio e lo Spirito Santo se non per mezzo del Figlio, che non li ama se non per mezzo dello Spirito Santo e da sé ricorda soltanto se stesso o il Figlio o lo Spirito Santo; che il Figlio a sua volta non ricorda se stesso e il Padre se non per mezzo del Padre e non li ama se non per mezzo dello Spirito Santo; che parimenti anche lo Spirito Santo per mezzo del Padre ricorda il Padre, il Figlio e se stesso, e per mezzo del Figlio comprende il Padre e il Figlio e se stesso, mentre, da sé, soltanto ama se stesso, il Padre e il Figlio; come se il Padre fosse la memoria sua, del Figlio e dello Spirito Santo, il Figlio, l’intelligenza sua, del Padre e dello Spirito Santo, lo Spirito Santo l’amore suo, del Padre e del Figlio? Chi avrebbe l’audacia di opinare e affermare tali cose circa la Trinità? Se ivi infatti è il Figlio solo a comprendere, per se stesso, per il Padre e per lo Spirito Santo, si ricade in quell’opinione assurda che la sapienza del Padre non gli proviene da lui stesso ma dal Figlio e che la sapienza non ha generato la sapienza, ma il Padre è detto essere sapiente per la sapienza che ha generato. Dove infatti non c’è intelligenza, non vi può nemmeno essere sapienza; di conseguenza se il Padre non comprende egli stesso per se stesso, ma è il Figlio che comprende per il Padre, non vi è dubbio che è il Figlio che fa sapiente il Padre. E se in Dio essere è la stessa cosa che essere sapiente, e se in lui l’essenza è identica alla sapienza, non è più il Figlio che riceve dal Padre l’essenza - come è vero - ma il Padre invece la riceve dal Figlio, ciò che è il colmo dell’assurdità e dell’errore. Tale assurdità abbiamo discusso, condannato, respinto nella maniera più formale nel libro settimo 70. Il Padre è dunque sapiente per la sua propria sapienza, che egli stesso è, e il Figlio è la sapienza del Padre che procede dalla sapienza che è il Padre, dal quale il Figlio è stato generato. Di conseguenza il Padre anche comprende per la sua propria intelligenza che egli stesso è; chi infatti non avesse l’intelligenza non potrebbe avere la sapienza; il Figlio invece è l’intelligenza del Padre, generato dall’intelligenza che è il Padre. Lo stesso si può affermare senza inconveniente della memoria. Come può essere infatti sapiente colui che nulla ricorda o non si ricorda di sé? Dunque in quanto è sapienza il Padre, sapienza il Figlio 71, allo stesso modo che si ricorda per sé il Padre, così si ricorda per sé il Figlio; e come il Padre si ricorda di sé e del Figlio non con la memoria del Figlio, ma con la sua, così il Figlio si ricorda di sé e del Padre non con la memoria del Padre, ma con la propria. Infine chi potrebbe dire che vi è sapienza dove non vi è in alcun modo dilezione? Da ciò si conclude che il Padre è il suo proprio amore, come è la sua intelligenza e la sua memoria. Ecco dunque che quelle tre perfezioni: la memoria, l’intelligenza, la dilezione o volontà, in quella suprema ed immutabile essenza che è Dio, non sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma il Padre solo. E poiché anche il Figlio è sapienza generata 72 dalla sapienza, come non è il Padre che comprende per lui, non è nemmeno lo Spirito Santo che comprende per lui, ma egli stesso per se stesso; così pure non è il Padre che ricorda per lui, né lo Spirito Santo che ama per lui, ma lui per se stesso; egli infatti è la sua propria memoria, la sua intelligenza, il suo amore, ma che egli sia tale gli proviene dal Padre, da cui è nato. Anche lo Spirito Santo, poiché è sapienza che procede dalla sapienza 73, non ha il Padre come memoria, il Figlio come intelligenza e se stesso come amore; infatti non sarebbe nemmeno sapienza, se qualche altro ricordasse per lui e un altro comprendesse per lui ed egli stesso soltanto amasse per se stesso, ma anch’egli ha queste tre perfezioni e le possiede in tal modo, che è egli stesso tali perfezioni. Tuttavia che egli sia tale gli proviene dalla fonte da cui procede.
7. 13. Quale uomo dunque può comprendere questa sapienza con la quale Dio conosce tutte le cose in modo che quelle che si dicono passate in lui non passino, né quelle che si dicono future si attende che si realizzino come se fossero ancora assenti, ma quelle passate e quelle future siano tutte presenti con le presenti; ed in modo che non siano pensate ad una ad una, cosicché il suo pensiero passi dalle une alle altre, ma le abbracci tutte insieme con un solo sguardo; quale uomo, dico, comprende questa sapienza che è insieme preveggenza, che è scienza, quando noi non comprendiamo nemmeno la nostra sapienza? Se le cose presenti ai nostri sensi o alla nostra intelligenza le possiamo vedere in qualche modo, invece quelle che sono assenti e tuttavia furono una volta presenti, le conosciamo per mezzo della memoria, quelle almeno di cui non ci siamo dimenticati. Né congetturiamo le cose passate in base alle cose future, ma quelle future in base alle passate ed anche queste con conoscenza incerta. Quando infatti prevediamo alcuni nostri pensieri futuri con maggior chiarezza e certezza come i più vicini a realizzarsi, lo dobbiamo all’azione della memoria (quando siamo capaci di farlo per quanto è in nostro potere), memoria che sembra riguardare le cose passate, non quelle future. Ci è facile fare una tale esperienza in quei discorsi o cantici, dei quali possiamo recitare a memoria il susseguirsi delle frasi. Se infatti non vedessimo in anticipo con il pensiero ciò che segue, certamente non diremmo nulla; e tuttavia a far sì che vediamo in anticipo non è la preveggenza, ma la memoria. Perché, fino a quando non abbiamo finito di parlare o di cantare, non proferiamo nulla che non sia stato previsto e considerato in anticipo. E tuttavia, quando facciamo questo, non si dice che noi cantiamo o recitiamo con l’aiuto della preveggenza, ma della memoria; e coloro che hanno una capacità fuori del comune nel recitare a questo modo delle lunghe composizioni, vengono esaltati di solito non per la loro preveggenza, ma per la loro memoria. Che questo accada nella nostra anima lo sappiamo e ne siamo assolutamente certi, ma quanto maggiore è l’attenzione che poniamo nel voler comprendere come questo accada, tanto più il nostro linguaggio viene sopraffatto e la stessa attenzione non rimane ferma fino al punto di permettere alla nostra intelligenza, in mancanza della nostra parola, di giungere ad un qualcosa di chiaro. Pensiamo noi allora di poter comprendere, data la così grande debolezza del nostro spirito, come la preveggenza è identica alla memoria e all’intelligenza, in Dio che non vede le cose pensandole ad una ad una, ma abbraccia in una visione eterna, immutabile ed ineffabile tutto ciò che conosce? In mezzo a queste difficoltà e complicazioni è grato gridare al Dio vivente: Troppo mirabile è la tua scienza; troppo sublime, e non posso comprenderla 74. A partire dalla mia esperienza, comprendo quanto sia mirabile ed incomprensibile la tua scienza 75 con la quale mi hai creato; e tuttavia nelle mie meditazioni mi infiamma un fuoco 76 che mi spinge a cercare sempre la tua faccia 77.
La conoscenza di Dio "attraverso uno specchio in enigma"
8. 14. So che la sapienza è una sostanza immateriale, che essa è una luce in cui si vede ciò che non si vede con gli occhi della carne; e tuttavia quell’uomo così eminente e così spirituale dice: Vediamo ora attraverso uno specchio, in enigma, allora a faccia a faccia 78. Se ci chiediamo quale sia e che cosa sia questo specchio, il primo pensiero che ci viene in mente è certamente quello che nello specchio non si vede che un’immagine. Ci siamo dunque sforzati, a partire da questa immagine che siamo noi, di vedere in qualche modo, come in uno specchio, Colui che ci ha fatti. È questo il senso di quest’altra espressione dello stesso Apostolo: Noi che a faccia svelata comprendiamo come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati nella stessa immagine, salendo di gloria in gloria, come ad opera dello spirito del Signore 79. Chiama speculantes coloro che contemplano in uno specchio (speculum), non coloro che guardano da un posto di osservazione (de specula). Il testo greco, dal quale sono state tradotte le Lettere dell’Apostolo, non presenta alcuna ambiguità al riguardo. In greco infatti la parola che significa specchio, in cui appaiono le immagini delle cose, è totalmente diversa, anche per il suono, dalla parola che significa "specola" dall’alto della quale lo sguardo si estende più lontano ed appare sufficientemente chiaro che l’Apostolo ha derivato da specchio e non da specola la parola speculantes, quando dice che contempliamo come in uno specchio (speculantes) la gloria di Dio. Quanto a queste parole: siamo trasformati nella stessa immagine 80, è certo che con esse l’Apostolo vuol fare riferimento all’immagine di Dio, che egli chiama la stessa immagine, cioè quella stessa che noi contempliamo, perché questa stessa immagine è anche la gloria di Dio, come dice in un altro passo: L’uomo non deve velare il suo capo, dato che egli è l’immagine di Dio 81. Il senso di queste parole è stato precisato nel libro dodicesimo 82. Siamo trasformati egli dice dunque, siamo cioè mutati da una forma ad un’altra e passiamo da una forma oscura ad una forma luminosa perché la stessa forma oscura è immagine di Dio e, se è immagine, è certamente anche gloria, nella quale siamo stati creati uomini, superiori agli altri animali 83. È della stessa natura umana che è detto: L’uomo non deve velare il suo capo, dato che è immagine e gloria di Dio 84. Questa natura, la più nobile tra le cose create, quando viene giustificata, ad opera del suo Creatore, dall’empietà, lascia la sua forma deforme (deformis forma), per acquisire una forma bella (forma formosa). Perché anche nella stessa empietà, quanto più è degna di biasimo la corruzione, tanto più certamente è degna di lode la natura. È per questo che l’Apostolo aggiunge: di gloria in gloria 85; dalla gloria della creazione alla gloria della giustificazione. Tuttavia si può intendere in altra maniera l’espressione: di gloria in gloria; dalla gloria della fede alla gloria della visione, dalla gloria che fa di noi dei figli di Dio alla gloria che ci renderà simili a lui, perché lo vedremo come egli è 86. E le parole che aggiunge: come ad opera dello Spirito del Signore 87, mostrano che è per la grazia di Dio che ci viene conferito il beneficio di una trasformazione così desiderabile.
L’enigma è una allegoria oscura
9. 15. Tutto questo è stato detto per commentare le parole dell’Apostolo che afferma che noi vediamo ora come in uno specchio 88. Le parole seguenti: in enigma, sono incomprensibili a tutti gli illetterati che ignorano le figure della retorica, che i Greci chiamano tropi, parola passata dalla loro lingua nella lingua latina. Come infatti parliamo più correntemente di "schemi" che di "figure", così parliamo più correntemente di "tropi" che di "figure retoriche". Quanto a tradurre in latino i nomi di ogni tropo o figura, in modo che ad ogni parola greca ne corrisponda una latina, è impresa fin troppo difficile e inusitata. Così alcuni dei nostri interpreti, volendo evitare la parola greca, traducono il passo in cui l’Apostolo dice: Queste cose sono dette in senso allegorico 89, con questa circonlocuzione: "Queste cose significano una cosa per un’altra" 90. Ora questo genere di tropo, cioè l’allegoria, si suddivide in molte specie, tra le quali si trova anche quella che si chiama "enigma". Ma è necessario che la definizione di un termine generico abbracci tutte le specie. Per questo, come ogni cavallo è animale, ma non ogni animale è cavallo, così ogni enigma è allegoria, ma non ogni allegoria è enigma. Che è dunque un’allegoria se non un tropo in cui si fa intendere una cosa con un’altra, come in quel passo della Lettera ai Tessalonicesi: Dunque non dormiamo come gli altri uomini, ma vigiliamo e siamo sobri. Infatti quelli che dormono, dormono di notte e quelli che si inebriano, si inebriano di notte; ma noi che siamo figli del giorno, siamo sobri 91? Ma questa allegoria non è un enigma. Infatti, eccetto per coloro che sono molto tardi di ingegno, il senso di questa espressione è pienamente evidente. L’enigma invece è, per spiegarlo in breve, un’allegoria oscura 92, come il passo: La sanguisuga ha tre figlie 93, ed altri di questo genere. Tuttavia, quando l’Apostolo parla di allegoria, non la individua nelle parole, ma in un fatto, nel fatto in cui mostra che i due figli di Abramo, uno della schiava, l’altro della donna libera 94 (non si trattava di parole, ma anche di un fatto) devono significare i due Testamenti; questo fatto prima della spiegazione restava oscuro. Perciò una tale allegoria, termine generico, potrebbe essere chiamata enigma, se si usa un termine specifico.
L’Apostolo col termine "specchio" indica l’immagine, con quello di "enigma" una rassomiglianza, ma oscura
9. 16. Ma, poiché non soltanto coloro che ignorano le lettere, in cui si studiano i tropi, si chiedono che cosa abbia voluto dire l’Apostolo quando afferma che ora noi vediamo in enigma 95, ma anche coloro che le conoscono desiderano tuttavia sapere che cosa sia quell’enigma in cui ora vediamo, dobbiamo formare una sola espressione costituita da queste due affermazioni, quella che dice: Vediamo ora attraverso uno specchio, e quella che ha aggiunto: in enigma. È infatti una sola espressione perché l’Apostolo dice in una sola frase così: Vediamo ora attraverso uno specchio, in enigma 96. Perciò, a quanto mi sembra, se con la parola "specchio" volle significare l’immagine, con la parola "enigma", sebbene abbia voluto significare una "somiglianza", ha voluto tuttavia significare una somiglianza oscura e difficile da attingere. Se dunque si può intendere che con le parole "specchio" ed "enigma" l’Apostolo ha voluto significare qualunque somiglianza adatta a farci comprendere Dio, nella misura in cui è possibile, tuttavia niente è più adatto di ciò che, non senza fondamento, è chiamato immagine di Dio. Nessuno si meravigli dunque - dato il modo di vedere che ci è concesso durante questa vita, cioè attraverso uno specchio e in enigma - dello sforzo che dobbiamo fare per vedere in qualche modo. Perché se fosse facile vedere, non si incontrerebbe in questo passo la parola "enigma". E l’enigma è ancora più grande per questo: che non vediamo ciò che non possiamo non vedere. Infatti chi non vede il suo pensiero? E chi vede il suo pensiero, non dico con gli occhi della carne, ma con lo sguardo interiore? Chi non lo vede e chi lo vede? Perché il pensiero è una specie di visione dell’anima, sia che siano presenti gli oggetti che anche gli occhi del corpo possono vedere o gli altri sensi possono percepire, sia che tali oggetti siano assenti e con il pensiero si vedano le loro immagini; sia che non venga pensato nulla di questo, ma si pensino cose che non sono corporee, né sono immagini di cose corporee, così si pensano le virtù e i vizi e lo stesso pensiero pensa se stesso; sia che si pensino le conoscenze trasmesse dalle scienze e dalle arti liberali; sia che si pensino le cause superiori di tutte queste cose o le loro ragioni nella natura immutabile; sia che si pensino cose cattive, futili e false, sia che non vi consenta il senso, sia che erri il consenso.
Il verbo dello spirito specchio ed enigma del Verbo divino
10. 17. Ma parliamo ora di queste cose già conosciute alle quali pensiamo e che restano nella nostra conoscenza anche quando non le pensiamo, sia che si tratti di cose che appartengono alla scienza contemplativa, che si deve chiamare propriamente sapienza, sia che appartengano alla scienza attiva, che si deve chiamare propriamente scienza, come ho spiegato. L’una e l’altra insieme appartengono infatti allo stesso spirito e costituiscono una sola immagine di Dio. Se si tratta in modo più speciale ed esclusivamente di quella che è inferiore, non bisogna allora dire che è immagine di Dio, sebbene anche allora vi si possa trovare qualche somiglianza della Trinità, come ho mostrato nel libro tredicesimo 97. Ora dunque noi parliamo della scienza dell’uomo considerata in tutta la sua estensione, scienza nella quale conosciamo tutte le cose che conosciamo; cose vere di certo, altrimenti non le conosceremmo. Infatti nessuno conosce le cose false, se non quando sa che sono false e, se conosce ciò, conosce il vero, perché è vero che quelle cose sono false. Ora discutiamo dunque delle cose conosciute alle quali pensiamo e che conosciamo, anche se non le pensiamo. Ma non c’è dubbio che, se vogliamo esprimerle, non lo possiamo fare che se le pensiamo. Infatti, sebbene non vi sia il suono delle parole, sempre parla nel suo cuore colui che pensa. Per questo vi è la seguente espressione nel libro della Sapienza: Dissero nel loro interno pensando male 98. Il senso delle parole: Dissero nel loro interno è spiegato dalla parola pensando. Vi è nel Vangelo un testo analogo; vi si narra che alcuni Scribi udendo il Signore dire al paralitico: Confida, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati; dissero dentro di sé: Costui bestemmia 99. Che significa infatti: Dissero dentro di sé, se non "dissero pensando"? Infine il testo continua: Ma Gesù, conosciuti i loro pensieri, disse: Perché pensate il male nei vostri cuori? 100. Così Matteo. Ma Luca racconta lo stesso avvenimento in questi termini: Gli Scribi e i Farisei incominciarono a pensare, dicendo: Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere i peccati se non Iddio solo? Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, rispose loro dicendo: Che pensate nei vostri cuori? 101. Come nel Libro della Sapienza c’è: Dissero pensando, qui c’è: Pensarono dicendo. L’uno e l’altro testo mostrano che parlare dentro di sé e nel proprio cuore equivale a parlare pensando. I Farisei hanno parlato dentro di sé, e il Signore ha detto loro: Che pensate? Allo stesso modo, a proposito di quel ricco, i cui campi avevano prodotto frutti copiosi, il Signore dice: E pensava dentro di sé, dicendo 102.
10. 18. I pensieri dunque sono una specie di linguaggio del cuore, nel quale il Signore ci mostra che esiste una bocca, quando dice: Non ciò che entra nella bocca contamina l’uomo, ma ciò che esce dalla bocca, questo contamina l’uomo 103. In una sola frase il Signore parla in qualche modo di due bocche dell’uomo: una del corpo, una del cuore. Perché è evidente che secondo l’opinione dei Giudei, ciò che contamina l’uomo entra per la bocca del corpo, mentre, secondo l’affermazione del Signore, ciò che contamina l’uomo esce dalla bocca del cuore 104. Così infatti egli stesso ha spiegato le sue parole. Perché poco dopo su questo argomento dice ai suoi discepoli: Siete ancora, anche voi, senza intelligenza? Non capite che quanto entra per la bocca, passa nel ventre e finisce in una fogna? 105.In questo passo si parla, in maniera assai evidente, della bocca del corpo. Ma nel passo che segue allude alla bocca del cuore, quando dice: Ma quel che esce dalla bocca viene dal cuore, ed è questo che contamina l’uomo, perché dal cuore vengono i cattivi pensieri 106. Che cosa si può pretendere di più chiaro di questa spiegazione? Tuttavia quando diciamo che i pensieri sono le parole del cuore, non neghiamo per questo che siano anche visioni scaturite dalla visione della conoscenza implicita (notitia), almeno quando sono vere. Infatti, quando queste cose si producono al di fuori per mezzo del corpo, una cosa è la parola, altra la visione, ma all’interno quando pensiamo sono tutte e due una cosa sola. Proprio come l’atto di vedere e di udire sono due cose distinte nei sensi del corpo, mentre nell’anima udire e vedere non sono cose diverse; e per questo, mentre la parola esteriore non si vede, ma invece si sente, al contrario le parole interiori, cioè i pensieri, sono state viste, non udite dal Signore, come ci dice il santo Vangelo. Il testo afferma: Dissero dentro di sé: Costui bestemmia, e poi aggiunge: E Gesù, vedendo i loro pensieri 107. Dunque egli vide ciò che essi dissero. Infatti vide con il suo pensiero i loro pensieri che ritenevano di essere i soli a vedere.
Il verbo che diciamo nel cuore quando pensiamo il vero non appartiene a nessuna lingua
10. 19. Chiunque perciò può comprendere che cosa sia il verbo, non soltanto prima che risuoni al di fuori, ma anche prima che il pensiero si occupi delle immagini dei suoni (questo verbo infatti non appartiene ad alcuna lingua, a nessuna di quelle che chiamano "lingue delle genti", tra le quali c’è anche la nostra lingua latina); chiunque, dico, può comprendere che cosa sia il verbo, può già vedere, per mezzo di questo specchio ed in questo enigma 108 una certa somiglianza di quel Verbo di cui è detto: In principio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio 109. Infatti quando diciamo il vero, cioè ciò che sappiamo, è necessario che nasca dalla scienza che conserviamo nella nostra memoria un verbo che sia pienamente della stessa specie della scienza da cui è nato. Il pensiero che si è formato a partire da ciò che già sappiamo è il verbo che pronunciamo nel cuore: verbo che non è né greco, né latino, che non appartiene ad alcun’altra lingua; ma quando c’è bisogno di portarlo a conoscenza di coloro ai quali parliamo, si fa ricorso a qualche segno che lo esprima. Tale segno è nella maggior parte dei casi un suono, talvolta è un gesto; il primo si dirige agli orecchi, il secondo agli occhi, affinché per mezzo dei segni corporei venga fatto conoscere anche ai sensi corporei il verbo che portiamo nello spirito. Perché anche il fare un gesto, che altro è se non parlare, in qualche modo, visibilmente? Nelle Sacre Scritture si trova una prova di questa affermazione; infatti nel Vangelo secondo Giovanni si legge: In verità, in verità vi dico, uno di voi mi tradirà. I discepoli allora si guardarono l’un l’altro, non sapendo a chi volesse alludere. Ma uno dei suoi discepoli, quello da Gesù prediletto, stava appoggiato presso il petto di lui. A questo fece cenno Simon Pietro e gli disse: chi è quello di cui parla? 110. Ecco, Pietro esprime con un gesto ciò che non osa dire con le parole. Ma questi segni corporei ed altri di questo genere sono diretti agli orecchi o agli occhi dei presenti con i quali parliamo. La Scrittura invece è stata inventata anche per permetterci di comunicare con gli assenti, ma le lettere scritte sono segni delle parole, mentre le parole nella nostra conversazione sono segni delle cose che pensiamo 111.
Somiglianza del Verbo divino al nostro verbo interiore, in cui però esiste sempre una dissomiglianza profonda col Verbo di Dio
11. 20. Perciò il verbo che risuona al di fuori è segno del verbo che risplende all’interno e che, più di ogni altro, merita tale nome di verbo. Perché ciò che pronunciamo materialmente con la bocca è voce del verbo e si chiama anch’esso verbo in quanto serve al verbo interiore per apparire all’esterno. Il nostro verbo infatti si fa in qualche modo voce del corpo servendosene per manifestarsi ai sensi umani, alla stessa maniera che il Verbo di Dio si è fatto carne 112, assumendola per manifestarsi sensibilmente agli uomini 113. E come il nostro verbo si fa voce, senza cambiarsi in cose, così il Verbo di Dio si è fatto carne, ma non si pensi assolutamente che si è mutato in carne. Infatti il nostro verbo si fa voce, e il Verbo di Dio si è fatto carne per assunzione rispettivamente della voce e della carne, non per consunzione di sé nella voce e nella carne. Ecco perché chi desidera trovare una qualche rassomiglianza del Verbo di Dio, somiglianza d’altra parte con molte dissomiglianze, non deve considerare il nostro verbo che risuona agli orecchi, né quando lo proferiamo con la voce, né quando lo pensiamo in silenzio. Perché, anche silenziosamente, si possono pensare i suoni delle parole di tutti gli idiomi, e si possono recitare interiormente dei poemi, senza che si muovano le labbra; non soltanto i ritmi delle sillabe, ma anche le melodie dei canti, benché siano cose corporee ed appartengano a quel senso corporeo che si chiama udito, per mezzo di immagini corporee che li rappresentano sono presenti al pensiero di coloro che in silenzio fanno scorrere tutti questi ricordi. Ma bisogna superare tutto ciò per giungere a quel verbo umano che è una specie di somiglianza in cui possiamo vedere un po’, come in enigma 114, il Verbo di Dio, non quel verbo che è stato indirizzato a questo o a quel Profeta di cui si è detto: Il Verbo di Dio si diffondeva e si moltiplicava 115, e del quale è detto ancora: Dunque la fede dipende dall’ascolto, e l’ascolto dalla parola di Dio 116; o infine: Perché accogliendo da noi il verbo che Dio vi ha fatto udire, voi lo riceveste non come verbo di uomini, ma, com’è in realtà, verbo di Dio 117. E nella Scrittura vi sono innumerevoli testimonianze che parlano di quel verbo di Dio che, per mezzo dei suoni appartenenti a molte e varie lingue, si diffonde nei cuori e sulle labbra degli uomini. Si parla in questo caso di verbo di Dio, perché ci presenta un insegnamento divino e non umano. Ma il Verbo di Dio che noi cerchiamo di vedere ora in qualche modo attraverso questa somiglianza è quello di cui è detto: Il Verbo era Dio 118; del quale è detto: Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui 119; di cui è detto: E il Verbo si è fatto carne 120; di cui è detto: La fonte della sapienza è il Verbo di Dio nei luoghi eccelsi 121. Dobbiamo giungere dunque a quel verbo dell’uomo 122, a quel verbo di un essere dotato di anima razionale 123, a quel verbo dell’immagine di Dio - immagine non nata da Dio, ma creata da Dio 124 -, verbo che non è nemmeno proferito in un suono né pensato alla maniera di un suono - ché allora dovrebbe appartenere a qualche lingua -, ma che è anteriore a tutti i segni in cui viene espresso ed è generato dalla scienza immanente all’anima, quando questa stessa scienza si esprime in una parola interiore tale quale è. Infatti la visione del pensiero è in tutto simile alla visione della scienza. Perché questa scienza, quando viene espressa attraverso un suono o qualche segno corporeo, non viene espressa com’è, ma come può essere vista o udita dal corpo. Ma quando ciò che è nel verbo riproduce esattamente ciò che è nella conoscenza implicita (notitia), è allora che c’è un verbo vero e c’è la verità quale l’uomo la desidera; che cioè quanto c’è nella conoscenza ci sia anche nel verbo, che ciò che non è nella conoscenza non sia nemmeno nel verbo. Si riconosce qui quel Sì, sì; no, no 125. Così la somiglianza dell’immagine creata si approssima, per quanto è possibile, alla somiglianza dell’immagine generata, quella per la quale si afferma che Dio Figlio è simile sostanzialmente in tutto al Padre. Bisogna rilevare in questo enigma anche un’altra somiglianza con il Verbo di Dio. Come è detto di quel Verbo: Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui 126, testo in cui è affermato che Dio ha fatto tutto per mezzo del Verbo suo unigenito, così l’uomo non fa nulla che prima non dica nel suo cuore; per questo è scritto: Il verbo è l’inizio di ogni opera 127. Ma anche qui, quando il verbo è vero, allora è l’inizio di un’opera buona. Ora il verbo è vero, quando è generato dalla scienza del bene operare, cosicché anche là sia rispettato il: Sì, sì; no, no 128. Se la scienza che regola la vita pronuncia sì, questo sì sia anche nel verbo che regola l’azione; e vi sia no, se è no. Altrimenti questo verbo sarà menzogna, non verità, e ciò che ne procederà sarà peccato, non azione retta. Vi è ancora tra il Verbo di Dio e il nostro questa somiglianza. Il nostro verbo può esistere, senza che si traduca in azione, ma non vi può essere azione, se non la preceda il verbo, come il Verbo di Dio ha potuto esistere senza che esistesse alcuna creatura 129, ma nessuna creatura potrebbe esistere se non per opera del Verbo per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose 130. Di conseguenza non Dio Padre, non lo Spirito Santo, non la Trinità stessa, ma il Figlio solo, che è il Verbo di Dio, si è fatto carne 131 (sebbene l’incarnazione sia opera della Trinità), affinché, seguendo ed imitando il nostro verbo il suo esempio, vivessimo nella giustizia, cioè non avessimo sia nella contemplazione sia nell’azione del nostro verbo alcuna menzogna. Senza dubbio verrà un giorno in cui questa immagine attingerà la sua perfezione. È per condurci a questa perfezione che il buon Maestro ci istruisce con la fede cristiana e gli insegnamenti della religione affinché a faccia svelata 132, liberati dal velo della Legge che è come l’adombramento delle cose future 133, contempliamo la gloria di Dio, cioè vedendolo attraverso uno specchio, siamo trasformati nella medesima immagine di gloria in gloria, come per opera dello Spirito di Dio 134, secondo la spiegazione che di queste parole abbiamo già data 135.
11. 21. Quando dunque, con questa trasformazione, questa immagine sarà rinnovata fino a raggiungere la sua perfezione 136, saremo simili a Dio, perché lo vedremo non per mezzo di uno specchio, ma come egli è 137, o come dice l’apostolo Paolo: a faccia a faccia 138. Ma chi può spiegare quanta dissomiglianza c’è ora in questo specchio, in questo enigma 139, in questa imperfetta somiglianza? Mi sforzerò tuttavia con alcuni tratti di rendere avvertibili queste differenze nella misura in cui mi sarà possibile.
Confutazione degli Accademici
12. 21. In primo luogo questa stessa scienza, che informa secondo verità il nostro pensiero, quando diciamo ciò che sappiamo, di che genere è ed in qual misura un uomo, per quanto competente e dotto egli sia, può possederla? Prescindiamo da ciò che nell’anima è apporto dei sensi; in questo campo la realtà è così spesso diversa dall’apparenza che l’insensato, avendo l’anima troppo ingombra di queste false apparenze, si ritiene pieno di buon senso; per questo la filosofia dell’Accademia ha preso vigore fino al punto che, dubitando di tutto, è caduta in una follia più miserevole 140. Prescindendo dunque da ciò che si trova nell’anima come apporto dei sensi, c’è, fra quelle che ci restano, una conoscenza ugualmente certa di quella che abbiamo di vivere? In questo caso non abbiamo timore alcuno che ci accada di essere ingannati da qualche falsa apparenza 141, perché è certo che anche colui che si inganna, vive. Qui non accade come nel caso della vista degli oggetti esterni, in cui l’occhio si può ingannare, come si inganna quando un remo appare spezzato nell’acqua 142, quando una torre sembra muoversi a coloro che navigano 143, e mille altri casi 144 in cui la realtà è differente da ciò che appare, perché questo non si vede con l’occhio della carne. È con una scienza interna che noi sappiamo di vivere, cosicché un filosofo dell’Accademia non può neppure obiettare: "Forse tu dormi senza saperlo, e quello che tu vedi lo vedi in sogno". Chi non sa infatti che le cose viste in sogno sono assai simili alle cose viste in stato di veglia 145? Ma colui che, con scienza certa, sa di vivere, non dice: "So di essere sveglio", ma: "So di vivere", dunque che dorma o che sia sveglio, vive. Si tratta di un sapere che il sonno non può rendere illusorio, perché sia dormire che vedere in sogno sono proprietà di uno che vive. Né contro questa scienza l’Accademico può obiettare: "Forse sei pazzo senza saperlo", perché, è vero che anche le visioni dei folli sono estremamente simili alle visioni dei sani di mente, ma colui che è folle, vive 146. E contro gli Accademici non afferma: "So di non essere pazzo", ma: "So di vivere". Non si può dunque sbagliare, né può mentire colui che dice che sa di vivere. Si possono dunque opporre innumerevoli esempi di errori dei sensi a colui che afferma: "So di vivere", non ne temerà alcuno, perché colui stesso che si inganna, vive. Ma se la scienza umana si limita a queste conoscenze, sarebbero ben poche, a meno che non si moltiplichino in ogni direzione, in modo tale che non soltanto divengano più numerose, ma si estendano all’infinito. Infatti colui che afferma: "So di vivere", afferma di sapere una cosa 147; ma se dice: "So che so di vivere" sa già due cose; il fatto poi che egli sa queste due cose, significa che ne conosce una terza; procedendo così ne può aggiungere una quarta, una quinta, e innumerevoli, se ne è capace. Ma, poiché non può con un’addizione sempre rinnovata di singole unità, né comprendere un numero innumerevole né esprimerlo con una ripetizione indefinita, comprende almeno e dice con assoluta certezza che questa affermazione è vera e che può ripeterla un numero così grande di volte che veramente il numero infinito di essa non si può comprendere, né esprimere. Altrettanto si può affermare quando si tratta delle certezze proprie della volontà. Non sarebbe prenderlo in giro rispondere: "Ti inganni" a qualcuno che dicesse: "Voglio essere felice"? E se egli dice: "So che voglio questo e so di saper questo", può aggiungere una terza certezza alle due prime, cioè che egli sa queste due verità e poi una quarta: che sa di sapere queste due verità e così continuare all’infinito. Così se qualcuno dice: "Non voglio sbagliare", non sarà forse vero che, sia che sbagli, sia che non sbagli, in ogni caso è vero che non vuole sbagliare? Chi avrà l’impudenza di dirgli: "Forse ti inganni"? perché è fuori dubbio che, sebbene si inganni su tutte le altre cose, non si inganna su questa: che non vuole ingannarsi. E se dice che sa questa verità, aumenta il numero delle sue conoscenze, quanto vuole, sino ad ottenere un numero infinito. Infatti colui che dice: "Non voglio ingannarmi e so che non lo voglio e so di sapere questo" può già, sebbene sia difficile esprimerlo, mostrare che vi è là la fonte di un numero infinito. Esistono altri esempi che hanno grande forza contro gli Accademici, che pretendono che l’uomo non possa sapere nulla. Ma bisogna usare moderazione, tanto più che questo non costituisce l’oggetto dell’indagine del presente lavoro. Abbiamo scritto tre libri su questo argomento subito dopo la nostra conversazione. Chi potrà e vorrà leggerli e, avendoli letti, li avrà compresi, non si lascerà scuotere certamente da alcuno dei numerosi argomenti che essi hanno escogitato contro la possibilità di attingere la verità. Ci sono infatti due specie di conoscenze: quelle che l’anima percepisce per mezzo dei sensi del corpo e quelle che essa percepisce da sé: quei filosofi hanno detto molte chiacchiere contro il valore della conoscenza dei sensi, ma alcune conoscenze di cose vere che l’anima percepisce da sé con la più grande certezza (come è quella per cui afferma: "So di vivere" e di cui ho parlato) non hanno potuto in alcun modo revocarle in dubbio. Ma sia lungi da noi il dubitare della verità delle cose che si attingono per mezzo dei sensi del corpo; è per mezzo di essi che abbiamo conosciuto il cielo e la terra e quelle cose che essi contengono e che ci sono note nella misura in cui il nostro ed il loro Creatore ha voluto farcele conoscere. Sia pure lungi da noi il negare la scienza che abbiamo appreso per testimonianza degli altri, altrimenti noi non sappiamo che c’è un Oceano, non sappiamo che ci sono dei territori e delle città che la loro rinomanza ha reso molto celebri, non sappiamo che sono esistiti degli uomini e le loro opere che la lettura degli storici ci fa conoscere; non sappiamo le notizie che ogni giorno ci pervengono da tutte le parti e sono confermate da prove concordanti e costanti; infine non sappiamo dove e da chi siamo nati, perché noi accettiamo tutte queste conoscenze basandoci sulle testimonianze degli altri. Se è dunque il colmo dell’assurdità affermare questo, dobbiamo confessare che non solo i nostri sensi corporei, ma anche quelli degli altri hanno arricchito il nostro sapere di numerose conoscenze.
Differenze tra la nostra scienza e quella divina, tra il nostro verbo e il Verbo divino
12. 22. Dunque tutte queste conoscenze che l’anima umana acquisisce da sé, e per mezzo dei sensi del corpo e per testimonianza degli altri, le tiene riposte nel tesoro della sua memoria; sono esse che generano un verbo vero, quando diciamo ciò che sappiamo, verbo che precede ogni parola che risuona e ogni pensiero della parola che risuona. Allora infatti il verbo è perfettamente simile alla cosa conosciuta da cui nasce e di cui è immagine, perché dalla visione della scienza procede la visione del pensiero, che è un verbo non appartenente a nessuna lingua, verbo vero da una cosa vera, che non possiede niente di proprio ma riceve tutto da quella scienza da cui ha origine. Poco importa il momento in cui colui che dice ciò che sa lo ha appreso; a volte, appena lo apprende, lo dice; l’importante è che il verbo sia vero, cioè che abbia tratto la sua origine da cose conosciute.
13. 22. Ma sarà forse che Dio Padre, dal quale è nato il Verbo, Dio da Dio; forse che dunque Dio Padre, in quella sapienza che è lui stesso per se stesso, ha acquisito alcune conoscenze per mezzo dei sensi del suo corpo, altre da sé? Chi potrebbe dir questo, se pensa Dio non come un animale ragionevole, ma come superiore all’anima razionale 148, per quanto almeno Dio può essere pensato dagli uomini che lo pongono al di sopra di tutti gli animali e di tutte le anime, benché lo vedano solo attraverso uno specchio e in enigma 149, per congettura, non ancora a faccia a faccia, come egli è 150? Forse che Dio Padre queste stesse verità che conosce non per mezzo del corpo, che egli non ha, ma per mezzo di sé, le ha apprese da altri o ha avuto bisogno di messaggeri o di testimoni per conoscerle? No certamente, per sapere tutto ciò che sa, quella perfezione basta a se stessa. Dio ha, è vero, i suoi messaggeri: gli Angeli, ma non tuttavia per annunciargli ciò che non sa, perché non c’è nulla che egli non sappia, ma è per il loro bene che essi prendono consiglio dalla verità di lui nel loro agire; quando si dice che annunciano a Dio certe cose, non è che egli le apprenda da loro, ma sono loro che le apprendono da lui per mezzo del suo Verbo, senza suono corporeo. Annunciano infatti ciò che Dio vuole, inviati da lui a coloro a cui egli vuole, tutto udendo da lui per mezzo del suo Verbo, cioè trovando nella verità di lui ciò che debbono fare; che cosa, a chi, quando debbono annunciare. Infatti anche noi lo preghiamo e tuttavia non gli insegniamo quali siano le nostre necessità. Il Padre vostro, ci dice il suo Verbo, sa che cosa vi sia necessario, prima che voi glielo abbiate chiesto 151. E queste cose non le sa per averle apprese in questo o in quel momento, ma tutti gli avvenimenti futuri e, fra questi avvenimenti, l’oggetto e il momento delle nostre preghiere, l’opportunità di esaudire o no questa o quell’altra preghiera di questo o di quest’altro uomo li ha previsti in anticipo, dall’eternità. Tutte le sue creature, spirituali e corporee, non le conosce perché esistono, ma esistono perché le conosce. Infatti non poteva non conoscere le cose che un giorno avrebbe creato. Dunque è perché le ha conosciute che le ha create, e non è perché le ha create che le ha conosciute. E dopo averle create non le ha conosciute diversamente da come le conosceva prima di crearle: questi esseri nulla infatti hanno aggiunto alla sua sapienza, ma sono venuti all’esistenza come e quando era opportuno, restando immutata la sua sapienza. Così è scritto nell’Ecclesiastico: Prima che fossero create, tutte le cose erano da lui conosciute; lo sono ancora allo stesso modo dopo il loro compimento 152. Alla stessa maniera è detto, non diversamente, sia prima che fossero create, sia dopo il loro compimento, Dio conosce le cose. Assai differente è perciò dalla scienza divina la nostra scienza. In Dio la scienza è identica alla sapienza e la sapienza è identica all’essenza o sostanza. Perché nella mirabile semplicità di quella natura non sono cose diverse essere sapiente ed essere; ma è la stessa cosa essere sapiente ed essere, come lo abbiamo spesso ripetuto nei libri precedenti 153. Invece la nostra scienza in molti campi può essere perduta, ed essere recuperata perché in noi non è la stessa cosa essere, sapere o essere sapiente (sapere), perché noi possiamo essere anche se non sappiamo né gustiamo (sapiamus) ciò che abbiamo appreso da altra fonte. Per questo come la nostra scienza è differente dalla scienza di Dio, così il nostro verbo che nasce dalla nostra scienza è differente da quel Verbo divino che è nato dall’essenza del Padre, che è come se dicessi: "dalla scienza del Padre, dalla sapienza del Padre"; o, in maniera più precisa, "dal Padre che è scienza, dal Padre che è sapienza".
Il Verbo di Dio è in tutto uguale al Padre
14. 23. Il Verbo di Dio Padre è dunque il suo Figlio unigenito, in tutto simile e uguale al Padre, Dio da Dio, luce da luce, sapienza da sapienza, essenza da essenza; egli è assolutamente ciò che è il Padre, ma non è il Padre, perché questo è Figlio, quello Padre. Per questo conosce tutto ciò che conosce il Padre, ma per lui il conoscere viene dal Padre, come l’essere. Infatti in Dio conoscere ed essere sono una sola cosa. E dunque come il conoscere non viene al Padre dal Figlio, così nemmeno gli proviene l’essere. Pertanto è come "dicendo" se stesso che il Padre ha generato il Verbo, in tutto uguale a sé. Egli infatti non "avrebbe detto" interamente e perfettamente se stesso, se ci fosse nel suo Verbo qualcosa di meno o di più di ciò che c’è in lui. È qui che si verifica in modo supremo il sì, sì; no, no 154. E dunque questo Verbo è veramente la verità, perché tutto ciò che c’è in quella scienza dalla quale è stato generato, c’è anche in lui e ciò che non c’è in essa non c’è nemmeno in lui. Ed in questo Verbo non vi può mai essere nulla di falso, perché è immutabilmente ciò che è colui che lo genera. Infatti: Il Figlio non può far nulla da sé, se non ciò che ha veduto fare dal Padre 155. È segno di potenza, il non poter far questo; né è infermità ma fermezza questa, perché la verità non può essere falsa. Dunque il Padre conosce tutto in se stesso, tutto nel Figlio; in se stesso come se stesso, nel suo Figlio come il suo Verbo, che procede da tutto ciò che è lui. Anche il Figlio conosce tutto alla stessa maniera, in se stesso, come ciò che è nato da quanto il Padre conosce in se stesso; nel Padre invece come ciò da cui è nato quello che il Figlio stesso conosce in sé. Il Padre e il Figlio hanno dunque una conoscenza reciproca, ma il primo generando, il secondo nascendo. E tutto ciò che è nella loro scienza, sapienza ed essenza, ciascuno di loro lo vede simultaneamente, non separatamente o isolatamente, come se con il suo sguardo passasse alternativamente da un oggetto all’altro ritornando dal secondo al primo, e poi di nuovo lasciasse questo o quell’altro per fissarsi su questo o su quello, come se non potesse vedere una cosa che cessando di vederne un’altra; ma, come ho detto, vede insieme tutte le cose e non ce n’è alcuna che non sia sempre vista da ciascuno di essi.
Differenze tra il nostro verbo e il Verbo divino. Il nostro verbo non è sempre vero né permanente
14. 24. Per quanto concerne il nostro verbo, quel verbo che non comporta suono né pensiero di un suono, ma è espressione di quella realtà che, vedendola, diciamo interiormente e perciò non appartiene ad alcuna lingua e di conseguenza in questo enigma ha una certa somiglianza con quel Verbo di Dio, Dio egli pure, perché anch’esso nasce dalla nostra scienza, come quello divino è nato dalla scienza del Padre. Per quanto concerne questo nostro verbo, dunque, se vi abbiamo riscontrato una qualche somiglianza con quello divino, non esitiamo affatto a considerare anche fino a che punto ne è dissimile, nella misura in cui ci sarà possibile dirlo.
15. 24. Il nostro verbo nasce forse dalla nostra scienza sola? Non diciamo anche molte cose che non sappiamo? E quando diciamo tali cose non dubitiamo a loro riguardo, ma le diciamo ritenendo che siano vere. Supponiamo che per caso esse siano vere, esse sono vere nelle cose stesse di cui parliamo, ma non lo sono nel nostro verbo, poiché è vero solo quel verbo che è generato da ciò che si sa. Il nostro verbo è perciò falso, in questo caso, non perché vi sia menzogna, ma perché vi è errore. Quando invece dubitiamo, non vi è ancora un verbo concernente la realtà di cui dubitiamo, ma c’è un verbo concernente il dubbio stesso. Infatti, sebbene non sappiamo se sia vero ciò di cui dubitiamo, tuttavia noi sappiamo di dubitare e dunque quando diciamo di dubitare, c’è un verbo vero, perché diciamo ciò che conosciamo. Ora, che pensare del fatto che possiamo anche mentire? Quando mentiamo, è volontariamente e scientemente che abbiamo un verbo falso: in questo caso c’è un verbo vero e concerne il fatto che noi mentiamo perché sappiamo di mentire. E quando confessiamo di aver mentito, diciamo il vero; diciamo infatti ciò che sappiamo 156, perché sappiamo di aver mentito. Ora il Verbo che è Dio, ed è più potente di noi, non può mentire. Perché egli non può fare nulla, se non ciò che ha visto fare dal Padre 157. Egli non parla da se stesso, ma tutto ciò che dice gli viene dal Padre, perché il Padre dice unicamente il suo Verbo 158, ed è un grande potere di questo Verbo il non poter mentire; perché in lui non vi può essere sì e no, ma soltanto sì, sì; no, no 159. Certo non si dovrebbe nemmeno dire verbo, quello che non è vero. Che debba essere così ne convengo volentieri. Ma quando il nostro verbo è vero e merita dunque il nome di verbo, si può dire forse, come si può dire che è visione da visione, scienza da scienza, che è essenza da essenza, come lo si dice per eccellenza e come lo si deve dire per eccellenza del Verbo di Dio 160? No, senza dubbio. Perché questo? Perché per noi essere non è la stessa cosa che conoscere. Infatti conosciamo molte cose che vivono, per dir così, per opera della memoria, muoiono per così dire, a causa dell’oblio; anche quando esse non esistono più nella nostra conoscenza, noi tuttavia continuiamo ad esistere; e quando la nostra scienza abbia abbandonato la nostra anima fino a scomparire completamente da noi, tuttavia noi continuiamo a vivere.
15. 25. Anche le cose che si conoscono in tal modo, che non è possibile dimenticarle, perché ci sono sempre presenti e sono inseparabili dalla natura dell’anima stessa, per esempio il fatto di sapere che viviamo (è questa una conoscenza che resta fino a quando resta l’anima, e, poiché l’anima resta sempre, anch’essa sempre resta); questa conoscenza dunque ed altre simili, se se ne trovano, nelle quali principalmente si ha da riconoscere l’immagine di Dio, sebbene siano sempre conosciute, tuttavia, poiché non sono anche sempre pensate, è difficile vedere come si dica a loro riguardo un verbo eterno, dato che il nostro verbo è detto dal nostro pensiero. Infatti, per l’anima, vivere è una cosa che dura sempre, ed è una cosa che dura sempre il sapere che vive; ma il pensare la sua vita, o il pensare alla conoscenza della sua vita non sono cose che durano sempre, perché dal momento in cui comincerà a pensare a questa o a quest’altra cosa, smetterà di pensare che vive, sebbene non cessi di saperlo. Da ciò consegue che, se l’anima può avere in sé una scienza che dura sempre, e non può durare sempre il pensiero di questa scienza, e d’altra parte il nostro verbo interiore vero non può essere detto che dal nostro pensiero, si deve concludere che Dio solo ha un Verbo che dura sempre e gli è coeterno. A meno che non si debba dire che la possibilità stessa di pensare (perché ciò che si sa, anche quando non viene pensato, è tuttavia suscettibile di venir esplicato in un pensiero che lo riproduce fedelmente) è un verbo che dura sempre come sempre dura la scienza. Ma come può essere verbo, quello che non ha ancora preso forma nella visione del pensiero? Come sarà simile alla scienza dalla quale nasce, se non ne riproduce la forma e se merita già questo nome di verbo solo perché lo si può riprodurre? È come se si dicesse che bisogna già chiamarlo verbo, perché può essere verbo. Ma che cos’è questa cosa che può essere verbo e per questo già merita il nome di verbo? Che è, dico, questo qualcosa di formabile e di non ancora formato, se non un qualcosa del nostro spirito che con una specie di movimento incessante portiamo di qua e di là, quando pensiamo ora questo ora quello a seconda che lo scopriamo o ci si presenta spontaneamente? C’è un verbo vero, quando ciò che, come ho già detto, con una specie di movimento incessante portiamo di qua e di là si fissa su ciò che sappiamo, ne trae la sua forma, prendendone la piena rassomiglianza; cosicché quale una cosa si conosce tale anche si pensi, cioè tale sia detta nel cuore, senza pronunciare parola, senza che si pensi a una parola che senza dubbio appartiene a qualche lingua. Di conseguenza, anche se concludiamo - per non dare l’impressione di fare una questione di parola - che si debba già chiamare verbo quel qualcosa del nostro spirito che può ricevere forma dalla nostra scienza, e ciò, anche prima che abbia preso forma, perché è già, per dir così, formabile, chi non vedrà quanto grande è qui la dissomiglianza con quel Verbo di Dio, che è nella forma di Dio 161, in tal maniera che non è stato prima formabile e poi formato, né può mai essere informe, ma è forma pura e veramente uguale a Colui dal quale ha origine ed al quale essa è mirabilmente coeterna?.
16. 25. Perciò così quello si dice Verbo di Dio, senza che si possa dire pensiero di Dio, affinché non si creda alla presenza in Dio di qualcosa che cambi, e che ora si dia una forma per essere verbo, ora la riceva, la possa perdere e possa in qualche modo passare da una forma all’altra. Aveva infatti buona conoscenza delle parole ed intuito della forza del pensiero quell’egregio scrittore che dice nel suo poema:
rivolge nel suo spirito le varie vicende della guerra 162,
ossia "pensa". Il Figlio di Dio non si chiama dunque pensiero di Dio, ma Verbo di Dio. Poiché il nostro pensiero costituisce il nostro verbo vero, quando termina a ciò che noi conosciamo e da esso prende forma. Perciò il Verbo di Dio deve intendersi senza che vi sia pensiero da parte di Dio, così da essere una forma semplice in se stessa, né informe, né formabile. È vero che anche nelle Scritture sante si parla di pensieri di Dio 163, ma nello stesso senso assolutamente improprio in cui in esse si parla pure di dimenticanza di Dio.
Nemmeno nella visione la differenza tra il nostro verbo e quello di Dio cesserà
16. 26. Se dunque la disuguaglianza da Dio e dal Verbo di Dio è tanta adesso in questo enigma, nel quale tuttavia abbiamo riscontrato qualche somiglianza, dobbiamo dichiarare che anche quando saremo somiglianti a lui e lo vedremo come è 164 (colui che lo ha scritto ha senza dubbio avvertito la disuguaglianza attuale) nemmeno allora saremo uguali a lui per natura. Infatti la natura creata è sempre inferiore alla natura creatrice 165. È vero che allora il nostro verbo non sarà falso, perché non mentiremo né ci inganneremo, forse anche i nostri pensieri non saranno più caratterizzati da quel movimento che li fa andare e ritornare da una cosa all’altra 166, ma attingeremo tutta la nostra scienza con un solo sguardo, contemporaneamente. Tuttavia, anche allorquando sarà, e se pure sarà così, sarà formata la creatura prima formabile, così da possedere la pienezza della forma che doveva raggiungere; essa tuttavia non si dovrà mettere alla pari di quella semplicità divina, dove esiste la forma pura senza nulla di formabile che viene formato o riformato; dove esiste una sostanza per se stessa eterna ed immutabile, né informe né formata.
La carità comune alle tre Persone
17. 27. Abbiamo parlato sufficientemente del Padre e del Figlio, nella misura in cui abbiamo potuto vederli attraverso questo specchio e in questo enigma 167. Ora è tempo di trattare dello Spirito Santo, nella misura in cui Dio ci concederà di vederlo. Questo Spirito Santo, secondo la Sacra Scrittura, non è lo Spirito soltanto del Padre, né soltanto del Figlio, ma di ambedue 168, e perciò fa pensare alla carità comune con la quale si amano vicendevolmente il Padre e il Figlio. Ma la parola di Dio per esercitarci non ci fornisce delle verità esplicite, ma nascoste, che noi dobbiamo tirare fuori dal loro nascondiglio con un più grande studio. La Sacra Scrittura infatti non dice: "lo Spirito Santo è carità"; se lo avesse detto, la questione ne sarebbe stata molto chiarita. Ma essa dice: Dio è carità 169, cosicché non è chiaro - e dunque bisogna indagare - se è Dio Padre che è carità, o Dio Figlio, o Dio Spirito Santo, o Dio Trinità. Non diremo infatti che, se Dio è detto carità, non è perché la carità stessa sia una sostanza che meriti il nome di Dio, ma perché è un dono di Dio, nel senso, per esempio, che il Salmista dice a Dio: Perché tu sei la mia pazienza 170. Queste parole infatti non significano assolutamente che la nostra pazienza è sostanza Dio, ma che la pazienza ci viene da Dio, come lo mostra questo altro testo: Perché la mia pazienza mi viene da lui 171. Che non si tratti della sostanza divina, lo mostra chiaramente il modo di esprimersi delle Scritture. L’espressione: Tu sei la mia pazienza ha la stessa forma dell’espressione: Signore, mia speranza 172, e: Mio Dio, mia misericordia 173, e così molti altri passi simili. Ma non è detto: "Signore, mia carità", o: "Tu sei la mia carità", o: "Dio, mia carità", ma è detto: Dio è carità 174, come è detto: Dio è spirito 175. Chi non comprende questa distinzione, domandi a Dio l’intelligenza, non a noi la spiegazione, perché non possiamo dire nulla di più chiaro.
17. 28. Dio è dunque carità 176. Ma se sia il Padre ad essere carità, se sia il Figlio, se sia lo Spirito Santo, se sia la Trinità stessa - perché la Trinità, anch’essa, non è tre dèi, ma un Dio solo -, ecco ciò che costituisce il problema. Ma già in precedenza in questo libro 177 ho chiarito che la Trinità che è Dio non va concepita alla luce dei tre elementi che abbiamo mostrato nella trinità del nostro spirito, come se nella Trinità il Padre fosse la memoria di tutte e tre le Persone, il Figlio l’intelligenza di tutte e tre, e lo Spirito Santo la carità di tutte e tre, quasi che il Padre non abbia per suo conto né intelligenza né amore, ma il Figlio gli sia intelligenza e lo Spirito Santo gli sia amore, ed egli sia, e per sé e per gli altri, memoria soltanto; quasi che il Figlio non sia per sé né memoria né amore, ma abbia per memoria il Padre e per amore lo Spirito Santo, ed egli sia per sé e per gli altri intelligenza soltanto; ugualmente quasi che lo Spirito Santo non abbia in se stesso né memoria né intelligenza, ma la memoria nel Padre, l’intelligenza nel Figlio, ed egli sia, per sé e per loro, amore soltanto. Al contrario tutte e tre le cose sono possesso naturale di tutte e tre le Persone e di ciascuna Persona. Né queste perfezioni sono diverse nelle Persone divine, come in noi si differenziano tra loro la memoria, l’intelligenza, la dilezione o carità. Sono invece una cosa sola che le vale tutte, come la stessa sapienza. E ciascuna Persona ne è talmente in possesso naturale da essere ciò che possiede, come sostanza immutabile e semplice. Se dunque si sono comprese queste cose e se, per quanto misteri così grandi ci permettono di vedere o di congetturare, si sono manifestate come vere, non so perché non si possa chiamare carità sia il Padre, sia il Figlio, sia lo Spirito Santo, e tutti e tre insieme un’unica carità; così come si chiama sapienza sia il Padre, sia il Figlio, sia lo Spirito Santo, e tutti e tre insieme non tre, ma una sola sapienza. Allo stesso modo infatti il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio, e tutti insieme un solo Dio.
Tuttavia è lo Spirito Santo che riceve in proprio il nome di Carità, come col nome di Sapienza chiamiamo il Verbo
17. 29. E tuttavia non è senza motivo che in questa Trinità si chiama Verbo di Dio solo il Figlio, Dono di Dio lo Spirito Santo solo 178, e Dio Padre quello solo da cui è generato il Verbo e da cui procede primariamente lo Spirito Santo 179. Ho aggiunto "primariamente" perché si legge che lo Spirito Santo procede anche dal Figlio 180. Ma anche questo glielo ha dato il Padre, non dopo che già esisteva senza esserne in possesso, perché quanto ha dato al Verbo unigenito glielo ha dato generandolo. Egli lo ha dunque generato, in modo che il loro Dono comune procedesse anche dal Figlio e che lo Spirito Santo fosse lo spirito di ambedue. Non basta dunque rilevare di passaggio, ma occorre considerare con attenzione questa distinzione nella inseparabile Trinità. È in virtù di essa infatti che il Verbo di Dio è chiamato anche propriamente Sapienza di Dio 181, sebbene siano sapienza anche il Padre e lo Spirito Santo. Se dunque si deve chiamare propriamente Carità una delle tre Persone, a quale questo nome si adatterà meglio che allo Spirito Santo? Però sempre a condizione che in quella semplice e suprema natura non siano due cose distinte la sostanza e la carità, ma la sostanza stessa si identifichi con la carità e la carità stessa con la sostanza sia del Padre, sia del Figlio, sia dello Spirito Santo, e tuttavia sia lo Spirito ad essere chiamato propriamente Carità.
17. 30. Per fare un esempio, con il nome di Legge si designano talvolta tutti i libri dell’Antico Testamento. Infatti è alla testimonianza del profeta Isaia che l’Apostolo si richiama quando dice: Con altre lingue e con labbra d’altri io parlerò a questo popolo 182, e tuttavia introduce questa citazione con le parole: Sta scritto nella Legge 183. E lo stesso Signore ha detto: Sta scritto nella loro Legge: mi odieranno senza ragione 184, e questo testo si trova nei Salmi 185. Talvolta invece è chiamata Legge in senso proprio quella che è stata data a Mosè 186, nel senso in cui è detto: La Legge ed i Profeti fino a Giovanni 187, o ancora: Da questi due precetti dipendono tutta la Legge ed i Profeti 188. In questi passi si tratta della Legge presa in senso proprio, della Legge data sul monte Sinai. D’altra parte con il nome di Profeti sono designati anche i Salmi; e tuttavia in un altro passo lo stesso Signore dice: Bisognava che si adempisse tutto ciò che sta scritto nella Legge, nei Profeti e nei Salmi a mio riguardo 189. Qui, quando parla di Profeti, il Signore esclude i Salmi. Il nome di Legge, presa in senso generico, include i Profeti e i Salmi, ma si usa anche in senso proprio e designa allora la Legge che è stata data per mezzo di Mosè 190. Così il nome di "Profeti", nel senso largo del termine, include i Salmi, in senso proprio li esclude. Si potrebbe provare con molti altri esempi che molte parole si usano talvolta in senso generico, talvolta si applicano in senso proprio a realtà determinate, ma la cosa è troppo chiara perché ci sia bisogno di un lungo discorso. Se ho dato questa spiegazione è perché non vi sia qualcuno che pensi che ho torto di chiamare Carità lo Spirito Santo, per il fatto che anche Dio Padre e Dio Figlio si possono chiamare carità.
Per opera sua è diffusa nei nostri cuori la carità di Dio
17. 31. Come dunque il Verbo unico di Dio riceve in proprio il nome di Sapienza 191, benché, quando il termine è preso in senso generico, anche lo Spirito Santo e il Padre siano sapienza, così lo Spirito Santo riceve in proprio il nome di Carità, benché quando il termine è preso in senso generico, anche il Padre e il Figlio siano carità. Ma il Verbo di Dio, cioè il Figlio unigenito di Dio, è chiamato esplicitamente sapienza di Dio per bocca dell’Apostolo, quando dice: Cristo forza di Dio e sapienza di Dio 192, mentre per trovare un passo in cui lo Spirito Santo sia chiamato Carità, bisogna scrutare attentamente gli scritti di Giovanni. Questi, dopo queste parole: Carissimi, amiamoci a vicenda, perché l’amore procede da Dio, aggiunge subito: e ognuno che ama è nato da Dio; colui che non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore 193. È chiaro che qui chiama Dio l’amore che prima afferma procedere da Dio. L’amore è dunque Dio da Dio. Ma poiché il Figlio è nato da Dio Padre e lo Spirito Santo procede da Dio Padre 194 è legittimo chiedersi a quale fra i due bisogna, di preferenza, applicare queste parole: "Dio è amore". Solo il Padre infatti è Dio senza essere Dio da Dio, di conseguenza l’amore che in tanto è Dio in quanto procede da Dio è o il Figlio o lo Spirito Santo. Ma nel seguito del testo Giovanni, dopo aver parlato dell’amore di Dio, non dell’amore con cui noi amiamo Dio, ma di quello con cui egli stesso ci ha amato ed ha inviato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati 195 ed averne approfittato per esortarci ad amarci l’un l’altro affinché Dio abiti in noi, poiché aveva definito Dio come amore, volendo spiegare più chiaramente questo punto aggiunge subito: Da questo conosciamo che noi siamo in lui ed egli è in noi, perché ci ha dato del suo Spirito 196. È dunque lo Spirito Santo, del quale egli ci ha dato, che fa sì che noi restiamo in Dio e lui in noi: ora questo è opera dell’amore. È dunque lo Spirito Santo il Dio amore. Infine poco dopo, avendo ripetuto che Dio è amore, aggiunge subito: E colui che è nell’amore è in Dio, e Dio in lui 197, presenza mutua di cui prima aveva detto: Sappiamo che noi siamo in lui e lui in noi, perché ci ha dato del suo Spirito 198. È dunque lo Spirito che è designato in questa affermazione: Dio è amore 199. Ecco perché lo Spirito Santo, Dio che procede da Dio, una volta dato all’uomo, l’accende d’amore per Dio e per il suo prossimo, essendo lui stesso amore 200. L’uomo infatti non riceve se non da Dio l’amore per amare Dio. Per questo poco dopo afferma: Noi dobbiamo amarlo, perché egli per primo ci ha amati 201. Anche l’apostolo Paolo dice: La carità di Dio è stata diffusa nel nostri cuori, mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato 202.
Lo Spirito Santo è dono di Dio
18. 32. Non c’è dunque dono di Dio più eccellente della carità 203; è il solo che distingue i figli del regno eterno dai figli della perdizione eterna 204. Ci sono dati altri doni mediante lo Spirito Santo 205, ma senza la carità non servono a nulla 206. Perciò chiunque non abbia ricevuto lo Spirito Santo in tal misura da renderlo innamorato di Dio e del prossimo, non passa dalla parte sinistra alla destra 207. E lo Spirito non è chiamato propriamente dono che a motivo dell’amore; chi non lo possiederà, anche se parlerà le lingue degli uomini e degli Angeli non è che un bronzo sonoro, un cembalo squillante; avesse pure la profezia, conoscesse i misteri tutti e tutta la scienza e possedesse la pienezza della fede al punto di trasportare le montagne, non è nulla; distribuisse pure tutti i suoi beni e desse il suo corpo a bruciare, a nulla gli giova. Che grande bene è dunque quello senza il quale dei beni così grandi non possono condurre nessuno alla vita eterna? Ma, se colui che non parla le lingue, non conosce tutti i misteri, e tutta la scienza, non distribuisce tutti i suoi beni ai poveri - sia che non ne abbia da distribuire, sia che il bisogno gli impedisca di farlo -, non dà il suo corpo alle fiamme, perché gli manca l’occasione di soffrire tale martirio, possiede la dilezione o carità (infatti i due nomi designano una sola cosa), essa lo conduce al regno, dato che solo la carità può fare in modo che la fede stessa sia utile. Senza dubbio, senza la carità la fede può esistere, ma non essere utile. Per questo anche l’apostolo Paolo dice: Perché in Cristo Gesù non ha valore né la circoncisione né l’incirconcisione, ma solo la fede operante per la carità 208, distinguendo così questa fede da quella con la quale credono e tremano i demoni 209. L’amore che è da Dio e che è Dio è dunque propriamente lo Spirito Santo, mediante il quale viene diffusa nei nostri cuori la carità di Dio, facendo sì che la Trinità intera abiti in noi 210. Per questo motivo lo Spirito Santo, essendo Dio, è chiamato nello stesso tempo molto giustamente anche Dono di Dio 211. Tale Dono che cosa deve designare propriamente se non la carità, che conduce a Dio e senza la quale qualsiasi altro dono di Dio non conduce a Dio?
Si dimostra dalla Scrittura che lo Spirito Santo è il Dono di Dio
19. 33. Dobbiamo provare anche che lo Spirito Santo è chiamato Dono di Dio nelle Sacre Scritture? Se si desidera tale prova, la troviamo nel Vangelo di Giovanni che riferisce queste parole del Signore Gesù: Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Dall’intimo di chi crede in me, come dice la Scrittura, scaturiranno fiumi d’acqua viva 212. L’Evangelista aggiunge poi subito: Disse questo dello Spirito che avrebbero ricevuto quelli che avessero creduto in lui 213. Per questo anche l’apostolo Paolo dice: Tutti siamo stati dissetati con un solo Spirito 214. Ma qui è chiamata dono di Dio quest’acqua, che è lo Spirito Santo? Ecco ciò che è in questione. Ma come troviamo che in questo passo quest’acqua è chiamata Spirito Santo, così in un altro passo dello stesso Vangelo troviamo che quest’acqua è chiamata dono di Dio 215. Infatti nella conversazione che ebbe presso il pozzo con la Samaritana lo stesso Signore le aveva detto Dammi da bere 216; avendogli essa risposto che i Giudei non andavano d’accordo con i Samaritani, Gesù le rispose: Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: dammi da bere, forse tu stessa ne avresti chiesto a lui e ti avrebbe dato dell’acqua viva. La donna gli rispose: Signore, non hai un recipiente per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua viva? 217, ecc. Gesù le rispose: Chi berrà di questa acqua tornerà ad avere sete; chi invece berrà l’acqua che gli darò io non avrà più sete in eterno, ma l’acqua che gli darò io diventerà in lui sorgente d’acqua zampillante, fino alla vita eterna 218. Poiché quest’acqua viva, come spiega l’Evangelista 219, è lo Spirito Santo, non c’è dubbio che lo Spirito Santo è il Dono di Dio 220, di cui il Signore dice qui: Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere, forse tu stessa ne avresti chiesto a lui e ti avrebbe dato dell’acqua viva 221. Perché ciò che dice: Dal suo intimo scaturiranno fiumi di acqua viva 222; equivale a queste parole: Diventerà in lui sorgente di acqua zampillante fino alla vita eterna 223.
19. 34. Anche l’apostolo Paolo dice: A ciascuno di noi è data la grazia secondo la misura del dono di Cristo 224, e per far vedere che questo dono di Cristo è lo Spirito Santo, aggiunge subito: Perciò dice: Ascendendo in alto ha condotta schiava la schiavitù, dette doni agli uomini 225. Ora tutti sanno assai bene che il Signore Gesù, una volta asceso al cielo, dopo la risurrezione dai morti, ha dato lo Spirito Santo, e che, riempiti di questo Spirito, i credenti si misero a parlare nelle lingue di tutti i popoli. Né deve far difficoltà il fatto che abbia detto doni 226 e non dono, perché ciò facendo si richiama alla testimonianza del Salmo in cui si legge: Tu sei salito in alto, hai condotto con te i prigionieri, hai ricevuti doni negli uomini 227. Tale è infatti la lezione di molti codici, in particolare di quelli greci, ed è proprio la traduzione dall’ebraico. "Doni" dice dunque l’Apostolo, con il Profeta, non "dono". Ma mentre il Profeta dice: hai ricevuto doni negli uomini 228, l’Apostolo ha preferito dire: Egli ha dato doni agli uomini 229; affinché questi due testi, l’uno profetico, l’altro apostolico, ma fondati ambedue sull’autorità della parola divina, rendano il senso in tutta la sua pienezza. Tutte e due le cose infatti sono vere, perché ha dato agli uomini e perché ha ricevuto negli uomini. Egli ha dato agli uomini come il capo ai suoi membri, ma egli ha anche ricevuto negli uomini, cioè nei suoi membri, membri per i quali ha gridato dal cielo: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? 230 e dei quali dice: Ogni volta che l’avete fatto al più piccolo dei miei, è a me che l’avete fatto 231. Lo stesso Cristo ha dunque nello stesso tempo dato dal cielo e ricevuto in terra. Ora tutti e due, il Profeta e l’Apostolo, hanno parlato di doni al plurale, perché ad opera di questo dono, che è lo Spirito Santo, dato in comune a tutti i membri di Cristo, è distribuita una moltitudine di doni propri a ciascuno. Infatti ciascuno non possiede tutti i doni, ma gli uni questi, gli altri quelli, benché quello stesso dono dal quale sono distribuiti a ciascuno i propri, lo abbiamo tutti, cioè lo Spirito Santo 232. Infine in un altro passo l’apostolo Paolo, dopo aver enumerato una moltitudine di doni, aggiunge: Ora tutte queste cose le compie un solo e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno in particolare come vuole 233. Espressione che si trova anche nella Epistola agli Ebrei, dove è scritto: Mentre Dio confermava la loro testimonianza con segni e prodigi e ogni sorta di miracoli e con le distribuzioni dello Spirito Santo 234. Lo stesso Apostolo dopo aver detto qui: Ascendendo in alto condusse schiava la schiavitù, dette doni agli uomini, aggiunse: ma "ascese" che cosa vuol dire se non che egli è anche disceso nelle regioni inferiori della terra? Colui che è disceso è quel medesimo che è asceso sopra tutti i cieli per riempire tutto. Ed egli diede ad alcuni di essere Apostoli, ad altri Profeti, ad altri Evangelisti, ad altri pastori e docenti 235. Ecco perché ha parlato di doni al plurale, perché come dice in un altro passo: Forse che tutti sono Apostoli? Forse che tutti sono Profeti? 236. Ma qui aggiunge: Per il perfezionamento dei santi, nell’opera del ministero per l’edificazione del corpo di Cristo 237. È questa la casa che, come canta il Salmo, è costruita dopo la cattività 238, perché è unendo insieme quanti vengono strappati al diavolo che li teneva schiavi, che si edifica il corpo di Cristo, che è la casa chiamata Chiesa 239. Ora questa schiavitù l’ha condotta schiava 240 Colui che ha vinto il demonio. È per impedire che il demonio trascinasse con sé all’eterno supplizio coloro che dovevano diventare le membra di questo santo capo, che Cristo ha incatenato il demonio prima con le catene della giustizia, poi con le catene della potenza. Ecco perché il demonio è chiamato schiavitù, schiavitù che ha condotto schiavo colui che è asceso in alto e ha dato doni agli uomini 241, o ha ricevuto doni negli uomini.
19. 35. L’apostolo Pietro, come si legge in quel libro canonico in cui sono narrati gli Atti degli Apostoli, mentre parlava di Cristo, avendogli detto i Giudei, profondamente commossi nel loro cuore: Fratelli, che cosa dobbiamo fare? Spiegatecelo; rispose loro: Fate penitenza e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo in remissione dei peccati e riceverete il dono dello Spirito Santo 242. Nello stesso libro si legge anche che Simon Mago volle dare del denaro agli Apostoli per ricevere da loro il potere di dare lo Spirito Santo con l’imposizione delle mani 243. Ma lo stesso Pietro gli disse: Va’ in perdizione tu e il tuo denaro, perché hai creduto che il dono di Dio si potesse acquistare col denaro 244. Ed in un altro passo dello stesso libro, in cui è narrato che Pietro annunciava e predicava Cristo a Cornelio e a coloro che erano con lui, la Scrittura dice: Non aveva ancora Pietro finito di pronunciare queste parole che lo Spirito Santo discese sopra tutti quelli che ascoltavano la parola. Tutti i fedeli circoncisi, venuti con Pietro, rimasero meravigliati nel vedere come il dono dello Spirito Santo fosse pure diffuso sopra i gentili. Li sentivano infatti parlare le lingue e glorificare Dio 245. Giustificandosi poi del fatto che aveva battezzato degli incirconcisi - perché lo Spirito Santo, per sciogliere il nodo della questione, era disceso su costoro prima che venissero battezzati - presso i fratelli di Gerusalemme che la notizia aveva sconcertato, terminò con queste parole: Quando ebbi cominciato a parlare loro, lo Spirito Santo discese su di loro, come all’inizio era disceso su di noi. Mi sono ricordato allora di questa parola del Signore: "Giovanni ha battezzato nell’acqua, ma voi sarete battezzati nello Spirito Santo". Se dunque Dio ha concesso loro il medesimo dono che a noi, che abbiamo creduto nel Signore Gesù Cristo, io chi ero da poter impedire a Dio di dar loro lo Spirito Santo? 246. E ci sono molti altri passi della Scrittura che concordano nel testimoniare che lo Spirito Santo è il Dono di Dio 247, in quanto è dato a coloro che per mezzo di lui amano Dio. Ma sarebbe troppo lungo enumerarli tutti. E d’altra parte quale potrebbe bastare a coloro ai quali non bastano quelli che abbiamo citato?
19. 36. D’altra parte, poiché essi vedono almeno che lo Spirito Santo è stato chiamato Dono di Dio bisogna far loro rilevare che le parole: Dono dello Spirito Santo 248 è un’espressione dello stesso genere di quella: Con la spogliazione del corpo di carne 249. Infatti come il corpo di carne non è altro che la carne, così il Dono dello Spirito Santo non è altro che lo Spirito Santo. Egli è dunque Dono di Dio, in quanto è dato a coloro ai quali è dato. Ma in se stesso egli è Dio, anche nel caso che non sia dato ad alcuno, perché era Dio coeterno al Padre e al Figlio prima di essere dato a chiunque. E sebbene essi lo diano ed egli sia dato, non è per questo a loro inferiore. Infatti egli è dato come Dono di Dio in modo tale che è anche lui, in quanto Dio, a darsi. Perché non si può dire che non sia padrone di se stesso Colui di cui è detto: Lo Spirito soffia dove vuole 250, o ancora nel passo dell’Apostolo già citato 251: Ma è un solo e medesimo Spirito che produce tutti questi doni, distribuendoli a ciascuno come gli piace 252. Non esiste qui dipendenza per colui che è dato, superiorità per coloro che danno, ma intesa perfetta tra colui che è dato e coloro che danno.
Lo Spirito Santo ineffabile comunione del Padre e del Figlio
19. 37. Perciò, se la Sacra Scrittura proclama: Dio è carità 253, e se, d’altra parte, la carità viene da Dio e la sua azione all’interno di noi fa sì che noi siamo in Dio e Dio in noi, e infine questa presenza testimonia che Dio ci ha dato del suo Spirito, ne consegue che lo stesso Spirito è il Dio carità 254. Inoltre, se fra i doni di Dio nessuno è più grande della carità e d’altra parte non c’è dono di Dio più grande dello Spirito Santo, che c’è di più conseguente che concludere che è lui stesso la Carità che è chiamata Dio ed è detta procedere da Dio? E, se la carità con cui il Padre ama il Figlio e il Figlio ama il Padre ci rivela l’ineffabile comunione dell’uno con l’altro, che c’è di più conseguente che concludere che conviene in proprio il nome di Carità a Colui che è lo Spirito comune all’uno e all’altro? Infatti è più giusto credere e comprendere che non solo lo Spirito è carità nella Trinità, ma anche che non è senza fondamento che gli si attribuisce in proprio il nome di Carità, per i motivi che abbiamo spiegato. Allo stesso modo che non è il solo in quella Trinità ad essere Spirito, ad essere santo, perché anche il Padre è Spirito, anche il Figlio è spirito, anche il Padre è santo, anche il Figlio è santo, cosa di cui non dubita la nostra pietà 255; e tuttavia non è senza fondamento che la terza Persona riceva in proprio il nome di Spirito Santo. In quanto infatti è comune ad ambedue, lo si denomina per quello che ambedue sono ugualmente. Altrimenti se in quella Trinità solo lo Spirito Santo è carità, il Figlio non è soltanto Figlio del Padre, ma anche dello Spirito Santo. Infatti in numerosissimi passi si dice e si legge che il Figlio è il Figlio unigenito del Padre, ma tale affermazione si deve conciliare con l’affermazione dell’Apostolo che dice che Dio Padre ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del Figlio della sua carità 256. L’Apostolo non ha detto "del Figlio suo"; avrebbe potuto dire ciò in tutta verità, e di fatto l’ha detto in tutta verità in molti altri passi; ma ha detto: del Figlio della sua carità. Dunque, se solo lo Spirito Santo è la carità di Dio in quella Trinità, il Figlio è anche Figlio dello Spirito Santo. Ora se questa è un’affermazione completamente assurda, non resta che concludere che non solo lo Spirito Santo nella Trinità è carità, ma per i motivi che ho sufficientemente esposti, egli riceve in proprio il nome di Carità. Per quanto concerne l’espressione: del Figlio della sua carità, essa non significa altra cosa che "del suo Figlio diletto", in conclusione "del Figlio della sua sostanza". Perché la carità del Padre, che esiste nella sua natura ineffabilmente semplice, non è altro che la sua stessa natura e sostanza, come spesso ho detto e come non cesserò di ripetere. Di conseguenza il Figlio della sua carità non è altro che quello che è stato generato dalla sua sostanza.
Confutazione dell’opinione di Eunomio
20. 38. Pertanto sono ridicoli i sofismi di Eunomio, dal quale ha avuto origine la setta eretica degli Eunomiani. Costui, non potendo comprendere e non volendo credere 257 che il Verbo unigenito di Dio, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose è per natura Figlio di Dio, cioè generato dalla sostanza del Padre, affermò che non è il Figlio della natura, della sostanza di lui, o dell’essenza, ma il Figlio della volontà di Dio, intendendo con questo una volontà accidentale esistente in Dio, volontà che sarebbe il principio della generazione del Figlio 258. Senza dubbio questa opinione gli è stata suggerita dalla nostra esperienza, in quanto ci accade di volere ciò che prima non volevamo, come se questo non fosse un segno della mutevolezza della nostra natura, mutevolezza che dobbiamo guardarci bene dal pensare che esista in Dio. Se la Scrittura dice: Molti sono i pensieri del cuore dell’uomo, ma il consiglio di Dio dura in eterno 259, proprio per farci comprendere o credere 260 che, come Dio è eterno, così il suo consiglio è eterno e dunque immutabile, come è lui stesso. Ora ciò che diciamo dei suoi pensieri possiamo ugualmente dire in tutta verità dei suoi voleri. Numerosi sono i voleri nel cuore dell’uomo, ma la volontà di Dio dura in eterno. Alcuni, per non dire che il Verbo unigenito è Figlio del consiglio e della volontà di Dio, hanno affermato che questo Verbo è lo stesso consiglio, la stessa volontà del Padre. Ma è meglio dire, ritengo, che il Verbo è consiglio da consiglio, volontà da volontà, come è sostanza da sostanza, sapienza da sapienza, per evitare così quella opinione assurda, che abbiamo già confutato, secondo la quale il Figlio renderebbe il Padre sapiente e volente, se il Padre non possiede sostanzialmente il consiglio e la volontà. Acuta senza dubbio fu la risposta di un tale ad un eretico che gli domandava assai capziosamente se Dio ha generato il Figlio volendo o non volendo; rispondere che lo fece senza volere significava porre in Dio un limite inconcepibile in lui; rispondere che lo generò volendo, sarebbe stato fare il gioco dell’eretico, che ne avrebbe concluso immediatamente, come con un ragionamento invincibile, che il Verbo è Figlio non della natura, ma della volontà del Padre. Ma quello, con grande presenza di spirito, domandò a sua volta al suo interlocutore se Dio Padre è Dio volendo o non volendo; rispondere che è Dio non volendo, significava porre in Dio una imperfezione che non si può ammettere senza grande follia; rispondere che lo è volendo significava mettere l’altro in condizione di replicare così: "Dunque anche lui è Dio per sua volontà, non per natura" 261. Che restava dunque all’eretico se non tacere e vedersi, con la sua stessa domanda, imprigionato in un legame insolubile? Ma la volontà di Dio, se bisogna attribuirla in proprio a qualche persona della Trinità, è allo Spirito Santo che conviene di più, come la carità. Infatti che altro è la carità se non la volontà?
Riassunto di quanto detto sopra: l’uomo, immagine della Trinità, deve orientare tutto se stesso a ricordare, contemplare, amare la Trinità
20. 39. Vedo che ciò che ho detto in questo libro 262 basandomi sulle Sacre Scritture circa lo Spirito Santo dà ai fedeli una sufficiente istruzione. Essi già sapevano che lo Spirito Santo è Dio 263, che è della stessa sostanza del Padre, che non è inferiore al Padre e al Figlio, verità che ho provato nei libri precedenti basandomi su queste stesse Scritture 264. Inoltre, partendo dalla creatura, opera di Dio, ho cercato, per quanto ho potuto, di condurre coloro che chiedono ragione di tali cose a contemplare con l’intelligenza, per quanto era loro possibile, i segreti di Dio per mezzo delle cose create e ho fatto particolarmente ricorso alla creatura ragionevole e intelligente, che è stata creata ad immagine di Dio 265, per far loro vedere, come in uno specchio, per quanto lo possono e, se lo possono, il Dio Trinità, nella nostra memoria, intelligenza e volontà 266. Chiunque, con una intuizione viva, vede che queste tre potenze, in virtù di una intenzione divina, costituiscono la struttura naturale del suo spirito; percepisce quale cosa grande sia per lo spirito il poter ricordare, vedere, desiderare la natura eterna ed immutabile; la ricorda con la memoria, la contempla con l’intelligenza, l’abbraccia con l’amore, certamente vi scopre l’immagine di quella suprema Trinità. Per ricordare, vedere, amare quella suprema Trinità deve ad essa riferire tutto ciò che vive perché tale Trinità divenga oggetto del suo ricordo, della sua contemplazione e della sua compiacenza. Tuttavia ho mostrato, per quanto mi sembrava necessario, che questa immagine che è opera della stessa Trinità, che è stata deteriorata dalla sua propria colpa, si deve evitare di compararla alla Trinità come se le fosse in tutto simile, ma si deve vedere anche una grande dissomiglianza in questa tenue somiglianza.
L’immagine del Padre e del Figlio nella nostra memoria e intelligenza
21. 40. Ecco Dio Padre e Dio Figlio, il Dio generante che, in qualche modo, "ha detto" nel suo Verbo, che gli è coeterno, tutto ciò che possiede sostanzialmente, e lo stesso Dio Verbo del Padre, che, anch’egli, possiede sostanzialmente né più né meno ciò che è Colui che ha generato non con menzogna ma veracemente il Verbo. Mi sono sforzato di significare questa relazione come ho potuto, non come se vedessimo già queste realtà a faccia a faccia 267, ma per congettura attraverso questa rassomiglianza in enigma, per quanto debole essa sia, che si trova nell’intimo dello spirito nella relazione della memoria e della intelligenza: attribuendo alla memoria tutto ciò che sappiamo, sebbene da questa conoscenza non nasca alcun pensiero, all’intelligenza invece una informazione del pensiero secondo il modo che le è proprio. Infatti quando pensiamo una cosa di cui avremo scoperto la verità, diciamo che ne abbiamo una perfetta intelligenza, poi la lasciamo di nuovo nella memoria. Ma c’è una profondità più segreta della memoria, in cui l’atto del pensiero giunge a farci scoprire ciò che ne è l’elemento primitivo, e in cui è generato il verbo intimo, che non appartiene a nessuna lingua, come un sapere che proviene da un sapere, una visione che proviene da una visione, una intelligenza che si manifesta nel pensiero, intelligenza che proviene da un’intelligenza già presente nella memoria, ma ancora nascosta; ancorché se anche il pensiero stesso non avesse una sua specie di memoria, non ritornerebbe sulla conoscenza che aveva lasciato nella memoria, quando pensava ad altra cosa.
La nostra volontà immagine dello Spirito Santo
21. 41. Invece per quanto riguarda lo Spirito Santo non abbiamo scoperto in questo enigma 268 niente che gli rassomigli se non la volontà, o l’amore o la dilezione, che non è che la volontà in tutta la sua forza; perché la nostra volontà, che fa parte della natura del nostro essere, secondo che è sollecitata o incontra degli oggetti che l’attraggono o la respingono, prova delle affezioni differenti. Che è essa dunque? Diremo forse che la nostra volontà, quando è retta, ignora ciò che deve cercare, ciò che deve evitare? Ma se lo sa, occorre che possieda una certa conoscenza, conoscenza che non potrebbe esistere senza la memoria e la intelligenza. O forse bisogna dare ascolto a chi pretende che la carità ignora ciò che fa, essa che non agisce alla leggera? Dunque, come è immanente l’intelligenza, è immanente anche la dilezione a quella memoria che ne è il principio, in cui si trova presente e nascosto ciò che possiamo raggiungere con l’atto del pensiero; perché prendiamo coscienza che anche queste due potenze sono nella memoria, quando con l’atto del pensiero prendiamo coscienza che comprendiamo qualcosa ed amiamo qualcosa: esse vi esistevano già, anche quando non vi pensavamo. E come è immanente la memoria, così è immanente la dilezione a questa intelligenza che prende forma nell’atto del pensiero: questo verbo vero lo diciamo interiormente, senza ricorrere ad alcuna lingua, quando diciamo ciò che sappiamo; perché senza il ricordo lo sguardo del nostro pensiero non ritornerebbe su una conoscenza, e senza l’amore non si prenderebbe cura di ritornarvi. Così la dilezione, che unisce, in una specie di relazione di paternità e di filiazione, la visione presente nella memoria e la visione del pensiero che prende forma da essa, se non possiede la conoscenza di ciò che deve desiderare, conoscenza che non può esistere senza la memoria e l’intelligenza, non saprebbe ciò che è giusto amare.
Profonda differenza tra la trinità dello spirito e la Trinità divina
22. 42. Quando queste tre potenze si trovano in una sola persona, come è il caso dell’uomo, qualcuno potrebbe dirci: "Queste tre potenze: memoria, intelligenza, amore appartengono a me, non a se stesse; non è per se stesse, ma è per me che compiono ciò che compiono, anzi sono io che agisco per mezzo di esse. Sono io infatti che ricordo con la memoria, che comprendo con l’intelligenza, che amo con l’amore; e quando volgo verso la mia memoria lo sguardo del pensiero e dico così nel mio cuore ciò che so e dalla mia scienza è generato un verbo vero, queste due cose sono mie, sia la conoscenza che il verbo. Infatti sono io che so e che dico nel mio cuore ciò che so. E quando con l’atto del pensiero scopro che nella mia memoria già comprendevo, già amavo qualcosa - intelligenza e amore che già erano nella memoria ancor prima che ne prendessi coscienza con il pensiero -, è la mia intelligenza e il mio amore che scopro nella mia memoria e sono io che comprendo e amo per mezzo di essi, non essi stessi. Così pure, quando il mio pensiero cerca un ricordo e vuole ritornare su ciò che aveva lasciato nella memoria, vederlo con l’intelligenza 269 e dirlo interiormente, è con la mia memoria che ricorda, è con la mia volontà che vuole, non con la sua memoria e con la sua volontà. Anche il mio amore, quando ricorda e comprende ciò che deve desiderare, ciò che deve evitare, ricorda con la mia, non con la sua memoria, e con la mia intelligenza, non con la sua, comprende tutto ciò che ama, comprendendolo". Tutto ciò si può esprimere in breve così: "Per mezzo di tutte queste tre potenze, sono io che ricordo, io che comprendo, io che amo, io che non sono né memoria, né intelligenza né amore, ma che li possiedo". Tutto ciò può dunque essere detto da una sola persona, che possiede queste tre potenze, ma che non è queste tre potenze. Invece in quella natura supremamente semplice, che è Dio, sebbene vi sia un solo Dio, vi sono tuttavia tre Persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Analisi di questa differenza
23. 43. Una cosa è dunque la Trinità nella sua realtà stessa, altra cosa l’immagine della Trinità in una realtà diversa: è proprio a causa di questa immagine che ciò in cui si trovano queste tre potenze è anche chiamato immagine, come si chiama immagine sia la tela che ciò che è dipinto sulla tela, ma è a causa della pittura che la ricopre che è chiamata immagine anche la tela. Ma in quella suprema Trinità, incomparabilmente superiore a tutte le cose, è tanto accentuata l’inseparabilità che, mentre una trinità di persone umane non si può chiamare un solo uomo, essa è detta ed è un solo Dio, e quella Trinità non è in un solo Dio, ma è un solo Dio 270. Ed ancora per quanto riguarda quella Trinità le cose non stanno come nella sua immagine, l’uomo, che sebbene possegga quelle tre potenze è una sola persona; ma vi sono tre Persone: il Padre del Figlio, il Figlio del Padre, lo Spirito Santo del Padre e del Figlio. Sebbene infatti la memoria dell’uomo - e particolarmente quella che non possiedono le bestie, cioè quella che contiene delle realtà intelligibili che non provengono dai sensi del corpo - presenti a suo modo, in questa immagine della Trinità, una somiglianza, incomparabilmente indegna certo, ma tuttavia non del tutto dissimile, del Padre; e così pure, sebbene l’intelligenza dell’uomo che è informata dalla memoria per mezzo dell’attenzione del pensiero, quando si dice ciò che si sa e si produce quel verbo del cuore che non appartiene ad alcuna lingua, presenti, malgrado la sua accentuata differenza, una certa somiglianza del Figlio; e sebbene l’amore dell’uomo, che procede dalla conoscenza e unisce la memoria e l’intelligenza - essendo comune alla potenza che svolge in qualche modo la funzione di padre e a quella che svolge la funzione di figlio, motivo per cui se ne deduce che non è né padre né figlio -, presenti, in questa immagine, una certa somiglianza, benché molto imperfetta, dello Spirito Santo, tuttavia, mentre in questa immagine della Trinità queste tre potenze non sono un solo uomo, ma appartengono ad un solo uomo, in questa suprema Trinità, di cui l’uomo è immagine, queste tre realtà non appartengono ad un solo Dio, ma sono un solo Dio ed esse sono tre Persone, non una sola. Ecco una cosa di certo meravigliosamente ineffabile o ineffabilmente meravigliosa: sebbene in questa immagine della Trinità vi sia una sola persona, invece nella suprema Trinità vi siano tre Persone, è più inseparabile quella Trinità di tre Persone, che questa di una sola. Perché in quella natura della divinità, o per meglio dire della deità, ciò che è, è, e quella divinità è immutabilmente e sempre uguale tra le Persone; non vi fu un tempo in cui non esistette o esistette in modo diverso, né vi sarà un tempo in cui non esisterà o esisterà in modo diverso. Invece le tre potenze che sono nell’immagine imperfetta della Trinità, sebbene non siano separabili nello spazio, perché non sono dei corpi, lo sono tra loro ora in questa vita per grandezza. Infatti in esse non vi è alcuna massa corporea, nondimeno vediamo che in un uomo la memoria è più grande dell’intelligenza, in un altro vediamo il contrario; vediamo in un altro l’amore che sorpassa in grandezza queste due potenze, siano esse tra loro due uguali o non lo siano. E così accade che due di loro siano inferiori ad una sola, una sola alle altre due, o l’una all’altra, le più piccole alle più grandi. E quando, guarite dalla loro debolezza, saranno uguali tra loro, nemmeno allora questa realtà, che per mezzo della grazia è sottratta al mutamento, sarà uguale alla realtà immutabile per natura, perché mai la creatura può eguagliare il Creatore e il fatto stesso di venir guarita dalla sua debolezza sarà per essa un mutamento.
La conoscenza "attraverso uno specchio"
23. 44. Ma questa Trinità, che non è soltanto immateriale, ma anche supremamente inseparabile e veramente immutabile, quando verrà la visione a faccia a faccia che ci è promessa, la vedremo con molta maggiore chiarezza e certezza di quanto ora vediamo la sua immagine che noi siamo. Tuttavia coloro che vedono attraverso questo specchio e in questo enigma 271, come ci è concesso di vedere in questa vita, non sono coloro che percepiscono nel loro spirito queste tre potenze che abbiamo indicato nella nostra analisi, ma coloro che vedono il loro spirito come immagine, in modo da poter riferire ciò che vedono, in qualunque sia maniera, a colui di cui il loro spirito è immagine ed in modo da poter vedere, per congettura per mezzo dell’immagine che vedono contemplandola, Dio, perché non possono ancora vederlo a faccia a faccia. Infatti l’Apostolo non dice: "vediamo ora uno specchio", ma invece: "Vediamo attraverso uno specchio".
24. 44. Coloro dunque che vedono il loro spirito, come è possibile vederlo, ed in esso vedono questa trinità circa la quale ho discusso, come ho potuto, con molte analisi, ma che non credono e non comprendono 272 che essa è l’immagine di Dio, vedono lo specchio, ma tanto poco vedono colui che deve essere ora veduto nello specchio da non sapere nemmeno che lo specchio è uno specchio, ossia l’immagine di lui. Se lo sapessero, forse avvertirebbero che questo Dio di cui lo spirito è lo specchio deve essere cercato attraverso questo specchio, deve essere visto in maniera imperfetta e provvisoria attraverso questo specchio, con una fede sincera 273 che purifica i cuori affinché possano vedere a faccia a faccia Colui che ora vedono attraverso uno specchio 274. Se disprezzano questa fede che purifica i cuori, l’intelligenza che acquisiscono della natura dello spirito umano attraverso queste sottilissime discussioni che altro risultato può conseguire se non la dannazione per testimonianza della loro stessa intelligenza? Non si darebbero tanto da fare in questa ricerca per giungere appena a qualche certezza se non fossero avvolti in queste tenebre che sono un castigo e non fossero onerati dal gravame del corpo corruttibile che pesa sull’anima 275. E perché ci è stato inflitto questo male, se non per il peccato? Per questo, una volta che la loro attenzione è stata richiamata sull’ampiezza di un male così grande, dovrebbero seguire l’Agnello 276 che toglie il peccato del mondo 277.
25. 44. Infatti, per coloro che appartengono a questo Agnello, fossero pure più tardi di ingegno di quelli di cui ho parlato, quando alla fine di questa vita vengono liberati dal corpo, le potenze invidiose perdono il diritto di trattenerli. L’Agnello che da esse è stato ucciso, mentre non doveva pagare alcun debito dovuto al peccato, non le ha volute vincere con la forza della sua potenza prima di vincerle con la giustizia del suo sangue. Perciò, liberi dal potere del diavolo 278, sono ricevuti dagli Angeli santi, liberati da tutti i mali ad opera del Mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù 279; perché tutte le Scritture sono concordi, sia l’Antico che il Nuovo Testamento, l’Antico preannunciando Cristo, il Nuovo annunciandone la venuta, nel dire che non esiste sotto il cielo altro nome per mezzo del quale gli uomini debbono essere salvati 280. Purificati da ogni contagio di corruzione saranno collocati in luoghi tranquilli fino a quando non riprendano i loro corpi, ma corpi ormai incorruttibili, che siano un ornamento, non un peso. Perché è piaciuto al Creatore supremamente buono e sapiente che lo spirito dell’uomo, piamente sottomesso a Dio, possieda beatamente un corpo sottomesso e che la stessa beatitudine duri senza mai finire.
Nella visione vedremo senza più alcuna difficoltà, perché lo Spirito Santo non proceda come generato dal Padre e dal Figlio
25. 45. Là vedremo la verità senza alcuna fatica e ne fruiremo con piena chiarezza e certezza. Non cercheremo più nulla con lo spirito che si serve del raziocinio, ma con lo spirito che si apre alla contemplazione vedremo perché lo Spirito Santo non è il Figlio, benché proceda dal Padre. In quella luce non ci sarà più problema alcuno, ma quaggiù il mio tentativo mi è sembrato presentare tali difficoltà - e così senza alcun dubbio apparirà a coloro che mi leggeranno con intelligenza attenta - che, malgrado la promessa fatta nel secondo libro, di spiegare più avanti questo punto 281, ogni qualvolta nella creatura che siamo noi ho voluto scoprire qualche analogia con quel mistero, la pur piccola comprensione che potevo avere non ha trovato adeguata espressione nelle mie parole; sebbene abbia avuto la sensazione che anche questa mia comprensione sia stata più un tentativo che una riuscita. È vero che ho trovato in una sola persona umana un’immagine di quella suprema Trinità e, per meglio farla comprendere, ho voluto, in particolare nel libro IX, mostrare questi tre termini in una realtà soggetta al mutamento, mostrandoli separati anche da intervalli di tempo 282; ma queste tre potenze appartenenti alla stessa persona non hanno potuto, contrariamente alla nostra attesa umana, corrispondere alle tre Persone divine, come abbiamo dimostrato in questo libro XV.
26. 45. Inoltre in questa suprema Trinità che è Dio non ci sono intervalli di tempo che permettano di mostrare, o almeno di indagare, se prima sia nato il Figlio dal Padre e poi sia avvenuta da ambedue la processione dello Spirito Santo. La Sacra Scrittura ci dice infatti che egli è lo Spirito di ambedue 283. È di lui infatti che l’Apostolo dice: Poiché siete figli di Dio, Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei vostri cuori 284. È pure di lui che il Figlio medesimo dice: Non siete voi che parlate, ma lo Spirito del Padre vostro che parla in voi 285. E molti altri passi delle Sacre Scritture confermano che è del Padre e del Figlio lo Spirito indicato nella Trinità come persona dello Spirito Santo; è di lui che il Figlio medesimo dice ancora: Colui che io vi mando da presso il Padre 286; ed in un altro passo: Colui che il Padre manderà in nome mio 287. Che egli procede da ambedue ce lo insegnano i seguenti passi: il Figlio stesso dice: Egli procede dal Padre 288; e d’altra parte, dopo la sua risurrezione dai morti e la sua apparizione agli Apostoli, alitò su di essi e disse: Ricevete lo Spirito Santo 289, per mostrare che lo Spirito procede anche da lui. È ancora lo Spirito Santo la virtù che usciva da lui, come si legge nel Vangelo, e guariva tutti 290.
Il Signore Gesù diede lo Spirito Santo come Dio e lo ricevette come uomo
26. 46. Per quale motivo, dopo la sua risurrezione, Cristo ha dato una prima volta lo Spirito Santo sulla terra 291 e poi lo ha mandato dal cielo 292? Perché, ritengo, con questo dono viene diffusa nei nostri cuori la carità 293 con la quale amiamo Dio e il prossimo, secondo quei due precetti dai quali dipendono tutta la Legge ed i Profeti 294. Volendo significare ciò, il Signore Gesù ha dato due volte lo Spirito Santo, una volta sulla terra per significare l’amore del prossimo, una seconda volta dal cielo per significare l’amore di Dio. Forse si potrà dare un’altra spiegazione di questa duplice donazione dello Spirito Santo, ma ciò di cui non dobbiamo dubitare è che lo Spirito che è stato dato, quando Gesù alitò sugli Apostoli, è lo stesso di cui si tratta nelle parole che Gesù pronunciò subito dopo: Andate, battezzate le genti nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo 295, testo che è la più espressa rivelazione della Trinità 296. È lui dunque che è stato dato anche dal cielo nel giorno della Pentecoste 297, cioè dieci giorni dopo l’ascensione del Signore. Come dunque non sarebbe Dio Colui che dà lo Spirito Santo? Anzi, che grande Dio è Colui che dà Dio? Nessuno dei suoi discepoli infatti ha dato lo Spirito Santo. Pregavano perché egli venisse in coloro ai quali imponevano le mani, ma non lo davano loro stessi. Questo costume lo osserva ancora oggi la Chiesa nei suoi ministri. Infine anche Simon Mago, offrendo denaro agli Apostoli, non dice: "Date anche a me questo potere" di dare lo Spirito Santo, ma invece: Datemi il potere che ogni uomo al quale imporrò le mani, riceva lo Spirito Santo 298. Perché nemmeno la Scrittura aveva detto prima: "Vedendo Simone che gli Apostoli davano lo Spirito Santo", ma aveva detto: Ora Simone vedendo che lo Spirito Santo veniva dato per mezzo dell’imposizione delle mani degli Apostoli 299. Ecco perché lo stesso Signore Gesù non solo dette lo Spirito Santo in quanto Dio, ma anche lo ricevette in quanto uomo; per questo la Scrittura lo dice pieno di grazia 300. Ed in maniera più chiara sta scritto di lui negli Atti degli Apostoli: Perché Dio lo unse con lo Spirito Santo 301. Non lo unse certo con un olio visibile, ma con il dono della grazia significata dall’unguento visibile, crisma con cui la Chiesa unge i battezzati. E senza dubbio Cristo non è stato unto con lo Spirito Santo quando lo Spirito discese su di lui, appena battezzato, sotto forma di colomba 302; infatti in quel giorno egli ha voluto prefigurare il suo Corpo, cioè la sua Chiesa, nella quale si riceve lo Spirito Santo in particolar modo battezzandosi 303. Ma bisogna comprendere che Cristo è stato unto con questa mistica e invisibile unzione, nello stesso momento in cui il Verbo di Dio si è fatto carne 304, cioè nel momento in cui la natura umana senza alcun merito precedente di opere buone, è stata unita al Dio Verbo nel seno della Vergine, in modo da divenire con lui una sola persona. Per questo confessiamo che Cristo è nato dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria. È infatti assolutamente ridicolo il credere che Cristo avesse già trent’anni (a tale età infatti fu battezzato da Giovanni 305) quando ricevette lo Spirito Santo, ma venne a quel battesimo assolutamente senza alcun peccato e dunque non privo dello Spirito Santo. Se infatti dello stesso Giovanni, suo servo e precursore, è scritto che sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre 306, perché sebbene generato da un padre, una volta formato nel seno, ricevette lo Spirito Santo, che cosa dobbiamo pensare e credere del Cristo uomo, la cui stessa carne non fu concepita in maniera carnale, ma spirituale 307? Inoltre, quando la Scrittura dice di lui che ricevette dal Padre la promessa dello Spirito Santo e che lo ha diffuso 308, viene messa in evidenza la sua duplice natura, cioè quella umana e quella divina; ricevette come uomo, diffuse come Dio. Noi possiamo certo ricevere questo dono secondo la nostra capacità, ma non possiamo diffonderlo sugli altri; ma perché questa effusione avvenga invochiamo su di loro Dio, che può fare questo dono.
Lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio, ma "primariamente" dal Padre
26. 47. Chiedersi se, quando il Figlio è nato, era già avvenuta la processione dello Spirito Santo dal Padre o se invece non era ancora avvenuta e, una volta nato il Figlio 309, lo Spirito Santo procedette dal Padre e dal Figlio, è cosa che può forse avere un senso, là dove non esiste affatto il tempo? Là dove il tempo entra in gioco abbiamo invece potuto chiederci se è la volontà per prima che procede dallo spirito umano per cercare ciò che, una volta trovato, si chiama prole; perché una volta nata e generata questa, la volontà riceve la sua perfezione, riposandosi nel suo fine, in modo che quello che era stato desiderio della volontà che cerca, divenga amore della volontà che fruisce, amore che ormai procede dall’uno e dall’altra, cioè dallo spirito che genera e dalla conoscenza generata, essendo questi due in una specie di relazione di paternità e di filiazione. Ma non si possono più porre assolutamente simili domande a proposito di una realtà dove nulla incomincia nel tempo, per compiersi nel tempo che viene dopo. Di conseguenza colui che può comprendere la generazione intemporale del Figlio dal Padre, intenda la processione intemporale dello Spirito Santo da ambedue. E chi può comprendere da queste parole del Figlio: Come il Padre ha in sé la vita, così ha dato al Figlio di avere la vita in sé 310 che il Padre ha dato la vita al Figlio non come a un essere che esistesse già senza avere la vita, ma che lo ha generato al di fuori del tempo in modo che la vita che il Padre ha dato al Figlio generandolo sia coeterna alla vita del Padre che glie l’ha data; questi comprenda, dico, che come il Padre ha in se stesso anche la proprietà di essere principio della processione dello Spirito Santo, ha dato ugualmente al Figlio di essere principio della processione del medesimo Spirito Santo, processione fuori del tempo nell’uno e nell’altro caso, e comprenda che è stato detto che lo Spirito Santo procede dal Padre 311 perché si intenda che l’essere anche il Figlio principio della processione dello Spirito Santo, proviene al Figlio dal Padre. Se infatti tutto ciò che il Figlio ha, lo riceve dal Padre, riceve anche dal Padre di essere anch’egli principio da cui procede lo Spirito Santo. Ma ci si guardi bene dal pensare che esista qui il tempo, in cui si distingua un prima e un poi, perché qui non esiste affatto il tempo. Come, allora, non sarebbe il colmo dell’assurdità il dire che lo Spirito Santo è il Figlio delle due altre Persone, dato che se è per generazione che il Padre comunica al Figlio la sua essenza senza inizio di tempo, senza alterazione di natura, è per processione che il Padre e il Figlio comunicano allo Spirito Santo la loro essenza senza alcun inizio di tempo, senza alcuna alterazione di natura? Se dunque non diciamo che lo Spirito Santo è generato, non osiamo tuttavia dire che è ingenerato, per timore che questa parola faccia supporre che ci sono due padri nella Trinità, o due persone che non hanno origine da un’altra. Solo il Padre infatti non ha origine da un’altra Persona, perciò solo lui è chiamato ingenerato, non nella Scrittura, ma nel linguaggio usuale di coloro che trattano di un così grande mistero e si sono espressi come hanno potuto 312. Il Figlio invece è nato dal Padre, e lo Spirito Santo procede, primariamente, dal Padre, e per il dono che il Padre ne fa al Figlio senza alcun intervallo di tempo, dal Padre e dal Figlio insieme 313. Si direbbe che lo Spirito Santo è Figlio del Padre e del Figlio, se - cosa che respinge spontaneamente il buonsenso - lo avessero ambedue generato. Non è dunque generato dal Padre e dal Figlio lo Spirito di tutti e due, ma procede dall’uno e dall’altro.
È difficile distinguere tra "generazione" e "processione"
27. 48. Ma, poiché in quella coeterna, uguale, incorporea ineffabilmente immutabile e indivisibile Trinità è estremamente difficile distinguere la generazione dalla processione, basti frattanto per coloro che non riescono ad elevarsi a più grandi altezze ciò che su questo argomento abbiamo detto in un Sermone che pronunciammo davanti al popolo cristiano e che poi abbiamo scritto. Fra le altre cose, infatti, avendo insegnato, basandomi sulle testimonianze delle Sacre Scritture, che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio: Se dunque, dicevo, lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio perché il Figlio dice: "Lo Spirito procede dal Padre" 314? Per quale motivo, ritieni, se non perché il Figlio è solito riferire anche ciò che è suo a colui dal quale ha origine? Ecco perché dice: La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato 315. Se qui dunque s’intende come sua la dottrina che pur dichiara non sua ma del Padre, quanto più si deve intendere come procedente anche da lui lo Spirito Santo nel testo dove dice che procede dal Padre senza dire: "non procede da me"? Da colui dal quale riceve di essere Dio (è infatti Dio da Dio), da lui riceve pure di essere, anche lui, principio da cui procede lo Spirito Santo; e per questo che lo Spirito proceda anche dal Figlio come procede dal Padre, il Figlio lo riceve dal Padre stesso. Così comprendiamo anche in quale modo, per quanto, deboli come siamo, possiamo comprenderlo, perché non si dica che lo Spirito Santo è nato, ma piuttosto che procede; per il fatto che, se si dicesse che anche lui è Figlio, sarebbe figlio di tutte e due le altre Persone, ciò che sarebbe un grandissimo assurdo. Nessuno infatti è figlio di due persone se non avendole come padre e madre. Ma sia lungi da noi l’idea di immaginare tra Dio Padre e Dio Figlio un rapporto simile. Perché anche nell’ordine umano il figlio non procede nel medesimo tempo dal padre e dalla madre, ma quando procede dal padre nella madre, allora non procede dalla madre, e quando procede dalla madre alla luce di questo mondo, allora non procede dal padre. Ora lo Spirito Santo non procede dal Padre nel Figlio e poi dal Figlio per santificare la creatura, ma procede dall’uno e dall’altro simultaneamente, benché sia il Padre che ha dato al Figlio di essere, come lo è egli stesso, principio da cui procede lo Spirito. Nemmeno possiamo infatti dire che lo Spirito Santo non sia vita, dato che è vita il Padre, è vita il Figlio; di conseguenza, come il Padre, che ha la vita in se stesso, ha dato anche al Figlio di avere la vita in se stesso, così gli ha dato che la vita proceda da lui, Figlio, come procede anche da lui, Padre 316. Ho trascritto qui le parole del mio sermone, ma allora parlavo ai credenti, non a coloro che non credono.
Bisogna però attenersi alla regola della fede, e pregare e cercare e vivere bene per capire
27. 49. Ma se alcuni non arrivano a contemplare questa immagine né a vedere nel loro spirito quanto sono reali queste tre potenze, che non sono tre persone, bensì possesso tutte e tre di una sola persona umana; perché circa la somma Trinità di Dio non credono a quello che si trova nei Libri sacri invece di reclamare una spiegazione evidente che non è alla portata dell’intelligenza umana, che è tarda e debole? E dopo che avranno creduto fermissimamente alle Scritture sante come a testimoni veracissimi, s’industrino con la preghiera, con lo studio, con la vita retta, di capire, cioè di vedere con lo spirito, per quanto è possibile, quanto ritengono per fede. Chi glielo impedirà? Anzi, chi non li esorterà a farlo? Se tuttavia ritengono di dover negare questi misteri, perché i loro spiriti ciechi non li possono vedere, bisognerebbe pure che i ciechi dalla nascita negassero che esiste il sole. La luce dunque risplende nelle tenebre 317; se le tenebre non riescono a comprenderla, si lascino illuminare dapprima dal dono di Dio per aver la fede, ed incomincino ad essere luce in confronto a coloro che non hanno la fede e, gettato questo fondamento, si elevino per vedere quelle cose che credono, affinché un giorno le possano vedere. Vi sono infatti delle cose che si credono senza la speranza di non poterle mai vedere. Non si vedrà una seconda volta Cristo in croce, ma se non si crede che quello è un fatto accaduto ed è stato visto, senza tuttavia che si possa sperare che si riproduca e lo si veda di nuovo, non si giunge a Cristo, come lo si deve vedere eternamente. Invece per quanto concerne quella suprema, ineffabile, immateriale, immutabile natura che, in qualche modo, deve essere vista con l’intelligenza, non vi è nulla, purché lo si faccia sotto la direzione della regola della fede, su cui lo sguardo dello spirito si possa meglio esercitare di ciò che nella natura umana è superiore agli altri animali, è superiore anche alle altre parti dell’anima umana, voglio dire lo spirito: esso cui è accordata una certa visione delle cose invisibili, che come da un tribunale interiore che presiede con onore riceve tutte le conoscenze che gli stessi sensi del corpo sottomettono al suo giudizio; esso non ha nulla di superiore cui debba sottomissione ed obbedienza, eccetto Dio.
Agostino indica la differenza tra generazione e processione nel modo diverso di procedere del verbo e dell’amore: l’amore non procede come immagine, ma come appetito o fruizione
27. 50. Ma tra le molte cose che ho detto, oso professare di non aver detto nulla che sia degno di quella suprema ed ineffabile Trinità, ma piuttosto confessare che la mirabile conoscenza di Dio ha superato la mia debolezza e che non ho potuto elevarmi fino ad essa 318. O tu, anima mia, dove ti senti di essere, dove giaci, dove stai, in attesa che Colui che si è fatto propizio a tutte le tue iniquità guarisca le tue infermità 319? Senza dubbio riconosci di essere in quella locanda in cui il Samaritano condusse colui che trovò semivivo con il corpo coperto di numerose ferite inflittegli dai ladroni 320. E tuttavia tu hai visto molte verità, non con quegli occhi che vedono i corpi colorati, ma con quelli per i quali pregava colui che diceva: I miei occhi vedano la giustizia 321. Sì, tu hai visto molte verità, e le hai distinte da quella luce che ti ha illuminato per fartele vedere; eleva ora gli occhi verso quella luce e fissali su di essa, se puoi. Così infatti vedrai che differenza vi sia tra la nascita del Verbo e la processione del Dono di Dio, differenza per cui il Figlio unigenito ha detto che lo Spirito Santo 322 non è generato dal Padre (altrimenti sarebbe suo fratello) ma ne procede. Per questo, essendo lo Spirito di ambedue come comunione consustanziale dell’uno e dell’altro, non si dice - sarebbe sacrilegio il dirlo - che è figlio di tutti e due. Ma per vedere chiaramente e perspicuamente questo mistero, tu non puoi fissare là il tuo sguardo; lo so, non lo puoi. Dico il vero, lo dico a me stesso; so ciò che non posso. Ma quella luce ti ha fatto vedere in te quelle tre potenze, in cui puoi riconoscere te come l’immagine di quella stessa suprema Trinità che sei ancora incapace di contemplare tenendo fisso su di essa il tuo sguardo. Essa ti ha fatto vedere che c’è in te un verbo vero, quando è generato dalla tua scienza, cioè quando diciamo ciò che sappiamo, sebbene non pronunciamo né pensiamo alcuna parola comprensibile di alcuna lingua umana, ma invece il nostro pensiero prende forma da ciò che sappiamo e nello sguardo di colui che pensa l’immagine della conoscenza è esattamente simile a quella contenuta nella memoria, essendo questi due termini, come generante e come prole, uniti dalla volontà o dilezione che costituisce il terzo termine. Ma che questa volontà proceda dalla conoscenza (nessuno infatti vuole ciò di cui ignora totalmente la natura e la qualità) senza essere tuttavia l’immagine della conoscenza e che perciò in questa realtà intelligibile sia suggerita una certa differenza tra nascita e processione, perché non è la stessa cosa vedere con il pensiero e desiderare o anche fruire con la volontà, lo vede e lo discerne chi lo può. L’hai potuto anche tu, sebbene non abbia potuto e non possa spiegare con linguaggio adeguato ciò che tra le nebbie delle immagini corporee, che non cessano di addensarsi sul pensiero umano, hai solo intravisto. Ma quella luce che non è ciò che sei tu, ti ha anche mostrato che una cosa sono le immagini incorporee dei corpi, altra cosa la verità che, respingendo queste immagini, attingiamo con l’intelligenza; queste certezze ed altre simili quella luce ha mostrato ai tuoi occhi interiori. Perché dunque non puoi vedere questa verità stessa tenendovi fisso lo sguardo se non a motivo della sua debolezza? E quale la causa di questa debolezza, se non, certo, l’iniquità? Chi dunque guarisce tutte le tue infermità, se non Colui che è propizio riguardo a tutte le tue iniquità 323? Perciò è meglio che finalmente concluda questo libro con una preghiera piuttosto che con una discussione.
Preghiera - Conclusione e preghiera finale
28. 51. Signore nostro Dio, crediamo in te, Padre e Figlio e Spirito Santo. Perché la Verità non avrebbe detto: Andate, battezzate tutte le genti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo 324, se Tu non fossi Trinità. Né avresti ordinato, Signore Dio, che fossimo battezzati nel nome di chi non fosse Signore Dio. E una voce divina non avrebbe detto: Ascolta Israele: Il Signore Dio tuo è un Dio Unico 325, se Tu non fossi Trinità in tal modo da essere un solo Signore e Dio. E se Tu fossi Dio Padre e fossi pure il Figlio tuo Verbo, Gesù Cristo, e il Vostro Dono lo Spirito Santo, non leggeremmo nelle Sacre Scritture: Dio ha mandato il Figlio suo 326, né Tu, o Unigenito, diresti dello Spirito Santo: Colui che il Padre manderà in mio nome 327 e: Colui che io manderò da presso il Padre 328. Dirigendo la mia attenzione verso questa regola di fede, per quanto ho potuto, per quanto tu mi hai concesso di potere, ti ho cercato ed ho desiderato di vedere con l’intelligenza ciò che ho creduto, ed ho molto disputato e molto faticato. Signore mio Dio, mia unica speranza, esaudiscimi e fa’ sì che non cessi di cercarti per stanchezza, ma cerchi sempre la tua faccia con ardore 329. Dammi Tu la forza di cercare, Tu che hai fatto sì di essere trovato e mi hai dato la speranza di trovarti con una conoscenza sempre più perfetta. Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza: conserva quella, guarisci questa. Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza; dove mi hai aperto, ricevimi quando entro; dove mi hai chiuso, aprimi quando busso. Fa’ che mi ricordi di te, che comprenda te, che ami te. Aumenta in me questi doni, fino a quando Tu mi abbia riformato interamente. So che sta scritto: Quando si parla molto, non manca il peccato 330, ma potessi parlare soltanto per predicare la tua parola e dire le tue lodi! Non soltanto eviterei allora il peccato, ma acquisterei meriti preziosi, pur parlando molto. Perché quell’uomo di cui Tu fosti la felicità non avrebbe comandato di peccare al suo vero figlio nella fede, quando gli scrisse: Predica la parola, insisti a tempo e fuori tempo 331. Non si dovrà dire che ha molto parlato colui che non taceva la tua parola, Signore, non solo a tempo, ma anche fuori tempo? Ma non c’erano molte parole, perché c’era solo il necessario. Liberami, o mio Dio, dalla moltitudine di parole di cui soffro nell’interno della mia anima misera alla tua presenza e che si rifugia nella tua misericordia. Infatti non tace il pensiero, anche quando tace la mia bocca. Se almeno non pensassi se non ciò che ti è grato, certamente non ti pregherei di liberarmi dalla moltitudine di parole. Ma molti sono i miei pensieri, tali quali Tu sai che sono i pensieri degli uomini, cioè vani 332. Concedimi di non consentirvi e, anche quando vi trovo qualche diletto, di condannarli almeno e di non abbandonarmi ad essi come in una specie di sonno. Né essi prendano su di me tanta forza da influire in qualche modo sulla mia attività, ma almeno siano al sicuro dal loro influsso i miei giudizi, sia al sicuro la mia coscienza, con la tua protezione. Parlando di Te un sapiente nel suo libro, che si chiama Ecclesiastico, ha detto: Molto potremmo dire senza giungere alla meta, la somma di tutte le parole è: Lui è tutto 333. Quando dunque arriveremo alla tua presenza, cesseranno queste molte parole che diciamo senza giungere a Te; Tu resterai, solo, tutto in tutti 334, e senza fine diremo una sola parola, lodandoti in un solo slancio e divenuti anche noi una sola cosa in Te. Signore, unico Dio, Dio Trinità, sappiano essere riconoscenti anche i tuoi per tutto ciò che è tuo di quanto ho scritto in questi libri. Se in essi c’è del mio, siimi indulgente Tu e lo siano i tuoi. Amen.
1 - Cf. Varrone, Antiquit. rer. human. et divin., in Agostino, De civ. Dei 7, 23: NBA, V/1; Cicerone, De fin. bon. mal., 5, 13, 36.
2 - Cf. Cicerone, De orat. 3, 18, 67; De fin. bon. mal., 5, 12, 34; 13, 36; De rep. 6, 9, 9; Giulio Cesare, De bello gall. 3, 19, 6; 6, 5, 1; Lucrezio, De rer. nat. 3, 94; Sallustio, Iugurt. 11, 8; Seneca, De b. vita 15, 5; Quintiliano, Instit. 1, 9, 13.
3 - Sal 104, 3-4.
4 - 1 Cr 16, 10.
5 - Is 55, 6-7.
6 - Sal 104, 4.
7 - Eccli 24, 29.
8 - Is 7, 9.
9 - Sal 13, 2.
10 - Cf. Sap 13, 5.
11 - Rm 1, 20.
12 - Sap 13, 1-5.
13 - Cf. At 17, 27; 1 Cr 16, 11; Sal 68, 33; 104, 4; Is 55, 6.
14 - Cf. supra, 1, 4, 7.
15 - Cf. supra, 2, 5ss.; 3, 10, 19-21; 4, 21, 30.
16 - Cf. supra, 5, 3, 4.
17 - Cf. Aristotele, Categ. 7, 6a, 36 - 8b, 24; Pseudo Agostino, Categ. X ex Arist. 11.
18 - Cf. Sap 16, 24; Rm 1, 25.
19 - Sal 89, 1.
20 - Cf. supra, 5, 5, 6.
21 - 1 Cor 1, 24.
22 - Cf. supra, 6, 1, 1-3.
23 - Cf. supra, 6, 3, 4ss.
24 - Ilario, De Trin. 2, 1, 1; cf. supra, 6, 10, 11-12.
25 - Cf. supra, 7, 1, 1 - 3, 6.
26 - Platone in Porfirio, Phil. hist. 4; Basilio, Epp. 38; 236; Tertulliano, Apol. 21; Adv. prax. 2; 26; Girolamo, Ep. 15, 3-5.
27 - Cf. supra, 7, 4, 7-9.
28 - Cf. supra, 8, prooem.
29 - Cf. 1 Gv 4, 8-16.
30 - Cf. supra, 8, 3, 4ss.
31 - Cf. supra, 9, 4, 4ss.
32 - Cf. Cicerone, De invent. 2, 53, 60; Agostino, De div. qq. 83 31, 1: NBA, VI/2; Ep. 169, 2, 6: NBA, XXII.
33 - Cf. supra, 10, 11, 17 - 12, 19.
34 - Cf. supra, 11, 4, 7.
35 - Cf. Gb 28, 28; 1 Cor 12, 8.
36 - Cf. supra, 12, 14, 21-23.
37 - Cf. supra, 13, 1, 1 - 2, 5; 13, 19, 24.
38 - Cf. supra, 14, 1, 1 - 19, 25.
39 - Col 3, 10.
40 - Cf. Gn 1, 26-27; Eccli 17, 1.
41 - Cf. Tt 1, 2; 1 Gv 2, 25.
42 - Cf. Rm 1, 20; Sap 13, 5.
43 - Cf. Eusebio da Vercelli, Trin. 1, 1.
44 - Cf. Tomus Damasi, Anath. 21.
45 - Cf. Tomus Damasi, Anath. 20.
46 - Cf. Gv 4, 24.
47 - Cf. Cicerone, De fin. bon. mal. 5, 12, 34; Sallustio, Iug. 2, 1; Lattanzio, Instit. 7, 5, 16.
48 - Cf. 1 Tm 6, 16.
49 - Sap 8, 1.
50 - Cf. Is 7, 9.
51 - Sap 6, 1.
52 - Cf. 1 Cor 1, 24.
53 - Cf. supra, 7, 3, 4-6.
54 - Cf. Eusebio da Vercelli, Trin. 1, 1.
55 - Cf. 1 Gv 4, 8 16.
56 - Cf. supra, 8, 10, 14.
57 - Gn 1, 27; 5, 1; 9, 6.
58 - Cf. Sap 13, 5; Rm 1, 20.
59 - Cf. Rm 1, 20.
60 - Cf. supra, 8, 3, 4.
61 - Cf. supra, 14, 19, 25.
62 - Cf. supra, 14, 8, 11.
63 - Cf. Quintiliano, Instit. 7, 3, 15; Cicerone, Acad. 2, 7, 21; Plutarco, Eth. 450d; Agostino, De ordine 2, 11, 31: NBA, III/1; cf. supra, 7, 4, 7-9.
64 - Cf. Cicerone, De fin. bon. mal. 5, 13, 36.
65 - Cf. Cicerone, De fin. bon. mal. 5, 12, 34; Sallustio, Iug. 2, 1; Lattanzio, Instit. 7, 5, 16.
66 - Cf. Cicerone, De fin. bon. mal. 5, 13, 36.
67 - Cf. supra, 7, 4, 7-9.
68 - Cf. Cicerone, De invent. 2, 53, 160; Agostino, De div. qq. 83 31, 1: NBA, VI/2; Ep. 169, 2, 6: NBA, XXII.
69 - Cf. supra, 14, 7, 9-10.
70 - Cf. supra, 7, 1, 1 - 3, 4.
71 - Cf. Eccli 1, 3, 4; 1 Cor 1, 21.24.30.
72 - Cf. Eccli 1, 4.9; 24, 5.14.
73 - Cf. Gv 15, 26.
74 - Sal 138, 6.
75 - Cf. Rm 11, 33.
76 - Sal 38, 4.
77 - Cf. 1 Cr 16, 11; Sal 104, 4.
78 - 1 Cor 13, 12.
79 - 2 Cor 3, 18.
80 - Gn 1, 27; 5, 1; 9, 6.
81 - 1 Cor 11, 7.
82 - Cf. supra, 12, 7, 9-12.
83 - Cf. Sallustio, Catil. 1, 1.
84 - 1 Cor 11, 7.
85 - 2 Cor 3, 18.
86 - 1 Gv 3, 2.
87 - 2 Cor 3, 18.
88 - 1 Cor 13, 12.
89 - Gal 4, 24.
90 - Cf. Ambrosiaster, Comm. in Ep. b. Pauli ad Gal. 4, 24: PL 17, 384.
91 - 1 Ts 5, 6-8.
92 - Cf. Quintiliano, Instit. 8, 6, 52.
93 - Prv 30, 15.
94 - Cf. Gal 4, 22-24.
95 - 1 Cor 13, 12.
96 - Ibid.
97 - Cf. supra, 13, 1, 1 - 20, 25.
98 - Sap 2, 1.
99 - Mt 9, 2-3.
100 - Mt 9, 4.
101 - Lc 5, 21-22.
102 - Lc 12, 16-17.
103 - Mt 15, 11.
104 - Cf. Mt 15, 11.17-18.
105 - Mt 15, 16-17.
106 - Mt 15, 18-19.
107 - Mt 9, 4.
108 - 1 Cor 13, 12.
109 - Gv 1, 1.
110 - Gv 13, 21-24.
111 - Cf. Aristotele, Interpret. 1.
112 - Gv 1, 14.
113 - Cf. 1 Tm 3, 16.
114 - 1 Cor 13, 12.
115 - At 6, 7.
116 - Rm 10, 17.
117 - 1 Ts 2, 13.
118 - Gv 1, 1.
119 - Gv 1, 3.
120 - Gv 1, 14.
121 - Eccli 1, 5.
122 - Cf. 1 Ts 2, 13.
123 - Cf. Quintiliano, Instit. 7, 3, 15; Cicerone, Acad. 2, 7, 21; Agostino, De ordine 2, 11, 31: NBA, III/1.
124 - Cf. Gn 1, 27; 5, 1; 9, 6.
125 - Mt 5, 37; Gc 5, 12.
126 - Gv 1, 14.
127 - Eccli 37, 20.
128 - Mt 5, 37; Gc 5, 12.
129 - Cf. Eccli 1, 5; 24, 5.
130 - Cf. Gv 1, 3.
131 - Gv 1, 14.
132 - 2 Cor 3, 18.
133 - 2 Cor 3, 13-15; Col 2, 17; Eb 10, 1.
134 - 2 Cor 3, 18.
135 - Cf. supra, 14, 17, 23.
136 - Cf. Eb 7, 19.
137 - 1 Gv 3, 2.
138 - 1 Cor 13, 12.
139 - Ibid.
140 - Cf. Cicerone, Acad. 2, 6, 18; Agostino, C. Acad. 2, 5, 11: NBA, III/1.
141 - Cf. Agostino, De civ. Dei 11, 26: NBA, V/2.
142 - Cf. Cicerone, Acad. 2, 7, 19; 25, 79; Agostino, C. Acad. 3, 11, 26: NBA, III/1; De vera relig. 29, 53: NBA, VI/1.
143 - Cf. Agostino, C. Acad. 3, 11, 26: NBA, III/1.
144 - Cf. Agostino, C. Acad. 3, 12, 27: NBA, III/1.
145 - Cf. Cicerone, Acad. 2, 17, 52 - 27, 88.
146 - Cf. Cicerone, Acad. 2, 16, 49 - 17, 53; Agostino, C. Acad. 3, 11 - 12, 28: NBA, III/1.
147 - Cf. Agostino, De b. vita 2, 7.
148 - Cf. Quintiliano, Instit. 7, 3, 15; Cicerone, Acad. 2, 7, 21; Agostino, De ordine 2, 11, 31: NBA, III/1.
149 - 1 Cor 13, 12.
150 - 1 Gv 3, 2.
151 - Mt 6, 8.
152 - Eccli 23, 29.
153 - Cf. supra, 7, 1, 1.
154 - Mt 5, 37; Gc 5, 12.
155 - Gv 5, 19.
156 - Cf. Cicerone, Acad. 2, 29, 95 - 30, 96; Aulo Gellio, Noct. att. 18, 2, 10.
157 - Gv 5, 19.
158 - Cf. Gv 7, 17; 8, 26.28.38; 12, 49-50; 14, 10.
159 - Mt 5, 37; Gc 5, 12; 2 Cor 1, 18-19.
160 - Cf. 1 Ts 2, 13.
161 - Cf. Fil 2, 6.
162 - Virgilio, Aen. 10, 159-160.
163 - Mic 4, 12.
164 - 1 Gv 3, 2.
165 - Cf. Porfirio, Sent. 13; Agostino, De vera relig. 18, 35: NBA, VI/1; De imm. an. 8, 14: NBA, III/1.
166 - Cf. Ez 1, 15; 2, 1; 10, 13.
167 - 1 Cor 13, 12.
168 - Cf. Mt 10, 20; Gal 4, 6.
169 - 1 Gv 4, 8 16.
170 - Sal 70, 5.
171 - Sal 61, 6.
172 - Sal 90, 9.
173 - Sal 58, 18.
174 - 1 Gv 4, 8 16.
175 - Gv 4, 24.
176 - 1 Gv 4, 8.16.
177 - Cf. supra, 15, 7, 11-13.
178 - Cf. Eccli 1, 5; Gv 1, 1-14; 4, 10; Ap 19, 13; At 8, 20.
179 - Cf. Gv 5, 18; 6, 27.
180 - Cf. supra, 4, 20, 27-29; 5, 14, 15; 15, 26, 45ss.
181 - Cf. Eccli 1, 5; Gv 1, 1-14; Ap 19, 13.
182 - 1 Cor 14, 21; Is 28, 11.
183 - 1 Cor 14, 21.
184 - Gv 15, 25.
185 - Cf. Sal 34, 19; 68, 5.
186 - Cf. Gv 1, 17.
187 - Mt 11, 13.
188 - Mt 22, 40.
189 - Lc 24, 44.
190 - Cf. Gv 1, 17.
191 - Cf. Eccli 1, 5.
192 - 1 Cor 1, 24.
193 - 1 Gv 4, 7-8.
194 - Gv 15, 26.
195 - 1 Gv 4, 10.
196 - 1 Gv 4, 13.
197 - 1 Gv 4, 16.
198 - 1 Gv 4, 13.
199 - 1 Gv 4, 8.16.
200 - Cf. Gv 15, 26; Rm 5, 5.
201 - 1 Gv 4, 7.10.
202 - Rm 5, 5.
203 - At 8, 20; Gv 4, 10.
204 - Cf. Mt 13, 38; Gv 17, 12.
205 - Cf. 1 Cor 12, 8.
206 - Cf. 1 Cor 13, 3.
207 - Cf. Gv 3, 5.
208 - Gal 5, 6.
209 - Cf. Gc 2, 19.
210 - Cf. 1 Gv 4, 7-8.16; Gv 4, 24.
211 - Cf. At 8, 20; Gv 4, 10.
212 - Gv 7, 37-38.
213 - Gv 7, 39.
214 - 1 Cor 12, 13.
215 - Cf. Gv 4, 10-14.
216 - Gv 4, 7.
217 - Gv 4, 9-11.
218 - Gv 4, 13-14.
219 - Cf. Gv 4, 10-11.
220 - Cf. At 8, 20; Gv 4, 10.
221 - Gv 4, 10.
222 - Gv 7, 38.
223 - Gv 4, 14.
224 - Ef 4, 7.
225 - Ef 4, 8.
226 - Ibid.
227 - Sal 67, 19.
228 - Ibid.
229 - Ef 4, 8.
230 - At 9, 4.
231 - Mt 25, 40.
232 - Cf. 1 Cor 12, 7-12.
233 - 1 Cor 12, 11.
234 - Eb 2, 4.
235 - Ef 4, 8-11.
236 - 1 Cor 12, 29.
237 - Ef 4, 12.
238 - Sal 95, 1.
239 - Cf. Col 1, 13-24; 2 Tm 2, 26.
240 - Ef 4, 8.
241 - Ibid.
242 - At 2, 37-38.
243 - Cf. At 8, 18-19.
244 - At 8, 20.
245 - At 10, 44-46.
246 - At 11, 15-17.
247 - Cf. At 8, 20; Gv 4, 10.
248 - At 2, 38; 10, 45.
249 - Col 2, 11.
250 - Gv 3, 8.
251 - Cf. supra, 15, 19, 34.
252 - 1 Cor 12, 11.
253 - 1 Gv 4, 8.16.
254 - Cf. 1 Gv 4, 7.13.16.
255 - Cf. supra, 5, 11, 12; Eusebio da Vercelli, Trin. 1, 23.
256 - Col 1, 13.
257 - Cf. Is 7, 9.
258 - Cf. Gregorio Nazianzeno, Orat. 29, 6; Eusebio da Vercelli, Trin. 10, 11.
259 - Prv 19, 21.
260 - Cf. Is 7, 9.
261 - Cf. Gregorio Nazianzeno, Orat. 29, 6; Agostino, C. serm. Arian. 1, 2; 2, 3.
262 - Cf. supra, 15, 17ss.
263 - Cf. Gv 4, 24.
264 - Cf. supra, 1, 4-5, 8, 12; 2, 3-4; 3, 9; 4, 20-21; 5, 11, 14-15; 6, 5.
265 - Gn 1, 27; 5, 1; 9, 6.
266 - Cf. Cicerone, De invent. 2, 53, 160; Agostino, De div. qq. 83 31, 1: NBA, VI/2; Ep. 169, 2, 6: NBA, XXII; cf. supra, 10, 11, 17; 14, 6, 8ss.; 15, 7, 11-13.
267 - 1 Cor 13, 12.
268 - Ibid.
269 - Cf. Rm 1, 20.
270 - Cf. Eusebio da Vercelli, Trin. 1, 11.
271 - 1 Cor 13, 12.
272 - Cf. Is 7, 9.
273 - 1 Tm 1, 5.
274 - 1 Cor 13, 12.
275 - Cf. Mt 11, 28; Gb 37, 19; Sap 9, 15.
276 - Cf. Ap 14, 4.
277 - Gv 1, 29.
278 - Cf. Ap 5, 12.
279 - Cf. 1 Tm 2, 5.
280 - At 4, 12.
281 - Cf. supra, 2, 3, 5.
282 - Cf. supra, 9, 7, 9-10.
283 - Cf. Mt 10, 20; Gal 4, 6.
284 - Gal 4, 6.
285 - Mt 10, 20.
286 - Gv 15, 26.
287 - Gv 14, 26.
288 - Gv 15, 26.
289 - Gv 20, 22.
290 - Lc 6, 19.
291 - Cf. Gv 20, 22.
292 - Cf. At 2, 4.
293 - Rm 5, 5.
294 - Mt 22, 38-40.
295 - Mt 28, 19.
296 - Cf. Gregorio Illiberitano, De fide orth., prolog.
297 - Cf. At 2, 4.
298 - At 8, 19.
299 - At 8, 18.
300 - Cf. Ef 4, 8; Sal 67, 19; Gv 1, 14.
301 - At 10, 38.
302 - Cf. Mt 3, 16; Mc 1, 10; Lc 3, 22; Gv 1, 32-33.
303 - Cf. Col 1, 24.
304 - Gv 1, 14.
305 - Cf. Lc 3, 21-23.
306 - Lc 1, 15.
307 - Cf. supra, 13, 18, 23.
308 - Cf. At 2, 33.
309 - Cf. Gv 15, 26.
310 - Gv 5, 26.
311 - Cf. Gv 15, 26.
312 - Cf. Ambrogio, De incarn. 8, 80.
313 - Cf. Gv 15, 26.
314 - Ibid.
315 - Gv 7, 16.
316 - Agostino, In Io. Ev. tract. 99, 8-9: NBA, XXIV/1-2.
317 - Gv 1, 5.
318 - Cf. Sal 138, 6.
319 - Cf. Sal 102, 3.
320 - Cf. Lc 10, 30-34.
321 - Sal 16, 2.
322 - Cf. Gv 15, 26.
323 - Cf. Sal 102, 3.
324 - Mt 28, 19.
325 - Dt 6, 4.
326 - Gal 4, 4; Gv 3, 17.
327 - Gv 14, 26.
328 - Gv 15, 26.
329 - Cf. Sal 70, 5; 90, 9; 104, 4; 1 Cr 16, 11.
330 - Prv 10, 19.
331 - 2 Tm 4, 2.
332 - Sal 93, 11.
333 - Eccli 43, 29.
334 - 1 Cor 15, 28.
PARTE SECONDA (4)
Il diario - Beata Elisabetta Canori Mora
Leggilo nella Biblioteca31 – NEL TABERNACOLO DEL SOMMO RE
31.1. Il dono della scienza
Il dì 3 novembre 1815 nella santa Comunione ricevetti grazia molto particolare. Volle Dio adornare la povera anima mia, di un prezioso suo dono, per così farmi degna del suo amore. Mi ricolmò di celestiali benedizioni, si degnò unirmi a lui intimamente. Il mio spirito restò estatico, a tanto eccesso di amore; mi fece gustare una dolcezza di spirito tanto particolare, che tutta si disfaceva in lacrime soavissime la povera anima, confessando la sua miseria, lodava e benediceva il suo Signore.
Per mezzo di interna illustrazione conobbi che quello che mi aveva donato Dio era il dono della scienza, a questa cognizione la povera anima, con santa umiltà, rivolta al suo amorosissimo Dio: «Mio Dio», gli disse, «lasciate che io rinunzi a questo dono. Donatelo a quelle anime che vi amano davvero. A me basta la vera contrizione, io non desidero sapere i fatti altrui, solo cerco conoscere me stessa, e conoscere voi, mio sommo amore!».
Il pietoso Dio mi fece intendere che non dovevo rinunziare al dono, mentre questo era molto utile e profittevole per l’anima mia; mi fece intendere ancora che questo mi avrebbe con molta chiarezza dimostrato la vera perfezione e quello che devo fare per arrivarvi.
A questa cognizione restò persuaso il mio spirito, e accettò il dono, al solo fine di piacere all’amato suo donatore. Molto gradì l’eterno Dio la purità della mia intenzione, che intimamente mi unì a lui, promettendomi di favorirmi con particolari grazie. Dopo il suddetto favore, sperimentai nel mio cuore un nuovo ardentissimo desiderio di perfezionare il mio spirito, a costo di ogni qualunque travaglio e pena; questo buon desiderio è permanente ancora.
31.2. Il mio spirito fu trasformato in uno spirito purissimo
Il dì 4 novembre 1815 nella santa Comunione si umiliava il mio spirito profondamente, e porgeva incessanti preghiere all’Altissimo, acciò si fosse degnato di concedermi tutte quelle grazie che mi sono necessarie per arrivare ad un’alta perfezione; con calde lacrime ed infocati sospiri, ardentemente così pregai: «Mio Dio, mio sommo amore, a me non basta! dammi più amore, così imperfetta non voglio più stare, alla perfezione voglio arrivare. Avanti, avanti, avanti io voglio andare all’apice della perfezione voglio arrivare, è proprio impaziente il mio povero cuore. Amato mio bene, non indugiare, avanti conducimi, e fa’ che l’ardente fiamma del celestiale tuo amore mi bruci, mi infiammi della tua carità. O Spirito divino, di amore ripieno, infiamma il mio cuore e fallo morire! Oh, morte beata, che vita beata mi dona Gesù: io più non vivo, ma vive in me Dio, che vita mi dà!».
A questo mio trasporto amoroso, a questa mia esclamazione amorosa, fui trasportata in spirito, dirò meglio fu sollevato il mio intelletto a penetrare cose così particolari del santo amore di Dio, che non mi è possibile spiegare. Sollevato che si fu l’intelletto fino ai confini del proprio suo essere, per parte della grazia, per pochi momenti il mio spirito fu trasformato in uno spirito purissimo, pieno di agilità.
Mio Dio, qual confusione è per me il dover manifestare le vostre grazie; vorrei tacere, ma mi conviene per obbedienza manifestare le vostre copiose misericordie. Mio Dio, illuminatemi, perché possa con termini meno disdicevoli manifestare il vostro purissimo amore. Ma che cosa mai dirò, se non ho termini sufficienti per spiegare cose così meravigliose, che non vidi mai. Mio Dio, illuminatemi voi! E voi, serafini del cielo, purificate la mia lingua, purificate il mio cuore, perché veracemente possa manifestare l’eccelso favore, senza oscurare la gloria del mio Signore.
31.3. Nel tabernacolo del sommo Re
Fui dunque condotta in una città bellissima, dov’era collocato il venerabilissimo tabernacolo dell’eterno Dio. Che magnificenze, che ricchezze, che pompa, che gala, non è veramente spiegabile! Era questa rispettabilissima città abitata dagli Angeli e non dagli uomini. Erano questi nobilissimi spiriti tutti intenti a custodire l’augusto tabernacolo del sommo Re del cielo e della terra. Fui dal divino Spirito introdotta in questa città, in una maniera tanto particolare, ma io non lo so dire; prima di introdurmi in questa città, il divino Spirito mi degnò di tre preziosi doni, perché i custodi di quest’alma città mi dessero libero ingresso.
Il celestiale amore pose nel mio cuore i tre preziosi doni, a guisa di acuti dardi li trapassò nel cuore. Oh come in quel momento colpito fu il mio cuore dal suo divino amore! Da dolce svenimento fu sopraffatto il cuore, e piena di celestiale amore l’anima mia restò. Di tanta bellezza erano i tre preziosi doni, che non si possono uguagliare né all’oro finissimo, né alle preziose gemme. Cosa così sorprendente non si vide giammai. Il divino Spirito mi mostrò ai suoi servi qual trionfo del suo celestiale amore.
Quei beati spiriti restarono attoniti, estatici; miravano i tre preziosi doni, e pieni di meraviglia lodavano al sommo Dio l’alta bontà. Libero mi diedero il passo, e pieni di sommissione mi vollero accompagnare al tabernacolo augusto del sovrano re.
Mio Dio, dove m’inoltro? cosa mai dirò? quale ardire è il mio: paragonar cose che non hanno paragone? Mio Dio, dunque tacerò? Santa obbedienza come potrò soddisfarti? di quali parole mi servirò? se sono tanto ignorante e rozza, ma a magnificenza tanto straordinaria mi pare che ogni eloquente dottore non sia sufficiente per manifestare con giusti termini gli eccessi dell’eterno suo amore. Ma per non mancare all’obbedienza, rozzamente scriverò almeno quanto posso ridire; il resto lo lascio alla dotta esperienza di vostra paternità reverendissima.
Fui dunque con grandissima pompa accompagnata dai felici abitatori di questa città all’augusto tabernacolo del sommo Re. Erano tutti in gran festa per il mio arrivo. Molti si compiacquero di accompagnarmi, molti altri adornavano la strada che dovevo passare, altri spargevano la strada di vaghissimi fiori, altri cantavano inni di gloria, altri mi procedevano avanti, per recarne agli altri la felice nuova.
Con languido paragone mi spiegherò, ma mi protesto però che è molto dissimile da quello che nel mio spirito fu operato dalla grazia dell’altissimo Dio. La povera anima mia fu corteggiata molto più di quello che si corteggia una nobile donzella che sia innalzata al nobilissimo matrimonio di un re potente, e che il potente sovrano attendesse ansioso l’arrivo della sua diletta sposa; e tutti i cortigiani si fanno un pregio di poterla servire e condurla al sovrano loro re. Con maggior pompa fu ricevuta la povera anima mia da quegli abitatori, che a mio parere erano sovrani spiriti, cortigiani del sommo re, custodi della sopraddetta città.
Mi spiego meglio: questa da me chiamata città, non già aveva in sé né case né palazzi, né altre cose, che nel mondo sensibile formano la bellezza, la vaghezza delle città. Tutto diverso era questo fabbricato, un edificio tanto bello e magnifico che non ha pari. Questo era eretto al solo fine di custodire il magnificentissimo tabernacolo. Fui dunque condotta al luogo dov’era il reale tabernacolo. Tutti in bell’ordine erano disposti gli abitatori di questo luogo; ma tutti attoniti se ne stavano, osservando cosa fosse per fare di me l’eterno amore. Quando si vide ad un tratto aprire l’augusta porta del tabernacolo, e facilmente mi si accordò l’ingresso.
31.4. Un’umiltà perfetta
Oh, allora sì, che pieni di rispetto esclamarono altamente con voci concordi inni di lode e di ringraziamento all’eterno onnipotente loro sovrano. Aperta che si fu la porta, tre bellissimi personaggi mi si fecero incontro, e annunziandomi le celestiali brame dell’amante loro re, pieni di gaudio mi condussero dentro il venerabile tabernacolo.
I suddetti personaggi erano i miei santi patriarchi Felice e Giovanni de Matha e il mio gran padre, sant’Ignazio. Devo dire una cosa molto considerabile, ed è che questo vastissimo tabernacolo non aveva la porta corrispondente alla sua vastità, ma aveva una porta molto stretta, molto angusta. I santi patriarchi m’insegnarono quello che dovevo fare per passare l’angusta porta. Così presero a dire: «Umìliati, abbàssati, annientati, se vuoi passare».
Conobbi che in queste parole venivano compresi i gradi di una umiltà perfetta. A questa cognizione rivolsi, piena di sommissione le mie suppliche al buon Dio, acciò si degnasse donarmi la santa umiltà; desiderai di possedere questa virtù. In quell’istante l’amoroso Signore mi fece sperimentare gli effetti più vivi di una umiltà la più perfetta che mai dir si possa. La porta era veramente angusta, in maniera che dovetti umiliarmi molto per poter passare. «Abbàssati, umìliati», ripetevano quegli incliti personaggi, di alta sfera e di scienza ripieni. Alle loro parole mi degnò Dio di un grado di umiltà tanto profonda, che potei passare l’angusta porta.
Oh che magnificenza! oh, che grandezza! oh, che vastità! Cose veramente incomprensibili, degne solo veramente di Dio.
Entrai nel magnifico tabernacolo, scortata dai soli tre santi patriarchi, i quali, a nome dell’onnipotente Dio, m’introdussero in luogo eminente di questo tabernacolo. Era tale e tanta la luce che vi risiedeva, che al momento l’anima mia restò assorbita da questa immensa luce. La forte attrazione, con amorosa forza, trasse dal mio cuore i tre preziosi doni, che a guisa di dardi fitti nel mio cuore aveva, prima di entrare nella santa città, come si è detto di sopra, li trasse dal mio cuore, e li calcò fortemente sopra se stesso, e come li avesse inviscerati, tanto l’internò in se stesso. Dopo nuovamente li trasse dal suo seno, e in segno di particolare amore, tornò di bel nuovo ad immergerli nel mio cuore.
Oh, chi mai potrà ridire i mirabili effetti che sperimentò il mio spirito! Mi manca veramente la lena di proseguire. Sperimentai gli effetti mirabili di una unione perfetta. Non posso dir di più. Sarà molto più facile a vostra paternità il comprenderlo di quello che sia a me il ridirlo.
32 – I «PECCATI» DEI SANTI
32.1. Libera le anime dei suoi parenti
Il giorno 6 novembre 1815 nella santa Comunione era il mio spirito in sommo raccoglimento, quando mi si presentò l’anima del mio padre naturale defunto, che ormai sono nove anni che piamente morì qual visse.
Vedevo la sua anima bella tutta ammantata di luce, con me si rallegrò per l’alto favore compartitomi dall’eterno Dio. La povera anima mia si umiliò, profondamente, e mostrando a lui la mia sconoscenza verso l’infinito amore di Dio, con abbondanti lacrime deploravo le mie colpe.
Il mio padre, a questa mia confessione, non si rattristò, ma mi pregò di raccomandare caldamente all’eterno Dio tutti i suoi e miei parenti defunti.
La povera anima mia prontamente obbedì, porgendo all’Altissimo, con tutto il fervore, le mie povere suppliche, per suffragare le suddette anime.
Offrii nel sacrificio della santa Messa gli infiniti meriti di Gesù Cristo. La mia povera preghiera, avvalorata dai meriti del buon Gesù, fu molto efficace. Tutte ad un tratto furono liberate da quel tenebroso carcere: erano queste nel numero 15.
All’Introito della Messa la povera anima mia fece la preghiera; al Sanctus si ottenne la grazia; all’Elevazione furono liberate.
L’anima del mio padre con il suo Angelo custode al Sanctus recò loro la felice nova; all’Elevazione i rispettivi Angeli custodi delle suddette anime scesero con somma allegria in quel carcere, e trattele fuori da quell’oscuro luogo, al momento apparvero ammantate di splendidissima luce, si sollevarono al Cielo, dopo aver profondamente adorato il divin sacramento esposto, fatto un profondo inchino davanti all’altare, ringraziarono la povera anima mia, con gesto di gratitudine, se ne andarono felicemente agli eterni riposi.
32.2. La mia troppa delicatezza
Il dì 7 novembre 1815, nella santa Comunione, la povera Giovanna Felice: per una mancanza commessa ero tutta intenta a piangere i miei peccati, la mia troppa delicatezza, la notte avendo sofferto molto freddo, nello svegliarmi mi trattenni per mezz’ora in riposo, per vedere di scaldarmi i piedi, lasciandomi vincere dalla mia debolezza. Invece, come sono obbligata, di disprezzare il mio corpo, trovai di averlo accarezzato. Mi avvidi di questa mancanza, quando mi misi in orazione.
Oh, quanta umiliazione apportò al mio spirito la suddetta mancanza! Piangevo amaramente la mia ingratitudine; confondendomi in me stessa chiedevo umilmente perdono al mio Signore. In questa profonda umiliazione andai a ricevere la santa Comunione. Tutto ad un tratto fu sopraffatto il mio spirito da interna quiete, e in questo tempo mi trovai nell’anzidetto tabernacolo. L’anima mia si sbigottì, dubitando di ardire troppo.
Nel tempo che ero in questo timore, mi apparvero i santi patriarchi, unitamente al mio gran padre sant’Ignazio. Così presero a parlare: «Rallègrati, o figlia, non paventare. E non conosci evidentemente che la grazia dell’Altissimo ti circonda da ogni lato? Inòltrati, inòltrati senza temere». E additandomi una scala altissima, che poneva il suo fine alla sommità del cielo, mi fecero intendere che alla sommità di quella dovevo ascendere. Mi manifestarono il cortese invito del sovrano loro re.
A questo invito la povera anima mia inorridì. «Mio Dio!», esclamò piena di confusione, «e come potrà mai una vostra creatura tanto ingrata ardire d’inoltrarsi tanto? come ardirà di ascendere a tanta altezza?».
Umiliandomi profondamente non osavo salire la scala, ma, tenendo fisso lo sguardo sopra me stessa, confessavo la mia indegnità. Molto mi affliggevo, trovandomi manchevole per la mancanza suddetta.
Piangendo dirottamente dicevo: «Mio Dio, voi amate la penitenza, e io sono la stessa mollezza. Oh, quanto sono dissimile da voi! Oh, quanto mi confondo, Gesù mio!».
Il pietoso Signore, nel vedermi così annientata, mi prese a consolare, mi fece intendere che la sua grazia mi rendeva degna del suo amore. A questa cognizione, la povera anima mia si abbandonò tutta in Dio, e sperando nei suoi meriti infiniti, si lasciò guidare dall’eterno suo amore.
A questo mio abbandono, lo Spirito del Signore s’impadronì di tutta me, rapidamente m’investì e mi condusse per l’eminente scala. In questa scala sono significati tre gradi di altissima perfezione, per dove l’anima ascende ad un grado molto particolare di unione, per quanto ne può essere capace come viatrice; arriva a penetrare i cieli, e qual colomba di amore arriva a collocare il suo nido nel cuore amoroso del suo Signore.
Salì dunque con somma agilità molti gradini della suddetta scala, sperimentando nel mio cuore una totale innovazione di spirito. Fu comunicata al mio intelletto una particolare penetrazione. Oh come conoscevo bene il mio Dio, oh come conoscevo me stessa! In Dio mi rallegravo, in me stessa mi confondevo, umiliandomi profondamente, amavo ardentemente il mio amoroso Signore; ma, senza avvedermi, il mio spirito si va inoltrando leggiadramente per la suddetta scala.
Mio Dio! e dove mai sono arrivata? e come mai ho penetrato questo altissimo luogo? Mio Dio, che ardire è il mio! io più non conosco me stessa! che luce, che splendore è questo mai che mi circonda? Dove mai sono io? Oh portento glorioso di carità! la sapienza eterna mi contiene in se stessa. Eccomi arrivata alla prima mansione! Oh bella scala, dove mi conducesti?
Per ordine del divino spirito qui si fermò la povera anima mia. Anima mia, dove tu sei? quale ardire è il tuo? Come penetrasti luogo sì eccelso? contenuta sono dall’eterna sapienza. O santo amore, dove mi conducesti? Ma, o Dio, viene meno il mio spirito per l’esuberanza dell’affetto. Qual carità possiede mai il mio cuore! Mio Dio, dove sono? Questo è un paradiso! che dolcezza, che gaudio, che purità d’intenzione, che amore essenziale, che unione! Mio Dio, ecco che si trasforma tutto tutto in voi il mio spirito e l’anima mia è penetrata dal vostro amore! La suddetta unione mi ridusse affatto priva di ogni sensazione; sperimentai nel cuore dolcissimo riposo, ma come non bastasse, tornò con nuovo favore a mostrarmi la sua carità.
Ecco l’eterno Dio che si spiccò dall’alto, per mezzo di bella luce tornò ad investirmi della celestiale unione, volle lasciarmi un pegno, bella croce scolpita nel cuore mi lasciò.
32.3. L’aiuto dei Santi Trinitari
Dopo che il Signore si degnò, nell’unione del giorno 7 novembre 1815, compartirmi il prezioso dono della scienza, da me stoltamente rifiutato, come si è già detto al suo luogo, fin da quel giorno il mio spirito desidera ardentemente di imitare il Crocifisso suo bene, desidera vincere e superare la sua propria debolezza, desidera patire quanto mai dir si possa; vuole lo spirito ridurre il corpo in schiavitù, ma questo geme e si conturba; lo spirito vorrebbe negargli il necessario sostentamento, vorrebbe perfino con ferri taglienti di propria mano scarnificare le proprie ossa, per amore di quel Dio che volontariamente si fece per nostro amore scarnificare le sue carni immacolate.
Il mio povero spirito, nel vedersi affatto impotente di eseguire le sue brame, piange, si affligge, sospira, si raccomanda all’intercessione dei santi, con particolare affetto, il giorno che ricorreva, la festa del gran patriarca san Felice di Valois, il dì 20, mi raccomandai caldamente al beato Simone, al beato Michele, al venerabile padre Giovanni Battista della Vergine, acciò si fossero degnati, questi santi trinitari, di intercedere per me presso il glorioso san Felice, loro fondatore, per ottenermi la bramata grazia, il totale disprezzo di me stessa.
Per facilitare il conseguimento della grazia, con l’approvazione del mio direttore, rinnovai i voti, i propositi, con una rinuncia particolare e generale a tutto quello che possa soddisfare lo spirito, protestandomi di non voler cercare altro che il puro amore essenziale. Si fece dunque tutto questo da me, per mezzo di particolare grazia, compartitami dall’infinita bontà di Dio. Dalla generosa rinuncia ne riportai favore molto distinto. Mi apparvero i sopra accennati santi trinitari e mi condussero al trono del gran patriarca san Felice di Valois.
Per questo favore la povera anima mia era ripiena di confusione, un santo timore non mi permetteva di potermi avvicinare al lucido trono del gran patriarca, benché scortata fossi dai degni figli di sì gran padre. Il beato Simone mi fece coraggio, e datomi a tenere il lembo della sua cappa, mi condusse al rispettabile suo trono, gli mostrò i miei buoni desideri. Il santo patriarca mi degnò di calcare la sua gloriosa mano sopra il mio capo. Ai piedi del suo trono feci la rinnovazione dei voti e la rinuncia di sopra accennata. I miei voti, propositi e rinuncia apparvero nelle mani del santo patriarca come preziose gioie. Le pose in ricco bacile, si degnò accompagnarmi, unitamente ai tre amati suoi figli, all’augusto trono dell’altissimo Dio. Il santo patriarca presentò per me al trono di Dio la mia povera offerta; il pietoso Dio, per sua bontà, mostrò il suo gradimento, unendomi a sé intimamente, mi fece provare gli effetti mirabili della sua carità.
32.4. Il patrocino di san Giovanni Battista della Concezione
Il dì 11 novembre 1815 il mio spirito proseguiva nella medesima maniera: piangeva, sospirava, pregava, si affliggeva, per vedersi ingrata al santo e puro amore di Dio. Questa è per me una croce tanto sensibile che mi sta impressa nel cuore, e notte e giorno mi tiene in continuo martirio; questa croce mi pare che sia quella che nella passata unione si degnò il mio amorosissimo Dio di imprimermi nel cuore. Da quel giorno la mia cattiva corrispondenza si formò oggetto di gravissima ma pacifica afflizione; non sa più rallegrarsi il mio cuore, solo desidera imitare il Crocifisso suo bene, ma nel vedersi tanto dissimile da lui, piange, geme, sospira, prega incessantemente l’amato suo bene, acciò si degni donarmi la corrispondenza, l’amore.
Piena di fiducia, mi rivolsi alla valevole intercessione dei tre santi trinitari suddetti, con calde lacrime e veementi desideri invocai il loro valevole patrocinio. I pietosi santi mi apparvero tutti e tre, piacevolmente, e mi consolarono, facendomi sperare, a suo tempo, il conseguimento della bramata grazia.
Il beato Simone mi dette a tenere il lembo della sua cappa, il beato Michele si degnò di darmi a tenere il suo scapolare nelle mani, il venerabile padre, per darmi coraggio e per avvalorare il mio povero spirito, con trasporto di carità paterna, mi chiamò col dolce nome di figlia.
Oh, qual consolazione provò il mio cuore, quando così intesi chiamarmi: «Mia figlia, non temere! appòggiati sopra la mia spalla destra».
Alle sue parole il mio spirito, preso da santo timore, dubitò di qualche inganno, ma il santo padre conobbe il mio pensiero, e così soggiunse: «Non dubitare di inganno. Appòggiati liberamente, con santa libertà di figlia; e io ti prometto di sostenerti con carità paterna».
A queste sue parole l’anima mia fu sopraffatta da santa fiducia; assicurata dallo Spirito del Signore, appoggiai con sommo rispetto la testa sopra la sua venerabile spalla, in atto umile, obbediente e modesto, mostrando verso di lui la soggezione e l’amore filiale. Il venerabile padre mostrò verso l’anima mia gli affetti più vivi della sua paterna carità.
In quel felice momento godei un bene molto particolare nello spirito; ma particolarmente sperimentai un totale abbandono di spirito nella sua paterna carità. Io non so ridire, molto grande fu la consolazione di spirito che mi recò il distinto favore.
Il dì 22 novembre 1815, nella santa Comunione, così la povera Giovanna Felice: mi apparve nuovamente il venerabile padre, mi confortò con parole molto amorevoli e mi fece di bel nuovo appoggiare sopra la sua veneranda spalla; mi assicurò del valevole suo patrocinio. L’amorosissimo Dio, per mostrarmi la sua compiacenza, nel vedermi sostenuta da questo suo fedelissimo servo, dall’alto dei cieli mandò un raggio del suo splendore a formare una strada dritta, perché la povera anima mia potesse liberamente e facilmente sollevarsi al cielo per godere le divine misericordie.
Allora mi disse il venerabile padre: «Va’, figlia, non indugiare»; e, datami la paterna benedizione, l’anima mia, per mezzo di quel raggio di luce, si sollevò al cielo. Dio mi degnò di un grado molto alto di unione, da questa unione ne riportai un favore ben grande: mi promise il Signore di farmi godere in cielo il merito della clausura; e questo, mi fece intendere, che era in premio di quel volontario ritiro che esercito per suo amore.
32.5. Restò come liquefatto il mio spirito
Il dì 25, nella santa Comunione, era veramente martirizzato il mio cuore dal gran desiderio di imitare l’amoroso Gesù. Considerando quanto mai sono dissimile da lui, piangevo amaramente la mia miseria; mi raccomandai caldamente alla divina madre, Maria santissima.
Andava ogni ora più crescendo il desiderio di vincere e superare la mia debolissima, miserabilissima natura; lo spirito si armò senza pietà contro il corpo, il corpo si contristava, e la povera anima mia pativa pene di morte, perché voleva superare la sua propria debolezza, e non poteva.
In questa gravissima pena mi raccomandai al mio gran padre sant’Ignazio, ricordevole delle sue parole, così presi a dire: «O santo glorioso, adesso conosco cosa mi volevate dire, quando mi diceste che per arrivare alla perfezione mi mancava ancora di vincere la carne e il sangue. Avete ragione, questo è veramente il maggior ostacolo della perfezione! Mi raccomando a voi, o gran santo: ottenetemi questa grazia!».
Dopo la suddetta preghiera, fu al mio spirito comunicato un bene soprannaturale, per mezzo del quale sperimentai un riposo molto particolare; perdetti ogni idea sensibile. In mezzo a questo perfetto riposo, mi parve di vedere l’umanità santissima di Gesù Cristo, unita alla sua divinità, che con raggio di luce, che tramandava dalla sua mano destra, percosse il mio povero cuore e fece da questo scaturire dolcissimo liquore. E, accostate le sue purissime labbra al mio povero cuore, si degnò gustare il prezioso liquore.
E chi mai potrà ridire i mirabili effetti che provò il mio cuore? Restò come tutto liquefatto il mio spirito al prodigioso contatto del suo divin Salvatore; tutta tutta l’anima mia fu liquefatta dal puro e santo suo amore: mio Dio, quanto è mai grande il vostro amore, e chi mai potrà comprenderlo? o come ardisco io mai manifestarlo? E non sono io la creatura più vile che abiti la terra? donde dunque tanto ardire? O santa obbedienza, quanta pena mi fai soffrire!
33 – IL LATTE DELLA DIVINA MADRE
33.1. Le gravi afflizioni della Chiesa
Il dì 2 dicembre 1815 ebbi notizia che il Sommo Pontefice, Papa Pio VII, cesserà di vivere in tempo che sarà in Roma l’imperatore d’Austria. Allora incominceranno le gravissime afflizioni nella Chiesa di Dio, i religiosi e le religiose saranno espulsi con violenza dai loro monasteri. Questo lo permetterà Dio per trovarsi sdegnato per i tanti abusi introdotti nelle comunità, per le tante trasgressioni di regole. Tutto il popolo era in gravissima afflizione; ma l’afflizione si faceva maggiore, per l’elezione del nuovo Pontefice, che si faceva dall’imperatore.
Oh che travagli! oh che pene! oh che tribolazioni! Ma non per questo la Chiesa cattolica era senza capo, altra elezione legittima aveva già fatto lo Spirito Santo, ma il legittimo Papa era nascosto. Mi pareva che il cristianesimo si trovasse nella maggiore oppressione.
Alla rappresentanza di questa immaginaria afflizione, venne meno il mio spirito, fui sopraffatta dalla pena nel vedere tanta crudeltà, perdetti ogni uso di riflessione e di sensazione.
Raccomandiamoci caldamente al Signore, perché molto possiamo mitigare il suo giustissimo sdegno, con le preghiere, con le buone opere e con la pratica delle sante virtù.
Dio è sdegnato assai, assai; ma Gesù Cristo non fa altro che perorare per la nostra causa. Dunque uniamoci tutti a lui, e speriamo di ottenere la grazia che non abbia tanto a patire il povero cristianesimo, ma che si degni farci tutti buoni con la sua divina grazia.
33.2. Con la divina Madre nel coro dei Padri Trinitari
Il dì 8 dicembre 1815, nell’orazione subito levata, dopo essermi trattenuta due ore circa in profonda umiliazione, per conoscermi meritevole di mille inferni, per la mia scelleratezza, per la mia iniquità, piena di affannose lacrime deploravo le mie colpe, e, rivolta ai meriti di Gesù e di Maria, chiedevo perdono dei miei falli.
Ero tanto profondata nel mio nulla, che non mi ritrovavo; quando ad un tratto fui sopraffatta da perfetta quiete; dalla quiete lo spirito passò ad un riposo dolcissimo. In questo tempo mi parve di essere trasportata nel coro dei Padri Trinitari; trovai quei buoni religiosi in orazione, stava il mio spirito in qualche timore, perché non mi pareva conveniente trattenermi qui, ma fui dal mio Angelo custode obbligata a rimanere, per vedere quanto era per seguire.
Obbedì umilmente il mio spirito, in un angolo del coro dei religiosi trinitari si trattenne il mio spirito, quando improvvisamente vedo aprire una finestra del coro, volgo lo sguardo e vedo come aprirsi il cielo, e dalla sommità di esso vedo scendere molti Padri Trinitari, che per mezzo della suddetta finestra si introducevano nel loro coro. Vennero questi ad occupare i loro posti, oggi già vuoti; occupati che furono da questi i posti, vedo dall’alto dei cieli scendere altri Padri Trinitari, e con loro i santi patriarchi che, pieni di gaudio, conducevano la divina madre, Maria santissima, corteggiata da immenso stuolo di Angeli.
L’eccelsa regina si fece vedere in mezzo al coro, piena di amore e di affetto verso i tre religiosi viventi; non sto qui a dire quale onore, quale omaggio le rendessero tutti quei santi religiosi, che erano scesi dal cielo, né il cortese ricevimento che le fecero i santi fondatori, compiacendosi di renderla padrona del loro santo Istituto. Le tributarono onore e gloria, qual celeste loro sovrana, tutti dunque le facevano applauso.
I santi patriarchi si degnarono di presentare i tre religiosi viventi a questa sovrana signora; e lei, tutta amore, tutta carità verso i tre suddetti religiosi, li chiamò a sé; e, fattili a sé avvicinare, prese nelle mani un bellissimo vaso, lo accostò con somma modestia al suo petto verginale, ne trasse il prezioso suo latte; distesa poi la sua mano destra; ne dette a gustare ai tre religiosi suddetti, che, prostrati ai suoi piedi, se ne stavano tutti contenti. Nel somministrare loro la preziosa bevanda, diceva la divina Madre: «Prendete, miei cari figli, questa vi libererà dalla venefica infezione».
Il mio spirito, nel vedere che quei buoni religiosi erano stati favoriti dalla divina Madre con tanta cortesia, anche io, animata da filiale speranza, desideravo ricevere grazia dall’eccelsa regina; a questo oggetto mi raccomandavo caldamente ai santi patriarchi, ma questi mi fecero intendere che quello non era né tempo né luogo.
A questa notizia il mio spirito si umiliò profondamente; in questo tempo mi parve di vedere che quei religiosi, che erano scesi dal cielo, si mettessero in ordine di processione, e con torce accese nelle loro mani, condussero l’eccelsa regina nella loro chiesa.
Allora i santi patriarchi mi dissero che questo era il tempo che potevo dalla divina Madre ottenere quanto bramavo. I santi gloriosi si degnarono di presentare al suo trono le mie suppliche, stava la divina Madre all’altare maggiore, scortata da moltitudine di Angeli, assisa se ne stava in ricco seggio, circondata da splendidissima luce.
La povera anima mia, annientata nel suo nulla, trema qual foglia, che da impetuoso vento viene dibattuta; non osavo accostarmi, benché la divina Madre amorevolmente mi guardasse, e i santi patriarchi mi facessero coraggio; piangevo dirottamente, ricordandomi la mia infedeltà: «E come», dissi, «io potrò accostarmi alla divina Vergine, se mi trovo colpevole? Ah Madre santissima», esclamai, «lasciatemi partire! Troppo disonore faccio al vostro puro cuore!».
Piangendo dirottamente ero sul punto di partire, ma la pietosa Madre non mi permise di partire: «Figlia», mi disse, «non paventare; quello che perdesti per colpa, riacquistasti per grazia; vieni a me liberamente».
Alle parole amorose ed insieme autorevoli di questa Vergine e Madre, la povera anima mia fu sopraffatta da viva speranza; invece di partire, mi prostrai ai suoi santissimi piedi, ma in lontano, senza avvicinarmi.
La divina Madre, vedendo il mio timore, ordinò ai santi patriarchi che a lei mi conducessero. La povera anima mia non si oppose; ma, avvalorata da viva fiducia, mi presentai a lei umilmente e rispettosamente. Sentivo tanto amore verso di lei, che mi cagionava nello spirito un gaudio, una letizia che mi faceva esultare, porgevo dunque a lei i miei più cordiali ringraziamenti, e fra le altre espressioni che le faceva il mio povero cuore, una era questa: «Madre», le diceva, «Madre pietosa, Madre amorosa; tutti i giorni miei, cara Madre, a voi li devo».
A questa espressione l’anima mia aveva cognizione particolare di tutte le grazie che questa divina Madre mi ha compartite in tutto il tempo della mia vita passata; l’anima mia a questa cognizione si accendeva di santo amore verso di lei, e dall’amore e dal gaudio non potevo più contenere me stessa: disciolta e liquefatta la povera anima si era alla sua presenza.
La divina Madre si compiacque di vedermi così amante di lei: «Figlia», mi disse, «prendi questo mio latte, questo ti renderà forte nei travagli, costante nei pericoli, sicura nella morte».
Lei stessa, con le sue santissime mani, per mezzo di ricchissimo vaso, mi fece gustare una dolcezza di paradiso. Dopo aver goduto un bene inarrabile, desiderai di far comune a tutti grazia così particolare, particolarmente quelle persone che mi usano della carità. La supplicai, dunque, di concedermi la grazia; la divina Madre, tutta amore, a me rivolta, mi disse: «Prendi nelle tue mani il vaso, ma avverti che nessun cuore immondo a questo si appressi».
«Ah, Madre», io le dissi, piena di santo timore, «ritenete pure il vaso nelle vostre santissime mani, perché io non ho tanta cognizione di conoscere quali siano i cuori immondi di cui mi parlate. Ritenete, dunque, nelle vostre santissime mani il vaso, che io vi pregherò perché vi degniate di farne gustare a quelle anime che le professo tante obbligazioni».
Pregai dunque per diverse persone, che credo bene di non nominare, e anche queste ebbero la bella sorte di gustare il prezioso suo latte; ma non a tutti quelli che raccomandai potei ottenere la suddetta grazia.
La divina Madre non acconsentì che tutti gustassero di quel prezioso liquore, ma ciò nonostante si degnò di benedirli tutti, compartendo loro una particolare ispirazione, secondo il loro bisogno, per ravvedersi dei loro errori; poi si degnò di alzare la sua mano destra per benedire tutti, e disparve, lasciando nel mio cuore un paradiso di contento, che mi tenne tutto il resto della giornata, e buona parte della notte, assorta in Dio.
33.3. La nostra cara Madre, la santa Chiesa
Il dì 10 dicembre 1815, nella santa Comunione, ero tutta afflitta, per essere stata, nell’orazione subito levata, molto distratta e senza raccoglimento. Riconoscevo la poca diligenza che avevo usato nel cacciare le distrazioni; chiedevo dunque perdono al Signore, mi umiliavo, mi confondevo, piangevo amaramente le mie colpe; quando fui sopraffatta in un momento da interna quiete.
In questo tempo mi si diede a vedere la nostra madre, la santa Chiesa, sotto la forma di donna veneranda: la vedevo esteriormente tutta adorna, tutta bella; questa la vedevo supplichevole all’augusto trono di Dio, che qual Madre pietosa pregava per noi, poveri suoi figli; ma particolarmente pregava per il clero regolare e secolare.
Mio Dio, con mio sommo timore proseguirò, sebbene sono molti giorni che mi seguì questo fatto, adesso che scrivo, e ancora sento balzarmi il cuore nel petto per l’orrore, per lo spavento, ma per non mancare all’obbedienza proseguo.
Supplichevole, dunque, pregava incessantemente per noi. Macché! Dio, sdegnato alle sue preghiere, con tono di voce sonora così le diceva, la sua voce non è sensibile, ma il sentimento era tutto spirituale; per mezzo di intelligenza intellettuale, mi dava a conoscere quanto sono per raccontare.
La santa Chiesa pregava, e Dio sdegnava le sue preghiere; e, armato di giustizia, così diceva: «Prendi parte nella mia giustizia, e giudica la tua causa!».
A queste tremende parole, la veneranda matrona impallidì, e, presa parte nella giustizia di Dio, di propria mano si spogliava dei suoi adornamenti.
Vidi poi venire tre angeli esecutori della divina giustizia, che davano di mano a spogliare la veneranda matrona. Si ridusse la forte donna in stato umile e negletto, priva di forze, tutta spogliata, e quasi era sul punto di cadere. Allora dall’eterna sapienza le fu somministrato un forte bastone per reggere la sua debolezza. La divina potenza coprì il capo di lei con ricco cappello, l’inclita donna aveva perduto ogni splendore, se ne giaceva nelle tenebre, tutta mesta e dolente per l’abbandono dei suoi amati figli.
Il divino Spirito la circondò con la sua immensa luce. Rivestita che fu l’inclita matrona di questa luce, tramandò il suo splendore in quattro diverse parti, dove questa divina luce faceva cose mirabili.
Gli abitatori di questi luoghi erano come addormentati, all’apparire di questa divina luce si destavano; e, lasciati i loro errori, di volo si portavano ad onorare l’inclita donna, la nostra cara madre, la santa Chiesa. Tutti si compiacevano di militare sotto gli auspici di questa eccelsa donna, tutti confessavano Gesù Cristo Signore nostro.
Al momento compariva la nostra madre, la santa Chiesa, tutta adorna e gloriosa più di prima. Gli ordini religiosi davano a lei il grande onore, formavano come un magnifico tempio per sostenerla con tutte le loro forze. Sei erano le colonne che la sostenevano, queste erano sei corpi di religione, questi sei ordini erano quelli che rendevano gloriosa la nostra madre, la santa Chiesa; sollevata a questa onorificenza, tutti venivano ad onorarla, adottando le massime del nostro santo Evangelo.
33.4. La mia misera natura
Dal dì 12 fino al 20 dicembre 1815 il mio spirito ha goduto particolar raccoglimento, ma il gran desiderio di vincere e superare la mia misera natura mi teneva, e tuttora mi tiene, in qualche afflizione.
Lo spirito desidera di essere crudo carnefice del corpo, di propria mano vorrebbe farne spietata carneficina; nonostante questo buon desiderio, la parte inferiore, la mia debolezza, me ne contrasta l’esecuzione.
La povera anima mia, nel vedersi così misera, geme, si raccomanda al suo Signore, acciò faccia possibile per grazia quello che per natura mi si rende impossibile.
Si umilia lo spirito, si annienta, riconosce il suo nulla, si raccomanda, piange, sospira per ottenere dal suo pietosissimo Dio la sospirata grazia di vincere e superare il mio amor proprio, di superare me stessa, negando al corpo non solo ogni sorta di soddisfazione, ma con affliggerlo, aggravarlo sotto i più spietati tormenti, ridurlo in una penosissima schiavitù.
33.5. Il sacro abito trinitario
Il dì 21 dicembre 1815, nella santa Comunione, così la povera Giovanna Felice racconta di sé. Ero tutta intenta a chiedere la vittoria su me stessa, e tra lacrime e sospiri speravo di ottenere dal mio Signore la grazia per i suoi meriti infiniti, tra le lacrime e i sospiri fui sopraffatta da leggero sonno. In questo tempo mi parve di vedere la città di Roma in stato di gravissime afflizioni e travagli, tutti erano afflitti e spaventati, erano pieni di mestizia e di timore: vedevo il popolo ammutinato, vedevo una gran rovina.
Nel vedere tutto questo ammutinamento di popolo così afflitto e spaventato, vedevo rovinare le case, i palazzi; vedevo una chiesa incendiata, che era sul punto di rovinare. Tutti i circostanti erano spaventati, nessuno aveva animo di penetrare il rovinoso tempio per l’imminente pericolo che sovrastava.
Un’anima a me cognita, mossa da spirito superiore, cercò di inoltrarsi nel rovinoso tempio; ma prima di esporsi al grave pericolo, prese licenza dal suo padre spirituale, che si trovò presente. Ottenuto dal suddetto il permesso, piena di santo ardire, per liberare il santissimo Sacramento, si gettò in mezzo alle ardenti fiamme; i circostanti restarono altamente meravigliati, credendo sicuramente che l’imprudente zelo le dovesse costare la vita; ma, come piacque a Dio, la suddetta anima, con la sacra pisside nelle mani, comparve illesa in mezzo al grande incendio.
Allora il popolo alzò le grida: «Miracolo, miracolo dell’onnipotente Dio!». Tutti sopraffatti da viva fede e da vera devozione piangevano di tenerezza e di contrizione, confessando vera quella fede che prima disprezzavano; pieni di umiltà si percuotevano il petto, andava ogni momento più a farsi grande il concorso del popolo, e viepiù cresceva la devozione. Intanto la suddetta anima consegnò la sacra pisside ad un certo religioso a me cognito, subito si fece portare gli abiti sacri e, vestitosi, sollecitamente prese il santissimo Sacramento. Al momento il devoto popolo si mise in ordine di processione, e al momento si provvide di torce per accompagnare magnificamente il santissimo Sacramento.
Il citato religioso condusse alla sua chiesa la sacra pisside, e la espose alla pubblica venerazione; da più di cento lumi fu adornato il sacro altare, mentre tutti si facevano un pregio di regalare cera e tutto quello che faceva bisogno per la magnifica esposizione. Mi pareva che Dio si degnasse di fare molti miracoli e grandissime conversioni; grande era il concorso del popolo che di notte e di giorno a gran folla alla chiesa si portava. E, per appagare la devozione, per quindici giorni e quindici notti restò esposta alla pubblica venerazione la suddetta sacra pisside.
Il sommo Pontefice di quei tempi, saputo questo fatto, volle portarsi in persona alla suddetta chiesa, e volle del suddetto fatto esser pienamente informato. Il sommo Pontefice volle parlar con il confessore della citata anima. Il Santo Padre, dopo essere stato del tutto informato, volle conoscere la suddetta anima, si portò dunque la suddetta dal Papa, il quale le disse che liberamente avesse domandato quello che voleva, mentre il suo cuore era disposto a compiacerla. Allora la suddetta, prostrata ai piedi del Vicario di Gesù Cristo, gli domandò in grazia di fondare un ordine di trinitarie scalze, e le fu accordato, e in quel momento stesso il Sommo Pontefice le destinò un monastero, e le promise di essere lui il protettore di questo ordine. Richiese di ascriversi all’ordine trinitario con vestire il santo abitino, dovette dunque a questo oggetto portarsi un Padre Trinitario al sacro palazzo per fargli nella cappella papale la sacra funzione di ascrivere il Sommo Pontefice all’Ordine Trinitario.
Molti vescovi, cardinali, prelati e signori vollero ascriversi a questo sacro Ordine, con prendere il santo abitino. Il sommo Pontefice conferì un vescovato al citato Padre Trinitario. Intanto la detta anima, in compagnia di molte altre compagne, entrarono nel monastero a loro assegnato dal Sommo Pontefice e subito le fece provvedere di quanto faceva loro bisogno, dimostrando tutto l’impegno di proteggerle e sostenere questo sacro istituto.
Molte anime di santa vita abbracciavano questo sacro istituto, e molte persone di nobile condizione si tenevano per molto fortunate di poter vestire il sacro abito trinitario.
Mi protesto di non voler in nessun modo sostenere quanto ho raccontato, ma solo manifestare a vostra paternità reverendissima come passai il tempo in quel suddetto sonno.
34 – UN DARDO MI TRAFISSE IL CUORE
34.1. Otto ore di orazioni
Il dì 24, notte del santo Natale, mi trattenni otto ore continue in orazioni, due ore prima della santa Comunione, cioè dalle ore sei fino alle ore otto italiane, le passai in sommo raccoglimento e in un gaudio, in una letizia intima, che rendeva al mio cuore pace, tranquillità, amore. Nel tempo che stavo così sopita, il mio amoroso Signore mi si fece vedere sotto la forma di vago bambino con crudo dardo in mano, mirandomi con sommo amore mi colpì il cuore.
Oh, come in un momento si accese di santo amore il povero mio cuore! Quando mi credevo di possedere l’amante, mi trovo affatto priva dell’unico mio bene. Pieno di affanno il cuore, con lacrime e sospiri, mi misi ad ogni intorno a ricercare il mio bene. Dicevo, piena di santo affetto: «Mio Dio, dove ne andasti? Mio Dio, chi mi ferì? Oh, crudo, oh dolce strale, tu mi feristi il cuore, dolor sopra dolore tu mi fai soffrir. Amico mio carissimo, diletto del mio cuore, dolcissimo Gesù, perché ferirmi dunque se poi fuggir vuoi tu? Oh pena crudelissima, perché non mi fai morire?».
Così si andava querelando la povera anima mia con il suo Signore. Oh quante pene mi costò la sua sottrazione. In un momento priva restò la povera anima mia del suo Dio; pena crudelissima che rassomigliar si può al purgatorio, o, per dir meglio, ad un inferno, quanto mai mi fece piangere il mio Signore in quella santa notte del suo Natale. Cinque ore mi tenne in pene gravissime, perché credevo che mi avesse abbandonata; finalmente dalla gran pena mi mancò lo spirito e restai vittima del dolore.
In mezzo al grave dolore si sopì lo spirito, e mi parve di trovarmi in una aperta campagna, dove vidi un monte altissimo, alla sommità di questo vidi l’amato mio Gesù, tutto circondato di luce, sotto l’immagine di leggiadro bambinello; m’invitava a salire quel ripidissimo monte; era con lui Maria santissima, con il castissimo suo sposo Giuseppe, ma non già abietti, come un giorno si degnarono di abitare in questo mondo per nostro amore, ma li vedevo belli, gloriosi, circondati da immensa luce. La bellezza, la vaghezza di quel caro Bambinello non è possibile descriversi; pieno di amore a me rivolto m’invitava a salire quel ripidissimo monte, ma la povera anima mia, confessando la sua debolezza, si conosceva affatto incapace di salire tanto alto.
Mi misi a piangere dirottamente, e tra lacrime e sospiri pregavo incessantemente, perché si fosse degnato darmi tanta grazia di ascendere fino alla sommità di quel monte, per così potermi avvicinare a lui.
Alle replicate preghiere si degnò compiacermi, da forza superiore fu sopraffatto il mio spirito, e con sommo coraggio potei camminare in mezzo a molti disastri e salire l’alto monte.
Il povero mio spirito rapidamente si slanciò verso l’amato suo bene, che amorosamente con le braccia aperte si degnò ricevermi, e dolcemente mi strinse al suo cuore.
Oh qual contento provò il mio spirito! Tutto tutto si disfaceva di amore in lacrime di dolcezza e di gaudio inenarrabile.
34.2. L’altissimo monte della perfezione
Il dì 27 dicembre 1815, il Signore mi fece intraprendere un viaggio molto disastroso e afflittivo; mi mostrò una strada ripida, che poneva il suo fine alla sommità di un altissimo monte, questo era quello stesso che mi mostrò la notte del santo Natale.
Nuovamente mi apparve il mio Signore, sotto la forma di leggiadro bambino, e, facendomi coraggio, m’invitava fino alla sommità di quell’altissimo monte, che è quanto dire ad un’alta perfezione vuol sollevare Dio la povera anima mia. Guai a me, se non corrispondo all’infinito suo amore: l’inferno mi aspetta! Mio Dio, degnatevi di usarmi misericordia! La povera anima mia nel vedere i disastri della strada dell’erto monte, le balze, i torrenti, le spelonche dei selvatici animali, i frondosi alberi, che quasi del tutto ricoprivano il chiaro della luce, e quasi in una tenebra mi pareva di camminare, voragini di fuoco vedevo di tanto in tanto, che tramandavano oscure fiamme.
A questa tetra immaginazione lo spirito paventò, e pieno di timore, bilanciando le proprie forze, gli si rendeva impossibile intraprendere un viaggio così faticoso e afflittivo, pieno di smarrimento era il mio cuore, quando l’amante Signore mi si diede a vedere, e con dolci parole prese a confortarmi il cuore: «Figlia», mi disse, «che temi? che paventi? Io ti aiuterò; vittoriosa sarai dei tuoi nemici. La mia grazia ti renderà forte e invincibile. Fatti coraggio, confida in me, non dubitare fino alla sommità del monte ti aspetto, dove voglio far pompa delle mie misericordie».
A queste amorose parole la povera anima mia, fu avvalorata da viva fede, mi misi a camminare a fronte di tutti i disastri che mi si frapponevano, fidata solo nelle parole del mio Signore Gesù Cristo, il quale mi mostrò tre luoghi dove dovevo fermarmi per ricevere nuova forza per camminare.
34.3. Il perfetto amore mi trasformava in Dio
Il dì 29 dicembre 1815 nella santa Comunione, tornai nuovamente a vedermi per la suddetta strada, che mi affaticavo, con la grazia di Dio, a camminare, quando ad un tratto da forza superiore fui trasportata sopra di un bellissimo monte: quanto conteneva di bene questo misterioso monte non si può descrivere. Basti dire che in questo mi veniva significato il paterno seno di Dio. Trasportata che fui in questo benedetto monte, per via di attrazione il mio spirito fu internato nel monte; mi pareva che il monte aprisse il suo seno e dolcemente e soavemente mi ricevesse in sé, e così restò intimamente trasformata la povera anima mia in Dio; si andava ogni momento più inoltrandosi nell’infinita immensità di Dio.
E chi mai potrà ridire i mirabili effetti che sperimentò il povero mio cuore? Non è possibile veramente poterlo manifestare. Fu intimamente chiamata l’anima da Dio, e con somma occultezza ammaestrata, per mezzo di cognizioni molto particolari, riguardanti Dio medesimo.
Per mezzo di queste cognizioni l’anima si sollevò ad un amore sublime, incomprensibile, non so dir di più. So bene però che perdetti ogni uso di ragione e di sensazione. Dopo ben tre ore, seguitomi il suddetto fatto, potei, con la grazia di Dio, portarmi alla mia casa, dove tornò a sopirsi lo spirito, e così tornai a perdere l’uso dei sensi; sicché dalle ore 17 fino alle ore 20 proseguì il mio spirito a stare sopito in Dio, dalle ore 20 alle ore 22 tornò lo spirito nell’uso dei sensi, dalle ore 22 fino alle ore 6 della notte tornò Dio a rapire lo spirito, perdetti ogni idea sensibile, tornai a perdere l’uso dei sensi, in questo tempo Dio mi fece godere un paradiso di contenti; la pace, il gaudio, la dolcezza, la soavità, l’amore rendevano sopraffatto il mio cuore, e il perfetto amore tutta tutta mi trasformava in Dio mio Signore, così che mi pareva di vivere della medesima sua vita. Per partecipazione godei un bene tanto grande e straordinario, che non so manifestare, mi diede Dio a godere un saggio di quel bene che si degnerà donarmi alla fine della mia vita. Questo fu il sentimento che ebbe il mio spirito. A questa cognizione l’anima si umiliò profondamente, e, confessando il suo nulla, rendeva grazie al suo liberalissimo benefattore, compiacendosi negli eccessi dell’infinita sua misericordia, godeva il mio spirito in Dio un gaudio così particolare, che non so descrivere. Mi trattenni, come già dissi di sopra, dalle ore 22 fino alle ore sei della notte, quattro ore circa mi riposai, ma questo riposo fu più soprannaturale che naturale; mentre nel coricarmi mi parve che lo spirito più speditamente se ne andasse a Dio.
Dopo quattro ore di riposo mi misi in orazione, e stetti tre ore in orazioni in ginocchioni immobile, senza il minimo appoggio, senza provare la minima pena, proseguendo lo spirito a stare tutto assorto in Dio. Molto grande fu il lume di propria cognizione che Dio si degnò compartirmi, da quali bassi sentimenti fui sopraffatta, oh come si profondava nel suo nulla! confessandosi per la più indegna peccatrice che abbia mai abitato la terra.
34.4. Libera un’anima dalle mani del demonio
Il dì 3 gennaio 1816, nella santa Comunione, così la povera Giovanna Felice racconta di sé. Fu il mio spirito sollevato da particolare orazione, mi parve di trovarmi circondata di luce che dall’alto dei cieli scendeva; in mezzo a questa luce vedevo i santi Re Magi, corteggiati da immenso stuolo di angeli. Questi santi Re, pieni di carità, a me rivolti, mi fecero intendere quanto grande era stata la grazia che Dio si era degnato compartirmi, mediante la loro valevole intercessione, mi dettero parte di avermi ottenuto da Dio una grazia molto grande.
La grazia era di aver liberato un’anima dalle mani del demonio, che aveva avuto già da Dio la potestà di dare a questo misero cruda morte. Questa era un’anima da me molto raccomandata nelle povere mie orazioni, acciò Dio si degnasse salvarla; ne impegnavo la protezione dei santi Re Magi, e della nostra madre, Maria santissima.
A questa notizia la povera anima mia, piena di gratitudine verso Dio e verso questi santi Re, porgeva umili ringraziamenti, e, versando dagli occhi un profluvio di lacrime di tenerezza, tutto tutto si disfaceva il mio cuore di amore, in lacrime, offrendo tutta me stessa al divino beneplacito del mio Dio. Ardentemente desiderai morire per amore e per la gratitudine. La suddetta grazia fu compartita all’anima suddetta il primo gennaio 1816, giorno del santissimo Nome di Gesù, liberandolo da un grave pericolo che le sovrastava: la morte.
34.5. I santi Re Magi mi condussero da Gesù e Maria
Il dì 3 del mese suddetto, i santi Re magi si degnarono recarmene la notizia, come si è detto di sopra. A questa notizia la povera anima mia, piena di affetto, rivolta a loro li supplicai che mi avessero condotto al mio Signore, per poterlo ringraziare; si degnarono questi gloriosi santi di condurmi sopra un’altura, dove mi parve di vedere la divina Madre con il divino suo pargoletto, tutto ammantato di luce. Io non osavo inoltrarmi in questo luogo, che pareva un paradiso, ma i santi Re mi fecero coraggio, e loro medesimi si degnarono condurmi davanti a Gesù e a Maria.
Il mio povero spirito si prostrò davanti a loro profondamente, e dopo aver confessato la mia ingratitudine, e riconosciuto il mio nulla, offrii tutto il mio cuore al mio caro Signore, il quale non sdegnò la mia povera offerta, ma fece sopra di questo tre impressioni. In queste tre impressioni venivano significate le tre virtù teologali. L’accrescimento di queste virtù apportò al mio spirito un bene tanto particolare, che non ho termini di spiegare.
34.6. Dio mi si diede a vedere
Il dì 10 gennaio 1816, nella santa Comunione, mi degnò Dio di un grado maggiore di orazione; questo mi fece intendere che mi disponeva a ricevere nuove grazie da lui. Intanto mi dava particolare cognizione dell’infinito amore che mi porta. Qual gaudio, qual contento, quale umiliazione apportò questa cognizione al mio cuore non ho termini di spiegarlo.
Si riempì il mio spirito di santa confidenza; l’amore, la gratitudine, il desiderio di corrispondere all’eccessivo suo amore sollevò lo spirito ad un’alta contemplazione, e penetrando intimamente le perfezioni di Dio, l’anima mia si riempì di gaudio, tanto si era internato in Dio lo spirito, che il corpo parevami l’avesse del tutto lasciato.
I buoni effetti che questa grazia mi fece sperimentare sono incomprensibili; mentre io che ne provai i buoni effetti non ne comprendevo la vastità. Il mio cuore amava Dio in modo molto particolare, ma io non lo so spiegare; solo dirò che se per amarlo mi avesse mostrato l’inferno, là mi sarei slanciata, tenendomi per fortunata patire quelle pene per avere il piacere di poterlo amare.
Il dì 13 gennaio 1816 nell’orazione subito levata, che durò tre ore e un quarto, i primi tre quarti non potei in nessun modo fermare la immaginativa. Tutte leggere idee mi si presentavano alla mente, per ben tre volte mi misi alla presenza di Dio, mai potei fissare la mente; finalmente vedendomi tanto miserabile, mi rivolsi al mio Dio, piangendo e sospirando acciò degnato si fosse di insegnarmi ad orare. A questa preghiera si mostrò pietoso Dio verso di me. Fui al momento sopraffatta da nuovo spirito, e intimamente riconcentrate le potenze, l’anima fu chiamata a somma attenzione. Si unirono le potenze e si soggettarono al suddetto spirito dominatore, che le aveva sopraffatte; in sommo silenzio se ne stava il mio spirito, questo silenzio fu interrotto da interna sonora voce, che con impero così mi parlò: «Donde ne venisti? chi sei? dove vai?».
A queste brevi domande riempirono in un momento il mio intelletto di molta magnificenza riguardo a Dio, e di annientamento riguardo a me stessa, reputandomi per la creatura più vile che abita la terra. Al momento da arido e oscuro che era il mio intelletto, divenne così perspicace, che per mezzo della grazia di Dio feci un’orazione molto particolare. Nel tempo che l’anima con somma agilità andava penetrando il suo principio e il suo fine, il suo nulla, sento di nuovo parlarmi: «Mira, o figlia, dove ti vuol condurre l’infinito amor mio».
Ciò detto, fu condotto il mio spirito in una vastissima città; ma la bellezza, la vaghezza, l’amenità non si può esprimere con ogni qualunque bellezza creata. Basti dire che Dio medesimo in questa città mi si rappresentava. Dove volgevo lo sguardo trovavo il mio Dio, ma il mio spirito era al sommo intimorito, parte per la sonora voce che mi aveva parlato, parte per vedermi in un luogo che mai avevo veduto. Stavo tutta tutta riconcentrata per il timore, quando da Dio nei fui assicurata: «Non temere di inganno, io sono il tuo Dio», mi disse, «vieni con me, che mi conoscerai».
A queste parole fui condotta da mano invisibile in luogo eminente, dove Dio mi si diede a vedere in una maniera che io non so descrivere. So bene che il mio spirito fu assorbito dal suo splendore, i buoni effetti che provò il mio cuore non so ridire; mi pareva di godere un paradiso di contenti, tanta era la dolcezza e il gaudio, l’amore che Dio si degnò comunicarmi.
35 – QUAL CONFUSIONE MANIFESTARE LE VOSTRE MISERICORDIE!
35.1. Perduta nell’Essere divino
Il dì 14 gennaio 1816, nella santa Comunione, tornò Dio, per sua infinita bontà, a favorire la povera anima mia con una comunicazione molto particolare, ma poco e niente so manifestare per essere cose del tutto intellettuali, appartenenti alla cognizione, servendosi Dio di certe particolari interne intelligenze, per così dimostrarmi l’infinito amore che mi porta; ma io non so in nessun modo spiegare, per essere grazie molto particolari, che il mio scarso talento non può neppure del tutto comprendere. Nel tempo stesso che ricevette da Dio la suddetta comunicazione più penetrava l’intelletto, e più conosceva che le restava da penetrare. Nella penetrazione fu l’anima inabissata nell’immensità di Dio, e così mi perdetti nell’essere suo divino. Questa comunicazione mi tenne molte ore alienata dai sensi, e per due giorni assorta in Dio, in una maniera molto particolare, servendomi dell’uso dei sensi per abito, senza conoscere cosa mi facevo.
Passati i due giorni, quando il mio spirito tornò nei sensi, Dio gli compartì un lume molto particolare di propria cognizione, come in appresso dirò.
Il dì 17 il mio spirito fu sopraffatto da particolare cognizione di se stesso. Oh come si umiliava lo spirito! La contrizione, il dolore eccessivo di aver offeso Dio mi faceva veramente agonizzare. Per tre giorni continui mi dette Dio questo lume di propria cognizione, che dal dolore mi pareva si stemperasse nel petto il cuore.
35.2. Mi fece vedere la mia preziosa morte
Il dì 18 gennaio 1816 nell’orazione subito levata mi trattenevo in questi bassi sentimenti, conoscendomi meritevole di mille inferni. Quando fui sopraffatta da interna quiete, il mio spirito si mise in stato di moribonda, e fra il timore e la speranza si andava preparando al gran rendimento di conto, che doveva fare a Dio.
M’immaginavo di vederlo contro di me tutto sdegnato, qual giudice severo, pieno di affanno avevo il cuore, e tra lacrime e sospiri mi raccomandavo alla Madre della misericordia, confidando nei meriti del buon Gesù; ma ciò nonostante non lasciavo di paventare, parendomi di vedere di già spalancato l’inferno per ricevermi. Che terrore! che spavento! che pena provò il mio cuore non so spiegarlo. Nel tempo che ero immersa in questa gravissima pena, il pietoso Dio sollevò il mio spirito, e si degnò darmi a vedere la mia preziosa morte.
Mio Dio! qual confusione è per me il manifestare le vostre misericordie sia pur tutto vostro l’onore e la gloria, mentre confesso con tutta la sincerità del mio cuore, avanti a voi, Crocifisso mio bene, di non meritare altro che l’inferno, per la mia empietà e scelleratezza.
Proseguo dunque, a gloria di Dio. Mi pareva spirare nelle braccia di Gesù e di Maria, godendo nel mio cuore un paradiso di contento.
35.3. Un esilio penosissimo
Il dì 20 gennaio 1816 così la povera Giovanna Felice: dal 20 gennaio fino al primo di febbraio 1816, Dio mi fece provare una pena di spirito quanto mai grande ed afflittiva, ma io non so spiegare. Era questa pena come un esilio penosissimo; mi vedevo allontanata da Dio, era l’anima sopraffatta dalla propria cognizione, e annientata e avvilita, umiliata fino al profondo abisso del proprio nulla, odiosa mi rendevo a me stessa per la mia cattiveria; mi pareva che la terra mi si aprisse sotto i piedi per ingoiarmi, dubitavo ogni momento che l’aria mi negasse il poter respirare, mi pareva che i demoni mi precipitassero ogni momento nell’inferno.
Che pena! che afflizione! che desolazione! che aridità di spirito! Ma la pena si faceva maggiore per la particolare intelligenza che Dio si degnava darle delle sue divine perfezioni.
A queste cognizioni l’anima sentiva un amore grandissimo verso Dio, che mi necessitava ad amarlo, ma la propria cognizione non mi permetteva che lo spirito liberamente potesse slanciarsi verso l’amorosissimo Dio; perché se ne riconosceva indegna. Avrebbe voluto per mezzo di ogni qualunque pena purificarsi, per così potersi a lui avvicinare; questa pena mi ridusse quasi ad agonizzare, il dolore di avere offeso Dio lacerava il mio cuore, e tramandar mi fece dagli occhi un profluvio di lacrime. Ogni giorno si faceva maggiore la pena mia, andava crescendo a dismisura, proseguendo in questo penoso stato dal giorno 20 gennaio 1816 fino al primo di febbraio, come si è detto di sopra, così si andava purificando la povera anima mia, macerandosi nel pianto e nell’afflizione, contenta di patire per amore, mentre non avrei cambiato il mio patire con tutto il bene del mondo.
35.4. Una grazia che chiedevo da molti anni
Il dì 2 febbraio 1816, nell’assistere alla Messa cantata, il Signore mi fece provare una dolcezza di spirito quanto mai grande; mi apparve la divina Madre, e mi degnò darmi per un sol momento il suo divin figliolo, questo momento bastò per farmi provare un paradiso di contento. Il divino Signore si degnò concedermi una grazia, che sono molti anni che la chiedevo, sempre me la faceva sperare, mai però mi aveva dato sicurezza; ma questa volta ne impegnò la sua parola; mi promise di salvare un’anima da me molto raccomandata, per lo spazio di molti anni. Di qual consolazione mi fu l’ottenere la grazia suddetta non posso esprimerlo, si degnò manifestarmi ancora il perché si degnava farmi la grazia, per intercessione della sua divina Madre, e per il rispetto che il suddetto porta alla pudicizia della sua consorte, contentandosi di vivere a sé, senza molestarla, a fronte dello stimolo proprio, per non turbare la suddetta sua consorte, che tutta si è data alla vita devota. Questo atto virtuoso di questo giovane è tanto gradito a Dio, che nonostante che il suddetto viva con una certa libertà di coscienza, ciò nonostante il Signore mi ha promesso di salvarlo, ne ha impegnata la sua parola, come si è detto di sopra.
35.5. La Madre collocò il suo Figliolo nel mio cuore
Il dì 3 febbraio 1816, così Giovanna Felice nella santa Comunione: mi apparve la divina Madre con il suo santissimo Figliolo in braccio, tutta premura cercava di nasconderlo nel mio cuore; ma la povera anima mia restò altamente ammirata, e piena di confusione mi rivolsi a lei versando dagli occhi abbondanti lacrime: «Ah, Madre mia», le dissi, «che più non mi conoscete? Dove volete nascondere il vostro divin Figliolo? Io sono quella ingratissima peccatrice che l’ho tanto gravemente offeso! Cara Madre, nascondetelo nel cuore di quelle anime che lo amano davvero, e non vedete che io non altro faccio che offenderlo e disgustarlo?».
E intanto, conoscendo viepiù il mio demerito, si umiliava ogni momento più il povero mio cuore; intanto con gli occhi pieni di lacrime, miro Gesù, miro Maria, e vedo il divin fanciulletto tutto ferito, che grondava vivo sangue. Raccapricciai a tal vista, la divina Madre, piangendo con flebil voce, mi disse: «Figlia, vedi come è ferito. Nascondilo nel tuo cuore».
A vista così compassionevole deposi il timore, e aperto e spalancato tra lacrime e vivi affetti di amore e di vera compassione: «Sì, Madre mia», soggiunsi, «ecco aperto e spalancato il cuore. Conducetelo pure, e fate di me quel che vi piace».
Ciò detto, la divina Madre collocò il ferito fanciulletto nel mio cuore, e preso nelle mani un ricco vaso di prezioso balsamo ripieno, la divina Madre andava con somma attenzione astergendo le ferite del divin Fanciullo. Con questa mirabile astersione si andavano risanando le ferite, io ero tutta intenta a guardare, piena di meraviglia e di stupore, senza però la giusta cognizione di quanto vedevo; ma la divina Madre si degnò significarmi che il suo pianto significava lo sdegno del divin Padre contro quelli che avevano così ferito il suo santissimo Figliolo. E lei come Madre di misericordia, che si compiace di esser Madre dei peccatori, deplorava la perdita di tante anime. Quel balsamo prezioso con cui astergeva le ferite dell’amato suo Figlio, erano le opere virtuose di tante anime buone a lei care.
A questa dichiarazione la povera anima mia fu penetrata da vivo sentimento di devozione e di amore, tutta tutta mi offrii alla maggior gloria di Dio, ma altamente restavo meravigliata come questa divina Madre si fosse degnata compartirmi grazia sì grande, senza alcun merito, ma solo piena di miserie e peccati, mentre vi sono tante anime di santa vita che potevano in quel caso rendere onore e gloria al Sommo Dio.
Avrei ben volentieri rinunziato a quel favore, perché restasse in altre anime glorificato il mio Signore, ma la divina Madre si degnò rendermi la ragione. Mi fece intendere che queste sono grazie gratuite, che Dio le comparte a chi più gli piace, e che due erano i motivi che si degnava favorire la povera anima: per la retta intenzione che ha di piacere in tutto solamente al suo Signore, e per il basso sentimento che ha sempre di sé, umiliandosi continuamente e profondamente dinanzi al suo Dio.
A questa notizia restai ammirata dell’infinita bontà del mio Signore, e, pieno di santo affetto, il povero mio cuore tutto bruciava di carità.
35.6. Che pena vedere tante anime miseramente perdute!
Il dì 4 febbraio 1816, nella santa Comunione, mi parve di vedere la divina Madre mi facesse nuove premure, perché avessi custodito nel mio cuore il suo divin Figliolo, per così nasconderlo dal furore degli empi, e agli sguardi dello sdegnato suo Padre, la di cui giustizia è inesorabile contro di noi, miseri peccatori; se non fosse tanto propensa questa divina Madre verso di noi, guai a noi, guai a noi!
Le lacrime da lei versate, come già dissi, erano versate per la pena di vedere tante anime miseramente perdute. «Va’», mi diceva tutta premura la divina Madre, «va’, impedisci alla divina giustizia il punirle. Offri il prezioso Sangue del Figlio, offri la mia materna esistenza, offri i miei dolori, offri i miei disagi, offri il mio amore. Sono salve quelle anime che io proteggo».
Alle parole di questa vergine Madre, la povera anima mia si ricoprì tutta di confusione e di timore; ciò nonostante obbedì il mio spirito, e annientato in se stesso, profondato nel sentimento più umile del basso concetto di se stesso, pieno di rispetto, assistito dalla particolar grazia di Dio, m’inoltro, e penetro l’immensità di Dio; ma quando fui in un certo punto, mi fu impedito il potermi inoltrare, e così non mi fu permesso sapere se Dio si era degnato di esaudire le preghiere, le premure che aveva la divina Madre delle suddette anime.
Dal dì 4 febbraio 1816 fino al 7 del suddetto mese, il mio spirito ha goduto un particolare raccoglimento, unitamente ad un basso sentimento di me stessa. Ho consumato questi giorni in piangere i miei peccati e nel chiedere perdono al Signore.
35.7. Mi apparve il gran patriarca san Giovanni de Matha
Il dì 8 febbraio 1816, giorno della festa del glorioso patriarca san Giovanni de Matha, nell’assistere alla Messa cantata, dopo di aver goduto un bene intimo nell’anima che non so manifestare, mi apparve il gran patriarca, si degnò questo sovrano personaggio di farmi avvicinare a lui, mi coprì con la gloriosa sua cappa, unitamente al mio padre spirituale, il quale vedevo prostrato ai suoi piedi, pieno di umiltà e di rispetto. Qual consolazione provò il mio spirito per il suddetto favore, qual raccoglimento, qual pace, qual dolcezza di spirito mi comunicò, quanto grande fu il desiderio che nacque in me di piacere a Dio, a costo di ogni grave patimento, non ho termini di spiegarlo. Molte anime vedevo in ginocchioni ai suoi piedi, tutte piene di filiale rispetto e di venerazione. Il venerabile padre tutte benedì, e disparve, lasciando nel mio cuore una particolare consolazione di spirito.
35.8. Gravissima persecuzione diabolica
Dal giorno 10 febbraio 1816 fino al giorno 13 del suddetto mese, il mio spirito ha sofferto una gravissima persecuzione diabolica, mossami dal nemico tentatore, per il metodo intrapreso fino dalla vigilia del santo Natale.
Ho intrapreso il metodo di mangiare ogni ventiquattro ore, usando dei soli cibi di magro e di latticini; per grazia di Dio sono tre anni che mi astengo dai cibi di grasso. Molto ho sofferto per astenermi da questi cibi, per essere molto conformi alla debole mia complessione; ma con la grazia di Dio, e con molta violenza, tanto ho superato, senza pregiudizio della salute, perché in questi tre anni sono stata sempre bene; ma quello che più mi molesta è che il metodo intrapreso di digiuno non solo mi viene contrariato dalla debole mia complessione, ma dal demonio, che non mi lascia un momento in pace, come dirò in appresso negli altri fogli.
Proseguo a manifestare la grave molestia che mi reca il maligno tentatore; non mi lascia neppure un momento in pace, mi gira continuamente attorno, presentandomi delle buone vivande, particolarmente quando sono in orazione, allora inventa tutte le malizie per frastornarmi. Mi comparisce sotto la forma di bel giovanetto, e compassionando il mio stato, mi offre delle buone vivande, me le presenta perché io ne gusti, persuadendomi a lasciare il metodo intrapreso.
Quanta pena soffre il mio povero spirito, perché dubita di dare ascolto alla suggestione del nemico tentatore! Piango, mi affliggo, mi raccomando caldamente al Signore, perché mi dia grazia di vincere e di superare, perché mi pare ogni momento di restare vinta; mi pare di non aver forza di superare la tentazione. Sono poi molestata da fame canina, che mi divora, e da sete ardente, che mi consuma; e intanto il maligno tentatore non fa altro che girarmi intorno, con delle buone vivande e con del buon vino, invitandomi a mangiare e a bere, allettandomi con forti persuasive di dare qualche conforto al mio patire, cerca ad ogni suo costo di darmi a credere che non c’è cosa più felice che il mangiare dei cibi squisiti e di bere del buon vino.
Al forte urto di questa tentazione, il povero mio spirito si trova in uno stato molto penoso e afflittivo; ma questa afflizione non toglie la pace al mio cuore, ma con santa rassegnazione soffre la molestia del nemico insidiatore, confidando nei meriti di Gesù e di Maria, i quali invoco con lacrime e sospiri, perché si degnino aiutarmi in questo penoso conflitto. Molto di frequente mi protesto che sono pronta a morire mille volte, piuttosto che dispiacere al mio Dio con la minima imperfezione volontaria; ma nonostante dubito di essere vinta dall’astuto insidiatore. Non lascia Dio di confortarmi in questa gravissima pena, facendomi sperimentare gli effetti mirabili della sua grazia.
Dal giorno 16 febbraio 1816 fino al dì 7 marzo, il mio spirito se l’è passata ora combattendo col nemico, ora con la mia misera umanità, che ancora non posso vincere né superare, ma con grave pena il povero spirito deve soggiacere alla debolezza umana. Mio Dio! quando mai sarà che potrà lo spirito signoreggiare sopra se stesso, conculcando con sommo disprezzo la propria carne, le proprie inclinazioni? Caro Gesù mio, per i vostri meriti infiniti, fatemi possibile per grazia quello che per natura mi si rende impossibile.
36 – PERDUTA NELLA DIVINA IMMENSITÀ
Il dì 8 marzo 1816, nella santa Comunione il Signore, mi fece sperimentare i particolari effetti della sua grazia, ma da qualche tempo a questa parte si degna Dio comunicarsi alla povera anima mia in una maniera che non mi è possibile più manifestare i particolari favori che si degna compartirmi, perché questi non sono per vie immaginarie, ma per vie di interne cognizioni, intime, profonde. Queste mi pare che siano molto più sublimi delle immaginarie, e molto più efficaci al povero mio spirito, ma per il mio scarso talento molto difficili di poterle manifestare.
Penetra l’intelletto e si profonda nell’immensità di Dio, la volontà ama ardentemente, e nell’amore dolcemente si riposa, e placidamente tutta in Dio si abbandona. L’anima perde ogni idea sensibile, e si perde affatto nella divina immensità, di maniera che non comprendo quello che si degna Dio operare nell’anima mia; mentre in quei preziosi momenti godo un bene che non so spiegare, mi pare propriamente di perpetuarmi in Dio.
Oh che consolazione, oh che dolcezza, oh che gaudio prova il mio cuore, più non ricordo di essere viatrice, mi pare di abitare nell’altezza dei cieli, tanto chiaramente si degna Dio comunicarsi alla povera anima mia, che mi pare di godere un paradiso di contenti; ma non ho termini sufficienti di manifestare i particolari favori che in quei preziosi momenti mi comparte, mentre neppure posso del tutto comprenderli.
36.1. I nuovi Cardinali
Riporto un fatto accaduto ad un’anima a me cognita, dice dunque la suddetta che in certo tempo nel farsi dal Sommo Pontefice la promozione di nuovi cardinali, la suddetta anima pregò il Signore, acciò avesse dato a questi novelli cardinali grazia di sostenere la santa Chiesa cattolica; si rallegrava con il suo Dio, e pregava a volerli benedire. Dice che, fatta la suddetta preghiera si addormentò, e le parve in sogno di trovarsi in un luogo dove vide i suddetti porporati, che ritenevano la somiglianza di bestie, a seconda dei propri vizi predominanti; a questa vista dice che inorridì, e nel sogno si rivolse verso Dio piangendo.
Allora dice che intese una interna voce che si lamentò del cattivo procedere non solo di questi, ma di tutti quelli che amministrano, e dimostrandole il disonore e il gravissimo torto che questi fanno alla sua divina giustizia, si protestava Dio di punirli severamente. Dopo il suddetto sogno, dice che il suo spirito restò in una gravissima afflizione, che altro verso non fece per molti giorni che piangere e sospirare, per aver veduto tanto disonorato Dio, e per la compassione che le fecero i suddetti, sebbene dice che in quel momento riconcentrò il suo spirito in se stessa, e disse fra sé: «Oh se Dio mi desse a vedere la povera anima mia ricoperta delle proprie miserie, molto più brutto di questi mi comparirebbe!».
Così si credette di essere molto più deforme dei suddetti, che aveva veduto, e piangendo i propri peccati restò con buona opinione dei suddetti porporati.
36.2. La presenza di Dio
Dal giorno 8 fino al giorno 17 marzo 1816 il mio spirito se l’è passato in sommo raccoglimento. Tre volte in questi giorni si è degnato Dio favorirmi in modo speciale, ma non so spiegare in nessun modo la maniera con cui Dio si degna comunicarsi alla povera anima mia, perché è molto diverso da quello che mi si degnava comunicarsi prima; ma per non mancare all’obbedienza qualche cosa dirò.
Il giorno 14 marzo 1816, circa le ore 4 italiane della notte, stavo scrivendo questi fogli, era tutto raccolto il mio spirito, quando fui sopraffatta da profondo sonno, che mi convenne di lasciar di scrivere. Credetti veramente sonno naturale, ma nell’abbandonarmi che feci, intesi una innovazione di spirito, che mi trasformò. Questo, per quanto potei capire, mi parve che non durasse più di un quarto d’ora. Mi desto, e mi trovo presente Dio, in una maniera che non so spiegare. La povera anima mia nel trovarsi tanto vicina al suo Dio, si struggeva di amore in lacrime, parte per ricordarmi i gravissimi torti fatti a questo buon Dio, parte per tenerezza e per gratitudine di vedermi tanto beneficata, con tanto demerito.
Nel tempo che l’anima stava tutta sprofondata nel suo nulla, e piangeva con abbondanti lacrime i suoi peccati; Dio, mosso da compiacenza, si mostrava tutto amore, tutto benevolenza, verso la povera anima mia. Alla cognizione dell’infinito amore di Dio, mi cagionò dolce deliquio di amore, e, tutta nell’immenso seno del suo Dio si abbandonò la povera anima mia; in questo tempo perdetti ogni intendimento, per essermi tanto internata nell’immensità di Dio. In questa situazione l’anima non si avvede quanto Dio opera in lei, ma per parte di intima cognizione conosce di aver ricevuto grazie da Dio. Non so dir di più, non so spiegarmi meglio.
36.3. L’anima arrivò a lottare con il suo Dio
Dopo aver goduto di quella presenza di Dio, come già dissi, la sera del dì 14 marzo 1816, che riempì il mio cuore di gaudio e di dolcezza, il dì 15 del suddetto mese, nella santa Comunione, si riempì il mio cuore di gravissima mestizia. La tristezza e l’affannosa pena mi faceva piangere e sospirare; andava ogni momento più a farsi grande la mia pena, sicché in poche ore l’anima arrivò al colmo del patire. Sentivo lacerarmi il cuore dall’amarezza e dall’afflizione; lo spirito era circondato da gravissime pene, era immerso nelle pene più afflittive di spirito che possono mai ridirsi. In questo patire però non si allontanava l’anima dal suo Dio, ma con sommo ardore tra quelle pene avidamente lo cercava; Dio, invece di farsi trovare in aspetto piacevole, mi si dava a vedere in aspetto terribile e spaventoso, quasi sul momento di precipitarmi senza pietà; ma l’anima invece di fuggire questo Dio terribile, viepiù gli si avvicinava; più Dio si mostrava terribile, in atto di scaricare sopra di questa i più spietati flagelli, e più l’anima gli si faceva sotto, compiacendosi di restare annientata per compiacerlo. Con santo ardire andava replicando: «Annientami, annichilami, sempre tua sarò».
Ed intanto le si faceva più sotto senza timore, ma sopraffatta dalla compiacenza di dar gusto al suo amato bene, disprezzava ogni qualunque gravissimo male, ogni qualunque gravissima pena e quasi sfidando la sua divina giustizia a castigarmi con i più spietati flagelli.
Intanto l’anima, affidata alla sua divina grazia, pregava acciò mi volesse dare invitta costanza, per disprezzare ogni pena e travaglio per amor suo. A nostro modo di intendere l’anima arrivò a lottare con il suo buon Dio. Dio le mostrava la sua severità, e l’anima gli mostrava la sua fedeltà, la sua costanza, mediante il suo divino aiuto.
Che grazie siano queste, mi pare che non si possano esprimere da qualunque dotto oratore. Dunque cosa dirò io, che sono tanto miserabile e tanto vile? Mentre l’anima per mezzo della grazia viene tanto a sollevarsi sopra se stessa, e operando con sublimità di affetto, per mezzo della volontà veniva ad esercitare una costanza eroica, una fortezza invitta, una fiducia filiale, mentre l’anima tutta si appoggiava agli infiniti meriti del suo buon Gesù.
Dal giorno 15 marzo fino al giorno 21 del suddetto mese 1816, il mio spirito è stato in questa suddetta situazione, ora patendo pene gravissime, ora sopraffatta dall’amore, cercavo di patire di più.
36.4. Mi fece riposare tra le sue braccia
Il dì 22 marzo 1816, nella santa Comunione, il mio Dio, non più in aspetto terribile, come per il passato, ma in aspetto piacevole e benigno, mi manifestò. E come potrò mai ridire gli affetti scambievoli di Dio e dell’anima, che vicendevolmente andavano facendo tra loro? Mi fece riposare tra le sue braccia, mi strinse al suo seno purissimo, quante belle promesse mi fece! Mi promise che il giorno che la Chiesa celebra la festa della sua Risurrezione avrebbe favorita la povera anima mia con grazia molto particolare e distinta. Vorrei occultare la grazia, ma dubito di mancare all’obbedienza, a gloria di Dio la manifesterò. Mi promise di donarmi una fiducia straordinaria, soprannaturale: «Questa», mi disse, «ti sarà molto giovevole non solo a te, ma a tutti quelli che usano verso di te della carità. Abbandònati nella mia divina provvidenza. Non dubitare, vedrai quello che saprò fare per beneficarti!».
A sentimenti così particolari di carità, la povera anima mia si profondava nel suo nulla e si umiliava profondamente, e, ammirando l’infinita bontà di Dio, si struggeva di amore in lacrime.
36.5. Nel patire lodavo e benedicevo il Signore
Dal giorno 22 marzo 1816 fino al giorno 3 di aprile 1816 il mio spirito ha sofferto pene molto gravose, temporali e spirituali; ma per grazia di Dio, l’anima è stata sempre rassegnata nel divino beneplacito, nel patire lodava e benediceva il suo Signore. Benché molto sensibile mi fosse il suddetto patire, ciò nonostante l’anima si rassegnava tutta in Dio; rassegnata che si era nel divino beneplacito, sperimentai nell’intimo dell’anima un profondo raccoglimento.
Nel tempo che stavo così raccolta, mi si manifestò Dio sotto i più spietati patimenti e mi fece intendere che, se bramavo possederlo, dovevo con generosa costanza affrontare quei patimenti che mi si presentavano.
A questa cognizione non paventò lo spirito, ma con eroica fortezza, compartitami dalla grazia di Dio, affrontavo virilmente il patire, disprezzando quanto mi si frapponeva per andare liberamente a Dio. Con santo ardire calcavo, infrangevo con fortezza invitta il patire, e mi slanciavo liberamente nell’amoroso seno del mio Dio, che, pieno di compiacenza, godeva in se stesso nel vedermi, per amor suo, disprezzare tutte quelle gravissime pene.
Si degnò di rendermi partecipe del suo gaudio, del suo contento. Oh, come esultava il mio povero spirito in Dio, suo Signore! Oh, che dolcezza sperimentò il mio cuore! Non mi è possibile poterlo ridire.
36.6. Chi ascolta te, ascolta me
Il dì 6 aprile 1816 nella santa Comunione mi apparve il Signore sotto la forma di nobile giovanetto. Lo vedevo accompagnato da molte schiere angeliche, che tutto amore e tutta carità veniva con sommo giubilo a stabilire nell’anima mia l’augusto suo trono. Pieno di santo affetto, diceva: «Figlia, diletta figlia, chi ascolta te ascolta me; mentre in te risiede il mio Spirito. Quelli che avranno fiducia saranno dalle tue parole consolati».
A queste espressioni l’anima restò profondamente umiliata, e volgendosi al suo Dio, con molte lacrime di tenerezza: «Mio Dio», diceva, «che più non mi conoscete che sono la creatura più miserabile che abita la terra? E come potete trovare in me la vostra compiacenza, se sono tanto miserabile e peccatrice? Ah, Gesù mio, partitevi da me, ne sono troppo indegna; andate a formare il vostro trono in quelle anime che vi sono fedeli».
I veraci miei sentimenti non rimossero punto il divino Signore dalle sue amorose idee, ma anzi molto più stabilmente si fermò nel mio cuore, e, manifestando con maggiore energia i divini suoi affetti, arrivò a chiamare questa misera anima «arbitra del suo Cuore, oggetto delle sue compiacenze».
L’anima, nel vedersi così sopraffatta dall’amore di Dio, si abbandonò tutta negli eccessi della sua infinita misericordia, traendo dal cuore una fiamma vivissima di carità, riamava quanto più poteva l’amorosissimo suo Dio, con quella stessa fiamma di carità che si degnò comunicarmi per mezzo dell’intima sua unione.
Sopraffatta l’anima dal divino incendio, s’inabissò in Dio, suo Signore; mi parve di restare come incenerita, come annientata in me stessa, mi trovavo tutta tutta trasformata in Dio; perdetti ogni idea sensibile, restò il mio corpo alienato dai sensi.
Dal dì 6 aprile 1816 fino al dì 10 del suddetto mese, il mio spirito, per il fatto suddetto, restò come estatico. L’interno raccoglimento mi toglieva ogni idea sensibile, quando, per adempiere agli affari domestici, procuravo con molta fatica di scuotermi, adempito che avevo l’obbligo del mio stato, tornava Dio, per mezzo di un tocco interno, a richiamare lo spirito intimamente, in maniera che restavo inabile a proseguire ad agire sensibilmente.
Il dì 11 aprile, Giovedì Santo, nella santa Comunione, mi favorì Dio con particolare grazia, ma per essere cosa intellettuale, il mio scarso talento non mi permette di poterlo manifestare. Il gaudio, la dolcezza inondarono il mio cuore, e lo facevano ardere di santo amore.
37 – TRE CUORI UN SOLO AMORE
37.1. Venerdì Santo 1816
Il dì 12 aprile 1816, Venerdì Santo, nell’orazione subito levata, era tutto afflitto il povero mio cuore, per vedermi in quella mattina priva della santa Comunione. Con calde lacrime e affannosi sospiri, ricorrevo al mio Dio, manifestandogli i miei desideri; l’invitavo con santo affetto a venire a visitare l’anima mia. Terminata la preghiera e mostrati i miei desideri, il Signore mi fece intendere che si sarebbe degnato di venire a visitare la povera anima mia, e altre due anime da me molto raccomandate.
Nell’assistere dunque alla Messa, unitamente alle anime suddette, si degnò Dio comunicarsi alle nostre anime in modo molto particolare. Mi si diede a vedere nella sua santissima umanità crocifisso, tutto risplendente di luce; tramandò dal venerando suo cuore tre dardi preziosi, che vennero a trapassare i nostri cuori. In quel prezioso momento di tre cuori se ne fece uno solo, mentre l’attrazione del dardo divino ci trasse il cuore dal petto e ci condusse nel prezioso cuore del nostro amorosissimo Gesù, e del nostro cuore ne formò uno solo con il suo, e così restammo con lui intimamente uniti. Per quanto è a mia notizia, le suddette anime godettero i buoni effetti di questa grazia.
Proseguo a raccontare come passai il resto del Venerdì Santo 12 aprile 1816. A mezzogiorno mi portai in una chiesa, per assistere alle tre ore della preziosa agonia del nostro Signore Gesù Cristo; dove per quattro ore continue stetti immobile in ginocchioni, senza soffrire il minimo nocumento; tanto si era internato lo spirito nella considerazione dei patimenti dell’amorosissimo Gesù, che mi ero affatto dimenticata di me stessa.
Immersa nell’afflizione dei suoi patimenti, ricordevole di averlo tanto offeso, deploravo con abbondanti lacrime le mie colpe. Al riflesso poi delle misericordie che Dio si è degnato usarmi, nonostante la mia grandissima ingratitudine, si riempiva di santi affetti il mio cuore. La gratitudine, l’amore mi faceva piangere e sospirare; si accendeva di santo amore lo spirito, e amava ardentemente il crocifisso suo bene. In questa guisa passai un buon tratto di tempo. Finalmente da particolare raccoglimento fu sopito lo spirito.
In questo tempo mi parve di essere da mano invisibile trasportata sopra un altissimo monte, sopra il quale vidi il crocifisso mio bene, che pendeva dalla croce. Quali affetti destò nel mio cuore la vista compassionevole dell’amoroso Signore, non so manifestare. Era circondato da ombra pallida di mesta luce, questa destava nel mio cuore un profondo rispetto e particolare devozione. La compassione, l’amore mi fece ardita, slanciandomi verso la croce, abbracciai strettamente la cattedra delle eterne misericordie; e tra lacrime e sospiri, offrii tutta me stessa al suo divino beneplacito, con una rinunzia particolare e generale di tutta me stessa. Per mezzo di intima cognizione, mi fece intendere che bramava fossi per amor suo crocifissa.
Appena l’anima ebbe questa cognizione, immantinente si dispose al gran sacrificio, e, sopraffatta dall’amor santo di Dio, chiedeva in grazia al crocifisso suo bene che si eseguisse in me quanto lui bramava, desiderando ardentemente di essere crocifissa per amore di quell’amoroso Signore, che miravo crocifisso per la nostra eterna salute.
Dato il mio consenso, fui per mezzo dei santi Angeli collocata sopra una croce, dai medesimi fu innalzata la croce e collocata di rimpetto al crocifisso mio bene. Salita che fu l’anima sopra la mistica croce, fu sopraffatta da dolci ma penose agonie, mentre lo spirito faceva prova di staccarsi dal corpo, per l’amore e per l’ardente desiderio che aveva di unirsi all’amato suo bene.
Nel tempo che l’anima si disfaceva di amore e in sante lacrime, l’amoroso Signore, traendo dal venerando suo cuore un amoroso strale, dolcemente colpì il mio cuore, il colpo mortale misticamente mi fece morire; prezioso momento che il mio buon Signore, per mezzo di ardente amore, al suo cuore mi unì. Per espresso comando di Dio onnipotente, il mio direttore così crocifissa sopra un monte mi trasportò, ferma e permanente sopra questo monte la croce stabilì e fissò; pieno di santo zelo, alla maggior gloria di Dio, e per l’altrui esempio a tutti fece palese quello che Dio vuole da me.
Oh, come in un baleno si riempì quel monte di nobili donzelle, di anime prescelte, che del trinitario Ordine vollero seguire l’esempio.
Il dì 13 aprile 1816, Sabato Santo, si riempì di sommo gaudio il mio spirito, per un certo particolare favore che ricevetti da Dio, che non so manifestare.
37.2. Gesù mi apparve qual trionfante guerriero
Il dì 14 aprile, giorno della Santa Pasqua, si accrebbe viepiù nel mio cuore il gaudio, e la letizia faceva esultare lo spirito; piena di santo affetto, con replicati atti di amore si slanciava lo spirito verso l’amante Gesù, e congratulandosi con lui per la gloria e per il trionfo riportato con la sua preziosissima morte; quando l’anima si fu inoltrata nella considerazione di sì vasto trionfo d’amore, e piena di ammirazione, con la grazia di Dio, ne penetrava la profondità, sopraffatta dall’amore, alla considerazione di simile eccesso, l’anima, sollevata sopra se stessa, lodava, amava, ringraziava incessantemente il suo amorosissimo Gesù.
Quando ad un tratto mi apparve il buon Gesù, qual trionfante guerriero, accompagnato da immenso stuolo di Angeli; ma la sua bellezza, la sua vaghezza non si può descrivere, un purissimo splendore scintillava dal suo volto, che teneva assorte le potenze dell’anima mia, e come incantata non avevo più che desiderare né che pensare; ma, sopraffatta dall’ammirazione, ardentemente amavo l’amabilissimo mio Signore. Salito sopra un monte si degnò benedirmi. I buoni effetti che cagionò nell’anima mia la sua benedizione non mi è possibile manifestare; restò il mio spirito estatico e come assorbito dallo splendore che tramandava da ogni intorno il venerando suo corpo, che per otto giorni ne godei i buoni effetti.
Ebbi nei suddetti otto giorni particolare ispirazione di chiedere al principe degli apostoli, san Pietro, un santo apostolo per guida, per direttore. Pregai dunque con grande istanza il gran principe degli apostoli, perché mi avesse, secondo il mio spirito, dato un santo apostolo per protettore. Non sdegnò il santo la povera mia preghiera, ma si degnò darmi per guida e protettore il glorioso san Giacomo il Maggiore, il quale mi apparve vestito da pellegrino, e mi mostrò una lunga strada, molto stretta, dritta e piana; mi fece intendere che questa mi avrebbe condotto direttamente al mio Dio, che in questa strada mi veniva significata la mortificazione. Mi esortò a darmi alla pratica di sì bella virtù.
Appena il santo ebbe ammaestrato il mio spirito intorno a questa virtù, che al momento nacque in me un gran desiderio di darmi alla pratica di questa bella virtù, come in effetti feci, con la licenza del mio padre spirituale mi diedi alla pratica di questa virtù con maggiore impegno di prima.
Dal dì 21 aprile 1816, giorno dell’ottava di Pasqua, fino al giorno della vigilia dell’Ascensione del Signore, il mio spirito ha sofferto pene gravissime di abbandono, di smarrimento, di ogni sorta di pene di spirito.
37.3. Unione del tutto particolare
Il dì 23, giorno dell’Ascensione, 23 maggio 1816, il mio spirito, illuminato da particolare luce e sollevato a contemplare gli alti misteri della nostra redenzione, a cognizione così sublime lo spirito si profondò nell’amore grande di Dio e si accese di santo e puro amore. L’amore mi fece ascendere ad una particolare unione con Dio, ma unione tanto particolare che non ho termini di poterla manifestare. Basta dire che dal giorno 23 suddetto fino al 2 giugno 1816 di questa unione ne godei i buoni effetti.
In questi dieci giorni perdetti ogni idea sensibile, e assorta tutta in Dio, se ne stava la povera anima per le frequenti comunicazioni che aveva con il suo Dio. Dovetti in questi dieci giorni privarmi affatto di conversare, perché nessuno si avvedesse di quello che passava nel mio spirito.
Si combinò in questi giorni che mi furono a trovare certi santi religiosi e, dovetti soffrire il rossore, la confusione di vedermi tutto ad un tratto incapace di ogni sensazione, per il forte tocco di Dio, che rapidamente chiamò lo spirito. Sicché, alienata dai sensi, restai con mia somma confusione alla presenza di quei santi religiosi, che mi avevano favorito di una loro visita.
Cosa mai godé il mio spirito in questi giorni non mi è possibile manifestarlo. Sopraffatta da interna quiete e da particolare raccoglimento e da particolare cognizione di se stessa, si profondava nel proprio suo nulla, e Dio la degnava di innalzarla, per mezzo di sublimi cognizioni dell’infinito suo essere. A queste cognizioni l’anima operava cose molto grandi verso il suo Dio; e Dio, compiacendosi nell’anima, la univa a sé intimamente, di maniera che, per lo spazio di dieci giorni, il mio spirito non fu capace di comprendere nessuna cosa sensibile, per le frequenti comunicazioni che aveva con Dio, molte furono le grazie che si degnò Dio compartirmi per mio e per l’altrui vantaggio, e sono: l’efficacia della preghiera per gli altrui vantaggi, beneficare tutti quelli che mi fanno del bene e salvarli, come ancora salvare tutte quelle anime che sono a me unite, per mezzo di particolare unione.
Le grazie particolari che Dio si degnò compartirmi furono tre gradi maggiori di fede, speranza e carità. Queste tre grazie mi furono compartite dalle tre divine Persone, che nell’unità e trinità si degnarono favorirmi con specialità di affetto, e introdurmi nel vastissimo oceano della loro divina immensità. Un solo Dio in tre persone divine: oh portento incomprensibile, io non ti posso né comprendere, né spiegare! Mi umilio dunque nel profondo del mio nulla, e profondamente ti adoro e ti riverisco, ti confesso per quel Dio immenso, incomprensibile che sei. Per mezzo di queste ed altre simili cognizioni, l’anima restò inabissata e tutta perduta in Dio.
37.4. Pativa il corpo, ma godeva lo spirito
Dal dì 23 maggio 1816, giorno dell’Ascensione del Signore, fino al giorno della Pentecoste, intrapresi un digiuno più rigido del quotidiano, non prendendo altro cibo che una scarsa cioccolata con poco pane ogni ventiquattro ore, dormire poche ore sopra un duro pagliaccio, fare cinque e sei ore di orazione continua, sempre in ginocchioni. Negai in questi otto giorni al mio corpo il bere, sicché non gli permisi di prendere neppure un sorso d’acqua. Pativa il corpo, ma godeva lo spirito illustrazioni di mente, contrizione dei peccati, intimo raccoglimento, amore ardente, che dolce e soave mi rendeva il patire.
Il dì 2 giugno 1816, festa della Pentecoste, in questa solennità fui favorita da Dio con particolare grazia e favore, ma non so, non posso manifestare quello che passò nel mio spirito; solo posso dire che per otto giorni continui godei quella grazia di quel distinto favore con molto profitto del mio spirito.
37.5. Pene interne gravissime
Dal dì 16 giugno 1816 fino al dì 22 giugno 1816 il mio spirito fu sopraffatto da pene interne gravissime, che lo ridussero all’ultima desolazione, ma nonostante mai lo spirito si dipartì dal suo Dio, ma con costanza invitta, somministratami dalla grazia, affrontavo il patire, e con petto forte sfidavo l’inferno tutto, compiacendomi di essere straziata dalla gravissima pena che soffrivo, per amore di quel crocifisso Signore, che si compiacque di essere straziato per amor mio.
Più si faceva grave la pena, più trovavo forte lo spirito. Tanto fu grande il patire interno ed esterno di questi giorni, che più volte mi ridusse a stare stramazzone sul suolo, eppure lo spirito, pieno di coraggio, tutto affrontava per amore del suo Signore, protestandosi con somma frequenza che se il possedere Dio mi fosse dovuto costare un inferno, non di pena, ma di contento mi sarebbe questo patire.
In questa guisa andava Dio purificando il mio spirito, per così disporlo a ricevere dall’infinito suo amore un favore molto distinto. Con la grazia di Dio, io aggiungevo all’interno patire digiuni, penitenze, lunghe orazioni, bramando di essere un puro perfetto olocausto, e qual vittima di amore, finire la vita per sostenere virilmente l’amore.
37.6. Negli spazi della divinità di Dio
Il dì 23 giugno 1816, vigilia del glorioso san Giovanni Battista, ho avuto particolare comunicazione con Dio, per mezzo della valevole protezione del lodato santo. Dopo la santa Comunione mi apparve il santo, circondato di splendidissima luce, riccamente vestito, portava un manto reale, tutto intessuto di perle e di preziosissime gioie. Questo manto denotava la sua purità, la sua umiltà, la sua carità, era di una bellezza, di una vaghezza senza pari.
Oh, come la povera anima mia, allo sfolgoreggiare di tanta luce, restò estatica, e piena di ammirazione! Tanto questo gran santo era rassomigliante all’amabilissimo mio Gesù, che al primo aspetto mi parve una divinità. O glorioso santo, non è spiegabile il tuo onore, la tua gloria. Felice è quell’anima che gode la protezione di questo gloriosissimo santo. Qual rispetto, qual venerazione sentiva il mio spirito verso di lui, tutto si profondava nel suo nulla, si umiliava davanti alla sua grandezza; ma il santo, qual maestro di umiltà, con volto affabile e piacevole, m’invitò ad approssimarmi a lui, non con parole, ma in sommo silenzio. Si fece da me intendere, per mezzo di interna cognizione. Pieno di sommissione, a lui si avvicinò il povero mio spirito, e l’umilissimo santo mi degnò darmi a sostenere la coda del suo prezioso manto, in questa guisa m’introdusse in un luogo altissimo, con questo mi veniva a significare che mi degnava della sua particolare protezione; ma quando fummo per penetrare viepiù la suddetta altura, ebbe il mio spirito bisogno di maggiore aiuto. Allora il santo stese il suo braccio destro, e si degnò reggere e sostenere il mio povero spirito, e così il glorioso santo ebbe il piacere di condurmi, senza alcun mio merito, perfino negli ampli spazi della divinità di Dio.
Introdotta che fu in quella immensità, l’anima si umiliò profondamente, e, sopraffatta da sommo timore per vedersi tanto sollevata senza alcun merito, s’inabissò in quella incomprensibile immensità, tutta si perdette in Dio, il quale si degnò mostrarle gli affetti più vivi del suo infinito amore. Per mezzo dei sentimenti più vivi e perfetti della sua parzialissima carità, la chiamò «oggetto delle alte sue compiacenze», le fece intendere come segregata l’aveva dal numero dei viventi, per averla intimamente unita a sé; mi fece intendere ancora che si compiace assai più in un’anima a lui unita di quello che si compiaccia in tutto il resto degli uomini.
A queste cognizioni la povera anima mia si disfaceva di amore in lacrime di gratitudine e di confusione, ricordevole di averlo tante volte offeso e disgustato. Dio si degnò stringerla al suo castissimo seno.
Oh, come la povera anima mia, tra i purissimi amplessi del celeste suo sposo si liquefaceva tutta di santo amore. Molto di più potrei dire, ma la mia insufficienza più non mi permette il potermi spiegare. Si contenti dunque per carità che resti con questi pochi e rozzi sentimenti soddisfatto l’obbligo di obbedienza, che mi corre di manifestare in scritto il mio spirito.
Dal dì 23 tutto il dì 24 godei un bene di spirito tanto particolare, per mezzo del mio gran protettore san Giovanni Battista, che mi tenne assorta in Dio per molti giorni, dal dì 24 giugno 1816 fino al dì 4 luglio 1816, per avere negligentato lo scrivere, non posso rendere conto di diverse cose molto particolari seguitemi in questi giorni per parte della grazia di Dio.
38 – PER TRE GIORNI RAPITA IN DIO
38.1. Il patrocinio di san Michele dei Santi
Il dì 5 luglio 1816, festa del beato Michele, nell’assistere alla Messa cantata, nella chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, fui sopraffatta da particolare raccoglimento, dove mi parve di vedere che dall’alto dei cieli scendeva una moltitudine di Angeli, che tutti festosi venivano per assistere al gran sacrificio della Messa cantata da quei buoni padri trinitari.
Questi angelici spiriti erano vestiti uniformemente, in tre diverse legioni erano divisi: la prima era vestita con veste candida, con scapole con croce rossa e turchina, la seconda legione era vestita di color turchino, la terza di colore rosso, ma erano una quantità che occupavano tutta la chiesa. Tutti erano disposti in bell’ordine.
Al Gloria della Messa mi parve vedere altre schiere angeliche, che festose, giubilanti conducevano con somma gloria ed onore il beato Michele. Il beato era preceduto dai santi patriarchi dell’Ordine trinitario, e qual diletto loro figlio, l’onoravano, col dargli un posto a loro immediato. Collocato che si fu il beato Michele in quel nobilissimo seggio contiguo ai santi patriarchi, fu onorato da quei cittadini celesti suddetti, ossequiandolo con incenso e profondi inchini, lodavano e ringraziavano la santissima Trinità per i favori concessi al nostro glorioso santo.
Ossequiato che fu, con volto piacevole a me rivolto con gesti cordiali mi fece coraggio, e mi fece intendere che mi fossi approssimata a lui. A questo piacevole invito la povera anima mia, umiliata profondamente in se stessa, sopraffatta da santo timore, non osava avvicinarsi a lui, ma i santi patriarchi con autorevole paterno comando, mi obbligarono ad approssimarmi a lui. Con santa umiltà mi avvicino, e il beato, preso il lembo della sua cappa, me lo diede a tenere nelle mie mani; piena di riverenza, bacio, stringo al mio cuore il prezioso pegno.
Oh qual meraviglia! mi sento il cuore trasmutarsi da incendio di santo amore. Oh come in quel momento il povero mio spirito si unì al suo sublime spirito! In questa guisa mi condusse in luogo molto eminente, dove unitamente ai tre religiosi trinitari celebranti mi condusse alla divina Madre; l’amorosa Signora, per mezzo del suo diletto servo, piacevolmente ci accolse, e per dimostrarci il suo particolare affetto, ci degnò di darci a tenere l’estremità del suo prezioso manto.
Oh, che grande onore è mai questo! fummo noi degnati di avvicinarci all’augusto trono della sovrana imperatrice del cielo e della terra. Oh quanto sei onnipotente, o gran santo, quanto amato sei dalla divina madre, Maria! Per tuo mezzo fummo onorati. Dégnati, o gran santo, di proteggerci in vita e in morte, e saremo sicuri, per mezzo del valevole tuo patrocinio, di pervenire a quella gloria, per lodare Dio per tutta l’interminabile eternità.
Autorizzati dall’alto favore compartitoci dalla divina Madre, fummo liberamente introdotti negli ampli spazi della divinità di Dio, dove al momento perdemmo il nostro proprio essere, e come atomi comparivamo davanti al suo tremendissimo cospetto. Eccoci inabissati nel proprio nulla, ma chi lo crederebbe? Dio, per sua infinita bontà, ci traeva dal proprio nulla, per potersi in noi compiacere. Tramandò un raggio della splendidissima sua luce ad investirci, e così ci rese quanto mai belli e risplendenti, e per mezzo della sua grazia ci formò oggetto delle alte sue compiacenze.
La suddetta comunicazione apportò al mio spirito un bene molto particolare. Per ben 24 ore ne godei i buoni effetti: umiltà profonda, raccoglimento interno, pace, dolcezza, soavità di spirito tennero tutte occupate le potenze dell’anima mia, mi comunicò Dio un gran desiderio di darmi tutta alla penitenza.
38.2. Il buon sacerdote mi chiese la benedizione
Terminata la Messa cantata, con stento mi portai alla mia casa, mancandomi quasi del tutto le forze naturali; dove fui visitata da un sacerdote forestiero di santa vita, il quale mi disse che Dio gli dava un forte impulso di unirsi al mio povero spirito, e che sentiva precisa necessità di manifestarmi tutta la sua vita, il suo spirito, svelarmi la sua coscienza.
Procurai a questa umile sua richiesta di oppormi, col dimostrargli la mia insufficienza, la mia viltà, la mia miseria, immeritevole affatto di tanto onore; ma il suddetto, preso dallo Spirito del Signore, mi obbligò ad ascoltarlo, protestandosi che il fine per cui voleva manifestarmi la sua vita, altro non era che per essere raccomandato al Signore. Con profonda umiltà mi manifestò il suo spirito, la sua coscienza.
Nel sentire le misericordie che Dio aveva compartito a questo suo servo, la povera anima mia si umiliò profondamente, nel vedere con quanta fedeltà corrispondeva questo ministro del Signore. Nell’ascoltare la sua austera penitenza, la continua orazione, le particolari comunicazioni che aveva con Dio, quanto amor di Dio possedeva questo eroico spirito, cose tutte che ad altro non servirono che a confondermi ed annientarmi nel proprio mio nulla.
Terminato che ebbe il racconto, mi disse che voleva pregarmi di una gran carità, che non gliel’avessi negata, mentre la chiedeva per amor di Dio. Il mio spirito non era ancora del tutto tornato nei sensi, per la comunicazione avuta, come già dissi, sicché poco e niente ero presente a me stessa, ma tutto riconcentrato lo spirito era in se stesso, godevo un bene molto particolare, godevo una semplicità di mente, una purità d’intenzione, che non mi permettevano di prevedere quello che questo servo di Dio fosse per domandarmi. Gli dissi: «Chieda pure, che, per amor di Dio, le prometto di fare quanto è per domandarmi».
Il buon sacerdote, pieno di umiltà, mi disse che voleva da me essere benedetto, piangendo mi disse che non gli negassi questa grazia. Qual sorpresa fu per me, non so dirlo; la sua richiesta riempì il mio spirito di santo orrore, risposi piena di confusione: «E come ardirà la creatura più vile che abita la terra benedire un ministro di Dio?».
Ero risoluta di non compiacerlo; ma da interno sentimento fui obbligata a condiscenderlo, mentre Dio mi fece intendere che la richiesta di questo suo ministro era di molto suo onore e di somma sua gloria, che dovevo assolutamente compiacerlo. A questa cognizione chinai il capo ai voleri di Dio, con profonda umiltà mi posi in ginocchioni e, recitando il Magnificat, profondata nel mio proprio nulla, mi umiliai dinanzi al mio Dio, poi mi alzai in piedi, invocando l’aiuto di Dio, benedii il buon sacerdote con il piccolo scapolare trinitario che tenevo indosso.
Il Signore si compiacque di fargli sperimentare i buoni effetti della povera mia benedizione, con donargli una viva contrizione.
Quanto mi restò obbligato il suddetto non è spiegabile, in quel momento gli convenne partire dalla mia casa senza poter proferire parola, tanto era sopraffatto dalla grazia di Dio e dalle abbondanti lacrime che versava dagli occhi; ma dopo pochi giorni mi favorì, e mi raccontò quanto di bene aveva sperimentato nel suo spirito per mezzo della povera mia benedizione.
La suddetta grazia si deve attribuire al beato Michele, che, come già dissi, poco prima si era degnato di farmi ritenere nelle mie mani la sua beata cappa.
Il buon sacerdote tornò a chiedermi la benedizione, ma Dio non mi permise di contentarlo, ma solo di implorare sopra il medesimo le divine benedizioni. Il buon sacerdote si alzò in piedi, restando contento e soddisfatto, promettendomi di ricordarsi di me nelle sue orazioni.
39 – VOGLIO UNIRTI IN SACRO MATRIMONIO
39.1. In bocca al demonio
Dal giorno 14 ottobre 1816 fino al 19 suddetto, li passai in sommo raccoglimento, e nella pratica della penitenza e digiuno, come si è detto di sopra, in preparazione alla festa di Gesù Nazareno, e in suffragio delle dette anime del Purgatorio.
39.2. Come Caterina da Siena
Il dì 19 suddetto fui favorita da Dio nella santa Comunione con grazia molto particolare, ma non so manifestare con termini proporzionati cosa tanto sublime, mentre fu sollevato il mio spirito ad un grado tanto intimo di unione, che credetti di finire la vita. La dolcezza, la soavità, l’amore essenziale che godeva la povera anima mia mi necessitava a dire, ebria di santo amore: «Basta, mio amore, basta Signore; basta, non più, sostener non posso la piena del vostro infinito amore. Basta, Signore; basta, non più».
Il profondo silenzio fu interrotto da dolce voce: «Figlia diletta», sento chiamarmi, «e se a te basta, non basta al mio amore. Altra grazia ti ha preparato l’infinito mio amore: il giorno 23 con sacro matrimonio intimamente a me ti unirò. Questo favore che voglio a te compartire non è meno grande di quello che mi compiacqui di fare alla mia serva Caterina da Siena».
A queste parole qual mi restassi non so ridire, ricordevole della mia infedeltà mi confondevo, mi umiliavo profondamente, piangevo con abbondanti lacrime le mie gravi colpe. Fui sopraffatta da viva contrizione.
Intanto il Signore sollevava il mio spirito per mezzo di intima cognizione, dandomi a conoscere l’infinito suo amore quanto parziale sia verso di me, misera sua creatura. A queste cognizioni si struggeva il mio cuore in lacrime di gratitudine, di amore; piena di santo affetto, tutta tutta mi offrii al suo divino beneplacito, acciò avesse fatto di me ciò che più gli piacesse: «Domine, quid de me vis facere», ripeteva la povera anima mia, «fiat, fiat voluntas tua».
Abbandonata che fui nel divino suo bene tutto in lui riposò il mio cuore, mi fece sperimentare i mirabili effetti del suo parziale amore.
Dal giorno 19 ottobre 1816 fino a tutto il 22 il mio spirito si andò disponendo al sopraddetto favore. Dio medesimo andava disponendo l’anima in una maniera molto particolare, trattenendola in replicate cognizioni, ora di se stessa, ora dell’infinito amore che mi porta. L’anima con santa umiltà si annientava in se stessa e piangeva i propri peccati, con vivissima contrizione, che sarebbe stata capace di levarmi la vita, se Dio da questa contrizione non mi avesse sollevata alla cognizione più alta del suo infinito amore.
Allora l’anima, qual cerva ferita, cercava l’amata fonte del santo amore. Trovo il fonte dell’acqua viva e là m’immergo, sono sopraffatta dalla piena delle dolcissime acque. Allora l’anima, ebbria di santo amore, andava replicando cento e mille volte il dolce suo nome, per dare così qualche refrigerio a quella viva fiamma, che tutto tutto mi bruciava il cuore.
«Gesù», dicevo con viva espressione, «dolce Gesù, fa’ che ti ami ogni momento di più». Gesù era nella mia mente, Gesù era nel mio cuore, Gesù era in tutta me; tutti i sentimenti miei invocavano Gesù: il mio sangue, le mie ossa, le mie interiora, tutti tutti invocavano Gesù; sicché il dolce eco risuonava nell’intimo dell’anima mia. La dolce armonia mi fece dimenticare ogni altra idea, di maniera che più non conoscevo altra parola che il dolcissimo nome di Gesù, non sapevo più proferire parola che non dicessi Gesù.
In questa guisa andò disponendo l’anima mia alla particolare unione di sacro matrimonio, come già le aveva promesso. Sicché dal giorno 19 ottobre fino al dì 23 suddetto, il mio spirito fu assorto in Dio, in una maniera molto particolare. L’amore grande che mi compartì Dio in questi giorni non mi è possibile manifestare.
39.3. L’anima tutta al suo Dio si consacrò
Il dì 22 mi disposi con una buona confessione, si degnò il Signore concedermi una particolare contrizione, tutto il giorno lo passai nel piangere i miei gravissimi peccati. Dal pianto passava l’anima ad un particolare riposo e godeva di un bene sommo, quando ero così riconcentrata udivo nel profondo della quiete armoniose voci, che dolcemente m’invitavano al divino talamo del mio Signore. Le dolci loro voci rapivano il mio cuore e lo rendevano tutto tutto del mio Signore.
Tutte queste cose che seguivano nel mio spirito, mi tenevano alienata dai sensi, e questo fu per tutta la giornata, più o meno godei la soavità degli odorosi profumi, che da ogni intorno spandevano quei medesimi spiriti celesti, che soavemente cantavano le lodi del loro Signore. Si andava ogni ora più disponendo la povera anima mia a ricevere il suddetto favore con atti interni di viva fede, di ferma speranza, ardente carità. Così passai la giornata. La sera poi si aumentò tanto l’interno raccoglimento, che mi rese incapace di ogni idea sensibile.
Tutta la notte la passai in orazioni, dopo aver riposato dolcemente nelle braccia del celeste mio sposo circa tre quarti. Viva fiamma il cuor mi accende di santo amore, il mio cuore già era impaziente, per la gran brama che aveva di unirmi con sé. Quali atti di amore faceva il mio cuore al certo non posso ridire. E Dio intanto mi dimostrava l’infinito suo amore con sentimenti e dolci espressioni, mi parlava nell’intimo del cuore, in profondo silenzio e in perfetta quiete, l’anima tutta al suo Dio si consacrò.
39.4. Il Bambino di propria mano collocò l’anello nel mio dito
Il dolce mio amore, l’amabile Gesù, mi fece sapere che alle sette della notte mi voleva compartire il celeste favore, unendomi a lui intimamente con dolce nodo di santo amore. Tutto ad un tratto cinta mi vedo di celeste splendore; l’anima mia fu sopraffatta da santo timore, e piena di lacrime, diceva al Signore: «Mio Dio, non sono degna di sì alto favore». E profondata nel proprio suo nulla, tutta tutta di amore in lacrime si disfaceva; il mio cuore in santi affetti si esercitava, per così piacere al sommo suo amore. La vita, il sangue più volte offrivo di quello che respirasse il cuore.
Ebbria di amore, dicevo al Signore: «In croce per tuo amore voglio morire!». Era tanto l’amore che sentivo al patire, che non ho termini di poterlo ridire. Intanto l’amore a dismisura cresceva, che non lo potevo contenere più. Il mio Dio sommamente si compiaceva per amore suo vedermi languire. Tutto ad un tratto, vedo apparire maggiore splendore, nel mezzo del quale mi parve vedere Gesù bambino, che, dal seno della sua santissima Madre, amorosamente m’invitava ad avvicinarmi a lui, mostrandomi un prezioso anello, mi chiamava, e, con gesti i più puri e cordiali, mi significava l’infinito suo amore. Agli amorosi e replicati inviti del divin pargoletto, tutto tutto di amore si accese il cuore nel petto, profondamente mi umilio e a lui mi avvicino, non potendo più contenere il grande incendio di amore.
Il caro Bambino mi dona l’anello, e di propria mano lo collocò nel mio dito. Oh dolce momento, oh dolce contento il mio cuore provò! l’anima mia di sacro incendio viva viva bruciò, e stemperata di amore e di affetto, tutta liquefatta di amore restò. Lo sposo diletto invitò l’anima al sacro riposo, allora fui sopraffatta da celeste splendore, fino il mio corpo in alto si sollevò. In questo tempo cosa seguisse io non so ridire, la dolce impressione che fece nel mio cuore la particolare unione del mio Signore non so ridire. Una nuova vita mi parve di respirare; in quel momento un altro cuore Gesù mi donò, tutto conforme al suo divino amore. Il divin fanciulletto, aprendosi il petto, mi dava a conoscere l’infinito suo amore. Rompendo il silenzio, la dolce sua voce così mi parlò: «Amata colomba, diletta mia sposa, vieni, entra e riposa nel sacro mio cuore!».
Qual meraviglia, quale stupore, non era angusto il cuore del divin fanciulletto, ma era qual mare immenso di amore. Replicando l’amoroso invito, diceva: «Entra nel gaudio del tuo Signore», e, sommergendomi nella piena della preziosa acqua, che scaturiva dall’amoroso suo cuore, restai tutta sommersa e intimamente a lui unita.
Spettatori di questo favore furono i santi re magi, i santi patriarchi, la divina madre Maria santissima, con il suo castissimo sposo Giuseppe e molti spiriti celesti. Questi nobili personaggi furono spettatori e testimoni del distinto favore; questi nobili personaggi mostravano l’alta loro meraviglia, il loro stupore nel vedermi tanto favorita dal celeste sovrano, re del cielo e della terra.
Mi fece intendere il Signore che di questo distinto favore ne voleva particolare memoria. Non so spiegare di più, mentre si degnò Dio di avvicinarmi tanto a lui, che arrivai a godere della sua medesima esistenza, per partecipazione; a me pare che questo sia un grado di unione tanto intima, che non possa più inoltrarsi creatura viatrice più di quello... non posso spiegar di più, cosa mai godei nell’anima non è possibile manifestarlo. Molto particolari furono i buoni effetti, e permanenti: per lo spazio di quindici giorni mi tennero assorta in Dio.
40 – UNA CHIAVE PER LIBERARE LE ANIME DEL PURGATORIO
40.1. Tutto otterrai dal mio amore
Il dì 1 novembre 1816, per particolare favore, in questo giorno fu il mio spirito introdotto negli ampli spazi della divina immensità; fui favorita dal divin Padre, dal Figliolo suo unigenito e dal divino suo Spirito in una maniera molto particolare. Sollevata che ebbe Dio l’anima sopra se stessa, per mezzo di particolarissimi sentimenti, le mostrò l’infinito suo amore. La maestosa sua voce con questi amorosi accenti nell’intimo del mio cuore fece risuonare: «Figlia», mi disse, «diletta figlia, è infinito l’amore che ti porto. E se per compiacerti dovessi disfare tutto il mondo e di nuovo per amor tuo tornarlo a riformare, pur lo farei. Chiedi, dimmi cosa brami, tutto otterrai dall’infinito mio amore».
A sentimenti tanto straordinari di amore, l’anima s’inabissò nel proprio suo nulla e, piena di santa umiltà, si confondeva ed insieme ammirava l’infinita bontà del suo Signore; non ardiva parlare, ma con lacrime di tenerezza e di amore si protestava per la più indegna peccatrice che abita sopra la terra; mi conoscevo meritevole di ogni punizione, ma il mio Dio non cercava il mio demerito, solo cercava di appagare l’infinito suo amore.
Di nuovo mi fece ascoltare la sovrana sua voce: «Parla», tornò a dirmi, «parla, domanda pure liberamente quanto brami e desideri».
Conobbi, per mezzo di particolare cognizione, che compiaciuto lo avrei con chiedergli qualche grazia. A questa cognizione lascio il soverchio timore, e piena di fiducia nei meriti santissimi di Gesù, con umile preghiera chiedo di liberare dal Purgatorio le anime purganti. A questa mia richiesta, mi fu presentata una smisurata chiave: «Va’», mi sento dire, «va’», a tuo arbitrio libera tutte quelle che ti piace liberare».
Poco dopo tornai nei sensi, e mi trovai come smarrita, dicevo tra me stessa: «Cosa farò, è sogno o è vero quanto mi è accaduto nel mio spirito?».
Tornò a raccogliersi lo spirito, e mi parve di vedere i santi fondatori trinitari con san Carlo Borromeo; questi santi mi condussero in un luogo dove mi diedero a vedere il Purgatorio. Qual terrore, quale orrore, quale spavento mi cagionò simile vista, oh, che gravi pene, oh, che atroci tormenti soffrivano quelle sante anime, come si raccomandavano per essere liberate!
A vista così compassionevole, sentivo in me un gran desiderio di liberarle da quelle pene. Avrei dato la vita ai più crudi patimenti; ma per essere una povera peccatrice mi conoscevo insufficiente, nonostante la buona volontà; mi rivolsi con viva fede all’amabilissimo mio Gesù, e lo pregai con tanto ardore ed impegno che si degnò di apparire in quel tenebroso carcere, cinto di chiara luce. Allora i santi fondatori trinitari, unitamente al glorioso san Carlo, per mezzo delle loro suppliche, ottennero a molte di quelle anime di essere liberate da quel tenebroso carcere.
Molti furono i favori che in questi sei mesi di digiuno il Signore mi compartì, per la sua infinita bontà e misericordia, non solo a mio vantaggio, ma a vantaggio del mio prossimo, particolarmente dei miei benefattori. Molte grazie dispensò loro, come ancora si degnò il Signore, per mezzo delle povere mie preghiere, liberare molte anime dal Purgatorio.
Il dì 1 novembre 1816, per ordine di Dio, sospesi il suddetto digiuno, ed ebbi ordine di cibarmi di una minestra di legumi ed una pietanza di erba cotta.
40.2. Mi fece riposare sul suo Cuore
Dal dì 2 novembre 1816 fino al giorno 17 del suddetto mese il mio spirito li passò in particolare raccoglimento.
Il dì 19 novembre 1816 nell’orazione subito levata, che fu per lo spazio di buone tre ore, si raccolse il povero mio spirito e si trattenne a parlare familiarmente con il suo Dio, che per la sua infinita bontà si era dimenticato affatto dei miei falli; non altro parlava che di predilezione, di amore, chiamava la povera anima mia «diletta sua figlia, arbitra del suo cuore», capace di ottenere dal suo infinito amore quanto brama e desidera.
Io non so dire con quale maniera mi parla il Signore, mentre non si serve di parole sensibili, né di soliti accenti, ma per mezzo di particolarissime cognizioni mi dà a conoscere cose così grandi, che io non so né conoscere né spiegare; sopraffatta dall’ammirazione amo quel bene sommo, che non so né conoscere né amare, ma piena di ammirazione avanti all’incomprensibile mio bene, si umilia profondamente il povero mio cuore e si compiace che Dio sia immenso e che non possa comprendersi da umano intelletto.
A cognizioni così sublimi si accese nel cuore una viva fiamma del suo santo amore. Raccolte le forze, come di volo, nel casto suo cuore mi fece riposare. La compiacenza, l’affetto, l’amore, un’ardente fiamma di santo amore bruciò il cuore, al sacro incendio l’anima mia tutta in Dio si trasformò. In quel momento si ritrovò vicina al sole di giustizia, che per partecipazione un altro sole mi fece divenire. Per compiacenza il suo splendore mi comunicò; dopo avermi fatto quanto mai bella con il suo splendore, che non ho termini di poterlo spiegare, pieno di compiacenza, così prese a parlare: «Diletta mia figlia, gradita mia sposa, vieni, entra e riposa nel casto mio cuore. Amata colomba, deh spiega il tuo volo, il casto mio cuore tuo nido sarà; e da questo momento la mia e la tua volontà una stessa cosa sarà. È tanto l’amore che ti porto, che quanto brami e desideri ti concederò».
A queste parole l’anima mia si umiliò profondamente avanti al suo Dio, e riconcentrata tutta in se stessa, così prese a parlare: «Mio Dio, dove sono io? Sogno o son desta? Oh eccesso di amore! e donde procede l’immenso tuo amore, tanto parziale verso di me? Io, la più vile tra le figlie di Adamo, sol cerco, sol bramo compensare l’amore tradito. Angeli santi, aiutatemi voi a compensare il mio amato bene! O santi del cielo, datemi voi le vostre virtù! Mia cara madre, bella Maria, voi compensate la mia viltà». E in questi accenti tutta mi offrii al mio caro Gesù, rivolta a lui, così presi a parlare: «Cerco di ricondurre anime all’amante tuo cuore. Ecco la mia vita, ecco il mio sangue: tutto per tuo amore si verserà. Anime chiedo, caro Gesù mio, questa grazia non mi negar».
Allora il Signore mi diede a vedere un gran numero di anime che, per mio mezzo, voleva salvare. A questa vista l’anima mia profondamente si umiliò, e riflettendo all’amore tradito a confronto di tanto suo amore, da vivo dolore sentivo spezzarmi il cuore. La gratitudine, la contrizione mi fece versare un profluvio di lacrime. Per riparare in qualche maniera al disonore che il Signore ha ricevuto da me, pensai che un’altra anima si offrisse al Signore, per così compensare la mia ingiustizia.
Una fida compagna che mi ha dato il Signore, questa gli offrii, perché con voti di castità, obbedienza e povertà, potesse in qualche maniera compensare la mia infedeltà. E poi mi rivolsi ai santi patriarchi Felice e Giovanni, che si fecero presenti ai miei gemiti, al mio clamore. Rivolta a loro, così presi a parlare: «Deh voi degnatevi, miei cari padri, di ricevere quest’anima, e voi offritela all’eterno Dio, in compenso della mia iniquità».
Allora il patriarca san Felice di Valois mi mostrò un piccolo scapolare trinitario, e mi fece intendere che in quella forma doveva essere lo scapolare che dovevo porre indosso alla giovane zitella, poi il glorioso santo così prese a parlare: «Fin da questo momento la riguarderai qual figlia, altro nome a lei imporrai».
La mattina manifestai tutto al mio padre spirituale, il quale, dopo essersi raccomandato al Signore, credette di mettere in esecuzione quanto si è detto sopra. Sicché il giorno della festa del gran patriarca san Felice di Valois si diede il santo scapolare trinitario alla signora N. N. e gli si impose il nome di Maria Costanza del Cuore di Maria. Il suddetto nome fu dato dallo Spirito del Signore, mentre io dopo la santa Comunione incessantemente lo pregavo a manifestarmi qual nome dovevo imporre alla suddetta giovane. Per parte di particolare intelligenza ebbi cognizione di mettergli il suddetto nome, alludente alle riprove che quest’anima darà della sua fedeltà e costanza.
Dal giorno 19 novembre 1816 fino al dì 7 dicembre 1816, per aver trascurato lo scrivere, non posso render conto; solo dirò che, per mezzo di particolare ispirazione, ho ripreso il solito digiuno di una sola cioccolata ogni ventiquattro ore. Questo si intraprese da me il dì 25 novembre 1816, giorno di santa Caterina, fino al giorno del santo Natale, in preparazione a questo gran mistero m’invitò lo Spirito del Signore ad intraprendere questo digiuno ad imitazione di questa gloriosa santa; e, per sua infinita bontà, mi fece intendere che non meno grato gli sarebbe stato il mio digiuno di quello di questa benedetta santa.
40.3. La Chiesa ridotta all’ultima desolazione
Il dì 8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione della santissima Vergine Maria, nostra tenerissima madre, nell’assistere alla Messa cantata si raccolse il mio spirito intimamente; in questo tempo Dio si degnò sollevarmi ad un grado molto particolare di unione, mi mostrò la sua divina giustizia sdegnata contro gli uomini, fui trasportata in spirito in un luogo eminente, dove mi fu mostrata l’orrida scena del tremendo castigo che Dio è per mandare sopra la terra, per i nostri enormi peccati. Io al solo rammentarlo sento riempirmi di terrore, e lo spirito è sopraffatto da profonda mestizia. Prego incessantemente il Signore a mitigare il suo sdegno, per i meriti del suo santissimo Figliolo Gesù.
Proseguo: «Mi si fece dunque vedere l’orrida scena. Mio Dio! qual terrore! Vidi da un lato la morte del nostro Sommo Pontefice. Dio, tutto piacevole, a sé lo chiamava; e lui piacevolmente ne riceveva l’invito, placidamente se ne moriva. Alla sua morte ecco la gravissima rovina della nostra santa Madre, la Chiesa; ecco Dio sdegnato contro di noi! Oh, che spavento; oh, che timore! La nostra cara madre, Maria santissima, stava a braccia aperte per riparare lo sdegno di Dio; ma Dio non ascoltava né preghiere, né sacrifici, né vittime; ma eccoci già schiavi di un barbaro, che inferocisce contro di noi e della nostra madre, la santa Chiesa.
Povere religiose, poveri religiosi! tutti fuori dei sacri chiostri, sarete espulsi non con dolcezza, ma a viva forza. Erano devastati i sacri templi, il culto di Dio era profanato. E da chi? Da quelli che per ogni ragione dovrebbero sostenerla: erano quelli che sfacciatamente si ribellavano e cercavano la totale distruzione della nostra cara Madre, la santa Chiesa, e in un momento era da questi figli ribelli ridotta all’ultima desolazione.
Ma buon per il piccolo gregge di Gesù Cristo, che fedele e costante al suo Dio, in mezzo a tanta barbarie seppe conservare pura e intatta la divina legge del santo Evangelo, ed i suoi dogmi sacrosanti. Le fervide preghiere dei buoni fedeli presto mossero il cuore di Dio a liberarci dalla fiera persecuzione.
Improvvisamente si vide uno splendore che circondò la nostra cara Madre, la santa Chiesa, e i fedeli figli suoi. E in un momento da mano onnipotente furono distrutti i fieri persecutori.
A questo gran prodigio, di nuovi figli si vide arricchita la santa Chiesa, quelli che non credevano in Dio, all’apparire il nuovo splendore, seguaci del Crocifisso divennero. Il mio spirito a tutto questo gran teatro di affanni e di contenti non so dire qual mi restassi, mentre credetti di perdere la vita affatto.
40.4. Un favore eccezionale: una particolare cognizione di Dio
Il dì 24 dicembre 1816, vigilia del santo Natale, la mattina subito levata passai tre ore e mezza in orazioni. In questo tempo mi preparai per fare una buona confessione. Il Signore si degnò compartirmi un lume molto particolare di propria cognizione, questa cognizione eccitò in me un vivo dolore di avere offeso Dio, e piangendo amaramente le mie colpe, ne domandavo di tutto di vero cuore perdono al Signore.
In mezzo a questa contrizione era molto grande il raccoglimento che mi comunicò il Signore. Da questo raccoglimento passai in una perfetta quiete, in un baleno si sollevò il mio spirito, e penetrò un luogo immenso, che io non so descrivere in nessuna maniera. In questo luogo l’anima mia dolcemente si riposò nell’immensità di Dio.
Terminata la suddetta orazione, il mio spirito restò tutto assorto in Dio; poi, secondo il solito, mi portai alla chiesa per fare la santa Comunione. Dopo la santa Comunione mi fece sapere il Signore che mi fossi preparata, che in quella santa notte mi voleva favorire con particolare grazia. La dolcezza, la soavità, il raccoglimento rese estatico il mio spirito.
In questo tempo mi apparvero due Angeli di nobile aspetto e di grado maggiore di quelli che in altre occasioni si sono degnati favorirmi della loro presenza e assistenza. Ebbi cognizione particolare, e seppi che quei sublimi spiriti, che mi avevano favorito della loro presenza in quella santa notte del santo Natale, erano del settimo coro degli Angeli. I suddetti spiriti celesti sono destinati da Dio, per particolare privilegio, di proteggere, di custodire il santo Ordine trinitario. I suddetti Angeli santi disposero il mio cuore a ricevere il celeste favore. Circa la mezzanotte fui alienata dai sensi, e in questo tempo Dio si degnò favorirmi la particolare grazia che mi aveva promesso nella santa Comunione.
Il favore fu molto particolare, motivo per cui non ho termini sufficienti per poterlo spiegare. Una moltitudine di santi Angeli furono spettatori del gran favore che mi compartì il Signore, e pieni di ammirazione lo lodavano, lo benedicevano, e con la povera anima mia si rallegravano, e qual tempio dello Spirito Santo mi ossequiavano.
Ai loro ossequi quale umiltà profonda sentiva il povero mio cuore, riconoscendomi per la più vile di tutte le creature che abitano la terra. Si profondava l’anima nel proprio suo nulla, e piena di gratitudine amava ardentemente, lodava incessantemente, ringraziava cento milioni di volte il suo Signore, e con tenerezza di cuore e con dolci lacrime tutta tutta si offriva al Signore, senza intervallo, senza riserva, ma tutta tutta mi donavo a lui.
In quella santa notte il Signore mi concesse una grazia molto grande, che io gli chiesi per due religiosi trinitari. Mi promise dunque il Signore che avrebbe dato grazia ai suddetti religiosi di perseverare nel bene operare fino alla fine della loro vita, e per conseguenza si sarebbero sicuramente salvati. La buona notizia della vita eterna dei suddetti religiosi mi apportò somma allegrezza di spirito.
Dopo aver ascoltato la Messa della mezzanotte, mattina del santo Natale, volli ascoltare ancora quella del mezzogiorno. A tale effetto, dopo sbrigati gli affari domestici della mia casa, mi portai alla chiesa con sommo raccoglimento, godendo ancora di quel bene che il mio Dio mi aveva comunicato la notte, come si è già detto di sopra.
Fu dunque il mio spirito chiamato a somma attenzione, e riconcentrato in se stesso intimamente; riconcentrato così profondamente mi si diede a vedere molto da lungi un prodigioso splendore. Fui invitata ad inoltrarmi. A questo invito mi fu comunicata particolare penetrazione di intelletto, Dio mi degnò di particolare intelligenza e mi diede particolare cognizione di se stesso e dell’infinito suo essere.
Quando l’anima mia si compiaceva infinitamente in Dio e prendeva altissima compiacenza nell’infinito suo essere, quando ero già immersa in questa infinita magnificenza, il mio Dio mi obbligò ad abbassare lo sguardo, e mirare questo mondo sensibile, e mi diede a vedere le grandissime iniquità che in questo si commettono.
Che indignazione, che iniquità! Mio Dio, datemi grazia voi per poterlo manifestare, mentre al solo pensarlo io raccapriccio, e si riempie di confusione ed orrore il mio spirito. Abbasso dunque lo sguardo e vedo Maria santissima con il suo santissimo Figliolo tra le sue braccia santissime, la vedo mesta e dolente, la sua mestizia destò nel mio cuore viva compassione e ardente amore, e mossa da cordiale affetto, domando a lei la cagione del suo dolore, offrendomi, benché indegna peccatrice, ad ogni sorta di patimenti, per così dare qualche conforto all’affannato suo cuore.
La pietosa Madre gradì la povera, ma sincera mia offerta, mentre in quel momento mi sarei data in mano ai più spietati carnefici, acciò avessero fatto di me il più crudele scempio, per così dare qualche conforto alla mia amabilissima madre Maria. La divina Madre a me rivolta, così mi dice: «Mira, o figlia, mira la grande empietà!».
A queste parole vedo che arditamente tentano i nostri apostati di strappargli arditamente e temerariamente il suo santissimo Figliolo dal suo purissimo seno, dalle sue santissime braccia. A questo grande attentato la divina Madre non più chiedeva misericordia per il mondo, ma giustizia chiedeva all’eterno divin Padre; il quale, rivestito della sua inesorabile giustizia e pieno di sdegno, si rivolse verso il mondo. In quel momento si sconvolse tutta la natura, e il mondo perdette il suo giusto ordine, e si formò sulla terra la più grande infelicità che mai possa dirsi né immaginarsi.
Cosa così lacrimevole e afflittiva che renderà il mondo all’ultima desolazione. Non posso dir di più. Preghiamo il Signore caldamente, acciò si degni mitigare verso di noi il suo giustissimo sdegno. Quale timore, quale spavento mi apportò simile vista non ho termini di poterlo spiegare.
11-116 Gennaio 30, 1916 La Divina Volontà cristallizza l’anima che vive in Essa.
Luisa Piccarreta (Libro di Cielo)
(1) Stavo fondendomi tutta nel mio sempre amabile Gesù, e mentre ciò facevo, Gesù venendo si fondeva tutto in me e mi ha detto:
(2) “Figlia mia, quando l’anima vive del tutto nella mia Volontà, se pensa, i suoi pensieri riflettono nella mia mente in Cielo; se desidera, se parla, se ama, tutto rifletta in Me, e tutto ciò che faccio rifletta in lei. Succede come quando il sole rifletta nei vetri, si vede in questi un altro sole, tutto simile al sole del cielo, con questa differenza, che il sole nel cielo è fisso e sta sempre al suo posto, mentre nei vetri è passeggero. Ora, la mia Volontà cristallizza l’anima, e tutto il suo operato si rifletta in Me, ed Io, ferito, rapito da questi riflessi le mando tutta la mia luce, in modo da formare in lei un altro sole, sicché pare un sole in cielo e l’altro in terra. Che incanto e quali armonie tra loro! quanti beni non si versano a pro di tutti! Ma però, se l’anima non è fissa nel mio Volere, può succedere come al sole che si forma nei vetri, dove è sole passeggero, e poi il vetro rimane all’oscuro, ed il sole del cielo rimane solo”.