Liturgia delle Ore - Letture
Mercoledi della 25° settimana del tempo ordinario
Vangelo secondo Marco 5
1Intanto giunsero all'altra riva del mare, nella regione dei Gerasèni.2Come scese dalla barca, gli venne incontro dai sepolcri un uomo posseduto da uno spirito immondo.3Egli aveva la sua dimora nei sepolcri e nessuno più riusciva a tenerlo legato neanche con catene,4perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva sempre spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo.5Continuamente, notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre.6Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi,7e urlando a gran voce disse: "Che hai tu in comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!".8Gli diceva infatti: "Esci, spirito immondo, da quest'uomo!".9E gli domandò: "Come ti chiami?". "Mi chiamo Legione, gli rispose, perché siamo in molti".10E prese a scongiurarlo con insistenza perché non lo cacciasse fuori da quella regione.
11Ora c'era là, sul monte, un numeroso branco di porci al pascolo.12E gli spiriti lo scongiurarono: "Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi".13Glielo permise. E gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il branco si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila e affogarono uno dopo l'altro nel mare.14I mandriani allora fuggirono, portarono la notizia in città e nella campagna e la gente si mosse a vedere che cosa fosse accaduto.
15Giunti che furono da Gesù, videro l'indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura.16Quelli che avevano visto tutto, spiegarono loro che cosa era accaduto all'indemoniato e il fatto dei porci.17Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio.18Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo pregava di permettergli di stare con lui.19Non glielo permise, ma gli disse: "Va' nella tua casa, dai tuoi, annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato".20Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli ciò che Gesù gli aveva fatto, e tutti ne erano meravigliati.
21Essendo passato di nuovo Gesù all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare.22Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi23e lo pregava con insistenza: "La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva".24Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
25Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia26e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando,27udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti:28"Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita".29E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male.
30Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: "Chi mi ha toccato il mantello?".31I discepoli gli dissero: "Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?".32Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo.33E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità.34Gesù rispose: "Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male".
35Mentre ancora parlava, dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: "Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?".36Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: "Non temere, continua solo ad aver fede!".37E non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.38Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava.39Entrato, disse loro: "Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme".40Ed essi lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina.41Presa la mano della bambina, le disse: "Talità kum", che significa: "Fanciulla, io ti dico, alzati!".42Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore.43Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare.
Genesi 43
1La carestia continuava a gravare sul paese.2Quando ebbero finito di consumare il grano che avevano portato dall'Egitto, il padre disse loro: "Tornate là e acquistate per noi un po' di viveri".3Ma Giuda gli disse: "Quell'uomo ci ha dichiarato severamente: Non verrete alla mia presenza, se non avrete con voi il vostro fratello!4Se tu sei disposto a lasciar partire con noi nostro fratello, andremo laggiù e ti compreremo il grano.5Ma se tu non lo lasci partire, noi non ci andremo, perché quell'uomo ci ha detto: Non verrete alla mia presenza, se non avrete con voi il vostro fratello!".6Israele disse: "Perché mi avete fatto questo male, cioè far sapere a quell'uomo che avevate ancora un fratello?".7Risposero: "Quell'uomo ci ha interrogati con insistenza intorno a noi e alla nostra parentela: È ancora vivo vostro padre? Avete qualche fratello? e noi abbiamo risposto secondo queste domande. Potevamo sapere ch'egli avrebbe detto: Conducete qui vostro fratello?".
8Giuda disse a Israele suo padre: "Lascia venire il giovane con me; partiremo subito per vivere e non morire, noi, tu e i nostri bambini.9Io mi rendo garante di lui: dalle mie mani lo reclamerai. Se non te lo ricondurrò, se non te lo riporterò, io sarò colpevole contro di te per tutta la vita.10Se non avessimo indugiato, ora saremmo già di ritorno per la seconda volta".11Israele loro padre rispose: "Se è così, fate pure: mettete nei vostri bagagli i prodotti più scelti del paese e portateli in dono a quell'uomo: un po' di balsamo, un po' di miele, resina e laudano, pistacchi e mandorle.12Prendete con voi doppio denaro, il denaro cioè che è stato rimesso nella bocca dei vostri sacchi lo porterete indietro: forse si tratta di un errore.13Prendete anche vostro fratello, partite e tornate da quell'uomo.14Dio onnipotente vi faccia trovare misericordia presso quell'uomo, così che vi rilasci l'altro fratello e Beniamino. Quanto a me, una volta che non avrò più i miei figli, non li avrò più...!".
15Presero dunque i nostri uomini questo dono e il doppio del denaro e anche Beniamino, partirono, scesero in Egitto e si presentarono a Giuseppe.
16Quando Giuseppe ebbe visto Beniamino con loro, disse al suo maggiordomo: "Conduci questi uomini in casa, macella quello che occorre e prepara, perché questi uomini mangeranno con me a mezzogiorno".17Il maggiordomo fece come Giuseppe aveva ordinato e introdusse quegli uomini nella casa di Giuseppe.18Ma quegli uomini si spaventarono, perché venivano condotti in casa di Giuseppe, e dissero: "A causa del denaro, rimesso nei nostri sacchi l'altra volta, ci si vuol condurre là: per assalirci, piombarci addosso e prenderci come schiavi con i nostri asini".
19Allora si avvicinarono al maggiordomo della casa di Giuseppe e parlarono con lui all'ingresso della casa;20dissero: "Mio signore, noi siamo venuti già un'altra volta per comperare viveri.21Quando fummo arrivati ad un luogo per passarvi la notte, aprimmo i sacchi ed ecco il denaro di ciascuno si trovava alla bocca del suo sacco: proprio il nostro denaro con il suo peso esatto. Allora noi l'abbiamo portato indietro22e, per acquistare i viveri, abbiamo portato con noi altro denaro. Non sappiamo chi abbia messo nei sacchi il nostro denaro!".23Ma quegli disse: "State in pace, non temete! Il vostro Dio e il Dio dei padri vostri vi ha messo un tesoro nei sacchi; il vostro denaro è pervenuto a me". E portò loro Simeone.
24Quell'uomo fece entrare gli uomini nella casa di Giuseppe, diede loro acqua, perché si lavassero i piedi e diede il foraggio ai loro asini.25Essi prepararono il dono nell'attesa che Giuseppe arrivasse a mezzogiorno, perché avevano saputo che avrebbero preso cibo in quel luogo.26Quando Giuseppe arrivò a casa, gli presentarono il dono, che avevano con sé, e si prostrarono davanti a lui con la faccia a terra.27Egli domandò loro come stavano e disse: "Sta bene il vostro vecchio padre, di cui mi avete parlato? Vive ancora?".28Risposero: "Il tuo servo, nostro padre, sta bene, è ancora vivo" e si inginocchiarono prostrandosi.29Egli alzò gli occhi e guardò Beniamino, suo fratello, il figlio di sua madre, e disse: "È questo il vostro fratello più giovane, di cui mi avete parlato?" e aggiunse: "Dio ti conceda grazia, figlio mio!".30Giuseppe uscì in fretta, perché si era commosso nell'intimo alla presenza di suo fratello e sentiva il bisogno di piangere; entrò nella sua camera e pianse.31Poi si lavò la faccia, uscì e, facendosi forza, ordinò: "Servite il pasto".32Fu servito per lui a parte, per loro a parte e per i commensali egiziani a parte, perché gli Egiziani non possono prender cibo con gli Ebrei: ciò sarebbe per loro un abominio.33Presero posto davanti a lui dal primogenito al più giovane, ciascuno in ordine di età ed essi si guardavano con meraviglia l'un l'altro.34Egli fece portare loro porzioni prese dalla propria mensa, ma la porzione di Beniamino era cinque volte più abbondante di quella di tutti gli altri. E con lui bevvero fino all'allegria.
Proverbi 12
1Chi ama la disciplina ama la scienza,
chi odia la correzione è stolto.
2Il buono si attira il favore del Signore,
ma egli condanna l'intrigante.
3Non resta saldo l'uomo con l'empietà,
ma la radice dei giusti non sarà smossa.
4La donna perfetta è la corona del marito,
ma quella che lo disonora è come carie nelle sue ossa.
5I pensieri dei giusti sono equità,
i propositi degli empi sono frode.
6Le parole degli empi sono agguati sanguinari,
ma la bocca degli uomini retti vi si sottrarrà.
7Gli empi, una volta abbattuti, più non sono,
ma la casa dei giusti sta salda.
8Un uomo è lodato per il senno,
chi ha un cuore perverso è disprezzato.
9Un uomo di poco conto che basta a se stesso
vale più di un uomo esaltato a cui manca il pane.
10Il giusto ha cura del suo bestiame,
ma i sentimenti degli empi sono spietati.
11Chi coltiva la sua terra si sazia di pane,
chi insegue chimere è privo di senno.
12Le brame dell'empio sono una rete di mali,
la radice dei giusti produce frutti.
13Nel peccato delle sue labbra si impiglia il malvagio,
ma il giusto sfuggirà a tale angoscia.
14Ognuno si sazia del frutto della sua bocca,
ma ciascuno sarà ripagato secondo le sue opere.
15Lo stolto giudica diritta la sua condotta,
il saggio, invece, ascolta il consiglio.
16Lo stolto manifesta subito la sua collera,
l'accorto dissimula l'offesa.
17Chi aspira alla verità proclama la giustizia,
il falso testimone proclama l'inganno.
18V'è chi parla senza riflettere: trafigge come una spada;
ma la lingua dei saggi risana.
19La bocca verace resta ferma per sempre,
la lingua bugiarda per un istante solo.
20Amarezza è nel cuore di chi trama il male,
gioia hanno i consiglieri di pace.
21Al giusto non può capitare alcun danno,
gli empi saranno pieni di mali.
22Le labbra menzognere sono un abominio per il Signore
che si compiace di quanti agiscono con sincerità.
23L'uomo accorto cela il sapere,
il cuore degli stolti proclama la stoltezza.
24La mano operosa ottiene il comando,
quella pigra sarà per il lavoro forzato.
25L'affanno deprime il cuore dell'uomo,
una parola buona lo allieta.
26Il giusto è guida per il suo prossimo,
ma la via degli empi fa smarrire.
27Il pigro non troverà selvaggina;
la diligenza è per l'uomo un bene prezioso.
28Nella strada della giustizia è la vita,
il sentiero dei perversi conduce alla morte.
Salmi 107
1Alleluia.
Celebrate il Signore perché è buono,
perché eterna è la sua misericordia.
2Lo dicano i riscattati del Signore,
che egli liberò dalla mano del nemico
3e radunò da tutti i paesi,
dall'oriente e dall'occidente,
dal settentrione e dal mezzogiorno.
4Vagavano nel deserto, nella steppa,
non trovavano il cammino per una città dove abitare.
5Erano affamati e assetati,
veniva meno la loro vita.
6Nell'angoscia gridarono al Signore
ed egli li liberò dalle loro angustie.
7Li condusse sulla via retta,
perché camminassero verso una città dove abitare.
8Ringrazino il Signore per la sua misericordia,
per i suoi prodigi a favore degli uomini;
9poiché saziò il desiderio dell'assetato,
e l'affamato ricolmò di beni.
10Abitavano nelle tenebre e nell'ombra di morte,
prigionieri della miseria e dei ceppi,
11perché si erano ribellati alla parola di Dio
e avevano disprezzato il disegno dell'Altissimo.
12Egli piegò il loro cuore sotto le sventure;
cadevano e nessuno li aiutava.
13Nell'angoscia gridarono al Signore
ed egli li liberò dalle loro angustie.
14Li fece uscire dalle tenebre e dall'ombra di morte
e spezzò le loro catene.
15Ringrazino il Signore per la sua misericordia,
per i suoi prodigi a favore degli uomini;
16perché ha infranto le porte di bronzo
e ha spezzato le barre di ferro.
17Stolti per la loro iniqua condotta,
soffrivano per i loro misfatti;
18rifiutavano ogni nutrimento
e già toccavano le soglie della morte.
19Nell'angoscia gridarono al Signore
ed egli li liberò dalle loro angustie.
20Mandò la sua parola e li fece guarire,
li salvò dalla distruzione.
21Ringrazino il Signore per la sua misericordia
e per i suoi prodigi a favore degli uomini.
22Offrano a lui sacrifici di lode,
narrino con giubilo le sue opere.
23Coloro che solcavano il mare sulle navi
e commerciavano sulle grandi acque,
24videro le opere del Signore,
i suoi prodigi nel mare profondo.
25Egli parlò e fece levare
un vento burrascoso che sollevò i suoi flutti.
26Salivano fino al cielo,
scendevano negli abissi;
la loro anima languiva nell'affanno.
27Ondeggiavano e barcollavano come ubriachi,
tutta la loro perizia era svanita.
28Nell'angoscia gridarono al Signore
ed egli li liberò dalle loro angustie.
29Ridusse la tempesta alla calma,
tacquero i flutti del mare.
30Si rallegrarono nel vedere la bonaccia
ed egli li condusse al porto sospirato.
31Ringrazino il Signore per la sua misericordia
e per i suoi prodigi a favore degli uomini.
32Lo esaltino nell'assemblea del popolo,
lo lodino nel consesso degli anziani.
33Ridusse i fiumi a deserto,
a luoghi aridi le fonti d'acqua
34e la terra fertile a palude
per la malizia dei suoi abitanti.
35Ma poi cambiò il deserto in lago,
e la terra arida in sorgenti d'acqua.
36Là fece dimorare gli affamati
ed essi fondarono una città dove abitare.
37Seminarono campi e piantarono vigne,
e ne raccolsero frutti abbondanti.
38Li benedisse e si moltiplicarono,
non lasciò diminuire il loro bestiame.
39Ma poi, ridotti a pochi, furono abbattuti,
perché oppressi dalle sventure e dal dolore.
40Colui che getta il disprezzo sui potenti,
li fece vagare in un deserto senza strade.
41Ma risollevò il povero dalla miseria
e rese le famiglie numerose come greggi.
42Vedono i giusti e ne gioiscono
e ogni iniquo chiude la sua bocca.
43Chi è saggio osservi queste cose
e comprenderà la bontà del Signore.
Ezechiele 14
1Vennero a trovarmi alcuni anziani d'Israele e sedettero dinanzi a me.2Mi fu rivolta allora questa parola del Signore:3"Figlio dell'uomo, questi uomini hanno posto idoli nel loro cuore e tengono fisso lo sguardo all'occasione della loro iniquità appena si mostri. Mi lascerò interrogare da loro?4Parla quindi e di' loro: Dice il Signore Dio: Qualunque Israelita avrà innalzato i suoi idoli nel proprio cuore e avrà rivolto lo sguardo all'occasione della propria iniquità e verrà dal profeta, gli risponderò io, il Signore, riguardo alla moltitudine dei suoi idoli,5per raggiungere al cuore gli Israeliti, che si sono allontanati da me a causa di tutti i loro idoli.6Riferisci pertanto al popolo d'Israele: Dice il Signore Dio: Convertitevi, abbandonate i vostri idoli e distogliete la faccia da tutte le vostre immondezze,7poiché a qualunque Israelita e a qualunque straniero abitante in Israele, che si allontana da me e innalza nel suo cuore i suoi idoli e rivolge lo sguardo all'occasione della propria iniquità e poi viene dal profeta a consultarmi, risponderò io, il Signore, da me stesso.8Distoglierò la faccia da costui e ne farò un esempio e un proverbio, e lo sterminerò dal mio popolo: saprete così che io sono il Signore.
9Se un profeta si lascia sedurre e fa una profezia, io, il Signore, ho sedotto quel profeta: stenderò la mano contro di lui e lo cancellerò dal mio popolo Israele.10Ambedue porteranno la pena della loro iniquità. La pena di chi consulta sarà uguale a quella del profeta,11perché gli Israeliti non vadano più errando lontano da me, né più si contaminino con tutte le loro prevaricazioni: essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio. Parola del Signore".
12Mi fu rivolta questa parola del Signore:13"Figlio dell'uomo, se un paese pecca contro di me e si rende infedele, io stendo la mano sopra di lui e gli tolgo la riserva del pane e gli mando contro la fame e stérmino uomini e bestie;14anche se nel paese vivessero questi tre uomini: Noè, Daniele e Giobbe, essi con la loro giustizia salverebbero solo se stessi, dice il Signore Dio.15Oppure se io infestassi quel paese di bestie feroci, che lo privassero dei suoi figli e ne facessero un deserto che nessuno potesse attraversare a causa delle bestie feroci,16anche se in mezzo a quella terra ci fossero questi tre uomini, giuro com'è vero ch'io vivo, dice il Signore Dio: non salverebbero né figli né figlie, soltanto loro si salverebbero, ma la terra sarebbe un deserto.
17Oppure, se io mandassi la spada contro quel paese e dicessi: Spada, percorri quel paese; e sterminassi uomini e bestie,18anche se in mezzo a quel paese ci fossero questi tre uomini, giuro com'è vero ch'io vivo, dice il Signore: non salverebbero né figli né figlie, soltanto loro si salverebbero.
19Oppure, se io mandassi la peste contro quella terra e sfogassi nella strage lo sdegno e sterminassi uomini e bestie,20anche se in mezzo a quella terra ci fossero Noè, Daniele e Giobbe, giuro com'è vero ch'io vivo, dice il Signore Dio: non salverebbero né figli né figlie, soltanto essi si salverebbero per la loro giustizia.
21Dice infatti il Signore Dio: Quando manderò contro Gerusalemme i miei quattro tremendi castighi: la spada, la fame, le bestie feroci e la peste, per estirpare da essa uomini e bestie,22ecco vi sarà in mezzo un residuo che si metterà in salvo con i figli e le figlie. Essi verranno da voi perché vediate la loro condotta e le loro opere e vi consoliate del male che ho mandato contro Gerusalemme, di quanto ho mandato contro di lei.23Essi vi consoleranno quando vedrete la loro condotta e le loro opere e saprete che non invano ho fatto quello che ho fatto in mezzo a lei". Parola del Signore Dio.
Atti degli Apostoli 9
1Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote2e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati.3E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo4e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?".5Rispose: "Chi sei, o Signore?". E la voce: "Io sono Gesù, che tu perseguiti!6Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare".7Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno.8Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco,9dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda.
10Ora c'era a Damasco un discepolo di nome Ananìa e il Signore in una visione gli disse: "Ananìa!". Rispose: "Eccomi, Signore!".11E il Signore a lui: "Su, va' sulla strada chiamata Diritta, e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco sta pregando,12e ha visto in visione un uomo, di nome Ananìa, venire e imporgli le mani perché ricuperi la vista".13Rispose Ananìa: "Signore, riguardo a quest'uomo ho udito da molti tutto il male che ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme.14Inoltre ha l'autorizzazione dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome".15Ma il Signore disse: "Va', perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele;16e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome".17Allora Ananìa andò, entrò nella casa, gli impose le mani e disse: "Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo".18E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e ricuperò la vista; fu subito battezzato,19poi prese cibo e le forze gli ritornarono.
Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli che erano a Damasco,20e subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio.21E tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: "Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua precisamente per condurli in catene dai sommi sacerdoti?".22Saulo frattanto si rinfrancava sempre più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Cristo.23Trascorsero così parecchi giorni e i Giudei fecero un complotto per ucciderlo;24ma i loro piani vennero a conoscenza di Saulo. Essi facevano la guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per sopprimerlo;25ma i suoi discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta.
26Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo.27Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù.28Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore29e parlava e discuteva con gli Ebrei di lingua greca; ma questi tentarono di ucciderlo.30Venutolo però a sapere i fratelli, lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.
31La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa; essa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo.
32E avvenne che mentre Pietro andava a far visita a tutti, si recò anche dai fedeli che dimoravano a Lidda.33Qui trovò un uomo di nome Enea, che da otto anni giaceva su un lettuccio ed era paralitico.34Pietro gli disse: "Enea, Gesù Cristo ti guarisce; alzati e rifatti il letto". E subito si alzò.35Lo videro tutti gli abitanti di Lidda e del Saròn e si convertirono al Signore.
36A Giaffa c'era una discepola chiamata Tabità, nome che significa "Gazzella", la quale abbondava in opere buone e faceva molte elemosine.37Proprio in quei giorni si ammalò e morì. La lavarono e la deposero in una stanza al piano superiore.38E poiché Lidda era vicina a Giaffa i discepoli, udito che Pietro si trovava là, mandarono due uomini ad invitarlo: "Vieni subito da noi!".39E Pietro subito andò con loro. Appena arrivato lo condussero al piano superiore e gli si fecero incontro tutte le vedove in pianto che gli mostravano le tuniche e i mantelli che Gazzella confezionava quando era fra loro.40Pietro fece uscire tutti e si inginocchiò a pregare; poi rivolto alla salma disse: "Tabità, alzati!". Ed essa aprì gli occhi, vide Pietro e si mise a sedere.41Egli le diede la mano e la fece alzare, poi chiamò i credenti e le vedove, e la presentò loro viva.
42La cosa si riseppe in tutta Giaffa, e molti credettero nel Signore.43Pietro rimase a Giaffa parecchi giorni, presso un certo Simone conciatore.
Capitolo XXIV: Guardarsi dall’indagare curiosamente la vita degli altri
Leggilo nella Biblioteca1. Figlio, non essere curioso; non prenderti inutili affanni. Che t'importa di questo e di quello? "Tu segui me" (Gv 21,22). Che ti importa che quella persona sia di tal fatta, o diversa, o quell'altra agisca e dica così e così? Tu non dovrai rispondere per gli altri; al contrario renderai conto per te stesso. Di che cosa dunque ti vai impicciando? Ecco, io conosco tutti, vedo tutto ciò che accade sotto il sole e so la condizione di ognuno: che cosa uno pensi, che cosa voglia, a che cosa miri la sua intenzione. Tutto deve essere, dunque, messo nelle mie mani. E tu mantieniti in pace sicura, lasciando che altri si agiti quanto crede, e metta agitazione attorno a sé: ciò che questi ha fatto e ciò che ha detto ricadrà su di lui, poiché, quanto a me, non mi può ingannare.
2. Non devi far conto della vanità di un grande nome, né delle molte amicizie, né del particolare affetto di varie persone: tutte cose che sviano e danno un profondo offuscamento di spirito. Invece io sarò lieto di dirti la mia parola e di palesarti il mio segreto, se tu sarai attento ad avvertire la mia venuta, con piena apertura del cuore. Stai dunque in guardia, veglia in preghiera (1 Pt 4,7), e umiliati in ogni cosa (Sir 3,20).
La città di Dio - libro Sedicesimo: la Città di Dio si profila nella storia da Noè a Davide
La città di Dio - Sant'Agostino d'Ippona
Leggilo nella Biblioteca
Fanciullezza della Città di Dio da Noè ad Abramo [1-11]
Benedizione di Sem e Iafet.
1. È difficile stabilire se nei libri della sacra Scrittura si prolungano dopo il diluvio in termini espliciti le tracce della città santa in cammino oppure se sono state interrotte dal sopravvenire di tempi di irreligiosità in modo che non v'era nessun adoratore dell'unico vero Dio. Nei Libri canonici dopo Noè, che con la moglie, tre figli e altrettante nuore meritò di essere immune dal cataclisma del diluvio, non troviamo fino ad Abramo la religiosità di un individuo segnalato da una palese parola di Dio. V'è soltanto che Noè favorisce con benedizione profetica i due suoi figli Sem e Iafet contemplando e prevedendo quel che sarebbe avvenuto molto tempo dopo. Avvenne anche che maledisse il figlio di mezzo, cioè quello che era tra il primogenito e il più giovane perché aveva peccato contro suo padre e lo maledisse non direttamente ma nel figlio, cioè nel suo nipote, con queste parole: Sia maledetto il fanciullo Canaan, sarà schiavo dei suoi fratelli. Canaan era nato da Cam che non aveva ricoperto ma piuttosto messo in mostra la nudità del padre immerso nel sonno. Continuando aggiunse la benedizione degli altri due figli, il più grande e il più piccolo, con le parole: Benedetto il Signore Dio di Sem e Canaan sarà suo schiavo, Dio dia gioia a Iafet che abiti nelle tende di Sem 1. Queste parole di Noè come pure la coltivazione di una vigna, l'ebrietà del prodotto di essa, la sua nudità mentre dormiva e tutti gli altri avvenimenti, che sono stati tramandati, sono colmi di significati profetici e nascosti da veli.Simbolismo in Sem, Iafet e Cam.
2. 1. Ma ora, avvenuto il compimento dei fatti nei tempi che seguirono, i significati che erano nascosti sono abbastanza palesi. Chi li esamina con attenzione e intelligenza li riconosce in Cristo. Infatti Sem, dalla cui stirpe è nato Cristo, significa "Rinomato" 2. E nulla è più rinomato di Cristo perché il suo nome già espande profumo da ogni parte al punto che nel Cantico dei Cantici, che è anche profezia che precorre, è paragonato a un aroma sparso in terra 3. Nelle sue case inoltre, cioè nelle chiese, prende dimora l'ampio numero dei popoli. Iafet appunto significa "Ampiezza". Invece Cam, che significa "Ardente" 4, il figlio di mezzo di Noè, quasi a distinguersi dal primo e dall'ultimo e rimane fra di loro, fuori dalle primizie degli Israeliti e dall'ampio numero dei popoli, simboleggia la genìa bruciante degli eretici non per lo spirito di sapienza ma d'intolleranza, con cui di solito ribollono i sentimenti degli eretici e che turbano la pace dei santi. Ma questi fatti tornano a vantaggio di coloro che sanno trarne profitto secondo l'avviso dell'Apostolo: È opportuno che fra di voi vi siano eresie affinché vi siano noti gli uomini degni di stima 5. V'è anche nella Scrittura: Il figlio ben istruito sarà saggio ed userà l'ignorante come domestico 6. Infatti molte verità attinenti alla fede cattolica vengono messe in discussione dagli eretici ma, per difenderle contro di loro, sono esaminate con maggior attenzione, sono interpretate con maggior evidenza ed esposte con maggior premura. Così una controversia suscitata dall'avversario diviene stimolo all'apprendimento. Tuttavia non solo quelli che sono manifestamente eretici ma tutti coloro che si gloriano del nome di cristiani e vivono da disonesti non a sproposito possono essere raffigurati allegoricamente nel figlio di mezzo di Noè. Difatti con pubblica professione attestano la passione di Cristo, che fu simboleggiata dalla nudità di quell'uomo, ma la disonorano con le cattive azioni. Di essi è stato detto: Li riconoscerete dai loro prodotti 7. Per questo Cam fu maledetto nel proprio figlio, come in un proprio prodotto, cioè in una propria opera. Quindi suo figlio Canaan significa "I loro movimenti", quanto dire la loro opera. Sem e Iafet simboleggiano i popoli circoncisi e non circoncisi o, come con altri termini li indica l'Apostolo, Giudei e Greci 8. Essi, chiamati e giustificati, conosciuta in qualsiasi modo la nudità del padre, con la quale era simboleggiata la passione del Salvatore, prendendo un capo di vestiario, lo posero sulle spalle, entrarono volti dall'altra parte, coprirono la nudità del padre e non videro ciò che per pudore avevano celato 9. Anche noi onoriamo nella passione di Cristo la salvezza che è stata operata per noi ma voltiamo le spalle al delitto dei Giudei. Il capo di vestiario simboleggia il sacramento, le spalle il ricordo del passato perché già dal tempo in cui Iafet abita nelle tende di Sem e il fratello cattivo in mezzo a loro 10 la Chiesa celebra come avvenuta la passione di Cristo, non l'attende più da lontano come futura.La nudità di Noè e la passione di Gesù.
2. 2. Il cattivo fratello è in suo figlio, ossia nella sua opera, garzone cioè schiavo dei fratelli buoni, quando consapevolmente i buoni usano i cattivi per l'esercizio della pazienza o l'incremento della saggezza. Per dichiarazione dell'Apostolo vi sono individui che annunziano Cristo non con buona intenzione, dice infatti: Sia che Cristo sia annunziato per opportunità o nella verità 11. Anche il nuovo Noè ha coltivato una vigna, della quale il Profeta dice: La casa d'Israele è la vigna del Signore degli eserciti 12 e ha bevuto il suo vino. Nel passo si potrebbe anche intendere il calice di cui Egli dice: Potete bere il calice che io sto per bere? 13 e: Padre, se è possibile, sia allontanato da me questo calice 14. Con esso ha indubbiamente indicato la propria Passione. Ovvero, giacché il vino è un prodotto della vigna, è stato simboleggiato piuttosto che, nell'intento di soffrire, ha assunto per noi carne e sangue dalla vigna in parola, cioè dalla razza degli Israeliti. Egli dunque s'inebriò, cioè subì la passione, e rimase nudo 15, perché con la passione rimase nuda, cioè si manifestò, la sua debolezza, di cui dice l'Apostolo: Sebbene sia stato crocifisso per debolezza 16. In proposito sempre l'Apostolo dice: Ciò che in Dio è debole è più forte degli uomini e ciò che in Dio è insipiente è più sapiente degli uomini 17. Alle parole: E rimase nudo la Scrittura ha aggiunto la frase: nella sua casa 18. Con essa si indica sottilmente che avrebbe subito la croce e la morte dal popolo della sua razza e dai propri consanguinei, cioè i Giudei. I falsi cristiani attestano la passione di Cristo all'esterno, ossia soltanto col suono della voce, perché non capiscono quel che dicono. I cristiani genuini invece accolgono nella coscienza un così grande mistero e onorano all'interno nel cuore ciò che di Dio è debole e insipiente perché è più forte e sapiente degli uomini. È allegoria di questa verità il fatto che Cam uscendo di casa annunziò la nudità all'esterno, invece Sem e Iafet, per coprirla cioè per onorarla, vi entrarono, cioè compirono il gesto all'interno 19.Storia e allegoria.
2. 3. Esaminiamo queste parti arcane della sacra Scrittura, come ci è possibile, chi con maggiore e chi con minore aderenza, tuttavia ritenendo certo nella fede che sono avvenimenti consegnati alla Scrittura come allegoria profetica del futuro e che si devono riferire soltanto a Cristo e alla sua Chiesa che è la città di Dio. Di essa si ebbe fin dall'origine del genere umano il preannuncio che osserviamo avverarsi sotto ogni aspetto. Dopo la benedizione dei due figli di Noè e la maledizione di quello di mezzo fra loro, fino ad Abramo, per oltre un millennio, non si fa menzione di uomini giusti che onorarono Dio nella vera religione. Non penserei che non esisterono, tuttavia sarebbe andata troppo alla lunga se fossero stati ricordati tutti e sarebbe stata più esattezza storica che previsione profetica. Quindi l'agiografo di questi libri della Bibbia, o meglio lo Spirito di Dio per la sua mediazione, persegue intenti con cui non solo si riferiscono avvenimenti passati, ma si preannunciano anche avvenimenti futuri che siano però attinenti alla città di Dio. Anche ogni fatto che si narra di individui, che non ne sono cittadini, si narra con lo scopo che dal confronto essa ottenga vantaggio e risalto. Certamente non si deve ritenere che tutti gli eventi narrati simboleggiano anche qualche cosa, ma eventi che non sono affatto simboli vengono inseriti in ordine a quelli che simboleggiano qualche cosa. Il terreno viene solcato soltanto dal vomere ma, affinché si ottenga questo effetto, sono indispensabili anche le altre parti dell'aratro. Nelle cetre e consimili strumenti musicali soltanto le corde sono disposte per il suono ma, affinché siano disposte, sono inseriti nella struttura degli strumenti altri pezzi che non sono battuti dai suonatori ma ad essi sono attaccati i pezzi che, percossi, rimandano i suoni. Così nell'argomento profetico hanno luogo elementi che non sono simboli, sebbene siano ad essi congiunti e in certo senso fissati gli eventi simboleggiati.Discendenti di Sem e Cam.
3. 1. Si devono dunque esaminare le genealogie dei figli di Noè e ciò che sembra opportuno dire in proposito deve avere una stretta coerenza con questa opera in cui si espone lo sviluppo di tutte e due le città, cioè della terrena e della celeste. Ha avuto inizio la serie con quella del figlio più piccolo chiamato Iafet. Di lui sono stati menzionati otto figli e sette nipoti, tre da un figlio e quattro dall'altro, in tutto quindici. Di Cam, cioè del figlio di mezzo di Noè, sono stati menzionati quattro figli, cinque nipoti da un figlio e due pronipoti da un nipote, in tutto undici 20. Dopo questa enumerazione si ritorna, per così dire, al capostipite con le parole: Cus generò Nebrot. Questi cominciò ad essere un gigante sulla terra. Egli era un gigante cacciatore contro il Signore. Perciò si dice: Come Nebrot, gigante cacciatore contro il Signore. Inizio del suo regno furono Babilonia, Orec, Arcad e Calanne nella terra di Sennaar. Da quella terra provenne Assur che fondò Ninive e la città di Robot e Calac e Dasen, che fu una grande città, fra Ninive e Calac 21. Cus, padre del gigante Nebrot, è stato menzionato come primogenito tra i figli di Cam. Eppure di lui erano già stati enumerati cinque figli e due nipoti. Ma o mise al mondo il gigante dopo i due nipoti ovvero, ed è più attendibile, la Scrittura ne ha parlato separatamente a causa della sua superiorità. Di lui infatti è stato tramandato alla storia il regno, il cui inizio fu la celeberrima città di Babilonia e le altre città o regioni che assieme sono state menzionate. Avvenne molto tempo dopo che da quel territorio, cioè dal territorio di Sennaar, che apparteneva al regno di Nebrot, emigrò Assur e fondò Ninive e le altre città che l'agiografo ha aggiunto. Con questo pretesto ha accennato al fatto a causa della fama del regno di Assiria che Nino, figlio di Belo, fondatore della grande città di Ninive, ampliò in modo eccezionale. Dal suo nome fu desunto il nome della città che da Nino fu denominata Ninive. Assur, da cui provengono gli Assiri, non era tra i figli di Cam, figlio di mezzo di Noè, ma è annoverato tra i figli di Sem, il figlio maggiore di Noè. Quindi è evidente che gli Assiri provennero dalla stirpe di Sem, che conquistarono il regno del gigante Nebrot, da lì si diffusero e fondarono altre città. Di esse la prima fu denominata Ninive da Nino. Si torna quindi a un altro figlio di Cam che si chiamava Mesraim e si menzionano i discendenti non in individui ma in sette tribù. Si fa menzione inoltre che dalla sesta, come se fosse il sesto figlio, provenne un popolo che si denomina Filistei, sono quindi otto. Si torna di nuovo a Canaan, il figlio nel quale fu maledetto Cam e sono nominati gli undici che da lui provengono. Si precisa poi a quali confini sono giunti con l'accenno ad alcune città. Perciò nel computo di figli e nipoti sono annoverati trentuno discendenti della stirpe di Cam 22.Eber e tutti i Noàchidi.
3. 2. Resta da ricordare i discendenti di Sem, figlio maggiore di Noè, perché la serie delle discendenze iniziata col più giovane gradualmente giunge a lui. Ma i preliminari della genealogia hanno un po' d'incertezza che si deve chiarire con un esame perché sono molto attinenti all'argomento della nostra ricerca. Si legge: Anche Eber discende da Sem, proprio da lui, capostipite di tutti i discendenti e fratello maggiore di Iafet 23. L'ordine delle parole è questo: da Sem discende anche Eber, Eber discende proprio da lui, cioè da Sem, che è capostipite di tutti i discendenti. L'agiografo volle far intendere che Sem era il patriarca di tutti coloro che provenivano dalla sua stirpe e che stava per menzionare, fossero figli, nipoti, pronipoti e altri che da essa provenivano. Sem non generò direttamente Eber, ma questi è al quinto grado nella serie dei discendenti. Sem difatti fra gli altri figli ebbe Arfacsad. Arfacsad generò Cainan, Cainan generò Sala, Sala generò Eber. Non senza ragione è stato menzionato per primo nella stirpe proveniente da Sem e anteposto anche ai figli, sebbene sia discendente al quinto grado. È vera la tradizione secondo la quale da lui sono stati denominati gli Ebrei, cioè Eberei. Si potrebbe dare un'altra ipotesi, che da Abramo si abbia l'etimologia di Abraèi. Però a parte l'ipotesi è più attendibile che da Eber siano stati chiamati Eberei, poi con l'elisione di una lettera Ebrei e che soltanto il popolo d'Israele ha potuto avere tale lingua perché con esso la città di Dio fu in esilio negli eletti e in tutti fu raffigurata con un simbolo. Quindi prima sono menzionati sei figli di Sem, poi da uno di loro sono nati quattro suoi nipoti e un altro figlio di Sem generò un suo nipote, da lui nacque un pronipote e da lui il figlio del pronipote che è Eber. Eber generò due figli, a uno diede il nome di Falec che significa "Dividente". La Scrittura, soggiungendo per giustificare il nome, dice: In quel tempo la terra fu divisa 24. In seguito rimarrà evidente il significato. L'altro figlio di Eber generò dodici figli, perciò tutti i discendenti di Sem sono ventisette. Quindi nel totale tutti i discendenti dei tre figli di Noè, cioè quindici da Iafet, trentuno da Cam, ventisette da Sem, sono settantatré. La Scrittura continua con le parole: Questi i discendenti di Sem nelle rispettive tribù secondo i loro dialetti, nei rispettivi territori e popoli. E di tutti dice: Sono queste le tribù dei discendenti di Noè secondo le loro discendenze e popoli. Da essi dopo il diluvio furono ripartite nel mondo le terre sul mare 25. Da queste parole si deduce che non erano settantatré individui, o meglio settantadue, come si dimostrerà in seguito, ma settantadue popolazioni. Anche precedentemente la genealogia, con cui erano ricordati i discendenti di Iafet, fu conclusa così: Da loro furono spartite nel loro territorio in una propria regione le terre sul mare ciascuna secondo il linguaggio, nelle rispettive tribù e popoli 26.Babilonia e il variare dei dialetti.
3. 3. Nei discendenti di Cam a un certo punto più esplicitamente sono state indicate le popolazioni, come ho dimostrato precedentemente. Mesraim è il capostipite di coloro che si chiamano Ludii 27, e allo stesso modo altre popolazioni fino a sette. E dopo averle enumerate tutte, conclude: Questi i discendenti di Cam nelle rispettive tribù secondo le lingue, nei rispettivi territori e popoli 28. Perciò i discendenti di molti non sono stati ricordati perché alla nascita furono aggregati ad altri popoli ed essi non seppero costituire un proprio popolo. Non v'è altra ragione che, sebbene siano menzionati otto figli di Iafet, si ricordano soltanto i figli nati da due di loro e sebbene siano menzionati quattro figli di Cam, si aggiungono soltanto i nati da tre di loro e sebbene siano menzionati sei figli di Sem, si aggiunge soltanto la posterità di due. Che gli altri rimasero senza figli? Non si può ammettere, ma non costituirono popolazioni con cui meritassero di essere consegnati alla storia perché, appena nascevano, erano aggregati ad altre popolazioni.Il discendere di Dio e il ministero degli angeli.
4. Poiché si fa riferimento al fatto che quelle popolazioni avevano ciascuna un proprio dialetto, l'agiografo torna al tempo in cui v'era un solo idioma ed espone l'avvenimento per cui ebbe origine la diversità dei dialetti. Dice: Tutta l'umanità aveva un medesimo linguaggio e un medesimo idioma. Avvenne che gli uomini, emigrando dall'Oriente, trovassero una pianura nella regione di Sennaar e vi si stabilirono. E disse ciascuno al suo vicino: Venite, facciamo dei mattoni e cuociamoli al fuoco. E furono usati da loro mattoni invece della pietra e bitume invece dell'argilla e dissero: Orsù, costruiamoci una città e una torre, la cui cima arriverà al cielo, così ci faremo un nome prima di sparpagliarci in ogni parte del mondo. Il Signore discese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini avevano edificato. E disse il Signore: Sono della medesima stirpe e parlano il medesimo dialetto e hanno cominciato questo edificio e ora non cesseranno di fare tutte le cose che hanno tentato di compiere. Venite, e scendendo confondiamo in quel luogo il loro linguaggio affinché ognuno non capisca il linguaggio dell'altro. E da lì Dio li disperse in tutto il mondo e cessarono dal costruire la città e la torre. Per questo è stato assegnato a quella città il nome di "Confusione" perché in quel luogo Dio confuse i linguaggi di tutto il mondo e da lì il Signore li disperse in tutto il mondo 29. La città, che è stata chiamata "Confusione", è Babilonia. Anche la storia profana ne esalta la meravigliosa struttura architettonica. Babilonia dunque si traduce "Confusione". Se ne deduce che il suo fondatore fu il gigante Nebrot, come si è accennato precedentemente. Nel passo in cui la Scrittura parla di lui dice che origine del suo regno fu Babilonia, come città che doveva esercitare un dominio sulle altre, in cui si avesse come in una capitale la sede del regno. Tuttavia la città non fu ultimata nelle dimensioni che si proponeva la superba empietà 30. Era stata preventivata una eccessiva altezza, calcolata fino al cielo. Si trattava forse di una sola torre, che macchinavano più figurativamente al singolare, come si dice il soldato e s'intendono migliaia di soldati, o rana e cavalletta perché così è stata indicata l'infinità di rane e cavallette nelle piaghe con cui gli Egiziani furono puniti da Mosè 31. La sciocca presunzione umana non avrebbe ottenuto nulla, anche se avessero elevato l'imponenza della costruzione di qualsiasi qualità e grandezza verso il cielo contro il Signore, sia pure che sorpassasse tutti i monti, sia pure che uscisse fuori dalla dimensione di questa atmosfera caliginosa 32. In nessun modo avrebbe recato danno a Dio l'altezzosità, per quanto grande, delle coscienze e delle cose. L'umiltà garantisce una via sicura e vera verso il cielo, perché leva il cuore in alto, al Signore, non contro il Signore. In questo senso è stato considerato il gigante cacciatore contro il Signore 33. Non riflettendovi bene alcuni sono stati ingannati da una parola greca di doppio senso in modo da non tradurre contro il Signore ma davanti al Signore, perché significa sia contro che davanti. È questa la parola che si ha nel Salmo: E piangeremo davanti al Signore che ci ha creati 34, ed è la medesima che si legge nel libro di Giobbe: Nel furore ti sei slanciato contro il Signore 35. Qui con la parola cacciatore s'intende senz'altro un catturatore, inseguitore e uccisore di animali terrestri. Nebrot innalzava dunque con i propri sudditi contro il Signore una torre da cui è simboleggiata la superbia miscredente. Giustamente quindi viene punita una cattiva disposizione d'animo anche se non ne consegue l'effetto. Ma quale fu il genere di pena? Poiché il potere di chi comanda è nella lingua parlata, in essa è stata punita la superbia in modo che non fosse compreso chi impartiva ordini all'uomo perché non volle comprendere che doveva obbedire all'ordinamento di Dio. Così fu sciolto il complotto perché ciascuno abbandonava il proprio simile che non comprendeva più per unirsi all'individuo con cui poteva scambiare la parola. Proprio a motivo del linguaggio i popoli si distinsero e si sparpagliarono per il mondo come piacque a Dio che ottenne questo effetto nelle forme arcane e a noi incomprensibili.Modo di parlare di Dio.
5. Si legge nella Scrittura: Il Signore discese a vedere la città e la torre che avevano edificato i figli degli uomini, ossia non i figli di Dio, ma la società la quale vive secondo l'uomo e che consideriamo come la città terrena. Dio non si muove nello spazio perché è tutto fuori del tempo e dello spazio, ma si dice che discende quando realizza nel mondo qualche effetto che, essendo realizzato fuori del normale procedimento della natura, mostra per analogia la presenza di Dio. Così guardando non apprende nel tempo perché non può ignorare una cosa ma si dice che guarda e conosce nel tempo ciò che egli fa guardare e conoscere. Quella città non era guardata nel modo con cui la fece guardare quando mostrò che ne era disgustato. Si potrebbe tuttavia interpretare che Dio discese verso quella città perché vi discesero i suoi angeli in cui egli dimora. L'aggiunta: E Dio disse: Ora sono un solo popolo e parlano la medesima lingua e il resto, come pure l'altra aggiunta: Suvvia, col discendere confondiamo la loro lingua 36 sarebbero come un chiarimento per dimostrare in qual senso si era avverato quel che aveva detto in precedenza: Il Signore discese. Se era già disceso, le parole: Suvvia, col discendere confondiamo, se vanno riferite agli angeli, significano soltanto che egli discendeva attraverso il ministero degli angeli, perché egli era negli angeli che discendevano. E giustamente non dice: Suvvia, col discendere confondete ma: Confondiamo adesso la loro lingua. Mostrava così di operare mediante i suoi esecutori affinché anche essi siano collaboratori di Dio, come dice l'Apostolo: Siamo collaboratori di Dio 37.Dialetti e popolazioni.
6. 1. Anche quando è stato creato l'uomo, le parole: Facciamo l'uomo potrebbero essere interpretate in riferimento agli angeli, perché non ha detto: "Devo fare". Però poiché seguono le parole: A nostra immagine e non è conveniente ritenere che l'uomo è stato creato a immagine degli angeli o che è una medesima l'immagine degli angeli e di Dio, a ragione in quel passo si intravede la pluralità della Trinità. Ma poiché la Trinità è un solo Dio, la Scrittura, anche dopo aver detto: Facciamo soggiunge: E Dio creò l'uomo a immagine di Dio 38. Non ha detto: Fecero gli dèi o a immagine degli dèi. Anche nel passo in questione poté essere indicata la Trinità nel senso che il Padre disse al Figlio e allo Spirito Santo: Suvvia, col discendere confondiamo adesso la loro lingua 39. E v'è qualcosa che impedisce di pensare agli angeli perché ad essi compete piuttosto di andare a Dio con santi impulsi, cioè con devoti pensieri, con i quali da essi si consulta l'immutabile Verità che è come la legge eterna nella loro curia del cielo. Essi non sono verità a se stessi ma, partecipi della Verità che crea, si muovono a lei come a una sorgente di vita in modo da attingere da essa ciò che non compete al loro essere. E questo movimento con cui vanno è stabile perché non si allontanano più. E Dio non parla agli angeli nel modo con cui parliamo fra di noi o a Dio o agli angeli o gli angeli stessi a noi o Dio a noi con il loro intervento, comunque sempre in modo inesprimibile, sebbene a noi viene comunicato nel nostro modo d'intendere. La parola di Dio più alta prima della sua azione nel mondo è la ragione immutabile dell'azione stessa perché non ha un suono che colpisce l'udito e passa ma una forza che rimane al di là del tempo ed opera nel tempo. Con essa parla agli angeli, con noi in altra maniera perché siamo nello spazio. Quando anche noi con l'udito della coscienza afferriamo qualche vibrazione di questa parola, ci rassomigliamo agli angeli. Ma io non debbo proprio ad ogni momento rendere ragione in questa opera del modo di parlare di Dio. È la non diveniente Verità che ineffabilmente parla da sé alla coscienza della creatura ragionevole o parla mediante una diveniente creatura tanto al nostro pensiero con intelligibili concetti come al senso con suoni sensibili.Emigrazione dei mammiferi?
6. 2. Le parole: Ed ora non cesseranno di fare tutte le cose che hanno tentato di compiere 40 non furono dette per prendere atto, ma nell'intento d'interrogare, come di solito si fa da coloro che minacciano. A proposito scrive un poeta: Non allestiranno le armi e non lo seguiranno da tutta la città? 41. Quindi si deve interpretare come se abbia detto: Forseché cesseranno di fare tutte le cose che hanno osato di compiere? Ma se la frase si pronuncia con questo accento non esprime la minaccia. Appunto per i più lenti di comprendonio ho aggiunto la particella interrogativa dicendo forseché? perché non riuscirei a riprodurre graficamente il tono di voce di chi parla. Dunque da tre individui, i figli di Noè, cominciarono ad esistere nel mondo settantatré popolazioni o meglio, come determinerà una riflessione critica, settantadue e altrettanti dialetti che ampliandosi occuparono anche le regioni del Mediterraneo. Il numero delle popolazioni si accrebbe più diffusamente che quello dei dialetti. Sappiamo che anche in Africa molti popoli incivili parlano una sola lingua.Anche gli individui anormali sono adamiti.
7. Non si può mettere in dubbio che gli uomini, dato l'aumento della razza umana, poterono passare con una imbarcazione alle zone marittime. Però rimane il problema relativo ad ogni specie di animali che non sono allevati dagli uomini e di quelli che non nascono dalla terra come le rane, ma si propagano soltanto con l'accoppiamento del maschio e della femmina, come i lupi e tutti i mammiferi selvatici. C'è il problema in qual modo dopo il diluvio, con cui furono sterminati tutti gli animali che non erano nell'arca, poterono essere nelle zone lungo il mare se si riprodussero soltanto da quelli che l'arca in ambedue i sessi sottrasse alla morte. Si può pensare che alle zone marittime, ma più vicine, passarono a nuoto. Però ve ne sono alcune così lontane dal continente da non sembrar probabile che alcun animale vi si possa esser trasferito a nuoto. Non è incredibile il fatto che gli uomini li portarono con sé e per amore della caccia ne istallarono le specie nella maniera in cui erano nel luogo da cui provenivano, sebbene non si può negare che per comando o con la permissione di Dio poterono esservi trasferiti per opera degli angeli. Se poi nella fase originaria sono stati prodotti dalla terra quando Dio disse: La terra produca l'anima che vive 42 e se nelle zone marittime, in cui non potevano giungere a nuoto, la terra produsse molti animali, tanto più evidentemente si rileva che nell'arca vi furono tutte le specie non per conservare gli animali ma per indicare allegoricamente i vari popoli in relazione al mistero della Chiesa.Così i popoli se vi sono.
8. 1. V'è anche il problema se si deve ritenere che dai figli di Noè, o meglio dall'unico progenitore da cui anche essi discendono, derivarono alcuni tipi mostruosi d'individui umani, di cui parla la storia profana. Si tramanda che uno di essi aveva un solo occhio in mezzo alla fronte, le piante dei piedi di alcuni erano rivolte alla parte posteriore delle gambe, altri avevano i caratteri dei due sessi, la mammella destra virile e quella sinistra femminile e accoppiandosi alternativamente fra di sé fecondavano e partorivano, alcuni non avevano la bocca e vivevano respirando soltanto con le narici, altri ancora erano della statura di un cubito e per questo dal cubito i Greci li chiamano pigmei, in alcune parti le donne concepivano a cinque anni e non oltrepassavano l'ottavo anno di vita. Narrano anche che esiste un popolo nel quale gli individui hanno una sola gamba inserita nei piedi, non piegano il ginocchio e sono di celerità prodigiosa, li chiamano sciopodi perché, giacendo supini per il caldo, si difendono con l'ombra dei piedi. Dicono anche che alcuni senza la testa hanno gli occhi nelle spalle e di uomini o di ominidi le altre caratteristiche che, desunte dai libri di narrazione fabulatrice, sono state ritratte a mosaico, nel porto di Cartagine. Non saprei che dire dei cinocefali perché la testa di cane e l'abbaiare fanno pensare più a bestie che ad uomini. Però non è necessario ammettere tutti i tipi di uomini di cui si parla. Anche nell'ipotesi che in un luogo qualunque nasca un uomo, cioè un animale ragionevole mortale, quantunque presenti ai nostri sensi una insolita tipologia somatica di forma, di colore, di movimento, di voce o di caratteristiche in termini di forza, organi e proprietà, il credente non deve dubitare che egli proviene dal primo uomo. Si manifesta però che cosa la natura abbia raggiunto in parecchi soggetti e che cosa sia straordinario a causa della rarità.Inattendibilità degli antipodi.
8. 2. La giustificazione che da noi si dà ad esemplari deformi di uomini è la medesima che si può dare della deformità di alcuni popoli. Dio infatti è il creatore di tutti ed Egli sa il luogo e il tempo in cui è opportuno o era opportuno far esistere un essere perché conosce l'uguaglianza e la disuguaglianza delle parti con cui accordare l'armonia del cosmo. Ma chi non può cogliere il tutto viene scioccato dall'apparente deformità di una parte, perché non sa a chi si conforma e a che cosa si riconduce. Sappiamo che nascono individui con più di cinque dita nelle mani e nei piedi, ed è una deformità più lieve di ogni altra, tuttavia non si può essere sciocchi al punto di ritenere che il Creatore si è sbagliato nel calcolo delle dita dell'uomo, sebbene non si sa perché l'ha fatto. Ed anche se v'è una più rilevante deformità, Egli sa ciò che ha fatto e non è possibile rimproverare le sue azioni. A Ippona Diarrite esiste un uomo che ha le piante dei piedi a forma di mezzaluna e con due dita soltanto e le mani di egual forma. Se fosse così un popolo sarebbe argomento della narrazione da favola e leggenda, di cui sopra. Non per questo possiamo negare a questo uomo la sua provenienza da colui che per primo è stato creato. È difficile che gli androgini, chiamati anche ermafroditi, sebbene attualmente siano rari, vengano a mancare nei vari tempi. In essi l'uno e l'altro sesso si manifesta in maniera tale che è dubbio da quale di essi l'individuo debba essere denominato, tuttavia l'uso comune ha prevalso nel denominarlo dal più nobile, cioè dal maschile. Nessuno ha mai parlato di androgine o ermafrodite. Anni addietro, ma sempre a memoria d'uomo, nacque in Oriente un individuo che aveva doppie le parti in alto del corpo e scempie quelle in basso. Aveva due teste, due toraci, quattro mani, ma un addome e due piedi corrispondenti cioè a un solo individuo. Visse a lungo sicché la sua notorietà attirava parecchi a visitarlo. Ma non è possibile rendersi ragione di quanto tutti i feti umani siano dissimili da quelli da cui con assoluta certezza derivano. Come dunque non si può negare che queste deformazioni traggono origine da un solo progenitore, così si deve dire di tutti i popoli che, stando alle relazioni, derogano nelle deformazioni somatiche dal normale procedimento della natura che molti e quasi tutti conservano. Se infatti sono inclusi nella definizione di animali ragionevoli e mortali, si deve ammettere che derivano la razza dal medesimo unico progenitore di tutti, purché sia vero ciò che si riferisce della dissomiglianza di quei gruppi e della notevole diversa conformazione fra di loro e con noi. Se infatti ignorassimo che le scimmie, i cercopiteci e le sfingi non sono uomini, ma bestie, quegli storici, per vantarsi della propria ricerca, potrebbero farci credere con impunita vanagloria che siano razze umane 43. Ma se sono uomini quelli di cui sono stati narrati questi fatti eccezionali e se Dio ha voluto far esistere alcuni popoli con quelle caratteristiche, non dobbiamo pensare che la sua sapienza, con la quale modella la natura umana, abbia errato nei mostri che dalle nostre parti nascono necessariamente dagli uomini, come erra la tecnica di un artigiano meno esperto. Non ci deve sembrare assurdo che come in ogni popolo vi sono individui deformi così in tutto l'uman genere vi siano alcuni popoli deformi. Quindi per risolvere il problema gradualmente e con cautela: o le cose che sono state scritte di alcuni popoli non sono vere o, se lo sono, quelli non sono uomini o, se sono uomini, provengono da Adamo.I Semiti e gli Ebrei.
9. Non v'è dimostrazione scientifica per ammettere quel che alcuni favoleggiano sulla esistenza degli antipodi, cioè che uomini calcano le piante dei piedi in senso inverso ai nostri dall'altra parte della terra, dove il sole sorge quando da noi tramonta. Non affermano infatti di averlo appreso in seguito a una esperienza storicamente verificatasi, ma prospettano col ragionamento una ipotesi perché la terra sarebbe sospesa nella volta del cielo e avrebbe lo stesso spazio in basso e al centro. Suppongono perciò che l'altra faccia della terra, quella di sotto, non può esser priva di abitanti. Non riflettono, anche se si ritiene per teoria o si dimostra scientificamente che il pianeta è un globo e ha la forma sferica, sulla non consequenzialità che anche dall'altra parte la terra è libera dalla massa delle acque e anche se ne è libera, non ne consegue necessariamente, di punto in bianco, che è abitata dagli uomini. Difatti in nessun modo la sacra Scrittura mentisce perché con la narrazione dei fatti del passato garantisce l'attendibilità che le sue predizioni si avverino. D'altronde è troppo assurda l'affermazione che alcuni uomini, attraversata l'immensità dell'Oceano, poterono navigare e giungere da questa all'altra parte della terra in modo che anche là si stabilisse la specie umana dall'unico progenitore. Perciò fra le popolazioni umane, che risultano divise in settantadue stirpi e altrettanti dialetti, cerchiamo, se possiamo trovarla, la città di Dio in esilio sulla terra. Essa era stata condotta fino al diluvio e all'arca e poteva essere additata come sopravvissuta nei figli di Noè mediante le benedizioni da loro ricevute, soprattutto dal più grande che si chiamava Sem, perché Iafet era stato benedetto con la formula che abitasse nelle tende di lui, suo fratello.Elenco cronologico delle discendenze.
10. 1. Si deve quindi riesaminare la serie delle generazioni da Sem perché ci mostri la città di Dio dopo il diluvio, come la serie delle generazioni dal patriarca Set ce la mostrava prima del diluvio. Per questo la sacra Scrittura, dopo avere mostrato la città terrena a Babilonia, cioè nella confusione, ritorna per un compendio al patriarca Sem e inizia da lui le generazioni fino ad Abramo con il computo del numero degli anni che ciascuno aveva quando generava un figlio appartenente a questa genealogia e degli anni che era vissuto. Nel fatto si deve riscontrare quanto poco fa avevo promesso che, cioè, sia chiaro il motivo per cui è stato detto dei figli di Eber: Il nome di uno è Falec perché ai suoi tempi fu diviso il territorio 44. Assegnare il territorio si può intendere soltanto in relazione alla diversità dei dialetti. Omessi dunque gli altri discendenti di Sem, che non sono pertinenti all'argomento, nella genealogia sono elencati soltanto quelli con cui giungere fino ad Abramo, come prima del diluvio erano elencati quelli con cui giungere a Noè attraverso le generazioni che provenivano dal figlio di Adamo chiamato Set. La lista di queste discendenze comincia così: Queste sono le generazioni da Sem. Sem aveva cento anni quando generò Arfacsad due anni dopo il diluvio. Sem dopo che generò Arfacsad visse cinquecento anni e generò figli e figlie e morì 45. Così continua con gli altri aggiungendo a quanti anni di vita ha generato il figlio appartenente alla serie delle discendenze che giunge ad Abramo e quanti anni sia vissuto in seguito. Aggiunge che ha generato figli e figlie per farci capire che le popolazioni aumentarono di numero affinché, sorpresi per i pochi individui menzionati, non rimanessimo perplessi come fanciulli sul fatto che una così grande estensione di territori e di Stati sia stata riempita dai Semiti. Questo vale principalmente per il regno di Assiria sul quale Nino, il celebre soggiogatore per molto tempo dei popoli orientali, regnò con grandissima prosperità e lasciò ai successori uno Stato molto esteso e solido che poteva continuare per lungo tempo.Da Noè ad Abramo problematica della città di Dio.
10. 2. Per non soffermarci più del necessario in questo elenco non riferiamo gli anni che ciascun patriarca della genealogia è vissuto, ma soltanto gli anni di vita che aveva quando generò il figlio. Così assommiamo il numero degli anni dal diluvio ad Abramo e, oltre gli argomenti in cui lo stretto legame ci costringe a trattenerci, tocchiamo alla svelta e di sfuggita gli altri. Dunque due anni dopo il diluvio Sem generò Arfacsad; Arfacsad quando aveva centotrentacinque anni generò Cainan; questi quando ne aveva centotrenta ebbe Sala; Sala quando aveva lo stesso numero di anni generò Eber; Eber aveva centotrentaquattro anni quando ebbe Falec e durante la sua vita fu distribuito il territorio; Falec aveva centotrenta anni e generò Ragan; Ragan centotrentadue ed ebbe Saruc; Saruc centotrenta e generò Nacor; Nacor settantanove e generò Tara; Tara settanta e generò Abram 46 che Dio, cambiandogli il nome, chiamò Abramo 47. Dunque dal diluvio ad Abramo sono millesettantadue anni secondo il testo della Volgata, cioè dei Settanta. Nel testo ebraico gli esegeti riferiscono un numero di anni molto più breve, ma non ne danno spiegazione o assai poco attendibile.Eber e la lingua ebraica.
10. 3. Quando dunque ricerchiamo la città di Dio nelle settantadue popolazioni, non possiamo affermare che nel tempo in cui si aveva un solo idioma, cioè una sola parlata, l'uman genere si fosse già sottratto dal culto al vero Dio, sicché la vera religione era rimasta soltanto in queste tribù che provengono dalla stirpe di Sem attraverso Arfacsad e giungono ad Abramo. Però dalla vanagloria di edificare una torre fino al cielo, con cui è simboleggiata l'alterigia miscredente, si manifestò la città, cioè la società dei senza Dio. C'è il problema se prima non esisteva o rimaneva ignota o piuttosto se esistevano tutte e due, la credente nei due figli di Noè che furono benedetti e nei loro discendenti, la miscredente in colui che fu maledetto e nella sua stirpe da cui discendeva anche il gigante cacciatore contro il Signore. Non è facile la risposta. Probabilmente, ed è la soluzione più attendibile, anche nei discendenti dei due Patriarchi, prima che si cominciasse a fondare Babilonia, vi furono degli atei e nei discendenti di Cam uomini che adoravano Dio. Si deve tuttavia ammettere che mai mancarono nel mondo i due tipi di uomini. Si ha nella Scrittura: Tutti hanno deviato, tutti insieme sono diventati insipienti, non ve n'è uno che agisce bene, neppure uno 48. Tuttavia in tutti e due i Salmi in cui si hanno queste parole, si legge anche: Forseché non hanno intelligenza questi malfattori che distruggono il mio popolo mangiando a sue spese? 49. Dunque ancora esisteva il popolo di Dio. Anche le parole: Non ve n'è uno che agisca bene, neppure uno si riferivano ai figli degli uomini non ai figli di Dio. Infatti poco prima si legge: Dio dal cielo ha guardato sui figli degli uomini per vedere se ve n'è uno saggio che cerca Dio 50. Di seguito sono aggiunte le parole le quali comprovano che sono riprovati tutti i figli degli uomini che, cioè, appartengano alla città la quale vive secondo l'uomo e non secondo Dio.La lingua primigenia e l'ebraico.
11. 1. Quindi, sebbene vi fosse un idioma comune a tutti non per questo mancarono i figli della perversione. Anche prima del diluvio v'era un solo idioma, eppure tutti, fuorché la famiglia del giusto Noè, meritarono di morire nel diluvio. Così, quando per colpa di una più altezzosa miscredenza, le genti furono punite e divise con la diversità dei dialetti e la città dei senza Dio ebbe il nome di Confusione, cioè fu chiamata Babilonia, si ebbe la tribù di Eber a far sì che si conservasse quello che precedentemente era il linguaggio di tutti. Come ho ricordato dianzi 51, all'inizio della genealogia dei discendenti di Sem, i quali diedero origine alle varie popolazioni, per primo fu menzionato Eber, sebbene sia figlio di un pronipote, cioè al quinto grado nella discendenza da lui. Mentre le altre popolazioni si dividevano nelle varie lingue, nella tribù di Eber rimase la lingua che, come giustamente si ritiene, prima era comune a tutto l'uman genere. Perciò in seguito fu denominata ebraica. Si richiedeva appunto che fosse distinta dalle altre lingue con una propria denominazione come le altre si distinsero mediante i rispettivi nomi. Quando era la sola, si chiamava lingua o parlata umana perché con essa sola si esprimeva il genere umano.Cronologia e glottologia.
11. 2. Qualcuno potrebbe obiettare: Se al tempo di Falec, figlio di Eber, il territorio fu distribuito in base ai dialetti, cioè agli uomini che erano nel territorio, dal suo nome doveva essere designata la lingua che prima era comune a tutti. Ma si deve riflettere che Eber stesso impose appunto un nome simile al figlio chiamandolo Falec, che significa "Divisione", perché gli era nato quando il territorio era diviso in base ai dialetti, cioè, proprio in quel tempo. Così s'interpretano le parole: Ai suoi tempi fu distribuito il territorio 52. Se Eber non era più vivo quando avvenne il differenziarsi dei dialetti, la lingua che poté sopravvivere nella sua tribù non sarebbe stata denominata da lui. Si deve perciò ritenere che era quella comune a tutti poiché provennero da un castigo il differenziamento e il mutamento dei dialetti e il popolo di Dio doveva essere esente da questo castigo. E non senza motivo è la lingua che parlò Abramo, sebbene non poté trasmetterla a tutti i suoi discendenti ma soltanto a quelli che provennero da Giacobbe e che, costituendosi in forma più eminente e segnalata in popolo di Dio, poterono recepire le alleanze ed essere la stirpe di Cristo. Ed Eber non ha trasmesso la lingua a tutta la sua discendenza ma a quella soltanto la cui genealogia era protratta fino ad Abramo. Perciò quantunque non sia riferito con evidenza che esisteva un gruppo di uomini aderenti alla religione quando dai senza Dio venne edificata Babilonia, questo silenzio non è valso a deludere ma a stimolare l'interesse del critico. Si legge dunque che prima v'era una sola lingua universale e fra tutti i discendenti di Sem si menziona prima di tutti Eber, sebbene sia al quinto grado, e si denomina ebraica la lingua che l'autorità dei Patriarchi e dei Profeti ha conservato non solo nel loro linguaggio usuale ma anche nella sacra Scrittura. Si chiede allora in quale discendenza poté esser conservata la lingua che prima era di tutti, anche perché nella popolazione in cui essa si conservò non si ebbe il castigo che si verificò con il differenziamento dei linguaggi. Si può replicare soltanto che si conservò nella stirpe che proveniva da colui dal cui nome essa ebbe il nome e che questo è un ricordo non indifferente della nobiltà della stirpe poiché, mentre le altre venivano punite con il differenziamento dei dialetti, non giunse ad essa tale punizione.Da Sem ad Abramo.
11. 3. C'è inoltre il problema della possibilità che ebbero Eber e il figlio Falec di costituire due differenti popolazioni se entrambi parlavano una medesima lingua. Certamente una sola è la popolazione ebraica che da Eber si protrasse fino ad Abramo e in seguito da lui fino a che si costituì il grande popolo d'Israele. Come dunque tutti i discendenti menzionati dei tre figli di Noè costituirono popolazioni diverse se Eber e Falec non le costituirono? Senza dubbio è ipotesi più probabile che il famoso gigante Nebrot costituì anche egli una sua popolazione ma a causa del prestigio del dominio e della statura è stato segnalato in forma più appariscente in modo da stabilire settantadue popolazioni e dialetti. Falec è stato menzionato non perché costituì una popolazione in quanto la sua è la stessa popolazione e lingua ebraica, ma a causa del singolare scorcio di tempo, poiché durante la sua vita si distribuirono i territori. Non ci deve turbare la considerazione che Nebrot non poté giungere al periodo di tempo in cui fu costruita Babilonia e avvenne il differenziarsi dei dialetti e conseguentemente la separazione delle popolazioni. Dal fatto che Eber è al sesto grado da Noè e Nebrot al quarto non ne consegue che non furono contemporanei. Questa vicenda poté verificarsi poiché vivevano di più quando le generazioni erano meno numerose e di meno quando erano più numerose, oppure nascevano più tardi quando le generazioni erano di meno e più presto quando erano di più. Si deve riflettere che quando il territorio fu distribuito non solo erano nati gli altri discendenti di Noè, che sono ricordati come Patriarchi delle popolazioni, ma erano già in età di avere parecchie famiglie degne dell'appellativo di popolazioni. Perciò non si deve affatto pensare che nacquero nell'ordine con cui sono elencati. Altrimenti è inverosimile che i dodici figli di Iectan, l'altro figlio di Eber e fratello di Falec, avessero già costituito le popolazioni se Iectan era nato dopo suo fratello Falec come dopo di lui è menzionato, dal momento che i territori furono distribuiti al tempo della nascita di Falec. Quindi si deve ammettere che fu menzionato per primo ma che era nato molto tempo dopo la nascita di Iectan, tanto che i dodici figli di quest'ultimo potevano già avere famiglie tanto numerose da poter essere distribuite secondo i rispettivi dialetti. Perciò poté essere nominato per primo chi veniva dopo per nascita, allo stesso modo che dei discendenti dai tre figli di Noè al primo posto sono stati nominati i discendenti di Iafet che era il più piccolo dei tre, poi i discendenti di Cam che era il figlio di mezzo, infine i discendenti di Sem che era il primo e il più grande. Le denominazioni di quelle popolazioni in parte rimasero, sicché anche oggi ne è manifesta la derivazione, come Assiri da Assur ed Ebrei da Eber, in parte sono cambiate col passar del tempo al punto che uomini dottissimi, i quali fanno ricerche di archeologia, sono riusciti a scoprire le origini di appena alcune di quelle popolazioni, non di tutte. Difatti nessun dato etimologico fa apparire che gli Egiziani, come si afferma, abbiano origine da un figlio di Cam chiamato Mesraim. Altrettanto si dice degli Etiopi che sono considerati discendenti del figlio di Cam, chiamato Cus. Se si riflette bene, sono più le denominazioni cambiate che quelle rimaste.Adolescenza della Città di Dio in Abramo [12-36]
Gli Ebrei dalla Caldea in Mesopotamia.
12. Ora esaminiamo lo sviluppo della città di Dio in quel periodo di tempo che si ebbe col patriarca Abramo, perché da quel tempo inizia una sua più palese manifestazione e in esso si rendono manifeste promesse divine che attualmente vediamo adempiute in Cristo. Come abbiamo appreso dalla narrazione della sacra Scrittura, Abramo nacque nella regione dei Caldei 53, territorio che apparteneva all'impero degli Assiri. Presso i Caldei anche allora erano in vigore irriverenti usanze religiose, come presso gli altri popoli. V'era soltanto la famiglia di Tara, da cui nacque Abramo, in cui erano rimasti il culto dell'unico vero Dio e, per quanto si può dedurre, la sola lingua ebraica. Tuttavia, stando alla testimonianza di Giosuè di Nun 54, si è informati che anche Tara, come pure il popolo che era più palesemente di Dio, sia in Egitto che in Mesopotamia, adorarono altri dèi. Questo avveniva perché gli altri della discendenza di Eber gradatamente passavano ad altre lingue e ad altri popoli. E come durante il diluvio delle acque soltanto la famiglia di Noè era rimasta per ricuperare il genere umano, così nel diluvio delle molte credenze religiose diffuse nel mondo era rimasta soltanto la famiglia di Tara in cui fu custodito il germe della città di Dio. Precedentemente dopo aver elencato le generazioni fino a Noè assieme al numero degli anni e dopo aver esposto la causa del diluvio, prima che Dio parlasse a Noè della costruzione dell'arca, la Scrittura dice: Questi sono i discendenti di Noè 55. Allo stesso modo ora, dopo aver elencato le generazioni dal Patriarca chiamato Sem, figlio di Noè, fino ad Abramo, si segnala una serie di rilievo con le parole: Queste sono le generazioni di Tara. Tara generò Abram, Nacor e Arran, e Arran generò Lot. Arran morì prima di Tara suo padre nella terra in cui nacque, nella regione dei Caldei. Abram e Nacor presero moglie, il nome della moglie di Abram è Sara e quello della moglie di Nacor è Melca, figlia di Arran 56. Arran fu padre di Melca e di Iesca, che si ritiene sia la stessa Sara moglie di Abramo.Importanza dell'elemento cronologico.
13. Si narra poi come Tara lasciò con i suoi familiari la regione dei Caldei e si recò nella Mesopotamia e si stabilì a Carran. Non si parla del figlio che si chiamava Nacor, come se non l'avesse condotto con sé. Ecco il testo: Tara prese con sé Abram suo figlio e Lot figlio di Arran suo nipote, Sara sua nuora e moglie del figlio Abram, li condusse dalla regione dei Caldei nella regione di Canaan, giunse a Carran e vi si stabilì 57. In questo passo non sono ricordati Nacor e la moglie Melca. Ma lo incontriamo in seguito quando Abramo mandò un suo servitore a scegliere una moglie per il figlio Isacco. Dice la Scrittura: Il servitore prese con sé dieci dei cammelli e una parte dei beni del suo padrone e messosi in cammino partì per la Mesopotamia nella città dove era Nacor 58. Con questa testimonianza e con altre della Storia sacra si dimostra che anche Nacor fratello di Abramo uscì dal paese dei Caldei e stabilì la residenza in Mesopotamia, dove Abramo si era stabilito con suo padre. Cerchiamo quindi il motivo per cui la Scrittura non lo ha ricordato quando Tara con i suoi familiari partì dal paese dei Caldei e si stabilì in Mesopotamia, tanto più che aveva condotto con sé non solo il figlio Abramo ma anche la nuora Sara e il nipote Lot. Il vero motivo è, come pensiamo, che si era allontanato dalla religione del padre e del fratello e aveva aderito alla falsa credenza dei Caldei, ma poi anche egli emigrò dal paese perché era pentito o minacciato come persona sospetta. Infatti nel libro intitolato Giuditta, quando Oloferne, nemico degli Israeliti, chiese che gente fosse e se si doveva combattere contro di loro, Achior, condottiero degli Ammoniti, rispose: Il nostro signore ascolti la parola di un suo dipendente e dirò la verità sul popolo che abita la montagna qui vicino e non uscirà una menzogna dalla bocca del tuo dipendente. Sono i discendenti di una popolazione della Caldea e prima abitavano la Mesopotamia perché non vollero più adorare gli dèi dei loro padri. Erano famosi nella terra dei Caldei, ma si allontanarono dalla tradizione dei loro antenati e adorarono il Dio del cielo che avevano riconosciuto come il vero Dio. Allora i Caldei li espulsero dalla presenza dei loro dèi ed essi si rifugiarono in Mesopotamia e vi abitarono per molto tempo. E il loro Dio comandò che abbandonassero la loro abitazione e andassero nella terra di Canaan e quivi si stabilirono 59 e di seguito le altre informazioni di Achior l'Ammonita. È evidente che la famiglia di Tara aveva subìto dai Caldei una persecuzione a causa della vera religione con cui si adorava l'unico vero Dio.La vocazione e problemi cronologici su Abramo.
14. Dopo la morte di Tara in Mesopotamia dove, come ci è notificato, visse duecentocinque anni, si comincia a segnalare le promesse fatte da Dio ad Abramo. È scritto appunto: Gli anni di vita di Tara in Carran furono duecentocinque e egli morì a Carran 60. Il passo non si deve interpretare nel senso che egli trascorse in quel luogo tutti questi anni, ma che in quel luogo raggiunse tutti gli anni della sua vita che furono duecentocinque. Altrimenti non si saprebbe quanti anni è vissuto Tara, perché non è indicato a che età della sua vita andò a Carran e sarebbe assurdo ritenere che in questa genealogia, in cui si segnalano con precisione gli anni di vita di ciascuno, soltanto il numero di anni di questo patriarca non sarebbe consegnato alla storia. E il motivo per cui non è indicata l'età di alcuni, di cui la sacra Scrittura parla, è che essi non sono nella serie in cui l'elemento cronologico è derivato dalla scomparsa dei genitori e dalla successione dei figli. La lista che si protende da Adamo a Noè e da lui ad Abramo non comprende nessuno senza l'indicazione del numero degli anni.Gli spostamenti di Abramo nella relazione di Stefano.
15. 1. Dopo la notificazione della morte di Tara, padre di Abramo, si legge: E disse il Signore ad Abram: lascia il tuo paese, la tua tribù e la famiglia di tuo padre 61 e il resto. Non si deve pensare che questo fatto, perché segue immediatamente nel contesto del libro, segua immediatamente anche nell'ordine degli avvenimenti. Al caso sarebbe un problema insolubile. Dopo queste parole rivolte da Dio ad Abramo, la Scrittura sacra continua: Abramo lasciò tutto secondo il comando del Signore e andò con lui Lot. Abramo aveva settantacinque anni quando abbandonò Carran 62. È impossibile che questo sia vero se lasciò Carran dopo la morte del padre. Precedentemente è stato notificato che Tara aveva settanta anni quando mise al mondo Abramo. Sommati a questo numero i settantacinque anni che aveva Abramo quando lasciò Carran, diventano centoquarantacinque anni. Dunque Tara aveva questa età quando Abramo lasciò la città della Mesopotamia. Egli infatti aveva settantacinque anni di età, perciò il padre che l'aveva generato quando era al settantesimo anno di età, aveva, come è stato detto, centoquarantacinque anni. Quindi Abramo non se ne andò dal paese dopo la morte del padre, cioè ai duecentocinque anni di vita di lui, ma risulta, senza possibilità d'errore, che l'anno della sua dipartita fu ai centoquarantacinque anni di vita del padre, dato che egli ne aveva settantacinque e il padre all'età di settanta anni l'aveva messo al mondo. Si deve quindi ammettere che la Scrittura, secondo un suo criterio, è tornata indietro ad un tempo che l'esposizione dei fatti aveva oltrepassato. Anche precedentemente, mentre menzionava i discendenti dei figli di Noè, aveva indicato che si erano stabiliti nei rispettivi dialetti e popolazioni 63, tuttavia dopo, come se seguisse nella successione del tempo, dice: L'umanità aveva un medesimo linguaggio e idioma 64. Non era assurdo dire che i discendenti erano costituiti nelle rispettive popolazioni e dialetti e che la lingua era comune soltanto perché l'esposizione si è volta indietro rinviando a un avvenimento passato. Anche nel caso in esame fu premessa questa notizia: Gli anni di vita di Tara in Carran furono duecentocinque ed egli morì a Carran 65. Poi la Scrittura tornando a una notizia che aveva omesso appositamente perché si completasse quel che in precedenza si era cominciato a dire di Tara, soggiunse: Il Signore disse ad Abram: lascia il tuo paese e il resto. E dopo questa parola del Signore si soggiunge: Abram lasciò tutto secondo il comando del Signore e andò con lui Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran 66. Questo dunque avvenne quando il padre aveva centoquarantacinque anni d'età, perché egli allora ne aveva settantacinque. L'obiezione ha avuto anche un'altra soluzione. I settantacinque anni di Abramo quando lasciò Carran sarebbero calcolati dall'anno in cui fu fatto uscire da Ur dei Caldei, come se allora avesse cominciato a vivere, e non dall'anno in cui nacque.Cronologia della manifestazione di Dio ad Abramo.
15. 2. Santo Stefano, nel narrare questi avvenimenti, dice negli Atti degli Apostoli: Il Dio della gloria apparve al nostro patriarca Abramo, quando era in Mesopotamia prima che andasse ad abitare a Carran e gli disse: Lascia il tuo paese, la tua tribù e la famiglia di tuo padre e va' nel paese che io ti indicherò. Stando a queste parole di Stefano Dio non parlò ad Abramo dopo la morte del padre che morì certamente a Carran, dove con lui dimorò anche il figlio, ma prima che andasse a quella città, però quando già era in Mesopotamia. Dunque aveva già lasciato il territorio dei Caldei. Il resto del discorso di Stefano e cioè: Allora Abramo abbandonò il paese dei Caldei e si stabilì a Carran non riguarda ciò che era avvenuto dopo che il Signore gli ebbe parlato. Difatti non aveva abbandonato la Caldea dopo quelle parole del Signore, poiché Stefano afferma che si manifestò a lui quando era ancora in Mesopotamia. Il termine allora è relativo a tutto quel tempo, ossia da quando abbandonò il paese dei Caldei e si stabilì a Carran. Egualmente va inteso ciò che segue: Da quel paese, dopo la morte del padre, lo fece stabilire in questo territorio in cui ora abitate voi e i vostri antenati 67. Non ha detto: "Dopo la morte del padre abbandonò Carran", ma: "Lo fece stabilire qui dopo la morte del padre". Si deve quindi intendere che Dio si manifestò ad Abramo, quando era ancora in Mesopotamia, prima che si stabilisse a Carran, ma che giunse a Carran con il padre, conservando in sé il comando di Dio e che di là emigrò quando egli aveva settantacinque anni e il padre centoquarantacinque. In realtà Stefano attesta che dopo la morte avvenne la residenza fissa nel territorio di Canaan e non la partenza da Carran, perché il padre era già morto quando acquistò un terreno, di cui entrò in possesso come proprietà personale. Con le parole che Dio gli rivolge quando era già stabilito in Mesopotamia, cioè emigrato dal paese dei Caldei: Lascia il tuo paese, la tua tribù, la famiglia di tuo padre non gli ordina di far emigrare il corpo, perché l'aveva già fatto, ma di distogliere il pensiero. Difatti non ne era uscito col pensiero se era ancora tenuto dalla speranza e dal desiderio di tornarvi, speranza e desiderio che dovevano scomparire con l'aiuto di Dio e la sua docilità. È attendibile l'ipotesi che quando Nacor raggiunse il padre nell'aldilà, allora Abramo adempì il comando del Signore di emigrare da Carran assieme alla sua moglie Sara e a Lot figlio del fratello.Tre imperi e tre continenti.
16. Ormai si devono prendere in esame le promesse di Dio ad Abramo. In esse cominciarono a rivelarsi le predizioni più manifeste del nostro Dio, cioè del vero Dio, sul popolo dei credenti preannunciato dalla veridicità di un profeta. La prima è in questi termini: Il Signore disse ad Abramo: Lascia il tuo paese, la tua tribù e la famiglia di tuo padre ed emigra nel paese che io ti indicherò e ti farò diventare un grande popolo, ti benedirò e renderò famoso il tuo nome e sarai benedetto e benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno e in te saranno benedetti tutti i popoli della terra 68. È da rilevare che due cose furono promesse ad Abramo. La prima è che la sua discendenza avrebbe posseduto il territorio di Canaan ed è indicata con le parole: Emigra nel paese che io ti indicherò e ti farò diventare un grande popolo. L'altra riguarda un evento più importante perché non è relativa alla discendenza fisiologica ma spirituale, in virtù della quale è padre non solo del popolo israelitico ma di tutti i popoli che seguono il modello della sua fede. Questa promessa ha avuto inizio con le parole: E in te saranno benedetti tutti i popoli della terra. Eusebio ritiene che questa promessa fu fatta al settantacinquesimo anno di vita di Abramo 69, come se fosse avvenuta appena egli abbandonò Carran, poiché non si può considerare erroneo questo passo della Scrittura: Abramo aveva settantacinque anni quando lasciò Carran 70. Ma se la promessa avvenne in quell'anno, già Abramo dimorava in Carran col padre. Non poteva lasciarla se prima non vi si fosse stabilito. Così non si ritiene che abbia errato Stefano il quale afferma: Il Dio della gloria apparve ad Abramo nostro padre quando dimorava nella Mesopotamia prima che si stabilisse a Carran 71. Si deve intendere appunto che nel medesimo anno si siano verificati tutti questi eventi, la promessa di Dio prima che Abramo si stabilisse a Carran, la sua residenza in essa e la dipartita, non solo perché Eusebio nella Cronaca inizia la cronologia dall'anno di questa promessa e dimostra che la fuga dall'Egitto avvenne dopo quattrocentotrenta anni, quando fu consegnata la legge, ma anche perché così opina l'apostolo Paolo.Abramo verso il paese di Canaan.
17. Contemporaneamente v'erano famosi regni pagani, nei quali la città dei nati dalla terra, cioè la società degli uomini che vivevano secondo l'uomo, sotto il dominio degli angeli ribelli, si segnalava per splendore. Erano tre i regni, di Sicione, d'Egitto e d'Assiria. Quello d'Assiria era molto più potente e splendido. Infatti il celebre Nino, figlio di Belo, aveva assoggettato i popoli di tutta l'Asia, eccettuata l'India. Per Asia ora non intendo quella parte che è una provincia dell'Asia maggiore ma quella che corrisponde all'Asia intera, che alcuni hanno considerato l'altra parte di tutto l'orbe, parecchi invece come la terza parte così che sarebbero tre parti le quali sono Asia, Europa, Africa. Evidentemente non hanno usato il medesimo criterio nel dividere. La parte appunto che corrisponde all'Asia va dal Mezzogiorno attraverso l'Oriente fino al Settentrione, l'Europa dal Settentrione fino all'Occidente e l'Africa dall'Occidente fino al Mezzogiorno. Sembra quindi che due, Europa e Africa, comprendano metà del pianeta e l'Asia da sola l'altra metà. Ma le due sono state considerate parti perché tra l'una e l'altra dall'Oceano defluiscono tutte le acque che circondano la terra e che per noi formano il Mediterraneo. Quindi se consideri l'orbe diviso in due parti, dell'Oriente e dell'Occidente, l'Asia è nella prima, l'Europa e l'Africa nell'altra. Quindi dei tre imperi che allora primeggiavano quello di Sicione non dipendeva dall'Assiria perché Sicione era in Europa. C'è quindi da chiedersi perché non era loro tributario l'impero d'Egitto se dagli Assiri era dominata tutta l'Asia, fatta eccezione, come si afferma, soltanto per gli Indiani. In Assiria dunque aveva prevalso la supremazia della città senza Dio. Prototipo ne fu la celebre Babilonia, denominazione molto appropriata della città terrena perché significa confusione. Vi regnava Nino dopo la morte di suo padre Belo che per primo vi aveva regnato durante sessantacinque anni. Il figlio Nino, successo nell'impero alla morte del padre, regnò cinquantadue anni e regnava da quarantatré quando nacque Abramo circa mille e duecento anni prima della fondazione di Roma, quasi altra Babilonia in Occidente.Abramo in Egitto.
18. Dunque Abramo lasciò Carran quando aveva settantacinque anni e il padre centoquarantacinque con Lot, figlio del fratello e con la moglie Sara e si diresse verso il paese di Canaan e giunse a Sichem, in cui di nuovo ricevette una comunicazione divina, sulla quale si ha nella Scrittura: Il Signore si manifestò ad Abramo e gli disse: Darò alla tua discendenza questo territorio 72. Con queste parole non è stata indicata la discendenza con cui egli è diventato padre di tutti i popoli, ma soltanto di quella per cui è padre del solo popolo d'Israele. Da questa discendenza infatti fu occupato quel territorio.Abramo si separa da Lot.
19. In seguito dopo aver costruito in quel luogo un altare e aver invocato Dio, Abramo partì di là e fece sosta nel deserto e poi fu costretto dalla carestia a recarsi in Egitto. Qui disse che la moglie era sua sorella senza mentire perché lo era come consanguinea. Anche Lot per il medesimo vincolo di parentela fu presentato come fratello, sebbene fosse figlio del fratello. Passò sotto silenzio la moglie ma non negò che lo fosse, affidando a Dio la difesa della fedeltà di lei ed evitando come uomo gli agguati dell'uomo perché, se non evitava il pericolo nei limiti del possibile, avrebbe piuttosto tentato Dio che sperato in lui 73. In proposito ho parlato abbastanza contro il cavilloso Fausto il manicheo 74. In seguito avvenne ciò che Abramo si attendeva dal Signore. Il Faraone re d'Egitto, che s'era preso Sara in moglie, affetto da grave malattia, la rese al marito. E non dobbiamo credere che fosse violata da contatto adultero perché è assai più credibile che non fu consentito al Faraone di farlo dallo stato di prosternazione.Nuova promessa ad Abramo.
20. Ritornato quindi Abramo dall'Egitto nel luogo da cui era partito, Lot figlio del fratello, pur salvaguardando l'affetto, si separò da lui per recarsi nel paese di Sodoma. Erano diventati ricchi e avevano cominciato ad avere molti guardiani del bestiame. Poiché questi si contrastavano, con quel provvedimento evitarono una violenta discordia delle proprie famiglie. Ne poteva derivare, come in tutte le cose umane, una lite anche fra loro due. Abramo, che voleva evitare un simile male, rivolse a Lot queste parole: Non vi sia alterco fra me e te, fra i miei e i tuoi pastori, perché siamo fratelli. Tutto il nostro possedimento non è davanti a te? Allontanati da me, se tu vai dalla parte sinistra, io andrò alla destra o se tu alla destra, io andrò alla sinistra 75. Forse da questo fatto è derivata agli uomini l'usanza del compromesso, cioè che quando si deve distribuire una parte dei terreni, il più grande divida, il più giovane scelga 76.Abramo e Melchisedec.
21. Dopo che Abramo e Lot si erano separati e per l'obbligo di sorreggere la famiglia e non per la stortura della discordia vivevano ciascuno per conto suo, Abramo nel paese di Canaan e Lot a Sodoma, in una terza manifestazione il Signore disse ad Abramo: Volgendo attorno i tuoi occhi guarda dal luogo dove sei ora a Nord e a Sud, a Est e verso il mare Mediterraneo perché darò a te e alla tua discendenza per sempre il territorio che tu vedi e renderò la tua discendenza numerosa come la sabbia della terra. Se si può fissare il numero della sabbia della terra, lo si farà anche della tua discendenza. Suvvia percorri per lungo e per largo il territorio perché te lo darò 77. Non appare con evidenza che in questa premessa sia inclusa anche quella con la quale divenne padre di tutti i popoli. Può sembrare che la riguardi la frase: renderò la tua discendenza numerosa come la sabbia della terra. Ma la frase è di quel modo di esprimersi che i Greci chiamano iperbole 78 che è linguaggio figurato, non proprio. Però chi conosce la Scrittura non può metter in dubbio che abitualmente usa questa figura come le altre. Si ha questa figura, cioè questo modo di esprimersi, quando l'espressione va molto al di là del significato. Ognuno comprende quanto al di là di ogni paragone sia più grande il numero dei granelli di sabbia che quello di tutti gli uomini da Adamo sino alla fine del mondo. A più forte ragione è maggiore dei discendenti di Abramo, non solo per quanto attiene al popolo d'Israele ma anche a quelli che faranno parte della discendenza sul fondamento dell'imitazione della fede in tutto il mondo e presso tutti i popoli. Questa discendenza in confronto con la moltitudine dei miscredenti, si trova in pochi i quali, anche se pochi, costituiscono una propria incalcolabile moltitudine che è stata indicata per iperbole mediante i granelli di sabbia. Questa moltitudine non è incalcolabile a Dio ma agli uomini, a Dio neanche la sabbia della terra. Quindi poiché con maggiore proprietà si paragona all'enorme quantità di sabbia non solo il popolo d'Israele ma tutta la discendenza di Abramo nei passi in cui v'è la promessa di molti figli non secondo la carne ma secondo lo spirito, in questo passo è possibile avvertire la promessa dell'una e dell'altra paternità. Per questo abbiamo detto che la promessa non è espressa con evidenza perché anche la moltitudine del solo popolo, che proviene secondo la carne da Abramo tramite il suo nipote Giacobbe, crebbe al punto che si è diffusa in tutte le parti del mondo. Quindi è stato possibile paragonarla in base a un'iperbole, all'enorme quantità di sabbia, anche perché soltanto essa è incalcolabile per l'uomo. Nessuno mette in dubbio che come territorio è stato indicato soltanto quello che si denomina Canaan. Ma le parole: Lo darò a te e alla tua discendenza per sempre possono sorprendere alcuni se la parola per sempre s'interpreta in eterno. Ma costoro non rimarranno sorpresi se in questo passo intendono il sempre come noi lo intendiamo per fede, che cioè l'inizio del sempre futuro si ha quando termina il sempre presente. Difatti sebbene gli Israeliti siano stati espulsi da Gerusalemme rimangono tuttavia nelle altre località del paese di Canaan e vi rimarranno sino alla fine e tutto il paese, poiché è abitato da cristiani, è anche esso discendenza di Abramo.I discendenti numerosi come le stelle.
22. Dopo aver ricevuto questa promessa Abramo emigrò e si stabilì in un'altra località del paese, presso il querceto di Mambre che era a Ebron 79. Poi essendo stati sconfitti i Sodomiti in una guerra condotta da cinque re contro quattro, anche Lot fu fatto prigioniero dai nemici che avevano invaso Sodoma. Lo liberò Abramo con i trecentodiciotto servitori che aveva condotto con sé in battaglia e restituì la vittoria ai re di Sodoma e non volle avere nulla del bottino sebbene il re, per cui aveva vinto, glielo offrisse. In quell'occasione appunto fu benedetto da Melchisedec che era sacerdote di Dio l'Altissimo 80. Di lui sono state scritte molte e importanti considerazioni nella Lettera intestata agli Ebrei che molti attribuiscono a Paolo, alcuni dissentono 81. In quella circostanza inoltre per la prima volta si manifestò il sacrificio che ora dai cristiani in tutto il mondo si offre a Dio e si adempie quel che molto tempo dopo questo avvenimento profeticamente si dice al Cristo che non si era ancora incarnato: Tu sei sacerdote in eterno nella successione a Melchisedec 82 e non nella successione ad Aronne, perché era una successione che doveva essere abolita al luminoso apparire di quei fatti che erano preannunciati da quelle ombre.La grande promessa ad Abramo.
23. Anche allora fu rivolta in visione la parola del Signore ad Abramo. Il Signore gli promise la sua protezione e una ricompensa molto grande e Abramo, preoccupato della discendenza, disse che sarebbe stato suo erede un certo Eliezer suo servitore e immediatamente gli furono assicurati un erede, che non era il servitore, ma uno che doveva provenire da Abramo stesso e di nuovo una discendenza innumerevole, non come i granelli di sabbia ma come le stelle del cielo 83. A me sembra che con quelle parole fu assicurata una discendenza eccelsa per la felicità celeste. Per quanto attiene al numero straordinario non c'è confronto fra le stelle del cielo e i granelli di sabbia, a meno che non si sostenga una certa somiglianza del paragone in quanto è impossibile contare anche le stelle perché si deve riconoscere che non si riesce a vederle tutte. Infatti quanto più intensamente un individuo fissa, tante più ne scorge. Quindi giustamente si ritiene che ve ne sono alcune nascoste anche a coloro che hanno la vista penetrante a parte quelle che, come si sostiene, si levano e tramontano all'altra parte dell'orbe così lontana da noi. Infine l'autorità di questo libro della Scrittura confuta coloro che si vantano di avere afferrato ed esposto l'intero numero delle stelle, come Arato ed Eudosso e altri se ve sono. Qui cade a proposito il pensiero che l'Apostolo ricorda per inculcare la grazia di Dio: Abramo credette a Dio e gli fu accreditato a giustizia 84 affinché la circoncisione non s'imbaldanzisse e pretendesse che i popoli incirconcisi non fossero accolti nella fede del Cristo. Quando avvenne che la fede fu riconosciuta come giustizia ad Abramo che credeva, egli ancora non era circonciso.Simboli e allegorie nel fatto.
24. 1. Mentre egli parlava nella medesima visione Dio gli disse anche: Io sono il Dio che ti ha fatto emigrare dalla regione dei Caldei per darti questo territorio perché tu ne sia l'erede. Avendolo interrogato Abramo su quale base avrebbe saputo di esserne l'erede, gli disse Dio: Procurami una giovenca, una capra e un ariete, tutti e tre di tre anni, una tortora e un colombo. Gli procurò tutti questi animali, li divise nel mezzo e pose le metà l'una di fronte all'altra ma non divise gli uccelli. E piombarono, come è scritto, uccelli rapaci sui corpi che erano divisi ma Abram resisté loro. Verso il tramonto del sole uno spavento religioso invase Abram e una oscura grande angoscia lo incolse e il Signore gli disse: Saprai che la tua discendenza sarà in esilio in terra straniera, li ridurranno in schiavitù e li opprimeranno per quattrocento anni, io ti indicherò il popolo di cui saranno schiavi. Ma dopo questi fatti ne usciranno con una grande ricchezza. Tu te ne andrai in pace con i tuoi antenati in una serena vecchiaia. Alla quarta generazione torneranno qua. Finora non sono al completo i peccati degli Amorrei. Quando il sole fu tramontato, vi fu una fiammata e un bracere fumante e torce passarono fra le parti degli animali uccisi. In quel giorno il Signore stabilì un'alleanza con Abram dicendo: Alla tua discendenza darò il territorio dal fiume confinante con l'Egitto fino al grande fiume Eufrate, abitato da Cheniti, Chenizziti, Cadmoniti, Ittiti, Perizziti, Rafaim, Amorrei, Cananei, Evei, Gergesei, Gebusei 85.Precisazioni cronologiche.
24. 2. Tutti questi avvenimenti, fatti e parole, si ebbero in visione per azione divina. È lungo trattarne singolarmente e va al di là dell'intento dell'opera. Dobbiamo quindi conoscere quanto basta. Dopo la notizia che Abramo credette in Dio e gli fu riconosciuto come giustizia, si precisa che non mancò di fede, ma disse: Signore mio padrone con quale segno saprò che ne sarò erede? 86, perché gli era stata assicurata l'eredità di quel territorio. Non disse "come faccio a saperlo?", come se ancora non credesse, ma disse: Con quale segno saprò?, affinché fosse adoperato un confronto con l'oggetto della sua fede per conoscerne il significato. Così non è diffidenza della Vergine Maria l'aver chiesto: Come è possibile perché io sono vergine? Era certa che sarebbe avvenuto, chiedeva il modo con cui sarebbe avvenuto e le fu detto perché questo aveva chiesto 87. Anche nel caso in esame il confronto fu dato con animali, la vitella, la capra, l'ariete, la tortora e il colombo affinché sapesse che sarebbe avvenuto secondo tali indicazioni ciò che non dubitava sarebbe avvenuto. Con la vitella poteva essere simboleggiata la popolazione posta sotto il giogo della legge, con la capra la medesima popolazione che avrebbe trasgredito la legge, con l'ariete la medesima popolazione che avrebbe avuto un re. E si precisa che questi animali siano di tre anni perché vi sono i tre significativi periodi di tempo, da Adamo a Noè, da lui ad Abramo e da lui a Davide, il primo re consolidato nel regno del popolo d'Israele per volontà del Signore dopo che Saul fu destituito. E proprio nel terzo periodo, che va da Abramo a Davide, questo popolo divenne adulto perché entrava nella terza età. Questi animali potrebbero simboleggiare più convenientemente qualche altra cosa, però non metterei affatto in dubbio che nell'aggiunta della tortora e del colombo si ha un'allegoria profetica degli spirituali. Per questo si ha nel passo: Non divise gli uccelli, poiché i carnali si dividono fra di sé ma in nessun modo gli spirituali, sia che si allontanino dagli umani rapporti d'affari, come la tortora, sia che passino il tempo in mezzo ad essi, come il colombo. Tutti e due gli uccelli però sono schietti e inoffensivi e simboleggiano nello stesso popolo d'Israele, al quale si doveva concedere quel territorio, coloro che sarebbero stati gli indivisibili figli della promessa e gli eredi del regno che dovrà persistere nella felicità eterna. Gli uccelli che piombano sui corpi divisi non significano qualcosa di bene ma gli spiriti di questa atmosfera che si procurano il mangiare dalla divisione dei carnali. Il fatto che Abramo li scacciò simboleggia che anche fra le divisioni dei carnali i veri credenti persevereranno fino alla fine. E il fatto che al tramonto del sole lo spavento religioso e la grande angoscia invasero Abramo simboleggia che verso la fine del mondo avverrà un grande tormentoso sconvolgimento dei credenti, di cui il Signore dice nel Vangelo: Vi sarà allora un grande tormento quale non si ebbe dall'inizio 88.L'angoscia di Abramo e la fine del mondo.
24. 3. Vi sono poi le parole ad Abramo: Saprai che la tua discendenza sarà in esilio in terra straniera e li ridurranno in schiavitù e li opprimeranno per quattrocento anni 89. È una manifesta predizione sul popolo d'Israele che doveva essere schiavo in Egitto, non nel senso che il popolo doveva passare quattrocento anni nella schiavitù sotto gli Egiziani che l'opprimevano ma nel senso che il fatto sarebbe avvenuto entro i quattrocento anni. C'è un confronto con quel che era stato scritto di Tara padre di Abramo: E gli anni di Tara in Carran furono duecentocinque 90, non nel senso che trascorsero tutti in quel paese ma che vi furono compiuti. Allo stesso modo anche qui sono state inserite le parole: Li ridurranno in schiavitù e li opprimeranno per quattrocento anni, perché questo periodo ebbe termine con questa afflizione e non perché vi fu trascorso tutto. Sono indicati quattrocento anni a causa della completezza del numero, sebbene siano un po' di più, tanto se vengono calcolati dal tempo, in cui erano rivolte queste promesse ad Abramo o da quando nacque Isacco in relazione alla discendenza di Abramo perché queste predizioni la riguardano. Sono calcolati quattrocentotrenta anni, come ho detto poco fa, dall'anno in cui Abramo ne compiva settantacinque, quando gli fu svelata la prima promessa, fino alla uscita di Israele dall'Egitto. Li ricorda anche l'Apostolo che dice: La legge promulgata quattrocentotrenta anni dopo non annulla, sopprimendo la promessa, l'alleanza ratificata da Dio 91. Era possibile quindi di questi quattrocentotrenta anni considerarne quattrocento perché non sono molti di più, anche perché alcuni ne erano passati quando quegli eventi furono fatti vedere e descritti ad Abramo in visione o quando venticinque anni dopo la promessa nacque Isacco dal padre che ne aveva cento. Dei quattrocentotrenta ne rimarrebbero quattrocentocinque e Dio volle prenderne in considerazione soltanto quattrocento. E nessuno può dubitare che gli altri eventi, che seguono alle parole di Dio che li predice, riguardano il popolo d'Israele.Apologia di Abramo con Agar.
24. 4. Quel che segue: Quando il sole fu tramontato vi fu una fiammata e un braciere fumante e torce accese passarono fra le parti degli animali divisi 92 simboleggia che alla fine del mondo i carnali saranno giudicati mediante il fuoco. L'oppressione della città di Dio con proporzioni quali prima non si ebbero, la quale si attende che avvenga sotto l'anticristo, è simboleggiata dall'oscura angoscia di Abramo verso il tramonto del sole, cioè quando sarà vicina la fine del mondo. Allo stesso modo al tramonto del sole, cioè alla fine del mondo, è simboleggiato dal fuoco il giorno del giudizio che distinguerà fra gli uomini carnali quelli che si salveranno col fuoco e quelli che saranno dannati nel fuoco. Poi l'alleanza stipulata con Abramo indica propriamente la terra di Canaan e menziona in essa undici popoli dal fiume d'Egitto al grande fiume Eufrate. Quindi non dal grande fiume d'Egitto, cioè dal Nilo, ma dal piccolo che divide Egitto e Palestina, dove si trova la città di Rinocorura.Alleanza e circoncisione.
25. A questi fatti segue il periodo dei figli di Abramo, uno dalla schiava Agar, l'altro dalla libera Sarra, dei quali abbiamo parlato nel libro precedente 93. Per quanto attiene al fatto in nessun senso si deve rivolgere ad Abramo l'accusa di relazione con questa concubina. La ebbe per avere un figlio non per soddisfare la lussuria, senza offendere ma piuttosto per obbedire alla moglie. Lei si illudeva che fosse un conforto alla sua sterilità se con un atto di volontà, poiché per natura non poteva, rendeva suo il grembo reso fecondo della schiava 94. In fondo la donna usava del diritto di cui l'Apostolo dice: Egualmente anche l'uomo non ha autorità sul suo corpo ma la donna 95. Così partoriva per mezzo di un'altra perché da se stessa non lo poteva. Non v'è nel fatto alcun desiderio di dissolutezza o il disonore dell'inganno. Dalla moglie per avere un figlio si consegna al marito la schiava, dal marito per avere un figlio la si accoglie, da entrambi si persegue non la dissipazione della colpa ma il dono della natura. Poi la schiava incinta trattò con orgoglio la padrona sterile e Sarra con femminile diffidenza attribuì il fatto al marito. Anche in questo caso Abramo dimostrò che non era stato un amante schiavo ma un genitore libero, che in Agar aveva conservato la fedeltà alla moglie, che non aveva soddisfatto il proprio piacere ma la volontà di lei, che aveva ricevuto senza chiedere, che si era unito senza vincolarsi, che aveva generato senza amare. Egli le disse: La tua schiava è a tua disposizione, trattala come ti pare 96. O uomo che trattò le donne con dignità virile, la moglie con rispetto, la schiava con deferenza, nessuna delle due senza ritegno.Fatti e loro simbologia nel tempo.
26. 1. Dopo questi fatti da Agar nacque Ismaele e Abramo dovette pensare che con lui fosse adempiuta la promessa perché, quando voleva adottare un suo servitore, Dio gli aveva detto: Non sarà tuo erede costui ma uno che proverrà da te sarà tuo erede 97. Ma affinché non pensasse che la promessa si adempisse col figlio della schiava, quando aveva novantanove anni gli apparve il Signore e gli disse: Io sono Dio, ubbidisci al mio cenno e sii senza difetto e stabilirò un'alleanza fra me e te e ti renderò un grande popolo. Abramo si prostrò con la faccia a terra e Dio gli rivolse queste parole: Eccomi ed ecco la mia alleanza con te e sarai capostipite di molti popoli. Il tuo nome non sarà più Abram ma Abramo, perché ti ho costituito capostipite di molti popoli, ti renderò assai grande e ti rinnoverò in vari popoli e nella tua discendenza ci saranno re. Stabilirò la mia alleanza fra me e te e con la tua discendenza di generazione in generazione con un'alleanza eterna per essere il Dio tuo e della tua discendenza. E darò a te e alla tua discendenza il territorio, in cui ora abiti come straniero, tutto il paese di Canaan in possesso perenne e sarò il loro Dio. E disse Dio ad Abramo: Tu rispetterai la mia alleanza, tu e la tua discendenza nelle varie generazioni. E questa è l'alleanza fra me e voi e la tua discendenza nelle varie generazioni che dovrai rispettare: Sarà circonciso ogni vostro maschio e circonciderete il vostro membro e sarà come simbolo dell'alleanza fra me e voi. Ogni vostro maschio di otto giorni sarà circonciso nelle varie generazioni. Anche lo schiavo nato nella tua casa o comprato dallo straniero, che non sono della tua discendenza, saranno circoncisi, tanto se nato in casa che acquistato. Così la mia alleanza sarà nel vostro corpo come un'alleanza perenne. E il maschio non circonciso, che non riceverà cioè il segno della circoncisione nel corpo all'ottavo giorno, non apparterrà più alla sua razza perché ha rotto la mia alleanza. Sara tua moglie non sarà più chiamata Sara ma Sarra. La benedirò e da lei ti farò avere un figlio e lo benedirò e darà origine a nazioni e re di popoli proverranno da lui. Abramo si prostrò con la faccia a terra, rise e pensò fra sé: È possibile che nasca un figlio a me che ho cento anni e che Sarra a novanta partorisca? E Abramo disse a Dio: Viva qui Ismaele alla tua presenza. Rispose Dio ad Abramo: È così, Sarra tua moglie ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco. Stabilirò l'alleanza con lui in alleanza perenne di essere il suo Dio e della sua discendenza. Anche riguardo ad Ismaele ti ho dato ascolto, l'ho benedetto, avrà molti figli e discendenti. Darà origine a dodici tribù e lo renderò una grande nazione. Stabilirò la mia alleanza con Isacco che Sarra ti partorirà l'anno prossimo in questa stagione 98.Significato redentivo della circoncisione.
26. 2. Nel brano sono più evidenti le promesse sulla vocazione dei pagani in Isacco, cioè nel figlio della promessa col quale è simboleggiata la grazia non la natura, perché si promette la nascita di un figlio da un uomo vecchio e da una vecchia donna sterile. Sebbene infatti sia Dio a garantire il naturale procedimento della procreazione, in un caso tuttavia, in cui è evidente l'intervento di Dio a causa di un difetto o inefficienza della natura, con maggiore evidenza si intravede la grazia. E poiché doveva venire non attraverso la generazione ma la rigenerazione, la circoncisione è stata prescritta quando è stata promessa la nascita di un figlio da Sarra. E la prescrizione che siano circoncisi tutti, non solo i figli ma anche gli schiavi nati nella casa o comprati, dimostra che la grazia appartiene a tutti. Difatti la circoncisione simboleggia la natura che si rinnova spogliandosi del vecchio. E il giorno ottavo simboleggia Cristo che è risorto al termine della settimana, cioè al sabato. Sono cambiati perfino i nomi dei genitori, ogni cosa riecheggia il rinnovamento e nell'Antica Alleanza si cela la Nuova. Difatti il vero significato di Antica Alleanza è tener segreta la Nuova e il significato di Nuova Alleanza è manifestare l'Antica. Il riso di Abramo è la gioia di chi si rallegra con se stesso, non lo scherno di chi diffida. Le parole che rivolge a se stesso: Se a me che ho cento anni nascerà un figlio e se Sarra a novanta anni partorirà non sono riflessioni di chi dubita ma di chi rimane sorpreso. Il passo: E darò a te e alla tua discendenza il territorio in cui sei straniero, tutta la terra di Canaan in possesso perenne 99, potrebbe rendere perplesso qualcuno se la promessa si deve intendere come adempiuta o se si deve attendere il suo adempimento, perché qualsiasi possedimento terreno non può esser eterno per nessun popolo. Sappia costui che dai nostri letterati si traduce eterno un qualcosa che i Greci chiamano , termine derivato da secolo, perché in greco il secolo è chiamato . Ma i Latini non hanno osato parlare di secolare per non lasciare andare il significato a un oggetto completamente diverso. Molte cose si dicono secolari perché si avverano nel tempo che trascorre e passano sia pure in breve tempo. Invece ciò che s'intende come o non ha fine o si prolunga sino alla fine del trascorrere del tempo.Promessa e cambiamento di nomi.
27. Similmente può generare perplessità l'interpretazione del passo: Il maschio che non riceverà la circoncisione del membro all'ottavo giorno, quella persona non apparterrà più alla sua razza perché ha violato la mia alleanza 100. Non v'è colpa del bimbo, la cui vita dovrebbe andare in rovina, e non è stato lui a violare l'alleanza di Dio ma i genitori che non si sono preoccupati di circonciderlo. Però tutti i bimbi non in base a una caratteristica della propria esistenza, ma sulla base della comune origine dell'uman genere, hanno violato nel primo uomo l'alleanza di Dio, perché in lui tutti hanno peccato 101. Molte alleanze sono considerate di Dio, a parte le due grandi Alleanze, l'Antica e la Nuova che è consentito a tutti di conoscere leggendo la sacra Scrittura. La prima alleanza stipulata col primo uomo è certamente questa: Il giorno in cui ne mangerete, morirete 102. È scritto anche nel Libro detto dell'Ecclesiastico: Ogni uomo invecchia come un vestito. È un'alleanza dall'inizio dei tempi: Tu morirai 103. Ma la legge più esplicita è stata promulgata in seguito e l'Apostolo dice: Dove non si ha la legge neanche la trasgressione si ha 104. Quindi la sentenza del Salmo: Ho considerato trasgressori tutti i peccatori del mondo 105 è vera perché tutti coloro che sono vincolati a qualche peccato sono colpevoli della trasgressione di qualche legge. Perciò se anche i bimbi, come professa la vera fede, nascono peccatori non per colpa personale ma originale e per questo professiamo che è loro necessaria la grazia del perdono dei peccati, si riconosce evidentemente che come sono peccatori sono anche trasgressori di quella legge che fu promulgata nel paradiso terrestre. Così sono vere tutte e due le sentenze della Scrittura: Ho considerato trasgressori tutti i peccatori del mondo e l'altra: Dove non si ha la legge neanche la trasgressione si ha. Poiché dunque la circoncisione fu simbolo della rigenerazione e non a torto a causa del peccato originale, con cui fu violata la prima alleanza con Dio, la generazione porrà allo sbaraglio il bimbo se la rigenerazione non lo riscatta. Le parole di Dio dunque si devono intendere in questo senso: La vita di chi non sarà rigenerato non apparterrà più alla sua razza, perché ha violato l'alleanza di Dio quando anche egli ha peccato con tutti in Adamo. La frase: Perché ha violato questa mia alleanza costringerebbe a intendere che si tratta soltanto della circoncisione. In verità poiché non ha esplicitato qual genere di alleanza il bimbo ha violato, è attendibile che s'intenda un'alleanza che può essere violata anche da un bimbo. Qualcuno può insistere che si parli soltanto della circoncisione perché soltanto in riferimento ad essa il bimbo ha violato l'alleanza di Dio per il fatto che non è stato circonciso. Cerchi costui un altro modo d'esprimersi col quale si possa sensatamente significare che il bimbo ha violato l'alleanza perché, sebbene non da lui tuttavia in lui, è stata violata. Però anche in questo senso si deve riconoscere che l'anima del bimbo incirconciso non si perde ingiustamente per una personale trasgressione, che non esiste, ma soltanto per la soggezione al peccato originale.L'esperienza del divino in Abramo e Lot.
28. Dunque fu rivolta ad Abramo una promessa tanto grande e tanto luminosa, perché gli fu comunicato molto esplicitamente: Ti ho costituito capostipite di molti popoli, ti renderò grande e ti rinnoverò in vari popoli e nella tua discendenza vi saranno re. Ti farò avere un figlio da Sara, lo benedirò, darà origine a nazioni e re di popoli proverranno da lui 106. Notiamo ora che questa promessa si è avverata in Cristo. Da quel momento quei coniugi non sono chiamati come prima, Abram e Sara, ma come li abbiamo chiamati noi fin dall'inizio poiché così sono chiamati da tutti e cioè Abramo e Sarra. Si giustifica perché è stato cambiato il nome di Abramo: perché dice il Signore, ti ho costituito capostipite di molti popoli. Si deve quindi intendere che Abramo ha questo significato. Abram, come era chiamato prima, si traduce "Padre nobile". Non è stata data giustificazione del cambiamento del nome di Sara, ma come affermano quelli che hanno trattato la traduzione dei nomi ebraici contenuti in questa parte della Scrittura, Sara si traduce "Mia principessa" e Sarra "Vigore". Perciò nella Lettera agli Ebrei si ha: Anche Sarra per fede ricevette vigore per il concepimento 107. Erano tutti e due assai vecchi, come afferma la Scrittura, ma lei anche sterile e ormai priva del flusso mestruale, perciò non avrebbe potuto partorire anche se non fosse stata sterile. D'altronde, se la donna sia d'età avanzata ma che abbia normali flussi muliebri, da un giovane può concepire ma non da un anziano, sebbene l'anziano può generare da una giovinetta, come dopo la morte di Sarra fu possibile ad Abramo con Cettura perché incontrò la sua età piena di vigore 108. Questo dunque è il fatto che l'Apostolo fa notare come sorprendente e per questo afferma che il corpo di Abramo era come inaridito perché a quell'età non poteva generare da ogni donna, alla quale fosse rimasto l'ultimo periodo di tempo per partorire 109. Dobbiamo intendere che il corpo era inaridito a qualche atto, non a tutti. Se fosse stato a tutti, non si ha l'anzianità di un uomo vivo ma il cadavere di un morto. Ma dato che in seguito Abramo generò da Cettura, questo problema di solito si risolve con la costatazione che la facoltà di generare, avuta dal Signore, rimase anche dopo la morte di Sarra. Ma a me sembra che del problema è preferibile la soluzione che abbiamo seguito, appunto perché un anziano di cento anni, ma del nostro tempo, non può generare da alcuna donna, non allora, quando vivevano ancora tanto a lungo che cento anni non rendevano l'uomo d'età decrepita.Fine di Sodoma.
29. Dio si manifestò anche in tre individui ad Abramo presso il querceto di Mambre 110. Non si può dubitare che erano angeli, sebbene alcuni ritengono che uno di loro era Cristo Signore perché affermano che fu visibile anche prima dell'assunzione della carne. È proprio del potere divino e dell'invisibile incorporea e non diveniente natura manifestarsi, senza porsi nel divenire, agli sguardi mortali non nella sua essenza ma mediante un esser che gli è sottomesso perché tutto a lui è sottomesso. Questi interpreti insistono che uno dei tre era il Cristo appunto perché, pur avendone visti tre, egli si rivolge individualmente al Signore. È scritto infatti: Tre uomini erano in piedi davanti e appena li vide corse loro incontro dall'ingresso della tenda, si gettò a terra e disse: Signore, se ho ottenuto il tuo favore 111 e il resto. Ma perché costoro non tengono presente anche che due di loro erano venuti perché i Sodomiti fossero sterminati mentre ancora Abramo parlava soltanto con uno, chiamandolo Signore, e supplicando che non facesse morire a Sodoma il giusto con l'empio? Allo stesso modo Lot trattò quei due al punto che nel suo colloquio con loro si rivolge individualmente al Signore. Prima infatti dice a più d'uno: Signori, sostate nella casa del vostro servitore 112 e le altre parole che seguono. Ma poi si legge così: Gli angeli afferrarono le sue mani, quelle della moglie e delle due figlie perché il Signore voleva risparmiarlo. E appena lo condussero fuori gli dissero: Salva la tua vita, non guardare indietro, non fermarti nella pianura, rifugiati sulla montagna per non essere travolto. Lot disse loro: Ti prego, Signore, poiché il tuo servo ha trovato commiserazione in te 113 e il seguito. Dopo queste parole anche il Signore gli risponde individualmente, poiché era nei due angeli, con le parole: Ho guardato il tuo viso 114 e il resto. È molto più credibile quindi che sia Abramo nei tre individui che Lot nei due ravvisassero il Signore perché si rivolgevano a lui al singolare, sebbene li ritenessero uomini. Non per altro motivo li accolsero in modo da trattarli come esseri terrestri e bisognosi di nutrimento. Ma in loro v'era certamente un qualcosa per cui si distinguevano, sebbene a livello di uomini, che coloro che offrivano loro ospitalità non potevano dubitare, come abitualmente avviene nei Profeti, che in essi vi fosse il Signore e perciò talora si rivolgevano loro al plurale e talora al singolare li chiamavano Signore. La Scrittura conferma che fossero angeli non solo nel Libro della Genesi, in cui si narrano questi avvenimenti, ma anche nella Lettera agli Ebrei la quale, nel lodare l'ospitalità, afferma: Con essa alcuni, pur non sapendolo, accolsero come ospiti gli angeli 115. Per il ministero di questi tre individui, quando di nuovo fu promesso ad Abramo che da Sarra sarebbe nato il figlio Isacco, si ebbe anche un attestato divino con le parole: Abramo diverrà un grande e numeroso popolo e in lui saranno benedetti tutti i popoli della terra 116. Anche qui con grande brevità e completezza si preannunciano le due discendenze: il popolo d'Israele secondo la razza, tutti i popoli secondo la fede.Isacco e il sorriso di Sara.
30. Dopo questa promessa e dopo che Lot era stato fatto uscire da Sodoma tutto il territorio della città depravata fu incendiato da una pioggia di fuoco che veniva dal cielo, perché in essa gli atti carnali fra maschi aveva introdotto un costume più accreditato della liceità di quegli atti che le norme morali consentono. Il castigo fu un saggio del futuro giudizio divino. Difatti la proibizione, a coloro che venivano salvati dagli angeli, di guardare indietro suggerisce esclusivamente che non si deve tornare con la coscienza al vecchio tenore di vita, di cui il rigenerato dalla grazia si spoglia, se intendiamo sfuggire all'ultimo giudizio. La moglie di Lot appunto rimase dove si volse indietro e, tramutata in sale, ha offerto ai credenti un certo condimento per avere il sapore della saggezza con cui evitare quell'esempio 117. In seguito ancora una volta Abramo in Gerar si comportò con Abimelech, re di quella città, come si era comportato in Egitto nei confronti della moglie e ancora una volta gli fu restituita intatta. Abramo al re, che lo rimproverava perché aveva celato che era la moglie dicendo che era la sorella, dopo aver svelato che cosa aveva temuto soggiunse: È veramente mia sorella di padre non di madre 118. Difatti era per Abramo sorella da parte del padre e da lui sua consanguinea. Era di tanta bellezza che poteva essere amata anche a quell'età.Fede di Abramo nel sacrificio di Isacco.
31. Dopo questi avvenimenti nacque secondo la promessa ad Abramo un figlio da Sarra, lo chiamò Isacco che si traduce "Sorriso". Infatti aveva sorriso il padre quando gli fu promesso perché rimase sorpreso dalla gioia; aveva sorriso la madre quando dai tre uomini gli era stato di nuovo promesso perché dubitava per la gioia. L'angelo la rimproverò che quel sorriso, pur suggerito dalla gioia, non era indice di fede piena, fu quindi dal medesimo angelo confermata nella fede. Da questo fatto il figlio ebbe il nome. Sarra precisò che quel sorriso non era volto a deridere un disonore ma ad esaltare una gioia. Infatti, nato Isacco e chiamato con quel nome, disse: Il Signore mi ha donato la gioia di ridere, chiunque verrà a saperlo, sorriderà con me 119. Ma dopo un po' di tempo la schiava venne allontanata da casa assieme al figlio e nel fatto secondo l'Apostolo sono simboleggiate le due Alleanze, l'Antica e la Nuova, e Sarra è allegoria della città dell'alto, cioè della città di Dio 120.Fede premiata con giuramento divino.
32. 1. Nel mezzo di questi fatti, sarebbe troppo lungo ricordarli tutti, Abramo venne tentato ad offrire in sacrificio l'amatissimo figlio Isacco affinché fosse messa alla prova la sua devota obbedienza da segnalare alla conoscenza dei tempi, non di Dio 121. Non ogni tentazione è reprensibile anzi è da rallegrarsene perché con essa avviene una verifica. Il più delle volte la coscienza dell'uomo non può rappresentarsi a se stessa a meno che non con la parola ma con un esame approfondito risponda mentre una tentazione propone in certo senso un quesito. Se vi riconosce un dono di Dio, allora è credente, allora si rinforza nella stabilità della grazia, non si gonfia nella vuotezza della vanagloria. Abramo certamente non credeva che Dio si dilettasse di vittime umane, sebbene si deve osservare e non discutere la manifestazione del comando divino. Tuttavia si deve lodare Abramo perché credette che il figlio, qualora fosse immolato, sarebbe immediatamente risorto. Dio gli aveva detto quando non voleva soddisfare il desiderio della moglie di mandar fuori la schiava e il figlio: In Isacco prenderà nome da te la discendenza. E nel testo vien detto di seguito: Renderò un grande popolo anche il figlio di questa schiava perché è un tuo discendente 122. C'è il problema in qual senso sia stato detto: In Isacco prenderà nome da te la discendenza, sebbene Dio considerasse anche Ismaele sua discendenza. L'Apostolo, spiegando la frase: In Isacco prenderà nome da te la discendenza, afferma: Non sono considerati figli di Dio quelli generati secondo la razza ma i figli della promessa sono assegnati alla discendenza 123. Perciò i figli della promessa, per essere discendenza di Abramo, sono considerati tali in Isacco, cioè sono adunati in Cristo perché la grazia li invita. Dunque questo patriarca della fede tenendo presente mediante la fede la promessa, giacché essa doveva verificarsi in quel figlio che Dio gli ordinava di uccidere, non dubitò che poteva essergli restituito anche se immolato perché gli era stato dato al di là di ogni speranza. Così il fatto è stato inteso e interpretato anche nella Lettera agli Ebrei. Dice: Con fede si comportò Abramo messo alla prova e offrì l'unico figlio egli che aveva ricevuto le promesse e al quale era stato detto: In Isacco prenderà nome da te la discendenza, perché pensava che Dio può anche risuscitare dai morti. Perciò aggiunge: Con questo lo ha proposto anche come simbolo 124, certamente di Colui del quale l'Apostolo dice: Non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi 125. Quindi come il Signore la sua croce, Isacco portò di persona al luogo del sacrificio le legna, sulle quali doveva esser collocato. Infine giacché non si doveva uccidere Isacco dopo che s'impedì al padre di colpirlo, c'è da chiedersi chi fosse l'ariete con la cui immolazione si compì il sacrificio in un sangue che era simbolico poiché, quando lo vide Abramo, era impigliato con le corna in un cespuglio 126. Certamente era indicato per allegoria Gesù coronato di spine dai Giudei prima di essere immolato.Morte di Sara.
32. 2. Ma ascoltiamo piuttosto dall'angelo le parole di Dio. Dice la Scrittura: Abramo stese la mano a prendere la spada per uccidere il figlio. L'angelo del Signore lo chiamò dal cielo: Abramo! Egli rispose: Eccomi. Gli disse l'angelo: Non colpire il ragazzo e non fargli del male, ora ho saputo che temi il tuo Dio e non hai risparmiato per me il tuo figlio diletto 127. Ora ho saputo significa "Ora ho fatto sapere", perché il Signore già lo sapeva. Dopo l'offerta dell'ariete in luogo del figlio Isacco, Abramo, come si legge nella Scrittura, denominò quel luogo: Il Signore ha visto, talché si dice anche oggi: Il Signore si manifestò sul monte. Come è stato detto: Ora ho saputo in luogo di "Ora ho fatto sapere", così qui: Il Signore ha visto si ha nel senso che il Signore s'è manifestato, cioè si è fatto vedere. E l'angelo del Signore chiamò una seconda volta Abramo dal cielo e disse: Ho giurato su me stesso, dice il Signore, perché hai ascoltato la mia parola e non hai risparmiato per me il tuo amato figlio, io ti benedirò in modo straordinario e renderò numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo e come i granelli di sabbia lungo la spiaggia del mare. E la tua discendenza entrerà in possesso delle città dei nemici e saranno benedetti nella tua discendenza tutti i popoli della terra perché hai ubbidito alla mia parola 128. In questi termini fu confermata, perfino col giuramento di Dio, la promessa sulla vocazione dei popoli nella discendenza di Abramo dopo l'olocausto con cui fu simboleggiato Cristo. Aveva promesso tante volte, mai giurato. E il giuramento di Dio vero e veritiero è certamente una conferma della promessa e un rimprovero per coloro che non credono.32. 3. Sarra morì dopo questi fatti all'età di centoventisette anni, quando il marito ne aveva centotrentasette 129. L'avanzava in età di dieci anni. L'aveva detto egli stesso quando gli fu promesso un figlio da lei: È possibile che a me che ho cento anni nascerà un figlio e che Sarra partorirà a novanta anni? 130. Abramo comprò un campo per seppellirvi la moglie 131. Allora, secondo la versione di Stefano, si stabilì in quel paese poiché cominciò a divenirvi proprietario, cioè dopo la morte di suo padre che si desume fosse morto due anni prima 132.
Allegorie profetiche nel matrimonio d'Isacco.
33. Poi Isacco prese per moglie Rebecca, nipote di Nacor, suo zio paterno, quando aveva quaranta anni, cioè a centoquaranta anni d'età del padre, tre anni dopo la morte della madre. Quando, per averla in moglie, fu dal padre mandato in Mesopotamia un servitore, si ebbe un'allegoria profetica nel momento in cui Abramo disse al servitore: Metti la mano sul mio fianco e scongiurerò te per il Signore Dio del cielo e Signore della terra che non condurrai per moglie a mio figlio Isacco una delle figlie dei Cananei 133. Si preannunciò certamente che il Signore Dio del cielo e Signore della terra sarebbe divenuto uomo nella razza che proveniva da quel fianco. E certamente questi non sono piccoli indizi della verità che conosciamo adempiersi in Cristo.Simbologia di Cetura e figli.
34. Che significato ha il fatto che Abramo dopo la morte di Sarra prese in moglie Cettura? 134. Non pensiamo a sensualità soprattutto in vista dell'età e della integrità della fede. Oppure si dovevano avere altri figli, sebbene data la promessa di Dio era attesa con fede incrollabile una numerosa discendenza da Isacco pari alle stelle del cielo e ai granelli di sabbia? Ma se Agar e Ismaele hanno simboleggiato, nell'insegnamento dell'Apostolo, gli uomini carnali dell'Antica Alleanza 135, certamente anche Cettura e i suoi figli simboleggiano gli uomini carnali che si illudono di appartenere alla Nuova Alleanza. Tutte e due sono state definite mogli e concubine di Abramo. Sarra invece non è mai stata indicata come concubina. Anche quando Agar fu assegnata ad Abramo, si dice nella Scrittura: Sara moglie di Abramo designò l'egiziana Agar sua schiava dieci anni dopo che Abramo si era stabilito nel territorio di Canaan e la diede in moglie a suo marito Abram 136. Di Cettura che prese in moglie dopo la morte di Sarra si legge: Di nuovo Abramo prese moglie che si chiamava Cettura 137. In questi passi tutte e due sono dette mogli ma si può costatare che furono ambedue concubine perché in seguito dice la Scrittura: Abramo diede tutta la sua proprietà al figlio e contributi ai figli delle sue concubine e mentre era ancora vivo li allontanò dal figlio Isacco a Oriente, verso il paese orientale 138. Dunque i figli delle concubine hanno sovvenzioni ma non giungono al regno promesso, né gli eretici né i Giudei carnali, perché fuor di Isacco nessuno è erede e i figli della carne non sono figli di Dio ma i figli della promessa sono considerati della discendenza 139, perché di essa è stato scritto: In Isacco prenderà nome da te la discendenza 140. Non scorgo perché anche Cettura, sposata dopo la morte della moglie, sia considerata concubina se non sulla base di questo significato allegorico. Ma se qualcuno non vuole accettare questi fatti come simboli, non accusi Abramo. Potrebbe anche essere una difesa contro i futuri eretici contrari alle seconde nozze in modo da dimostrare perfino mediante il patriarca di molti popoli che non è peccato sposarsi di nuovo dopo la morte del coniuge. Abramo morì quando aveva centosettantacinque anni 141. Lasciò dunque il figlio Isacco che aveva settantacinque anni perché l'aveva generato all'età di cento anni.Simbolismo dei gemelli di Isacco.
35. Ed ora esaminiamo come si svolgano i tempi della città di Dio attraverso i discendenti di Abramo. Dal primo anno di vita di Isacco al sessantesimo, in cui gli nacquero i figli, c'è un fatto degno di memoria. Il Signore aveva esaudito la richiesta di lui che lo pregava affinché la moglie, la quale era sterile, partorisse e mentre lei era ancora nel periodo della gestazione, i gemelli, ancora chiusi nel suo grembo, si urtavano. Essendo angosciata dal fastidio, interrogò il Signore ed ebbe la spiegazione: Due nazioni sono nel tuo grembo e da esso usciranno due popoli rivali e un popolo dominerà l'altro e il maggiore sarà sottoposto al minore 142. L'apostolo Paolo propone che si scorga nell'episodio una grande testimonianza sulla grazia perché, sebbene essi non fossero ancora nati e non avessero fatto nulla di bene o di male, senza alcun buon merito si preferisce il minore e si respinge il maggiore 143. Eppure senza dubbio, per quanto attiene al peccato originale, erano alla pari e riguardo al peccato personale non v'era in nessuno dei due. Però la struttura dell'opera iniziata non ci consente di trattenerci più a lungo sull'argomento perché ne abbiamo abbastanza trattato nelle altre parti 144. Quasi nessuno dei nostri esegeti ha interpretato la frase: Il maggiore sarà sottoposto al minore in altro senso da questo che, cioè, il più anziano popolo dei Giudei sarebbe sottoposto al più giovane popolo cristiano. Può sembrare che si sia adempiuto nella nazione degli Idumei che è sorta dal più grande, il quale aveva due nomi, poiché si chiamava Esaù ed Edom, da cui gli Idumei. Questa nazione doveva essere dominata dal popolo che discendeva dal più giovane, e cioè dal popolo d'Israele e gli sarebbe stata sottomessa. Tuttavia si crede in senso più appropriato che la profezia fosse rivolta a qualche significato più alto perché è espressa con le parole: Un popolo dominerà l'altro e il maggiore sarà sottomesso al minore. E questo è proprio quel che evidentemente si verifica nei Giudei e nei cristiani.Abramo e la promessa divina a Isacco.
36. Isacco ebbe una visione simile a quella che il padre aveva avuto alcune volte. Ne è stato scritto in questi termini: Vi fu una carestia nel paese oltre quella che avvenne in precedenza al tempo di Abramo. Isacco se ne andò da Abimelech, re dei Filistei, in Gerar. Gli apparve il Signore e gli disse: Non andare in Egitto, emigra nel paese che io ti indicherò e abita in esso da straniero, io sarò con te e ti benedirò. Darò questo paese a te e alla tua discendenza e manterrò il giuramento che ho fatto a tuo padre, renderò numerosa la tua discendenza come le stelle del cielo e darò alla tua discendenza tutto questo territorio e saranno benedetti nella tua discendenza tutti i popoli della terra perché Abramo, tuo padre, ha accolto la mia parola e ha adempiuto i miei comandi, i miei ordini, le mie prescrizioni, le mie leggi 145. Questo patriarca non ebbe altra moglie o concubina ma si contentò della figliolanza dei due gemelli nati a un medesimo parto. Anche egli, abitando fra estranei, temette il rischio della bellezza della moglie e si comportò come il padre in modo da indicarla come sorella e dissimulare che fosse la moglie. Gli era cugina da parte del padre e della madre. Anche essa, quando si seppe che era la moglie, non fu violata dagli estranei 146. Tuttavia dal fatto che non ebbe donna fuor della moglie non dobbiamo considerarlo migliore di suo padre. Erano senza dubbio più segnalati i meriti della fede e dell'ossequio nel padre al punto che Dio afferma di fare a lui per riguardo al padre il bene che gli fa. Dice infatti: Saranno benedetti nella tua discendenza tutti i popoli della terra perché Abramo, tuo padre, ha accolto la mia parola e ha adempiuto i miei comandi, i miei ordini, le mie prescrizioni, le mie leggi. In un'altra visione il Signore disse: Io sono il Dio di Abramo tuo padre, non temere, sono con te, ti ho benedetto e renderò numerosa la tua discendenza a causa di tuo padre 147. Dobbiamo capire quindi che, nel rispetto della castità, Abramo ha compiuto ciò che a individui spudorati, i quali cercano dalla sacra Scrittura pretesti alla propria disonestà, sembra aver fatto per libidine. Dobbiamo anche comprendere di non ridurci a confrontare fra di loro gli individui sulla base di pregi particolari ma considerare ciascuno globalmente. È possibile che un individuo abbia nell'esperienza e nel costume una nota con cui supera un altro individuo e che sia tanto più eccellente di quella con cui è superato dall'altro. Perciò stando a un criterio schietto e sincero, sebbene la continenza sia preferibile al matrimonio, è migliore il credente sposato che il celibe miscredente. Ma il miscredente non solo è meno encomiabile ma è da rimproverare a tutti i livelli. Ma prendiamo in considerazione due persone per bene; anche in questo caso è migliore l'individuo sposato molto credente e pieno dell'ossequio dovuto a Dio che il celibe meno segnalato nella fede e nell'ossequio. Se il resto è al medesimo livello, è ineccepibile preferire il celibe allo sposato.La Città di Dio verso la prima giovinezza da Israele a Davide [37-43]
Allegoria della benedizione a Giacobbe.
37. Dunque i due figli di Isacco, Esaù e Giacobbe, si facevano grandi a parità d'età. La primogenitura del maggiore si trasferì al minore per un patto e un accordo fra di loro perché il maggiore desiderò con ingordigia avere le lenticchie che il minore aveva ammannito e vendette al fratello con giuramento i diritti del primogenito 148. Dal fatto impariamo che l'uomo si deve incolpare non per il genere di cibo ma per la bramosia sfrenata. Isacco invecchiava e a causa della vecchiaia veniva a mancare la vista ai suoi occhi. Voleva benedire il figlio maggiore e inconsapevolmente in suo luogo benedì il minore. Questi, in luogo del fratello il quale era peloso, si sottopose al controllo della mano del padre ponendosi addosso delle piccole pelli di capretto come se portasse i peccati degli altri. Affinché questa astuzia di Giacobbe non fosse ritenuta un'astuzia con frode e vi si scorgesse l'allegoria di una grande verità, la Scrittura aveva premesso: Esaù era un uomo esperto della caccia nella steppa, Giacobbe era invece un uomo schietto che rimaneva nella tenda 149. I nostri interpreti hanno tradotto l'aggettivo con le parole senza astuzia. Ma tanto se si dice senza astuzia o schietto o piuttosto senza inganno che in greco è , qual è nel ricevere la benedizione l'astuzia di un uomo senza astuzia? Che cos'è l'astuzia di una persona schietta, quale l'inganno di uno che non mentisce se non una profonda allegoria della verità? E la benedizione di quale tono è? Dice Isacco: Ecco, il profumo di mio figlio è come il profumo di un campo verdeggiante che il Signore ha benedetto. E Dio ti conceda dalla rugiada del cielo e dalla fertilità del terreno grande quantità di frumento e di vino. Ti servano i popoli e i principi pieghino il ginocchio davanti a te. Diventa il padrone di tuo fratello e i discendenti di tuo padre piegheranno il ginocchio davanti a te. Chi ti maledirà sia maledetto e chi ti benedirà sia benedetto 150. Dunque la benedizione di Giacobbe è la proclamazione del Cristo fra tutti i popoli. Questo avviene, questo si compie. Isacco è la legge e la profezia. Anche attraverso la parola dei Giudei Cristo è benedetto dalla profezia come da una che non lo conosce, perché anche essa non è conosciuta. Il mondo, come un campo, si riempie del profumo del nome di Cristo. La sua benedizione proviene dalla rugiada del cielo, cioè dalla pioggia delle parole di Dio, e dalla fertilità della terra, cioè dall'aggregarsi dei popoli. V'è gran quantità di frumento e di vino, cioè il gran numero di fedeli che associano il pane e il vino nel sacramento del suo corpo e sangue. I popoli lo adorano, i principi piegano il ginocchio davanti a Lui. Egli è il padrone di suo fratello perché il suo popolo signoreggia i Giudei. Lo adorano i discendenti di suo padre, cioè i discendenti di Abramo secondo la fede, perché anche egli è discendente di Abramo secondo la razza. Chi lo maledice è maledetto e chi lo benedice è benedetto. Il nostro Cristo, dico, è benedetto, cioè annunziato secondo verità, perfino dalle parole dei Giudei che, sebbene in errore, proclamano tuttavia la Legge e i Profeti. Eppure si pensa che un altro sia il benedetto perché da essi, che sono in errore, se ne aspetta un altro. Si spaventa Isacco quando dal maggiore si chiede la benedizione promessa e si accorge di aver benedetto l'uno per l'altro, si meraviglia e chiede chi sia, ma non lamenta di essere stato ingannato anzi, essendogli stato svelato all'improvviso nel cuore il grande significato religioso, evita lo sdegno e conferma la benedizione. Chi è dunque, disse Isacco, colui che ha cacciato per me la selvaggina e me l'ha portata? Ho mangiato di tutto, prima che tu venissi, l'ho benedetto e rimanga benedetto 151. C'era piuttosto da attendersi la maledizione di lui adirato, se i fatti si avveravano secondo l'usanza terrena e non per ispirazione dall'alto. O fatti avvenuti, ma profeticamente avvenuti, nel mondo ma dal cielo, per mezzo di uomini ma nel volere di Dio! Se si esaminano minutamente i particolari pregni di tante allegorie, si dovrebbero scrivere molti volumi ma la misura da imporre con misura a questa opera ci spinge ad affrettarci verso altri argomenti.Giacobbe e la sua discendenza...
38. 1. Giacobbe fu mandato dai genitori in Mesopotamia per prendervi moglie. Queste sono le parole del padre che ve lo mandava: Non prender moglie dalle figlie dei Cananei. Va' dunque in Mesopotamia nella famiglia di Batuel, tuo nonno materno, e prendi in moglie una delle figlie di Labano, tuo zio materno. Il mio Dio ti benedica e renda grande e numerosa la tua discendenza e sarai nelle associazioni dei popoli. Ti dia la benedizione di Abramo, tuo capostipite, a te e alla tua discendenza, affinché tu possieda il paese in cui abiti come straniero e che Dio diede ad Abramo 152. Dal passo comprendiamo che la discendenza di Giacobbe era già segregata dall'altra discendenza di Isacco avvenuta mediante Esaù. Quando fu detto: In Isacco avrai la discendenza col tuo nome 153, una discendenza, cioè, che apparteneva alla città di Dio, fu distinta da essa l'altra discendenza di Abramo che si aveva già nel figlio della schiava e che si sarebbe avuta nei figli di Cettura. Ma era ancora incerto nei confronti dei due gemelli di Isacco se la benedizione riguardava l'uno e l'altro o uno di loro e, se uno, chi dei due. Ora si esprime chiaramente la prerogativa poiché profeticamente dal padre viene benedetto Giacobbe con le parole: Sarai nelle associazioni dei popoli e Dio ti dia la benedizione di Abramo tuo capostipite.... e la sua visione.
38. 2. Mentre andava in Mesopotamia Giacobbe ebbe una visione in sogno. Ecco il testo: Giacobbe partì dal pozzo del giuramento e s'avviò verso Carran, giunse in una località e vi dormì perché il sole era tramontato. Prese una delle pietre del luogo, la pose sotto la testa, dormì in quel luogo e sognò. Nel sogno vide una scala appoggiata in terra e la sua cima arrivava al cielo, su di essa salivano e discendevano gli angeli di Dio, il Signore si appoggiava ad essa e disse: Io sono il Dio di Abramo, tuo capostipite, e il Dio di Isacco, non temere. Darò il territorio in cui sei coricato, a te e alla tua discendenza. La tua discendenza sarà come i granelli di sabbia e si estenderà verso il Mediterraneo, al Sud, al Nord e verso l'Est e saranno benedette in te e nella tua discendenza tutte le razze della terra. Da questo momento io sono con te per proteggerti dovunque andrai e ti ricondurrò in questo paese perché non ti abbandonerò mentre adempirò tutto ciò di cui ti ho parlato. Giacobbe si svegliò e disse: Il Signore era in questo luogo e io non lo sapevo. Si spaventò e disse: Com'è terribile questo luogo. Non è altro che la casa di Dio e la porta del cielo. Si alzò e prese la pietra che aveva usato come cuscino, la drizzò come lapide e versò l'olio nell'alto di essa. Giacobbe chiamò quel luogo casa di Dio 154. Il fatto appartiene alla profezia. Giacobbe non cosparse di olio la pietra secondo l'usanza dell'idolatria quasi a farne un idolo, non adorò la pietra e non le offrì sacrifici. Ma poiché l'appellativo di Cristo deriva da crisma, cioè unzione, certamente nel fatto si è avuta l'allegoria di un grande significato religioso. È facile intendere che il Salvatore ci richiamava alla memoria nel Vangelo questa scala. In un testo dice di Natanaele: Ecco un vero Israelita in cui non v'è inganno 155. Poi poiché Israele, che è lo stesso Giacobbe, aveva avuto questa visione, nello stesso brano soggiunge: In verità, in verità vi dico, vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo 156.La famiglia di Giacobbe.
38. 3. Dunque Giacobbe andò in Mesopotamia per prendervi moglie. La sacra Scrittura narra per quale circostanza gli avvenne di avere quattro donne, dalle quali ebbe dodici figli e una figlia, sebbene non ne avesse posseduta nessuna disonestamente. Era venuto per averne una, ma siccome gli fu sostituita di nascosto una per l'altra, non abbandonò quella con cui inconsapevolmente s'era unito nella notte affinché non sembrasse che le si era unito per sfregio. In quel tempo, in cui nessuna legge proibiva di prendere più mogli per avere una numerosa discendenza, prese per moglie anche quella a cui aveva assicurato l'impegno del futuro matrimonio. Ma poiché era sterile, offrì al marito la propria schiava da cui avere figli. Anche la sorella maggiore, imitandola, sebbene avesse già partorito, poiché desiderava avere più figli, compì quel gesto. Si legge che Giacobbe ne chiese una soltanto e che si unì a loro unicamente per l'obbligo di avere figli, nel rispetto del vincolo coniugale tanto che non si univa se le mogli non lo reclamavano perché avevano un legittimo potere sul corpo del marito 157. Da quattro donne dunque ebbe dodici figli e una figlia 158. Poi andò in Egitto tramite il figlio Giuseppe che, venduto dai fratelli invidiosi, vi era stato condotto e poi elevato ad una alta carica.Simbolismo dell'appellativo Israele.
39. Giacobbe, come ho detto poco fa, si chiamava anche Israele. È un nome che ha avuto soprattutto il popolo che da lui discende. Gli fu imposto dall'angelo il quale, indubbio portatore dell'immagine di Cristo, aveva lottato con lui che tornava dalla Mesopotamia 159. Il fatto che Giacobbe prevalse su di lui, che evidentemente così volle per allegorizzare significati occulti, simboleggia la passione di Cristo, durante la quale parve che i Giudei prevalessero su di lui. E tuttavia ottenne la benedizione dall'angelo stesso che aveva sconfitto e così l'imposizione di quel nome fu una benedizione. Israele si traduce appunto "chi vede Dio". Questo sarà alla fine il premio di tutti gli eletti. L'angelo toccò a lui che aveva, per così dire, prevalso, la sporgenza del fianco e in questo modo lo rese zoppo. Era dunque lo stesso e medesimo Giacobbe benedetto e zoppo, benedetto in quei che dal medesimo popolo credettero in Cristo e zoppo nei miscredenti. Difatti la sporgenza del fianco significa il gran numero dei discendenti. Vi sono molti infatti in quella razza, dei quali profeticamente è stato predetto: E zoppicando uscirono dai propri sentieri 160.La famiglia di Giacobbe in Egitto.
40. Si ha la notizia che entrarono in Egitto assieme a Giacobbe, lui compreso e i figli, settantacinque persone. Nel numero sono comprese soltanto due donne, una figlia e una nipote. Ma il caso attentamente considerato non conferma che si avesse un numero così elevato di individui nella discendenza di Giacobbe il giorno o l'anno che emigrò in Egitto. Tra loro sono stati menzionati anche i pronipoti di Giuseppe, eppure era assolutamente impossibile che già esistessero. Infatti Giacobbe aveva allora centotrenta anni, il figlio Giuseppe trentanove; egli, come risulta, aveva preso moglie a trent'anni o più. Non si spiega come poté in nove anni avere nipoti dai figli che aveva avuto dalla moglie. Quindi poiché Efraim e Manasse, figli di Giuseppe, non avevano figli ma Giacobbe, emigrato in Egitto, li conobbe fanciulli in età inferiore ai nove anni, per quale ragione sono annoverati non solo figli ma anche nipoti fra le settantacinque persone che con Giacobbe andarono in Egitto? Nel testo, sono menzionati Machir, figlio di Manasse e nipote di Giuseppe e il figlio di Machir, cioè Galaad, nipote di Manasse e pronipote di Giuseppe. V'è inoltre un figlio di Efraim, l'altro figlio di Giuseppe, cioè Utalaam, nipote di Giuseppe e il figlio di Utalaam, Edem, nipote di Efraim e pronipote di Giuseppe. È del tutto impossibile che costoro esistessero quando Giacobbe emigrò in Egitto e trovò i figli di Giuseppe, suoi nipoti e nonni di costoro, ancora fanciulli in età inferiore ai nove anni. Evidentemente l'entrata di Giacobbe in Egitto, quando la Scrittura lo rammenta con i settantacinque familiari, non è relativa a un solo giorno o a un solo anno ma a tutto il tempo che visse Giuseppe, per la cui mediazione avvenne la loro emigrazione. Infatti di Giuseppe dice la Scrittura: Giuseppe rimase in Egitto egli, i fratelli e tutta la famiglia di suo padre, visse centodieci anni e conobbe i discendenti di Efraim fino alla terza generazione. Sono i pronipoti al terzo grado da Efraim. La Scrittura delimita la terza generazione al figlio, al nipote e pronipote. E continua: I figli di Machir, figlio di Manasse, nacquero sulle ginocchia di Giuseppe 161. Anche qui si tratta di un nipote di Manasse e pronipote di Giuseppe. Tuttavia è stato nominato al plurale come fa di solito la Scrittura che ha designato come figlie una sola figlia di Giacobbe. Pur nell'uso della lingua latina i figlioli sono detti al plurale liberi anche se non sono più d'uno. Sebbene si voglia segnalare la fortuna dello stesso Giuseppe, perché poté conoscere i pronipoti, non si deve però assolutamente pensare che c'erano già quando il bisnonno aveva trentanove anni, allorché suo padre Giacobbe si trasferì da lui in Egitto. Quel che inganna coloro, i quali considerano meno attentamente, è l'inserto: Questi sono i nomi dei discendenti d'Israele che emigrarono in Egitto assieme a Giacobbe loro capostipite 162. Si ha questa espressione perché sono calcolate settantacinque persone assieme a lui, non perché erano già tutte insieme quando egli andò in Egitto ma, come ho detto, si calcola come sua entrata tutto il tempo che visse Giuseppe perché in lui viene considerata una entrata.In Giuda allegoria di Cristo.
41. Quindi sull'argomento del popolo cristiano, in cui la città di Dio è esule sulla terra, se ci proponiamo l'umanità di Cristo nella discendenza di Abramo, a parte i figli delle concubine, ci si presenta Isacco; se nella discendenza di Isacco, a parte Esaù che è anche Edom, ci si presenta Giacobbe che è anche Israele; se nella discendenza dello stesso Israele, a parte gli altri figli, ci si presenta Giuda perché dalla tribù provenne il Cristo. Perciò ascoltiamo con quali parole Israele, sul punto di morire in Egitto, nel benedire i figli, benedisse profeticamente Giuda; egli disse: Giuda, ti loderanno i tuoi fratelli. Le tue mani obbligheranno i tuoi nemici a piegar la schiena e davanti a te si curveranno anche i tuoi fratelli. Giuda sei come un giovane leone che sei risalito, figlio mio, dal far preda, accovacciato nella tana ti sei addormentato come un leone e un leoncello. Chi oserà svegliarlo? Non cesseranno i principi da Giuda e il comando dai suoi fianchi finché non giunga il destino che gli è riservato ed egli sarà l'attesa dei popoli. Legando alla vite il suo puledrino e alla tenda il piccolo della sua asina laverà nel vino la sua veste e nel mosto il suo mantello. I suoi occhi sono luminosi per il vino e i suoi denti più bianchi del latte 163. Ho esposto questi concetti nella polemica Contro Fausto il manicheo 164 e penso che sia sufficiente a far sì che risalti l'avverarsi di questa profezia. Difatti in essa la morte di Cristo è preannunziata col termine di sonno e non v'è un destino fatale ma il libero potere nella figura del leone. Egli stesso nel Vangelo fa risaltare questo libero potere con le parole: Ho il potere di offrire la mia anima e il potere di riaverla. Nessuno me la toglie ma io la offro di mia volontà e poi la riprendo 165. Così ha ruggito il leone e ha adempiuto ciò che ha detto. Appartiene appunto a quel libero potere ciò che è stato aggiunto: Chi oserà svegliarlo? Significa che nessun uomo ma egli soltanto che ha detto del suo corpo: Distruggete questo tempio e in tre giorni lo riedificherò 166. Anche il genere di morte, cioè l'altezza della croce, è espresso in una sola parola: Sei salito. Ciò che segue: Accovacciato nella tana ti sei addormentato, dall'Evangelista è espresso con le parole: E chinata la testa morì 167. Vi si configura senza dubbio anche il suo sepolcro in cui si distese per dormire. Da lì nessun uomo lo fece risorgere, come fecero i Profeti con alcuni ed egli con altri, ma da sé si destò come da un sonno. La sua veste, che lava nel vino, cioè rende monda dai peccati nel suo sangue, è senz'altro la Chiesa perché i battezzati sono consapevoli del sacramento di questo sangue e per questo soggiunge: E nel mosto il tuo mantello. I suoi occhi luminosi per il vino sono quelli che appartengono al suo Spirito e che sono inebriati dalla sua coppa di vino, di cui canta il Salmo: Quanto è bello il tuo calice che inebria 168. E i suoi denti più bianchi del latte, di cui, secondo l'Apostolo, come di parole che nutriscono, bevono i bambini non ancora adatti al cibo solido 169. È Egli dunque colui in cui erano riposte le promesse di Giuda e fino a che esse non si avveravano, non sarebbero mai mancati dalla stirpe i principi, cioè i re d'Israele. Ed Egli sarà l'attesa dei popoli è un fatto che è più evidente nella diretta esperienza che per dimostrazione.Allegoria dei figli di Giuseppe.
42. Dunque i due figli di Isacco, Esaù e Giacobbe, hanno suggerito l'allegoria di due popoli nei Giudei e nei cristiani. Tuttavia per quanto riguarda la discendenza razziale né i Giudei ma gli Idumei provengono dalla discendenza di Esaù, né i popoli cristiani ma i Giudei da Giacobbe. In questo senso soltanto ha avuto significato l'allegoria così espressa: Il più grande sarà sottomesso al più piccolo 170. Così è avvenuto per i due figli di Giuseppe, poiché il più grande ha suggerito l'immagine dei Giudei, il più piccolo dei cristiani. Lo mostrò Giacobbe quando li benedisse, perché pose la mano destra sopra il più piccolo che aveva alla sinistra e la sinistra sopra il più grande che aveva alla destra. Al loro padre parve una cosa insopportabile e avvisò il proprio padre quasi a rettificare il suo errore e mostrare quale fosse il maggiore. Ma egli non volle spostare le mani e disse: Lo so, figlio, lo so. Anche questi diverrà un popolo e sarà onorato, ma il suo fratello più giovane sarà più grande di lui e la sua discendenza si distribuirà in un gran numero di popoli 171. Nulla è più evidente che in queste due promesse sono indicati il popolo di Israele e il mondo intero nella discendenza di Abramo, uno secondo la razza, l'altro secondo la fede.La missione di Mosè...
43. 1. Dopo la morte di Giacobbe e di Giuseppe, per i rimanenti centoquarantaquattro anni fino all'uscita dall'Egitto, il popolo ebraico s'accrebbe in maniera incredibile sebbene colpito da tante rappresaglie. A un certo punto venivano perfino uccisi i bimbi maschi perché l'eccessivo aumento della popolazione atterriva gli Egiziani sgomenti 172. Allora Mosè, sottratto con uno stratagemma agli incaricati della strage dei piccoli, fu portato nella casa del re, poiché Dio predisponeva per suo mezzo avvenimenti straordinari 173, e fu allevato e adottato dalla figlia del faraone, nome comune in Egitto a tutti i re. Riuscì uomo di tanto rilievo da sottrarre quel popolo, mirabilmente cresciuto di numero, dall'assai duro e penoso gravame di schiavitù cui soggiaceva, o meglio per suo mezzo Dio che l'aveva promesso ad Abramo. Prima era fuggito dal luogo perché nel difendere un Israelita aveva ucciso un Egiziano ed era stato minacciato 174. Poi mandato per divina mozione nel potere dello Spirito di Dio 175 aveva sconfitto i fattucchieri del faraone che lo contrastavano. Allora per suo mezzo furono inflitte agli Egiziani le dieci celebri piaghe poiché non volevano lasciar partire il popolo di Dio e cioè l'acqua cambiata in sangue, i ranocchi, le zanzare, i mosconi, la morte del bestiame, le ulcere, la grandine, le cavallette, le tenebre, la morte dei primogeniti 176. In ultimo gli Egiziani, mentre inseguivano gli Israeliti che avevano lasciato partire perché abbattuti da tante e sì gravi sciagure, furono sterminati nel Mar Rosso. Il mare diviso tracciò una via a quelli che se ne andavano, il flutto che rifluiva sommerse questi che li inseguivano 177. In seguito il popolo per quarant'anni si trattenne nel deserto sotto la guida di Mosè. Allora fu istituita la tenda dell'alleanza in cui si adorava Dio con sacrifici che preannunciavano il futuro quando era già stata data la legge sul monte in modo terrificante perché la divinità la ratificava con segni e suoni molto evidenti. Avvenne subito dopo l'uscita dall'Egitto, quando il popolo era già entrato nel deserto, cinquanta giorni dopo che la Pasqua era stata celebrata con l'immolazione di un agnello. Esso è simbolo di Cristo perché preannuncia che egli attraverso il sacrificio della croce da questo mondo sarebbe passato al Padre. Difatti Pasqua nella lingua ebraica si traduce "Passaggio" 178. Così si rendeva manifesta la Nuova Alleanza poiché cinquanta giorni dopo che Cristo fu sacrificato come nostro agnello pasquale 179, scendeva dal cielo lo Spirito Santo 180, che nel Vangelo è indicato come dito di Dio 181, per richiamare il nostro pensiero al ricordo del primo avvenimento allegorico perché anche le tavole della legge furono scritte dal dito di Dio 182.... e di Giosuè.
43. 2. Dopo la morte di Mosè diresse il popolo Giosuè di Nun, lo introdusse nella Terra promessa e la distribuì al popolo. Da questi due grandi condottieri furono sostenute delle guerre con sorprendente successo, sebbene Dio desse testimonianza che quelle vittorie provenivano loro non tanto per i meriti del popolo ebraico ma a causa delle colpe dei popoli che venivano sconfitti. Dopo questi condottieri vi furono i giudici, quando già il popolo era sistemato nella Terra promessa. Così frattanto cominciava ad essere adempiuta la prima promessa, fatta ad Abramo, relativa a un solo popolo, quello ebraico, e alla terra di Canaan 183, non ancora a tutti i popoli e al mondo intero. L'avrebbe adempiuta la presenza di Cristo nell'umanità, non l'osservanza della vecchia legge, ma la fede del Vangelo. Ne è allegoria profetica il fatto che non fu Mosè, il quale sul monte Sinai aveva ricevuto la legge per il popolo, a introdurlo nella Terra promessa, ma Giosuè, al quale per ordine di Dio era stato cambiato il nome 184. All'epoca dei giudici, nel rapporto fra le colpe del popolo e la misericordia di Dio, si alternano successi e insuccessi militari 185.Fino a Davide dalla fanciullezza alla prima giovinezza.
43. 3. Si giunse all'epoca dei re. Il primo fu Saul. A lui destituito e ucciso durante una sconfitta 186, ed essendo anche radiata la sua stirpe dal rango dei re, gli successe nel regno Davide. Soprattutto di lui il Cristo fu detto figlio. Con lui si aprì un periodo e in certo senso l'inizio della giovinezza del popolo di Dio, di cui la quasi adolescenza si era protratta da Abramo a Davide. Non senza ragione l'evangelista Matteo ha ordinato le generazioni in modo da segnalare con quattordici generazioni un primo lasso di tempo, cioè da Abramo a Davide 187. Con l'adolescenza appunto l'uomo inizia a poter generare e per questo l'inizio delle generazioni fu intrapreso da Abramo che fu costituito anche patriarca dei popoli quando ebbe mutato il nome. Prima di lui dunque, cioè da Noè fino allo stesso Abramo, si ebbe come la fanciullezza di questo modo di essere del popolo di Dio e perciò si concretizzò nella lingua, quella ebraica. Infatti l'uomo comincia a parlare dalla fanciullezza che segue all'infanzia la quale è stata così denominata perché l'uomo è privo di favella. L'oblio sommerge questa prima età dell'uomo come la prima età del genere umano fu distrutta dal diluvio. Difatti non v'è nessuno che ricordi la propria infanzia. Perciò come in questa evoluzione della città di Dio il libro precedente ha svolto soltanto la prima età, così questo svolgerebbe la seconda e la terza. Nella terza appunto, in considerazione della giovenca, della capra e dell'ariete, tutti e tre dell'età di tre anni, fu imposto il giogo della legge, si manifestò il gran numero dei peccati e si ebbe l'inizio del regno terreno, però non mancarono gli spirituali dei quali si manifestò l'allegoria nella tortora e nel colombo 188.PARTE TERZA (3)
Il diario - Beata Elisabetta Canori Mora
Leggilo nella Biblioteca70 – L’AIUTO DEL SANTO RIFORMATORE TRINITARIO
70.1. La via che conduce al santo monte
Il dì 5 febbraio 1823, la notte mi trattenevo in orazioni, nel qual tempo tornai a vedere il suddetto monte, il Signore invitava la povera anima mia ad intraprendere il viaggio, ma io mi ritrovavo molto combattuta, perché avrei voluto subito accettare l’invito, per compiacere il mio Dio, ma un santo timore arrestava il mio passo, mi confondevo ancora per non sapere come intraprendere un incognito viaggio, così malagevole e disastroso.
Ero per questo mesta e dolente, piena di lacrime mi rivolsi al mio Dio e così gli dissi: «A me non mi dà l’animo di salire questo altissimo monte, le mie forze sono troppo deboli».Così mi intesi rispondere: «Hai ragione: né con le tue forze, né con la sola grazia ordinaria potresti al certo salire questa altura; ma sappi però che io sono per comunicarti una particolare grazia, perché tu possa intraprendere questo beato cammino, vieni con me ed osserva la via che conduce al santo monte. Questa è una via occulta e nascosta, non è a tutti palese la maniera di salire questo monte, a me solo è riservata io solo posso condurci quelle anime che più mi piacciono, senza far torto ad alcuno, perché io sono padrone dei miei doni, non c’è anima che possa questa grazia meritare, per quanto si adoperi per amor mio. figlia, il dono è gratuito, rifletti bene, quanto mi devi ringraziare!».
A queste divine parole l’anima mia profondamente si umiliò e liquefacendosi di tenerezza, d’amore e di santo timore insieme, tutta in lacrime si disciolse, con tanto affetto e amore, che non ho termini di poterlo spiegare.
In questo tempo il mio Dio mi condusse nell’interno del monte, e mi fece vedere la strada che alla sommità di detto monte conduceva. Allora l’anima mia esclamò con vivo affetto: «Mio Dio, quanto mai siete grande nelle vostre operazioni! Oh quanto è grande la vostra infinita bontà! L’anima mia resta sorpresa fino al grado di timore; per l’eccesso della vostra infinita carità il mio intelletto vien meno, e affatto si perde nell’eccessivo vostro amore». Con queste ed altre simili espressioni andavo sfogando la fiamma della carità che ardeva nel mio cuore.
Per non tediare tanto vostra paternità reverendissima non sto qui a ridire quanto lungo fosse lo sfogo d’amore e gli umili sentimenti con cui l’anima si trattenne con il suo Dio, e la ripulsa che fece prima di intraprendere il suo viaggio al monte santo; solo dirò che si degnò di condiscendere agli umili desideri che mi venivano comunicati dalla sua santa grazia, desideri erano questi di non oscurare la gloria di Dio; riconoscendomi affatto indegna di calcare la strada di quel santo monte, così dicevo piangendo: «Ah mio Dio, mi riconosco troppo indegna di questo favore! Abbiate riguardo alla vostra gloria, non mi conducete in questo monte santo, perché io sono la creatura più vile, più indegna che abita la terra, sono la stessa abominazione. Mio Dio, prima degnatevi di purificarmi nel vostro prezioso sangue, perché non sia tanto disonorata da me la vostra santità».
Si compiacque di esaudire la mia povera preghiera, e mi promise di purificarmi prima di farmi intraprendere il detto cammino, come di fatti seguì.
Tre giorni si trattenne il mio spirito ai piedi del santo monte, preparandosi con ritiro, mortificazioni, orazioni e dolore dei propri peccati, con atti di profonda umiltà e con lacrime abbondantissime, che mi venivano comunicate dalla grazia del Signore, compartendomi una propria cognizione, che mi faceva conoscere la mia propria viltà e miseria, riconoscendomi indegna di tanto favore mi trattenni in questi tre giorni lodando e benedicendo Dio, il quale si degnò di ammaestrarmi nella pratica delle sode e vere virtù, segnatamente della carità verso Dio e verso il prossimo.
70.2. I fondatori trinitari mi condussero verso il monte santo
Il giorno 8 febbraio 1823, festa di san Giovanni de Matha, fondatore dell’ordine trinitario, il mio spirito, con l’aiuto del Signore, intraprese il suddetto viaggio.
Ecco il fatto come seguì: fino dal giorno 7, vigilia del detto santo, il mio spirito sperimentò in se stesso un grande raccoglimento, unito ad una profonda umiltà. La mattina dell’8, nella santa Comunione viepiù si accrebbero in me questi umili sentimenti, riconoscendomi affatto indegna di intraprendere il suddetto santo viaggio, a questo oggetto mi portai dal mio padre spirituale, e dopo aver fatto una dolente confessione dei miei peccati, piangendo gli dissi: «Padre, come ministro del Signore lei deve zelare l’onore di Dio, dunque non permetta all’anima mia di salire il monte santo, perché Dio resterà da me disonorato. Padre questa è una grande pena per me».
Il mio padre spirituale così mi rispose: «Io voglio che siate umile, ma non vile, dovete confidare in Dio, lui vi invita, voi dovete accettare l’invito, confidate in Dio e non abbiate paura, ché lui vi darà la grazia di corrispondere con fedeltà a quanto vuole da voi, vi dico che non solo ve lo consiglio, che intraprendiate questo santo viaggio, ma ve lo comando. Non voglio assolutamente che rinunciate ai favori di Dio. Andate, andate», mi disse, «che siete una sciocca! Qualunque grazia vi possa fare Dio non sarà mai tanto grande in paragone di quella che vi ha creata e redenta con il suo prezioso sangue».
Alle parole del mio padre, mi umiliai profondamente, conoscendo che diceva benissimo, che io sono una sciocca col ricusare i favori di Dio.
Persuasa di questa verità, chiesi perdono al mio Dio, feci la rinnovazione dei voti, come mi aveva imposto il mio padre, ed accettai l’invito.
Nel tempo che si celebrava la messa cantata, nella chiesa dei trinitari, ecco cosa seguì nel mio spirito. Mi parve di ritrovarmi ai piedi di detto monte santo, Dio per sua bontà mandò un raggio di luce sopra di me, tanto forte e potente, che non solo purificò il mio spirito, ma gli comunicò una chiarezza indicibile, che mi rese tanto bella che non si può immaginare, nonostante che mi vedessi così bella, in luogo di compiacermi, mi sprofondavo umilmente, confessando la mia viltà, rendevo onore e gloria al mio Dio che si era degnato di ammantarmi con il suo divino splendore; vedevo dunque il mio spirito così risplendente e bello, vestito dell’abito trinitario. Il mio spirito si era prostrato sul suolo con la fronte per terra, umiliandosi fino al profondo del suo nulla, ammirando solo l’infinita bontà di Dio, che si degnava comunicarmi la sua divina grazia.
In questo tempo mi parve di vedere uno stuolo immenso di padri trinitari già trapassati all’altra vita, queste sante anime di già gloriose in cielo, venivano a schiere a schiere, uniti a molti santi angeli, venivano a rallegrarsi con la povera anima, per l’ottenuto favore. Dio, per la sua infinita bontà, faceva pompa della sua carità usata verso di me, si compiaceva mostrarmi a tutti quei beati cittadini del cielo. Oh come veniva glorificato Dio da tutti quei beati comprensori! oh come tutti si rallegravano con la sua infinita bontà!
Dio allora manifestò a tutti quei cittadini celesti l’opera che era per fare con questa sua creatura, manifestò ancora per qual fine tanto mi benefica. Così disse Dio: «Oggi sia manifesto in cielo. Verrà il giorno che sarà manifesto agli uomini: tutti dovranno confessare che questa è opera mia!». Tutto questo fu detto con voce sonante e sonora.
In questo tempo il mio spirito se ne stava, per umiltà e per il timore, annientato in se stesso, con la fronte sul suolo, per il grande timore, nonostante che il mio spirito fosse tutto raggiante di luce; si approssimarono i santi fondatori trinitari e mi sollevarono da terra, mi fecero fare tre profondissimi inchini ad onore della santissima Trinità, condussero l’anima mia per la strada del monte santo, assicurandomi di proteggermi e di guidarmi, dandomi la loro santa benedizione da me si partirono, lasciando nel mio cuore un indicibile contento. Piena di coraggio, sperando nella loro valevole intercessione, così l’anima mia diede principio a questo santo viaggio del monte santo, dove al presente si trova; a suo luogo dirò quanto mi andrà seguendo.
70.3. Accetta con umiltà la sua grazia
Il dì 14 febbraio 1823, festa del beato Giovanni Battista, riformatore dell’ordine trinitario, la mattina nella santa Comunione si sopì il mio spirito in Dio in modo molto particolare, restai astratta dai sensi, il Signore mi comunicò un lume molto particolare di propria cognizione; in questa umile situazione mi portai a San Carlo alle Quattro Fontane per ivi assistere alla Messa cantata, mi prostrai in ginocchioni, e così immobile restai per due ore circa, senza più distinguere la mia sensibilità; questo tempo lo passai in umili preghiere e abbondanti lacrime, che dagli occhi versavo in gran copia raccomandandomi al santo riformatore ad ottenermi la remissione dei miei gravissimi peccati, e la grazia di salvare questa povera anima mia. Lo pregavo ancora incessantemente a farmi conoscere se io andavo ingannata dallo spirito delle tenebre; sfogavo ancora, con questo benedetto santo, i miei sentimenti, le mie afflizioni, il mio aggravio nell’avere acconsentito al surriferito favore di Dio, così gli dicevo: «Come volete, santo mio benedetto, che io possa di buona voglia acconsentire di essere trinitaria, se sono la creatura più vile che abita la terra, come? io che sono una stracciona, un’ignorante, come potrò sostenere un simile incarico? Ah, santo mio benedetto, pensateci voi di pregare l’Altissimo, acciò si degni assentarmi da questo forte incarico, mio Dio, io rinunzio a questa grazia, a questo favore».
Piangevo intanto dirottamente: «Mio amorosissimo Dio, rinunzio, sì rinunzio a questo vostro favore, per non disonorare la vostra divina maestà! Mio Dio, voi pure lo sapete che io sono una povera spergiura, santo mio benedetto pensateci voi, che non venga da me disonorato Dio, che tanto cara mi è la sua gloria, il suo onore. Ah, non sia mai vero che per innalzare un verme vilissimo della terra, quale io sono, abbia da oscurarsi la gloria di un Dio di infinita maestà! Santo mio glorioso, zelate voi l’onore di Dio».
Speravo che le mie ragioni avessero convinto il santo zelo del beato Giovanni, mi pareva che i miei sentimenti fossero giusti e prudenti, e che il santo avrebbe preso a difendere l’onore di Dio con l’escludere a me da questo incarico ma fu tutto al contrario di quello che pensavo. Così mi rispose il santo, non facendosi però da me vedere: «Figlia mia», mi disse, «non ti negare ai favori dell’altissimo Dio, adora i suoi divini giudizi, accetta con umiltà la sua grazia».
A queste parole del santo, intesi tutta commuovermi, conoscendo il suo giusto parlare, e la mia stoltezza nel rifiutare le divine misericordie.
Ravveduta, dunque, volevo accettare di buon grado, ma non potevo, perché un forte timore me lo impediva, perché ponevo lo sguardo sopra la mia viltà, non mi reggeva il cuore di attendere a questa grande opera; tornai nuovamente a dire al santo: «Ah, che io mi trovo insufficiente, sono affatto incapace di regolare un’opera sì grande; voi, santo glorioso, sapete quanta fatica vi è costata, quanto avete patito e sofferto».
«Sì», mi rispose il santo: «è vero, mi costò grande fatica, ma tu non devi tanto faticare! altro non devi fare che venire appresso alle mie norme, questo ti basta per compiacere la divina maestà. Mira», mi disse, «o figlia, quanto facile ti sarà il regolare questa opera! Dio con la sua grazia ti faciliterà l’impresa».
Allora mi fece vedere una macchina quanto mai bella, stabile, ma nello stesso tempo movibile, ma io non la so descrivere. Dopo avermi fatto vedere questa bella macchina, soggiunse: «Ti pare adesso tanto ardua l’impresa, tu altro non devi fare che stare al registro di essa. Non temere, che Dio medesimo è l’autore e il regolatore di questa grande opera».
A questa vista restai altamente confusa e convinta, perché conobbi ad evidenza la mia ingratitudine di non voler fare tanto poco per compiacere il mio Dio, gli chiesi per questo umilmente perdono, poi tornai a pregare il santo così: «Mio carissimo padre, deh, per pietà, non mi abbandonate come meriterei, deh vi prego di proteggermi, vi dono la mia volontà, voi presentatela al mio Dio, acciò disponga di me come più gli aggrada».
Rivolta poi a Dio dissi: «Deh, mio amorosissimo Signore, degnatevi di ricevere la mia volontà per le mani di questo vostro fedelissimo servo, io ve la dono, ve la consacro, io ve la offro interamente, fate di me ciò che vi aggrada».
Fatta questa offerta Dio mi fece provare una consolazione di spirito tanto grande, che non lo posso spiegare, un abbandono totale della mia volontà nella divina volontà di Dio, tanto perfetta che può chiamarsi un’intima unione.
Dopo aver goduto questo grande bene, il mio Dio si degnò darmi a vedere il suo fedelissimo servo, il beato Giovanni Battista della santissima Concezione; cosa mai dirò della sua bellezza, della sua gloria? al certo non mi è possibile il poterlo manifestare; ma pure dirò qualche cosa, per non mancare alla santa obbedienza.
Io lo vedevo in atto estatico, tutto assorto in Dio, con tre raggi di splendida luce sopra il suo capo, che lo rendeva tanto bello, che non si poteva mirare il suo volto, per lo splendore.
Dalla croce del suo scapolare scintillava tanto splendore, che non si poteva fissare in lui lo sguardo, questa vista destò in me molta stima e venerazione, ed insieme un indicibile contento, che non posso esprimere, ma questo contento era unito ad un profondo di umiltà, che mi annientava in me stessa e mi faceva solo ammirare l’infinita bontà di Dio.
In questo tempo vidi apparire il glorioso stendardo trinitario, con grande numero di anime dei santi religiosi che militano sotto questo glorioso stendardo, accompagnati da molti santi angeli, che festosi facevano coro cantando inni di gloria all’Altissimo, con somma gioia fu annoverata la povera anima sotto questo glorioso stendardo della santissima.
70.4. Dio solo sa quanto mi costano questi scritti
Per ordine del mio padre spirituale riporto le gravi molestie che ho dovuto soffrire dal nemico tentatore, che voleva a tutto suo costo impedire che io scrivessi quanto passa nel mio spirito nel tempo delle orazioni, con le sue diaboliche suggestioni mi ha sempre perseguitata, acciò non scrivessi; solo Dio sa quanto mi costano questi scritti, quante fatiche e pene ho dovuto soffrire dalla diabolica suggestione, che si trova sempre pronta, quando scrivo per confondermi e farmi credere che quello che passa nel mio spirito nel tempo delle orazioni altro non è che un gioco della mia fantasia alterata, che mi fa vedere tutte quelle rappresentanze fantastiche.
La suggestione mi dice: «Non curare, né raccontare al confessore quello che ti salta per il capo nel tempo dell’orazione, disprezza tutte queste cose, se no andrai ad intisichire, vedi quanto aggravio ti porta il vivere così tediata e concentrata, sciocca che sei, potresti fare una vita allegra e contenta senza tanti pensieri; lascia lo scrivere, non far caso a quanto segue nel tuo spirito, allora potrai divertirti e stare allegra, non dare ascolto al confessore che non sei obbligata di obbedirlo quando ti comanda imprudentemente».
Non solo queste, ma tante altre cose mi suggeriva per persuadermi di lasciare affatto la vita interiore, era tanto forte la tentazione che mi dava gravissima angustia e molte volte sono stata sul punto di stracciare i miei scritti in minutissimi pezzi.
Il nemico mi voleva persuadere dicendomi che andavo formando il mio processo, che questi scritti sarebbero stati l’eterna mia condanna, a queste forti suggestioni io sentivo una pena grandissima, perché mi si ottenebrava la mente e non potevo discernere il vero dal falso, tanto più che mi diceva la verità. «Non vedi», diceva, «che sei una sciocca senza senno, non sei capace al certo di penetrare tanto alto, sei una miserabile, sei un’indegna, in te altro non c’è che sogni e vaniloqui».
Queste ragioni mi pareva che mi quadrassero, perché è vero, verissimo che io sono una scellerata, una sciocca, una insensata, perché ho offeso tante volte gravemente il mio Dio tanto buono; a questo riflesso mi mettevo a piangere e facevo forte ricorso al mio Signore Gesù Cristo, il quale, per sua infinita bontà, immantinente mi dava soccorso con l’illustrare la mia mente; così conoscevo il vero dal falso spirito, che mi voleva subornare con le sue menzogne, così tornava la calma al mio cuore e godevo una pace di paradiso, e una semplicità molto particolare mi campartiva Dio, allora raccontavo tutto al mio Dio quanto mi era seguito come se Dio niente ne sapesse di quanto avevo io patito e questo lo facevo con tanta puerilità, tutta propria dei fanciulli, quando raccontano ai loro genitori le loro angustie, così si convertiva la mia luttuosa scena, in un paradiso di contento, e potevo scrivere tranquillamente per molti giorni, ma poi si tornava da capo a combattere con la medesima suggestione e prosegue a molestarmi tuttora quando scrivo i noti fogli.
Ma non tutte le volte mi era permesso né potevo fare questo ricorso al mio Dio, perché permetteva il Signore che la diabolica suggestione mi inviluppasse di più la mente, e così dovevo patire e soffrire pene molto grandi, perfino a sospendermi le potenze dell’anima; in mezzo alla confusione delle suggestioni, che io non capivo più, tenevo le carte avanti ma non potevo fare neppure una parola, sentivo uno stringimento interno che mi pareva di morire, non ricordarmi più le lettere che compongono le parole, scrivevo una lettera per un’altra, scrivevo affatto fuori di senso.
Nel vedere questi cattivi effetti, ero ancora tentata di impazienza contro me stessa e contro ancora il mio direttore, per avermi imposto questa obbedienza, per quanto mai io possa dire, mai dirò quanto mi costino questi scritti, torno a dire che solo Dio lo sa, che mi ha dato la forza, la grazia di superare questi forti ostacoli.
Per ordine del mio padre spirituale prendo a raccontare un’altra sevizia sofferta dalla diabolica suggestione.
Nell’anno 1823, in cui ci troviamo, per la grazia di Dio, nel mese di febbraio, giorno 17, la sera stavo nel mio oratorio trascrivendo dal giornale vari fatti accadutimi negli scorsi mesi di ottobre, novembre e dicembre, per darne il dovuto discarico al mio padre spirituale. In questo tempo mi assalì improvvisamente la suggestione diabolica, che provò a fare crudo scempio di me, cosa non disse, cosa non fece per sovvertirmi, poco mancò che io non facessi in minutissimi pezzi i miei scritti, tanto fu la diabolica oppressione e l’angustia che mi dava, dicendomi: «Strappa quei fogli, che queste non sono cose da darsi alla luce, è un grande sciocco quell’uomo del tuo confessore, che ti fa scrivere queste baggianate, tu sei una pazza e non ti avvedi che dici cose che sono affatto non solo credibili, ma del tutto impossibili; queste sono cose tutte da riprovarsi e non da approvarsi. Non ti fidare, ché il tuo confessore ti inganna, bella figura fai tu di sollevarti tanto alto! non vedi che sei una miserabile, che sei piena di miserie e peccati?».
A queste verità io viepiù mi inviluppavo, perché conoscevo essere questa verità, che sono la creatura più miserabile, più peccatrice che abita la terra.
In questo caso così funesto mi rivolsi al mio Dio, piangendo dirottamente, confessando questa verità che sono una miserabile, una peccatrice. Mi posi in ginocchioni, con la fronte per terra, ed in questa positura mi trattenni più di mezz’ora, invocando il nome santissimo di Gesù, facendo fervide preghiere, ottenni la liberazione di questa diabolica molestia, ad un tratto tornò la calma al mio cuore, così potei tornare a scrivere con somma pace e tranquillità, godendo una quiete di paradiso.
71 – TI INVITO A MORIRE IN CROCE
71.1. Doloroso viaggio al Getsemani e al Calvario
Il dì 10 febbraio 1823, la sera del giovedì, circa le ore due di notte italiane, stavo nel mio oratorio, quando improvvisamente si concentrò il mio spirito, per attendere ad una intima chiamata del suo Signore; non sapendo cosa dovevo fare, stavo tutta raccolta e concentrata, aspettando l’ordine del mio Signore. Ecco che tutto ad un tratto sono condotta da mano invisibile all’Orto di Getsemani, e quivi sono invitata a patire, a soffrire le ambasce già sofferte dal nostro divino Redentore; ecco che fui assalita da gravissimo affanno e da pene intensissime, la desolazione, la mestizia, il timore, mi facevano agonizzare l’anima; mi trattenni in questo doloroso conflitto buone tre ore, che credevo veramente di finire la vita, per gli interni ed esterni patimenti, un gelido sudore bagnava tutto il mio corpo, uno svenimento interno mi privava di forze, la desolazione, la tristezza interna mi rendeva incapace di ogni umana sensazione; in questo stato, alla meglio che potei, mi coricai nel letto, per dare alquanto riposo alle mie afflitte membra, ma quando credevo di aver terminato il patire, e pensavo di dare qualche conforto all’afflitto mio spirito, fui nuovamente invitata a fare il viaggio afflittivissimo del monte Calvario.
L’anima mia, nonostante che si possa dire semiviva per le pene sofferte nel Getsemani, non ricusò l’invito, ma piena di coraggio, affidata al divino aiuto e agli infiniti meriti di Gesù Cristo, intraprese il doloroso viaggio.
Cosa mai patì, io non so dirlo! perché fu tanto grande e grave l’acerbità delle pene che soffersi, interne ed esterne, che restarono preoccupate le potenze dell’anima e i sentimenti del corpo; in mezzo a tante ambasce, che posso dire di essere stata immersa in un mare amarissimo di affanni e di pene, che io medesima che le soffrivo non le comprendevo, perché superavano la mia ragione, il mio intendimento, le mie forze; io debbo confessare, a mia confusione, che se non perdetti la vita in questo dolorosissimo conflitto, si deve attribuire alla particolare grazia di Dio, che si degnò sovvenire l’anima e il corpo. Io non so dire se terminato il doloroso viaggio l’anima fosse ancora crocifissa, perché l’intenso dolore del viaggio mi privò affatto di ogni altra cognizione.
Il fatto si è che, per lo strazio sofferto, interno ed esterno, mi si agitarono tutti gli umori del corpo, e mi venne una febbre tanto gagliarda e forte, che mi durò tre giorni continui, e dovetti guardare il letto, sentendomi molto male; questo fu sabato, domenica e lunedì.
71.2. Desidero diventare santa
Il martedì notte, 15 febbraio 1823, il Signore si degnò confortare il mio spirito e guarire il mio corpo con la sua divina presenza, stando tutta la notte in mia compagnia, mentalmente trattenendosi con il mio spirito in santi ragionamenti, comunicandogli particolari illustrazioni, mi fece sperimentare gli affetti più vivi del suo santo amore; oh come l’anima mia apprendeva le celesti dottrine che le insegnava il suo divino maestro! oh come si struggeva di santo e puro amore, disfacendosi in lacrime tenerissime di santi affetti, oh come si umiliava profondamente, desiderando di possedere tutte le sante virtù, per piacere al suo divino maestro! oh come desiderava di imitare i suoi esempi! oh quanto desiderava di diventare perfetta e santa, a sua maggior gloria!
Oh notte santa! oh notte benedetta, che si degnò Dio di tanto favorire l’anima mia! oh notte degna che un’altra simil notte forse per me non tornerà più, perché sono tanto scellerata, tanto peccatrice, che sono indegna di simili favori di Dio, perché non mi so approfittare delle sue divine misericordie, ma sempre ingrata qual tigre ircana ai benefici del mio Signore.
Ah, mio amorosissimo Dio, quando sarà che io termini di essere tanto ingrata con voi, che siete con me lo stesso amore, la stessa bontà? ah, mio buon Dio, io sono risoluta di corrispondervi con fedeltà, fino all’ultimo respiro della mia vita, vi supplico, con il più vivo sentimento del cuore, a concedermi la grazia della corrispondenza e della perseveranza.
La mia malattia, che compariva molto seria sul principio, in un istante cessò; perché, come già dissi, il Signore, per sua bontà, mi guarì in un istante, e così potei lasciare di guardare il letto, avendo riacquistato le primiere forze.
Non lasciò Dio, per sua bontà, di consolare la povera anima mia, che si trovava in una penosa desolazione di spirito, ma di tratto in tratto la favoriva con certe locuzioni interne, e così si faceva sentire dalla desolata anima mia, la quale esultava, in mezzo a quelle folte tenebre, al suono della sua divina voce; oh come in un momento passava dalla desolazione alla consolazione, e in un momento passava dalle tenebre alla luce, e dall’aridità passava ad una gioconda soavità; i miei occhi inorriditi ed asciutti in un momento erano arricchiti di abbondantissime lacrime, uniti ai sentimenti più eccellenti delle sode e vere virtù.
Ma tutto questo bene, o Dio, a mia confusione lo dico, non erano in me permanenti, ma solo duravano tanto quanto Dio si degnava trattenersi con me, appena Dio si ritirava la povera anima tornava nella sua amarissima desolazione, soffrendo pene non meno che mortali, che mi facevano agonizzare.
71.3. Buona a niente
In questa penosa situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di 24 giorni, cioè dal dì 25 febbraio 1823 fino al 19 di marzo del detto anno.
Riporto varie locuzioni interne, con le quali Dio consolava in questo tempo di desolazione il mio spirito, come mi istruiva e riprendeva nei miei difetti e mancanze.
Locuzioni interne o siano colloqui tenuti fra Gesù e l’anima nel mese di marzo 1823.
L’anima, conoscendo la sua viltà e miseria, si lamenta con il suo Dio, perché così imperfetta l’abbia condotta al monte santo, il quale è abitato da sante anime perfette, che possiedono tutto il cumulo delle sante virtù.
L’anima parla con se stessa e dice: «Come io, miserabile peccatrice, potrò salire questo santo monte, carica di miserie e peccati, se gli abitatori di questo santo luogo sono giusti e perfetti?».
Da questi umili sentimenti sopraffatta, l’anima fa un dolce ed amoroso rimprovero al suo amante Signore per averla condotta a questo santo monte, l’anima parla con Dio: «Mio Dio, il vostro infinito amore mi ha condotto in questo santo monte di altissima perfezione, gli abitatori di questo sono anime a voi carissime, come dunque volete voi che io, che sono tanto vile e peccatrice, possa abitare questo santo luogo? Io, Gesù mio, ve lo dicevo, non mi ci conducete, che ci farete una triste figura! I santi abitatori di questo luogo reclameranno alla vostra divina giustizia, e con ragione diranno: «Non vogliamo fra noi questo cane morto, che il suo puzzo ci nausea». Mio Dio, hanno ragione queste anime giuste di lamentarsi, io ve lo dicevo che il troppo amore che mi portate vi avrebbe fatto essere redarguito dai vostri servi fedeli, Gesù mio, voi mi ci avete spinta, voi mi avete obbligata di intraprendere questo cammino, io non volevo accettare l’invito, voi mi faceste intendere che il vostro amore sarebbe restato offeso e disgustato se io non obbedivo, dunque, per non disgustarvi, io prontamente obbedii ed accettai l’invito, sperando certo nella infinita bontà. Il vostro divino aiuto, e mediante la vostra santa grazia, che debbo confessare di provarne i buoni effetti, sentendo la mia volontà piena di santi desideri, disposta a patire grandi cose per potervi piacere; ma, Gesù mio, quanto mi confondo, perché mi vedo che non sono buona a niente, mi vedo senza virtù, e come dunque io potrò piacere a voi, che siete la stessa santità? Ah Gesù mio, ditemi voi cosa devo fare per potervi piacere, datemi voi tutte le sante virtù, così mi vedrete contenta, vedete in che stato di afflizione si trova il mio povero cuore per vedersi così povero, vedete quanto piango. Deh per pietà, muovetevi a compassione di me, Gesù mio, a voi mi raccomando per la vostra passione e morte, consolatemi per carità.
Gesù si degna rispondere all’anima: «Figlia, non ti affliggere, ma consolati, che ne hai giusta ragione, la mia grazia ti dà a conoscere la perfezione; vorresti praticarla, ma le forze ti mancano e per questo tanto ti angusti; figlia, confida in me, e non temere! Io non pretendo già dai miei servi quello che non possono fare, senza la mia particolare grazia, tu vorresti arrivare a tenere il tuo sguardo fisso in me, a non pensare che a me, a non parlare che di me».
L’anima risponde: «Ah, mio Signore, questo è quello che desidero, di fissare il mio sguardo in voi per mai più ritirarlo».
Gesù risponde all’anima: «Figlia, questo non è permesso alle anime viatrici, ma solo ai comprensori beati».
L’anima risponde: «Dunque fino che vivo su questa terra, io non potrò fissare il mio sguardo in voi, mio amorosissimo Dio, e se non lo posso ottenere, come dunque questo desiderio io lo sento tanto vivo in me, che per arrivare ad ottenere questa grazia, mio Dio, sarei pronta a fare qualunque sacrificio; ah Gesù mio, quanto sarei felice, ma voi mi dite che questo non è permesso alle anime viatrici, dunque questo che io vi chiedo non è giusto e forse non piace a voi. Gesù mio, ditemi come devo fare, questo desiderio è tanto forte che non posso fare a meno di non abbracciarlo con tutto il sentimento del cuore, degnatevi dunque dirmi Gesù mio cosa devo fare per piacervi e come posso rimediare a questi ingiusti miei desideri».
Gesù risponde all’anima: «Figlia, questi desideri nascono da quelle illustrazioni interne che io ti comparto, la cognizione che io ti dono del mio infinito essere ti fa conoscere il grande bene che sia di possedermi, tanto maggiore sarà la cognizione che acquisterai per mezzo della mia divina grazia, tanto più si accrescerà in te il desiderio di possedermi; figlia, non chiamare ingiusti questi santi desideri, perché sono originati dalla mia grazia, coltivali e non li disprezzare, umilmente ricevili e rendi a me le dovute grazie; sappi che questi sono favori molto speciali che non a tutte le anime io li comparto: se non puoi arrivare a tenere lo sguardo fisso in me, come io per compiacenza lo tengo fisso in te, non ti meravigliare di questo, perché io sono immenso e tu sei creatura limitata di fragil corpo rivestita; figlia, non puoi passare tanto oltre; ma, quando godrai la visione beatifica, ti sarà tolto ogni ostacolo, e allora potrai fissarmi per tutta l’eternità, desidero martirizzi il tuo cuore e il mio amore ti insegni a patire. Deh mirami, o figlia, sopra di una croce, come fui trafitto e schernito, io meco ti invito in croce a morire».
L’anima risponde: «Gesù mio, le vostre parole di vita eterna riempiono il mio cuore di dolcezza e di soavità, sebbene voi non mi parlate che di croce e di pene; ma convinta da queste infallibili verità, sento, per mezzo della vostra santa grazia, tutta la buona disposizione al patire, e adesso conosco che questa è la vera ricchezza dell’anima; sì, mio Dio, datemi da patire quanto vi piace, ma ricordatevi però che sono una povera miserabile, una povera peccatrice; Gesù mio, aiutatemi voi, per carità, deh non mi abbandonate in mezzo ai patimenti, aiutatemi con la vostra santa grazia che sono certa di tutto vincere e superare».
Gesù risponde all’anima: «Abbandona te stessa e troverai me; sta senza elezione e senza alcuna proprietà, se mi vuoi piacere, rasségnati umilmente alla mia volontà, tanto nelle piccole tribolazioni quanto nelle grandi, non eccettuo niente, ma voglio che ti spogli di ogni cosa, altrimenti come potrai esser mia ed io tuo, se tu non sarai spogliata di dentro e di fuori di ogni propria volontà? quanto più presto ciò farai, tanto più mi piacerai e molto più guadagnerai».
L’anima risponde: «Ah mio sapientissimo Signore, che celeste scuola è mai questa che voi mi insegnate, la quale mi rende tanto persuasa, che non posso fare a meno di apprendere quanto voi mi dite, e con piena volontà fare di me un totale sacrificio di tutta me stessa; sì, voglio spogliarmi, per amor vostro, di dentro e di fuori, come mi dite, per potervi davvero piacere. Ma cosa dico, stolta che sono! Gesù mio, io non lo so fare questo spoglio che voi volete da me, vi prego dunque che voi lo facciate in me come vi piace, come vi aggrada, io vi consegno la mia volontà, la mia libertà e quanto sono, per la vostra carità, che mi ha donato l’essere e l’esistenza che tuttora godo; dunque, Gesù mio, sono tutta, tutta vostra, fate di me quello che vi piace: Domine, quid de me vis facere, fiat voluntas tua».
Con queste ed altre simili parole terminò il santo colloquio.
72 – CONGIUNTA CON L’ETERNO BENE
72.1. Il cammino fatto in poco tempo
Riporto quanto mi seguì nello spirito il dì 19 marzo 1823, festa del glorioso patriarca san Giuseppe, dopo la santa Comunione era il mio cuore pieno di tristezza e timore, era tutto intento il mio spirito a considerare la propria sua miseria, la propria sua viltà, era tutto annientato in se stesso, si umiliava profondamente dinanzi al suo Dio, spargendo lacrime di compassione, si presentava al suo Signore, mostrandogli la propria viltà e miseria, quando Dio, per sua bontà, sollevò l’anima mia da questo grande inviluppo in cui giaceva, e le tornò a mostrare quel monte, e le diede a vedere quanto cammino ella aveva fatto in poco tempo, per mezzo della sua santa grazia.
L’anima stupì nel vedere che tanto aveva camminato, perché mi credeva di non avere ancora dato un passo, vidi dunque l’anima mia che aveva di già scorso l’aspra strada del monte e si era inoltrata in quella altura, avendo già fatto molte miglia di quella strada, vedeva di aver fatta la più malagevole, nel vedere che in tanto poco tempo aveva fatto un sì lungo e disastroso viaggio. Mi rallegravo nel Signore e prendevo un poco di coraggio e ne rendevo i più umili ringraziamenti al Signore, ma restavo attonita e confusa, perché conoscevo di non aver fatto niente per amore di Dio, anzi dovevo confessare di essermi portata malissimo e di aver commesso delle mancanze e difetti, di essere stata ingratissima a Dio: piangevo dunque la mia ingratitudine e la mia stoltezza e ne domandavo umilmente perdono al mio buon Dio, il quale prese a consolarmi con dolci ed amorose parole e per assicurarmi che l’anima mia godeva la sua particolar grazia; me la diede a vedere sotto l’immagine di leggiadra donzella, tutta vestita di candidissime e risplendentissime vesti, sopra le quali portava un adornamento di colore rosso, ma tanto bello che io ne restavo ammirata e piena di stupore nel vedere adornamento sì bello e maestoso, vedevo poi che Dio prendeva per sua bontà tanta compiacenza in questo puro spirito, così riccamente adornato della sua divina grazia, che l’univa a sé in un modo molto particolare e santo. L’anima intanto godeva in se stessa un bene così puro e perfetto, che in quei felici momenti mi pareva di godere l’eterna beatitudine, tanto l’anima mia era stretta, unita e congiunta con l’eterno suo bene Dio. Questo distinto favore mi tenne assorta in Dio per lo spazio di tre giorni, che poco e niente capivo le cose sensibili, nelle orazioni e nella santa Comunione restava il mio spirito tanto unito e stretto con il suo Dio, che l’anima mia non distingueva più di abitare in questo mondo sensibile; ero sopraffatta da un profondo e dolce riposo che mi faceva dimenticare le cose tutte della terra.
72.2. Nell’interno del monte
Passati i detti tre giorni, cioè dal dì 19 al 22 marzo 1823, in questa situazione.
Il dì 23 detto, domenica delle palme, nella santa Comunione l’anima fu invitata dal Signore a camminare una strada interna del riferito monte, sicché l’anima per qualche spazio di tempo non camminò al di fuori del monte, ma dentro, all’interno del detto monte. Alla meglio che posso mi spiegherò: questo monte non è di terra pieno, ma è nell’interno vuoto, e vi è la sua strada, ma ardua e scoscesa, che senza un aiuto speciale di Dio non si può al certo salire; questo monte è di pietra durissima, la strada interna è molto recondita ed occulta, solo a Dio è palese, ed è padrone di condurci quelle anime che a lui piace, per pura sua bontà, senza cercare il merito proprio delle anime, per essere questo dono gratuito della sua infinita liberalità, perché se non fosse così, l’anima mia peccatrice non potrebbe al certo trovarsi in questo santo monte; sicché, con ogni verità, possiamo dire che questo è un grande prodigio dell’infinita bontà di Dio, ed a lui si deve tutto l’onore e la gloria, e a me si deve la più profonda umiliazione per la mia cattiva corrispondenza.
Riprendo il filo del racconto, come il mio Dio mi condusse nell’interna strada del monte, mi apparve Dio per mezzo di una splendida luce e così mi parlò: «Mia dilettissima figlia, ti sei riposata per tre giorni, adesso conviene che riprendi il cammino».
Intanto per mezzo di quella luce fui introdotta nell’interno del monte; io restai molto sorpresa, non sapendo che questo monte avesse la strada interna, non poco mi contristai nel vedere la strada tanto stretta ed angusta ed insieme ripidissima, che mi sembrava veramente impossibile il poterla salire, ma il mio Dio mi fece coraggio, promettendomi la sua particolare assistenza; affidata alle sue promesse, intraprese l’anima il suo cammino. Fino a tanto che il Signore si degnò, per mezzo di quella luce, trattenersi con me, non mi avvidi dei disastri della strada ma quando da me si partì, oh Dio, in quali angustie io mi trovai, solo Dio lo sa; il trattenersi con me non fu che per poche ore, mi lasciò che non sapevo ancora camminare, mi lasciò sola e negletta; al buio di quella oscurità, non sapevo dove mettere il piede, ogni momento mi pareva di precipitare, pregavo, piangevo, mi raccomandavo, ma tutto invano, perché il mio Dio non mi ascoltava, anzi viepiù si addensavano in me le folte tenebre, e la desolazione cresceva a dismisura, ah Gesù mio, Dio mio», dicevo, riposare nel suo castissimo e purissimo seno, così la povera anima mia passò ad un tratto dalle tenebre alla luce, dalla fatica ad un dolce riposo di soavità ripieno; questo riposo fu in me permanente tutte e tre le feste della santa Pasqua, i buoni effetti restarono in me fino all’ottava di Pasqua, domenica in Albis, che fu il di 6 aprile 1823. Passati i suddetti 8 giorni, dovette l’anima proseguire il suo cammino il quale intraprese con molta agilità e celerità per avere riposato nei suddetti giorni.
72.3. L’immagine del mio spirito
Il mio Dio per sua bontà mi fece vedere l’anima mia con che agilità camminasse, per mezzo della sua divina grazia, i dirupi, le balze di quella disastrosa e montuosa strada, vidi dunque il mio spirito sotto forma di leggiadra donzella, il suo portamento era umile, savio e modesto, portava la sua croce in spalla, con molta attenzione camminava ed affrettava il suo passo, per compiacere l’amato suo bene, che la stava mirando per mezzo di un piccolo finestrino, che stava nell’altura del detto monte.
Era il piccolo finestrino di tersissimo cristallo, da dove Dio tramandava un raggio della sua divina luce, così veniva ad illustrare la mia mente di santi pensieri, di santi desideri, che riempivano il mio cuore di santo amore e di santo fervore, e così poteva con agilità camminare la povera anima mia e portare la sua croce in spalla, senza sentirne il peso, la portava tanto bene equilibrata, che faceva piacere il vederla scorta da quella divina luce che la rendeva tanto bella che pareva un angelo e non un’anima peccatrice come sono io.
In realtà questa vista destò in me molta afflizione, umiliazione e pianto, perché non trovavo in me quel bene che scorgevo in quello spirito.
Dicevo fra me stessa: «Io sono una grande superba e in questo spirito che mi si dimostra io altro non vedo che umiltà, purità e pazienza, in una parola vedo in questo delineate tutte le sante virtù. Mio Dio», dicevo, «illuminatemi acciò io non vada ingannata», piangevo, mi raccomandavo incessantemente: «Ah mio Dio», dicevo, «io non capisco come va questa cosa, vedo in questo spirito che voi mi fate vedere, che possiede tante belle virtù e mi dite essere questo l’immagine del mio spirito, ma io non trovo in me quel bene che scorgo in esso, anzi trovo tutto l’opposto, io non trovo in me che miserie e peccati».
Così piangevo e sospiravo. Riferii tutto il fatto con molte lacrime al mio padre spirituale, e lo pregai di dirmi se andavo ingannata, per vedermi nelle sante orazioni di raccoglimento tanto dissimile da quella che sono in realtà.
Il mio padre mi rispose così: «State quieta, non vi affliggete, perché, grazie al Signore, non c’è inganno, quello spirito, che voi vedete tanto bello e virtuoso, vuol significare quello che voi siete mediante la grazia di Dio e gli infiniti meriti di Gesù Cristo. Quello poi che voi conoscete in voi stessa è un’altra grazia molto particolare di Dio, che vi fa conoscere che per voi stessa non siete altro che miseria e peccati, per questo è molto ragionevole che vi umiliate profondamente e ringraziate infinitamente il Signore, che vi fa conoscere la vostra miseria».
Queste parole furono bastanti a potermi del tutto quietare conoscendo questa verità chiaramente: che io sono una grande miserabile peccatrice; il sentimento del mio padre spirituale tanto mi persuase che lasciai di piangere, dimessi ogni dubbio di essere ingannata, tanta è la fiducia che il Signore mi dà in questo suo ministro che al suono della sua voce la povera anima mia si quieta e resta del tutto persuasa e tranquilla, non solo adesso che sono sedici anni che dirige il mio spirito, ma fino dal bel principio che si degnò ricevermi per sua figlia spirituale; le sue parole sono state sempre per me così efficaci, che in tutti i casi di interni travagli che ho sofferto, mi ha sempre tranquillizzata e sono sempre tranquilla e contenta.
Tre giorni durò questa vista, tutte le volte che si raccoglieva nelle sante orazioni il mio spirito, io, ricordevole di quanto detto mi aveva il mio padre, mi umiliavo profondamente e dicevo al mio Dio: «Quanto mai siete buono, che ad una creatura tanto miserabile come sono io, voi fate tanto bene! Vedo questo mio spirito tanto bello, conosco bene che questo è l’amore che voi mi portate, mentre in esso vedo delineata la vostra santa grazia, per voi Gesù mio io sono tanto bella, e per me stessa sono tanto brutta e deforme, lasciatemi dunque piangere, Gesù mio, che ne ho giusta ragione, mentre con la mia malizia ho deformato l’anima mia, opera grande della vostra onnipotente mano. Mio Dio», dicevo, «vi domando perdono, vi domando pietà, conosco di aver fatto un grande male».
Così piangevo amaramente tutte le volte che il Signore mi tornava a far vedere il mio spirito, sicché questa orazione, atteso il consiglio del mio buon padre, era per me molto fruttuosa, perché terminava con un grande dolore dei miei peccati, che mi lasciava quasi tramortita, ma quando ci avevo preso piacere di fare questa sorta di orazione, ben presto terminò, facendo Dio per altissimi suoi fini passare il mio spirito ad una penosissima aridità e grave desolazione delle quali darò riscontro nel quarto cartolare, che copierò dal mio giornale del 1823, per poi unirli tutti quanti assieme, quando vostra paternità reverendissima li avrà esaminati. La prego di avvertirmi, per carità, se sono, queste cose che seguono nel mio spirito, inganni del demonio.
72.4. Lo sguardo fisso verso il finestrino
6 aprile 1823. Cartolare quarto. Riprendo il filo del racconto: passato che fu il mio spirito nell’anzidetta grave aridità e desolazione, altro conforto non avevo che tener fisso il mio sguardo in quell’anzidetto finestrino, da dove, di tratto in tratto, Dio si degnava di mandare i raggi del suo divino splendore, e così restava illustrata l’anima mia e confortata da un bene grande, che Dio si degnava comunicarmi, in mezzo a tanti patimenti, affanni e pene, proseguiva dunque l’anima il suo cammino nell’interno del monte, non ero per questo malcontenta; benché fossero grandi le pene che soffrivo ma il divino aiuto, che Dio mi compartiva, era molto grande, perciò camminavo per l’erto monte, quasi senza avvedermi del disastroso viaggio.
La mattina del 17 aprile 1823, nella santa Comunione, fui esortata ad affrettare il passo, per giungere a quel surriferito finestrino, da dove doveva sortire il mio spirito, per così riprendere il suo viaggio nell’esterno del monte; a questa cognizione non poco restai sorpresa, e non mi potevo persuadere come io potessi sortire da quel piccolo finestrino, che non era che un palmo di altezza e uno di larghezza, mi pareva davvero impossibile; mi umiliavo per questa difficoltà che insorgeva nella mia mente, e confessavo la mia ignoranza, assoggettando il mio intelletto ed il mio corto intendimento all’infinita potenza di Dio, al quale niente gli si rende impossibile. Nonostante, però, ne attendevo con ammirazione il successo, difatti la cosa ben presto si avverò. Passati tre giorni dopo questa esortazione, il mio spirito trapassò il detto finestrino e si trovò in un batter d’occhi al di fuori del monte, dove mi trovai tutta circondata da immensa luce; come seguisse il fatto io non lo so, perché non me ne avvidi, per essere stato come un improvviso rapimento, che non mi diede luogo né alla cognizione né alla riflessione di quanto seguiva nell’anima mia per mezzo di questo divino favore, solo posso dire che fui accesa di un grande amore di Dio, che credevo di perdere la vita per la piena dei santi affetti, che inondavano il mio cuore, i quali affetti non potevo contenere per essere molto superiori alle mie forze, e troppo energici e sublimi al basso mio sentimento e corto mio intendimento; qual dolce strazio provò il mio cuore non posso al certo spiegarlo, credevo sicuramente che questa piena di affetti così esuberanti avessero annegato il mio cuore nel mare immenso della divina carità.
Tenevo per certo che questo fuoco divino non si sarebbe in me né estinto né raffreddato, speravo al certo che i buoni effetti fossero in me permanenti; ma, oh Dio! chi lo crederebbe? questa grande piena di santi affetti che avevano non solo inondato il mio cuore, ma lo avevano del tutto annegato, non furono in me permanenti, ma durarono tanto quanto durò il favore divino, e poi ne restai priva affatto, sicché in un momento passò il mio spirito dalla luce alle tenebre, e dalla piena dei santi affetti in una penosissima aridità e gravissima desolazione; questo improvviso ed inaspettato cambiamento mise in grave timore il mio spirito, dubitavo di essere abbandonata dal mio Dio, trovandomi priva del suo divino aiuto, più non sapevo dove mi trovavo, credevo certo di essere abbandonata dal mio Signore per le tante ingratitudini da me commesse verso di lui; volevo piangere la mia sciagura e non potevo, mi volevo raccomandare al mio Dio e non lo sapevo più fare, cresceva per questo la mia angustia, trovandomi priva affatto di ogni sentimento e santo affetto, mi pareva di essere una creatura del tutto insensata; durò questo strazio così crudele per lo spazio di tre giorni. Tanto era forte questo patimento che il povero mio spirito non lo poteva più reggere, parevami perire in mezzo a tanti affanni e pene, mi assicurò di non avermi abbandonata, come io scioccamente credevo, mi promise ancora, per sua bontà, che non mi avrebbe giammai abbandonata; qual consolazione, qual gaudio di paradiso sperimentò il mio cuore a questa consolante nuova, il mio spirito esultò e, ripreso il suo vigore, ringraziò incessantemente il Signore.
Ma, o Dio, appena l’anima mia aveva esultato per avere rintracciato l’amato suo, che sul momento lo tornò a perdere di vista, eccomi dunque di nuovo afflitta e dolente, per aver perduto l’unico mio bene, quale affanno, quale pena, quale smarrimento provavo in me stessa, non so al certo spiegarlo.
Nel tempo di questa grave angustia, mi diede Dio a vedere il mio spirito, vidi dunque il mio spirito seduto giacente per terra, per la strada di quel vastissimo monte, stava appoggiato ad una grande e smisurata pietra, in una positura molto composta e devota, le mani giunte, gli occhi rivolti verso il cielo, l’aria del mesto suo volto dimostrava l’affanno del desolato suo cuore, per la cagione di non vedersi di appresso al suo amato Dio, girava il suo mesto sguardo or qua, or là, da ogni intorno guardava e non lo ritrovava, mandava infuocati sospiri ben lontani per ritrovarlo, ma tutto invano, piangevo amaramente la mia disavventura.
72.5. Vieni appresso a me
In questo stato di derilizione si trattenne il mio spirito per lo spazio di 12 giorni, vale a dire dal 21 aprile fino al 3 maggio 1823.
La notte del 2 maggio mi trattenevo nel mio oratorio orando, quando improvvisamente da interna voce sento dirmi: «Prepàrati, che domani devi di nuovo intraprendere il cammino», questa nuova commosse il mio spirito in affetti santi e devoti, ma molto mi intimorì l’invito, non sapendo qual arduo viaggio dovessi intraprendere; tutto si concentrò il mio spirito, umiliandosi profondamente chiedeva aiuto al Signore, pregandolo a volermi mostrare la strada per dove dovevo camminare, supponendo di riprendere la mia croce in spalla, per così salire l’erto monte.
La mattina del 3 maggio 1823, festa dell’Invenzione della santissima Croce, ricevetti la santa Comunione con sommo raccoglimento di spirito, passai buone tre ore in questo santo raccoglimento, mai niente vedevo di quanto la notte antecedente mi era stato promesso, mai nell’ora quarta della mia orazione ad un tratto si concentrò viepiù il mio spirito, e tornai di bel nuovo a vedere il mio spirito, giacente per terra appoggiato alla detta pietra, quando in un momento da mano invisibile fu il mio spirito levato in piedi, quello che mi recò sommo stupore fu nel vederlo non più con gli abiti di prima, ma vestito da pellegrino con lo sbordone in mano, i piedi scalzi, la testa scoperta.
«Mio Dio», dicevo, «che novità è questa mai? Mio Dio, io sono altamente confusa! Degnatevi di farmi intendere questo cambiamento, questa improvvisa mutazione, invece della croce trovo nelle mie mani uno sbordone, il mio solito abito si è convertito in abito da pellegrino, che improvvisa mutazione è mai questa? datemi la grazia di comprenderla».
In tempo che stavo così perplessa né sapevo consigliare me stessa, ignorando le divine disposizioni, ecco improvvisamente uno splendore che tutta l’interna vista mi abbagliò e riempì il mio cuore di celeste dolcezza. «Ah mio Dio, mio Signore», esclamai, «ecco ai vostri santissimi piedi la vostra misera serva», ma interrotte furono le mie parole dalla sua divina presenza; mi si fece vedere l’umanità santissima di Gesù Cristo, sotto la forma di pellegrino. «Figlia», mi disse, «ti conviene camminare per questa foresta. Io ti scorterò, vieni appresso a me».
Il mio spirito ritroso nell’obbedirlo restò per qualche momento, dubitando di essere ingannato, ma non ardiva spiegarlo, allora riprese a parlare il nobile pellegrino e mi disse: «Seguimi pure, non temere di inganno, io sono la vita, la via e la verità».
A queste parole tramandò dal suo petto una splendida luce di vita eterna, che mi assicurò non esservi inganno, ma quello che mi parlava era il divino mio Redentore; a queste parole, a questo splendore, il mio spirito profondamente si umiliò, e pieno di ammirazione e di santo timore, con santa fiducia e con sommo rispetto e riverenza, intrapresi il cammino per la foresta, andando appresso al divino pellegrino, il quale dopo poco tempo mi si rese invisibile, lasciando un raggio, di luce per guida al mio spirito; scortata da questo raggio, feci il mio viaggio con molto profitto, mercé il divino aiuto. La mia ignoranza non mi permette di spiegare i santi affetti, i buoni desideri, le celesti illustrazioni, le alte cognizioni che il mio Dio, per sua bontà, mi comunicò; oh, come in questo solitario viaggio conoscevo bene la differenza, la diversità che passa fra i beni transitori di questa misera terra da quei veri beni eterni che ci promette Dio, per mezzo degli infiniti meriti del nostro divino Redentore.
Internata l’anima in queste infallibili verità formava le idee più alte, i sentimenti più puri per poterle contemplare, gustando in modo molto particolare queste eterne verità, ad onore e gloria del medesimo Dio e con somma soddisfazione e consolazione del mio spirito, aborrendo ed odiando i vani e superbi beni di questa misera terra che non sono che tristezza e afflizione di spirito.
Il camminare in questo solitario luogo altro non fu che un disporre il mio spirito a proseguire il suo viaggio al monte santo, come appresso dirò.
Il divino pellegrino, nell’invitarmi a camminare presso di lui per quella foresta, mi fece bene intendere che in questa solitudine dovevo apprendere per via di meditazioni e riflessioni molte cose appartenenti alla perfezione. In questa solitudine l’anima mia fu ammaestrata in vari modi, vale a dire, per cognizione, per illustrazione, per intelligenza. Al mio poco giudizio mi pare di conoscere che la cognizione, l’illustrazione, l’intelligenza siano tre gradi di scienza, l’uno diverso dall’altro, come ancora per gli effetti che ne ho sperimentati nel mio spirito, questi tre gradi di divina scienza mi pare ancora che siano l’uno maggiore dell’altro; salva la verità, mentre io mi protesto di essere digiuna affatto di questa dottrina, per non avere mai letto nessuno di questi libri, appartenenti a questa scienza, mi servo dunque degli effetti che ne ho sperimentato in me stessa, per spiegarmi dico così: la cognizione sollevava l’anima mia verso il suo Dio, e gli faceva conoscere le sue divine perfezioni molto da vicino, e con molta chiarezza le ravvisava per immense e incomprensibili che l’anima ne restava ammirata.
L’illustrazione, poi, infiammava la mia volontà, e così la rendeva innamorata di Dio, in guisa tale che l’anima uscì fuori di se stessa, per il grande amore che sente verso l’unico suo vero bene; la divina intelligenza somministra al mio intelletto i mezzi proporzionati per unirsi con l’amato suo Dio, nella santa unione poi, molto maggior lume acquista, e così viepiù va crescendo la fiamma della divina carità. Questo divino fuoco ha preso in me tanta possanza che mi consuma giorno e notte, che sono ridotta pelle e ossa, e sono tanto indebolita nelle forze che mi pare ogni giorno di cessare di vivere, questo pensiero però non mi funesta, ma riempie il mio cuore di giubilo, mercé la grazia di Dio, in cui ho posto tutte le mie speranze.
Tutto quello che ho detto e tutto quello che sono per dire intendo assoggettarlo al savio consiglio e parere di vostra paternità reverendissima, per quiete del mio spirito.
72.6. Vidi Dio con le braccia aperte qual Padre amante
Riprendo il filo del racconto: dopo essere stata così favorita dal Signore in quella foresta, come dicemmo.
Il giorno dell’Ascensione del Signore, che fu il dì 8 maggio 1823, l’anima mia rintraprese il viaggio al monte santo dove prosegue il suo penoso viaggio, perché più si inoltra verso la sommità del santo monte, tanto più si accrescono i travagli e le angustie, andavano sempre più aumentando i santi desideri di possedere Dio.
L’anima dunque, così accesa di santo amore, famelica andava in traccia dell’amato suo bene, desiderando di possederlo e possederlo per sempre. Quali e quante fossero le brame di questo cuore ferito, io non so al certo dirlo, né ho termini di dimostrarlo, ma posso dire, per verità, che neppure io potei comprendere la viva fiamma che mi bruciava il cuore, il forte incendio del divino amore fa dolce strazio del mio povero cuore, altra grazia non cercavo al mio buon Dio, che di morire, per così sciogliermi dai vincoli di questo fragil corpo, così volare liberamente nel castissimo seno del mio Dio.
Questo ardentissimo desiderio martirizza l’anima mia giorno e notte, in guisa tale che io non lo posso più contenere, e sono persuasa mi darà presto la morte, in questi termini, con questi spasimi al cuore, andava l’anima facendo il suo viaggio per l’erto monte, portando con sé l’affanno, la pena, il dolore. Mossosi a compassione, il mio Dio improvvisamente mi si fece vedere alla sommità del monte, vidi il mio Dio che stava con le braccia aperte qual padre amante, significandomi l’ardente brama che in sé conserva di abbracciare la povera anima mia.
Questa vista riempì il mio cuore di somma consolazione, e di tanta dolcezza e gaudio fu ripieno il mio spirito, che per godere di quella sola vista, tenni per bene impiegato tutto quello che avevo patito e faticato nel decorso di tutta la mia vita. Ardisco dire di più, a gloria del medesimo Dio, che mi contenterei di godere di quel bene che godetti in quei felici momenti, di godere questo solo bene per tutta l’eternità, sì, quella sola vista mi basterebbe per farmi eternamente beata; vorrei, per rispetto e riverenza dovuta all’infinita maestà di Dio, tacere e non parlare di quanto vidi alla sommità di quel vastissimo monte, ma la santa obbedienza mi obbliga contro mia voglia il manifestarlo: ma io cosa dirò mai, se la mia bassa mente non poté neppure comprenderlo?
Qual vasto oceano di eterna immensità mi si presentò Dio, alla vista della mia bassa mente. Oh felicissimi momenti, degni solo dell’infinita bontà di un Dio, che tutto si dona per amore alle sue creature! La sola vista, e non il possesso di questo grande bene, mi bastò di farmi beata sopra la terra per quei felici momenti; mi fu mostrato il simbolo della triade sacrosanta, sotto la forma di una splendidissima e vastissima nube, questa aveva tre rappresentanze, benché una sola fosse la nube.
Tre immensi raggi di eterna luce, in essa nube risplendevano, uno distinto dall’altro, benché una sola fosse la luce, conservava, conteneva in se stessa tre qualità di splendori, uno distinto dall’altro.
Cosa così meravigliosa e bella che non si può spiegare, vista che rapisce lo spirito e lo tiene assorto in Dio, vista che dona all’anima tutta la sua felicità, vista che dona all’anima tutte sorte di beni soprabbondanti, inarrabili e incomprensibili.
Non so spiegarmi altrimenti, mentre mi avvedo che lo scrivere su di ciò, altro non è che un oscurare l’alta gloria di un Dio di eterna maestà; spero però che l’infinita bontà di Dio mi abbia per scusata, mentre la santa obbedienza me lo comandò. Non intendo, mai e poi mai, sostenere quello che passa nel mio spirito, ma solo intendo di assoggettarlo al savio consiglio di vostra paternità reverendissima, a cui umilio questi miei scritti, con tutto il dovuto rispetto e massima soggezione filiale alla paterna sua carità.
72.7. Tornai a salire l’erto monte
Questo divino favore mi fu comunicato il dì 6 giugno 1823, giorno che ricorreva la festa del Cuore santissimo di Gesù.
Dopo avere goduto di questo grande bene, che tenne assorto il mio spirito per lo spazio di tre giorni, tornai di bel nuovo a salire l’erto monte con fatica e stento, e ancora con maggior pena, perché dopo aver goduto un sì grande bene, dopo essermi trovata in mezzo a tanta luce, tornare in mezzo a tanta oscurità, dover calcare una terra adusta e montuosa con il grave peso della croce in spalla, ognuno lo può intendere, qual pena sia stata questa per me; oltre ciò si aggiungeva a questa pena un’altra assai maggiore, ed era che l’anima, dopo aver goduto di questo grande bene, ardentemente ne desiderava il possesso, e con ardenti desideri cerca di svincolarsi da questo misero carcere del suo corpo, lo chiedeva con umili preghiere al Signore, così, piangendo e sospirando, mi affaticavo a salire l’erto monte per piacere al mio Dio e per arrivare a goderne il possesso.
In questa situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di giorni 22, vale a dire dal giorno 10, che l’anima riprese il suo viaggio al monte santo, mentre dal giorno 6 giugno, per il favore surriferito, stette il mio spirito assorto in Dio dal dì 6 fino al dì 9, il dì 10 riprese il suo viaggio fino al dì 2 luglio 1823, festa della visitazione di Maria santissima, fatta a santa Elisabetta, giorno molto memore per me, per avere ricevuto in questa festa altri insigni favori, come a suo luogo si è detto.
72.8. Ferisci tu il mio cuore
La mattina, dunque, del 2 luglio, dopo la santa Comunione, si raccolse tutto in Dio il mio spirito, nel tempo che stava così raccolto era tutto occupato a considerare se stesso, il suo niente, il suo nulla, la sua cattività, la sua profonda malizia nell’avere tanto offeso il suo Dio, si umiliava profondamente avanti la sua divina maestà, piangevo amaramente le mie gravi colpe, quando, tutto ad un tratto, fu rapita da Dio l’anima mia e sollevata in modo molto particolare, che non so spiegarlo.
In questo tempo, mi si fece vedere il mio Dio, tutto raggiante di eterna luce, il quale teneva nelle sue santissime mani come un pugnale, mi servo di questo basso termine, per non sapermi altrimenti spiegare, ma cosa più bella io non vidi giammai, né posso ad alcuna cosa sensibile paragonare, dunque dirò, col nobile pugnale Dio l’anima mia ferì: oh dolce ferita, che di santo amore il mio cuore riempì! la nobile ferita, di santo languore; nelle braccia del suo Signore l’anima semiviva se ne restò, perché il colpo amabile trapassò il mio cuore, dal dolore dei peccati e dal divino amore io mi sentivo morire.
L’anima, rivolta a Dio, così prese a parlare: «Amato mio soccorrimi, deh non mi abbandonare, il nobile tuo pugnale il cuore mi trapassò; mio Dio, come farò? E se tu mi hai ferita sanami ancora tu».
Così intesi rispondermi: «Sì, mia cara amica, la nobile ferita io ti risanerò, deh prendi nelle tue mani, il misterioso segnale, sorella mia carissima, ferisci tu il mio cuore».
L’anima ritrosa, ricusa di ciò fare, le mancano gli accenti di potersi con il suo Dio spiegare, il santo timore ingombrava il mio cuore e mi impediva di obbedire; così nuovamente intesi parlare: «Deh, non ti arresti il colpo il santo timore, perché il divino mio amore questo esige da te; deh non mi privare, diletta mia sposa, di questo piacere, ferisci suvvia, l’amante mio cuore».
A queste parole, una forza imponente mi prese la mano e mi obbligò a ferire l’amante cuore del mio Signore. Mandato il colpo, oh colpo fatale, di santo orrore il mio spirito si ricolmò, fra me dicevo, tremante e confusa: «Oh santo ardire, cosa mi facesti fare? ferire un Dio di eterna maestà! questo è un delitto di lesa maestà. Oh Dio, il mio confessore cosa mi dirà, di certo mi griderà, io non ho il coraggio di manifestargli questo fatto, che al solo pensarlo mi sento morire», piangendo dirottamente, dicevo: «Mio Dio, ditemi voi quello che devo fare».
Così mi intesi rispondere: «Dirai al tuo direttore che il tuo Creatore a questo ti obbligò; digli che un uomo Dio ferito fu da te, digli che il dolce strale ti fu dato da me, che tu feristi, oh cara, l’ampiezza del cuore mio, che tu feristi un Dio di eterna maestà! E questo lo volli io, in segno del tuo amore. Con quanta compiacenza io ricevetti il colpo, che mi fu dato da te, sposa carissima, a te mi unisco con perfetta unione e divina congiunzione, per non separarmi mai più da te! Ricevi gli sponsali amplessi, che sono i prodotti del mio parziale amore».
In mezzo a queste e ad altre sante espressioni, Dio, con quel medesimo pugnale, tornò l’anima a ferire. Mi mancano i termini e le espressioni di potermi spiegare, per poter ridire i santi affetti di questi due cuori feriti; ognuno lo può intendere a seconda dei lumi che gli comparte il Signore, ma spiegarlo al certo non si può; lascio dunque a vostra paternità reverendissima l’intendere quanto rozzamente ho detto; come ancora, per quiete del mio spirito, soggetto tutto al savio suo consiglio, per timore di non essere ingannata dal demonio. La prego di esaminare con tutto il rigore i miei scritti, e dirmi con santa libertà se sono ingannata dal demonio.
73 – SPROFONDATA NEL MIO NULLA
73.1. Vidi Dio sopra il monte
Il dì 11 agosto 1823, giorno che ricorreva la festa di santa Chiara, la mattina nella santa Comunione si raccolse il mio spirito in modo molto particolare; in questo tempo, Dio si degnò darmi un lume chiarissimo di propria cognizione, che mi faceva conoscere la mia viltà, la mia miseria, i miei gravi peccati, per i quali piangevo amaramente e ne domandavo al mio Dio umile perdono; dando ero tutta sprofondata nel proprio mio nulla e nella mia cattività, non avevo più ardire di alzare la fronte per chiedere di nuovo perdono al mio Dio, mentre credevo in quel momento di essere dalla divina giustizia punita con un fulmine che al momento mi avesse incenerito, perciò, con umile sentimento, ne attendevo il colpo: tanto l’anima si era internata nella propria sua iniquità, che giusto chiamava Dio, che l’avesse a punire e da sé la volesse dividere, e dividere per sempre.
Ma, oh Dio, qual pena provava l’anima in se stessa, al solo pensarlo inorridiva, diceva fra sé: «Dunque io sarò divisa, e da chi? Dall’amato mio bene Dio? E perché? Forse, anima mia, tu vuoi fare questa divisione? Ah no», diceva l’anima, «io no, certo, vorrei piuttosto morire mille volte, che dividermi dall’amato mio bene! No, non sono io, ma è la divina giustizia che mi vuole dividere dal mio Dio».
Rivolta alla divina giustizia così dicevo: «Oh divino attributo del mio Dio, io ti adoro col più profondo rispetto, ti prego a degnarti di sospendere il fatale colpo di divisione, questo lo chiedo per i meriti del mio Redentore»; rivolta all’umanità santissima, dissi: «Ah Gesù mio, fatemi sperimentare gli effetti della paterna vostra misericordia; oh bontà incomprensibile, e chi mai potrà lodarti sufficientemente, né il cielo né la terra potrà al certo renderti le dovute lodi, e chi mai ti potrà comprendere?».
Appena l’anima mia si rivolse ai meriti di Gesù, che il paterno suo cuore, pieno di misericordia, si rivolse verso l’anima mia, mi si fece vedere il mio Dio sopra l’altura del monte, tutto amore e tutta carità, si mostrava fedele amante all’anima e la invitava al suo divino tabernacolo, il quale vedevo in qualche distanza, ma Dio, acceso della sua divina carità, venne ad incontrare l’anima, per dimostrarle il suo affetto e per donargli anticipatamente le disposizioni dovute a sì eccelso favore, qual è quello di entrare nel divino tabernacolo, dove risiedeva Dio, non incognito, ma bensì sfavillante di eterna luce.
Si degnò Dio di farmi intendere le sante disposizioni che donato aveva al mio spirito, per così farlo degno di questo particolare favore. Nell’incontro che fece Dio all’anima, ebria del suo divino amore, le anticipò un amoroso abbraccio, con il quale abbraccio le comunicò molte grazie e doni spirituali; ricevuti l’anima questi doni, in un momento si trasformò in uno spirito più che celeste, mentre mi pareva di essere come divinizzata, provando in me i mirabili effetti del paterno amplesso, che si degnò Dio donare all’anima mia, per il quale restò come divinizzata.
Dio mi diede a vedere questo spirito così bello, così ricco delle sue grazie e dei suoi doni; lo vedevo molto più bello degli stessi angeli, che intorno di questo spirito gli facevano corona, e pieni di ammirazione stavano contemplando l’infinita bontà di Dio, che tanto bello avesse reso questo spirito con la sua divina grazia, ne encomiavano la sua infinita bontà, lodavano la sua divina carità.
73.2. Figli dell’eterno Padre
Lascio per un momento questo racconto, e prendo a parlare di volo, dei sentimenti propri del mio spirito. Mercé la grazia infusagli da Dio, questo conservava in se stesso una umiltà profondissima, benché si vedesse assai più bello che gli angeli stessi, conosceva chiaramente essere questa sua bellezza un gratuito prestito della divina grazia del suo Signore, non dimenticava essere per se stesso un vile giumento, immeritevole affatto di ogni favore; spiegava con sommo rispetto e riverenza i suoi sentimenti al suo divino Signore, umiliandosi fino al profondo del suo nulla, e con lacrime di tenerezza e di gratitudine, tutta in santi affetti si discioglieva l’anima di puro amore.
Altro non dico, perché il mio dire altro non è che un oscurare la gloria di un Dio, che diede la sua vita per nostro amore e per rendere noi simili a lui, consanguinei ci volle dell’amante Gesù, fratelli suoi ci chiama, partecipi ci fece della sua eterna eredità. Dunque esultiamo di gioia, noi siamo figli dell’eterno, divino Padre. Mio Dio, qual consolazione è questa che inonda il mio cuore, di essere figlia a voi, Dio di eterno amore, di eterna maestà! Adesso comprendo perché tanto mi amate e tante grazie voi mi donate, questi sono gli effetti della paterna vostra bontà, qual figlia mi amate e mi date prova del vostro amore. L’anima mia nella cognizione di queste eterne verità, si umiliava profondamente e ne rendeva le dovute grazie al suo Signore.
73.3. Nel divino tabernacolo
Riprendo il filo del racconto: Dio, di propria mano, introdusse l’anima nel divino tabernacolo, e a sé la unì intimamente e la riempì di gaudio celeste, di amore ardente, che distruggeva la proprietà dell’anima e la medesimava in Dio. Non posso dire di più, ma cosa dirò mai della magnificenza di questo divino tabernacolo? al certo non mi riesce di poterlo manifestare, né tanto poco posso narrare il glorioso ricevimento che ricevette l’anima dall’amante suo Dio, che per l’esuberanza del suo divino amore pareva si fosse dimenticato della sua sovranità per deliziarsi con la povera anima mia.
Altro non dico, perché il savio sapere di vostra paternità reverendissima, intorno a questa divina scienza, molto bene le fa intendere il significato di questi divini favori.
Io non ardisco dire di più, perché sono confusa abbastanza per il rossore che ne provo in me stessa, nello scrivere quanto passa nel mio spirito, questo lo faccio per sola obbedienza, ma mi costa grande ripugnanza, e mi protesto che non intendo in nessuna maniera di dar credito a quanto passa nel mio spirito, ma tutto soggetto col più umile sentimento al savio parere di vostra paternità reverendissima, per quiete del mio spirito.
73.4. Vidi il passaggio di quest’anima in paradiso
Il dì primo ottobre 1823, essendo passata all’altra vita la figliola di un mio grande benefattore, signor G. S., il dì 30 settembre 1823, molto mi impegnai, da miserabile come sono, nella lunga malattia di detta defunta, acciò il Signore si degnasse salvare quest’anima eternamente.
Molte grazie il Signore si degnò farle nella sua dolorosa infermità, segnatamente di visitarla, per ben quattro volte, per mezzo della santissima Comunione sacramentale, compartendole molta pazienza e rassegnazione al suo divino volere, benché si trovasse di fresca età e gravata di numerosa famiglia di figli otto, di tenera età. Ciò nonostante, chinò il capo alla divina volontà.
Si esercitava in atti di somma pazienza, soffrendo il grave suo male per amore di Dio, facendo molte elemosine in vantaggio dell’anima sua.
Io, da miserabile peccatrice, accompagnavo il suo patire con la continua preghiera, essendo io ogni giorno notiziata dal suo buonissimo padre di tutti i mali che pativa la paziente sua figliola.
Subito che fu spirata la bell’anima, il padre mandò ad avvisarmi che la figlia era passata agli eterni riposi, alle ore tre di notte. E questo fu la notte del dì 30 settembre 1823.
Ricevuta questa nuova, immantinente mi portai al mio oratorio; pregai con molto fervore il mio Dio, acciò si degnasse liberare quest’anima dal purgatorio, avendomi il Signore, per sua bontà, permesso di salvare quest’anima, la quale in principio della sua malattia non si trovava troppo disposta, ma per mezzo delle continue preghiere che si fecero a suo vantaggio, il Signore, per gli infiniti suoi meriti, la dispose a morire santamente.
Proseguo. Fui ispirata dal Signore la mattina seguente, che era il primo di ottobre, di farle celebrare la santa Messa dal mio confessore, applicando alla suddetta il santo sacrificio, ancora la povera mia Comunione in suffragio della suddetta.
Ricevuta che ebbi la santa Comunione, pregai incessantemente il mio sacramentato Signore, acciò si degnasse di presto liberare la suddetta anima dal purgatorio. Al Signore piacque di esaudire la mia preghiera, e per sua infinita bontà, mi promise che il giorno seguente mi avrebbe consolata col condurre quest’anima in cielo, a godere la visione beatifica.
All’ora della Messa cantata, al Libera me, Domine, sarebbe liberata dal purgatorio, per mezzo del suo Angelo custode, nel qual giorno ricorreva la festa. Il mio Dio mi fece ben conoscere che questa era una grazia ben grande che mi faceva, di tanto abbreviare il tempo alle sue misericordie, mentre la suddetta anima doveva, per la divina giustizia, ritenersi in purgatorio per lungo spazio di tempo, ma essendo figlia di un mio benefattore, attesa la promessa fattami, mi compartiva, per sua bontà, la grazia.
Quali e quanti fossero i miei ringraziamenti non so dirlo, piangevo di tenerezza nel vedermi favorita dal mio Dio, confessandomi indegnissima di ricevere le sue grazie.
La mattina dei santi Angeli custodi, 2 ottobre, ricevetti la santa Comunione, applicandola in suffragio della suddetta anima. Quando stavo ascoltando la quinta Messa, improvvisamente si raccolse intimamente il mio spirito. In questo tempo vidi il felice passaggio di quest’anima benedetta al paradiso, accompagnata dal suo santo Angelo custode. Vidi ancora una moltitudine di Angeli che vennero ad incontrarla, con grande festa ed applauso la condussero nell’altezza dei cieli, e in un baleno disparve la celeste visione, restando nel mio cuore un gaudio di paradiso e tanto di celeste consolazione nell’anima, che mi tenne assorta in Dio tutta la giornata e buona parte della notte.
La notte del 4 ottobre 1823 stavo nel mio oratorio orando, quando, per mezzo di una interna illustrazione, Dio si degnò chiamare il mio spirito, e conducendolo con lui gli fece scorrere le sue divine magnificenze, gli fece penetrare la sua potenza nel creare tutto il mondo sensibile, condusse il mio spirito nell’altezza dei cieli, e mi fece penetrare la luna, le stelle, il firmamento, mi fece penetrare il sole, i suoi pianeti e tante altre belle cose celesti, che io non so dire. Con tono maestoso e bello diceva Dio all’anima mia: «Vedi, queste sono opere fatte dalla mia onnipotente mano, in un momento le feci: Ipse dixit et facta sunt».
Questo parlare di Dio con l’anima non era con parole sensibili, ma in una maniera che io non so spiegare.
73.5. Un Dio che soffre per l’uomo ingrato!
Proseguo: mi fece Dio scorrere tutti questi vastissimi luoghi con tanta agilità, penetrazione e sottigliezza, che mi pare di poter dire così: il mio spirito, unito al suo Dio, ha penetrato il sole, la luna, le stelle e il firmamento tutto, con altre magnificenze celesti, create dall’onnipotente mano di Dio, che io non so spiegare. Questi milioni di miglia le fece il mio spirito in breve spazio di tempo, conducendo Dio il mio spirito con lui, con tanta velocità e agilità, trasportandomi da un luogo all’altro senza la minima confusione, ma con somma placidezza, di maniera tale che con ponderata intelligenza tutto vedevo e tutto conoscevo: l’infinita potenza, l’infinita sapienza, l’infinita bontà di Dio.
L’anima mia restò estatica nel vedere tante magnificenze. Non posso al certo narrare cosa alcuna di quanto vidi, mancandomi la maniera di parlare di tante stupende cose, né tampoco posso ridire qual fosse lo stupore e la grande ammirazione del mio spirito, nel vedere tanta grandezza e tanta magnificenza, mancandomi l’intelletto per comprendere le tante belle cose che vedevo e conoscevo.
Mi servo di una similitudine, sebbene molto languida, per potermi spiegare, e dico così: come quando si fissa lo sguardo nel vasto oceano, che più la vista è acuta tanto più si vede grande, ma non si può arrivare a vedere il suo fine, il suo termine, per la vastità che esso contiene, in simil guisa, ma senza paragone, è quanto ho detto assai maggiore e senza fine e senza termine fu quanto Dio si degnò farmi intendere. Questa similitudine è molto languida, e non esprime le magnificenze che Dio si degnò manifestare alla povera anima mia, la quale si saziava, si perdeva in quelle bellissime opere, fatte dalla divina mano onnipotente di Dio.
Dopo aver contemplato tutte queste grandezze, Dio condusse con lui il mio spirito a contemplare la sua passione e morte, mi fece scorrere tutta la sua vita fin dalla sua nascita, per così darmi ad intendere quanto è grande l’amore che porta a noi miseri mortali. Oh che tratto d’amore è mai questo: un Dio patire per l’uomo ingrato, ah non è al certo penetrabile!
Potei, per la grazia infusami dell’amoroso mio Dio, penetrare i cieli, il sole, la luna, le stelle e quanto altro di grande e di raro e di bello Dio diede a vedere al mio spirito, ma l’amore grande che è racchiuso nella vita, passione e morte di Gesù Cristo, salvatore nostro, vero Dio e vero uomo, non potei certamente comprenderlo, perché il suo infinito amore, mostratoci nell’incarnazione del Verbo, è un’opera tanto grande, che la mente umana non può comprenderlo, oltrepassando ogni intelligenza angelica.
La povera anima mia, chiamata da Dio a penetrare l’eccesso del suo infinito amore, contenuto in questo vastissimo mistero, restò tanto preoccupata per l’altezza e magnificenza di sì alto e profondo mistero, che si perdette in quella vastità, e per la piena dei santi affetti, che Dio mi comunicò, credevo veramente di perdere la vita nell’immersione vastissima di questo incomprensibile mistero, con trasporto d’amore non posso fare a meno di esclamare: oh opera immensa di amore! oh eccesso incomprensibile di carità, che la sola intelligenza divina ti può comprendere! La mia mente, nonostante la tua particolar grazia, Dio mio, altro non può fare che ammirare l’eccesso infinito dell’immensa tua carità e di compiacermi e rallegrarmi in te, Dio mio, Signore mio, amor mio, eterna mia felicità, possessore di ogni incomprensibile perfezione e bontà. Anzi, Dio mio, tu sei la stessa perfezione e bontà infinita, dunque te solo amo, te solo adoro, te solo desidero godere per tutta l’interminabile eternità.
73.6. Il mio corpo… dondolava
Quando tornai nei propri sensi, trovai il mio corpo che balzava da terra, e per la sua leggerezza faceva come fa una corda appesa nell’alto, che avendo un peso legato al fine di essa, essendo questa alta da terra, si vede dondolare all’urto di una leggera mano che la percuota, in simile guisa trovai che faceva il mio corpo, e per un buon spazio di tempo dovetti soffrire nel corpo questo dondolamento, senza poterlo fermare; questo moto, però, non alterava il mio spirito, che proseguiva a godere la dolcezza e la soavità di quel bene che il mio Dio mi aveva comunicato a larga copia, di quel bene ne godetti per molti giorni, perché restò sopito in Dio il mio spirito.
73.7. Sempre sul monte santo
Digressione: quando dico che il mio spirito è andato scorrendo le campagne, le amene colline, non si è mai per questo dipartito dal monte santo, dove Dio, nello scorso tempo, si degnò condurre l’anima mia di propria sua mano, come ho detto nei passati fogli, essendo queste amene colline e vaste campagne unite e congiunte al medesimo monte santo. L’anima mia ha sempre proseguito il suo viaggio alla sommità di quel monte; ma, di tratto in tratto, Dio si degna condurre l’anima ora sopra le amene colline ora nei vasti e deliziosi campi di questo vastissimo monte, per ricrearla dalla fatica, e per facilitarle il disastroso cammino, per mezzo dei suoi divini favori, ammaestrandola delle celestiali dottrine, con la sua divina sapienza fa sì che l’anima si trasformi da terrestre in celeste, voglio dire che quest’anima, dimentica di tutto il sensibile, non attende che al suo Dio, per amarlo e servirlo con tutta l’ampiezza del suo povero cuore, con tutta l’estensione dell’anima e delle sue forze, donando cento e mille volte la sua volontà al suo Dio, lo prega con trasporto d’amore e somma compiacenza a farsi padrone della sua volontà, tiene per sommo onore che Dio la regoli, la guidi secondo il suo divino beneplacito. In una parola, la povera anima mia si compiace di vivere senza volontà per fare quella del mio Dio, unico e vero bene dell’anima mia, questo lo faccio per quanto valgano le povere mie forze, e per quanto me lo permette la mia grande imperfezione, non lasciando io di essere la più vile ed imperfetta creatura che abita la terra, nonostante i favori che si degna compartirmi Dio, per la sua infinita bontà e misericordia.
73.8. Il mio angelo custode
Il dì 18 ottobre 1823, trovandomi al paese di Marino stavo in orazioni, quando ad un tratto il mio Dio sollevò il mio spirito ad una celeste visione, mi trovai con lo spirito in una amenissima campagna di soavità ripiena; vedevo da quelle amene colline che la circondavano, scendere una moltitudine di santi angeli, i quali festosi venivano a congratularsi con l’anima, per vederla in questo sacro luogo. Queste schiere angeliche mi facevano di intorno corona. Ma bisogna premettere, a mia confusione, che Dio nel condurmi in questo luogo aveva comunicato all’anima mia un celeste splendore, che illuminava tutta quella vasta campagna, la quale risplendeva come risplende il sole nel suo meriggio. Queste schiere angeliche erano tutte accorse all’inaspettato chiarore, e riconoscendo in questa anima l’opera del Signore si congratulavano con lei, lodando e benedicendo l’increata sapienza.
La povera anima era ripiena di confusione e di rossore, per il sentimento, che mi aveva comunicato il mio Dio, di propria cognizione, mi umiliavo fino al profondo cupo abisso del mio nulla, e pregavo quegli angelici spiriti a lodare e ringraziare il mio Dio per me. Fra questi celesti spiriti mi si dava a conoscere il mio angelo custode, il quale vedevo assai più bello di tutti i suoi compagni. Non posso al certo spiegare con qual tenerezza, rispetto e venerazione la povera anima mia ossequiò il suo santo angelo, oh con quanto affetto lo ringraziò di tanti aiuti, di tante grazie, di tanta assistenza che mi ha prestato nel custodirmi. Gli domandai mille volte perdono di tanti disgusti che gli ho dato, in tutto il decorso della mia vita, lo pregai ad aiutarmi e custodirmi, gli promisi di essere fedele al mio Dio, per mezzo della sua divina grazia.
Questo mio santo angelo custode conoscevo essere un angelo delle alte gerarchie degli angeli, di quelli che sono assistenti all’augusto trono di Dio, i quali meritano maggior rispetto e stima. La povera anima mia molto ringraziava il Signore per avergli dato per custode questo inclito personaggio.
Come già dissi, l’anima mia la vedevo sotto il simbolo di leggiadra donzella, cinta di celeste splendore, né la bellezza né il celestiale splendore toglieva all’anima il lume di propria cognizione, che il mio Dio mi aveva donato, anzi, il celeste splendore annientava l’anima nel profondo del proprio suo nulla, e tutto questo bene che vedeva in sé, lo attribuiva giustamente all’infinita bontà di Dio, che sol trionfare nelle più vili sue creature.
73.9. L’anima rapita in Dio
Camminava dunque l’anima mia nel profondo della santa umiltà, quando quei celesti spiriti additarono all’anima il divino tabernacolo, che posto era sopra un altissimo monte, a questa notizia l’anima frettolosa là diresse il suo passo, portata da santi affetti, volando e non camminando si trovò l’anima vicino al divino tabernacolo, dove risiedeva il mio Dio: non posso al certo spiegare di qual tempra fossero i santi affetti e i santi desideri dell’anima, prodotti dal santo e divino amore di Dio.
Alla porta del sacro tabernacolo vi erano due incliti personaggi riccamente vestiti, la loro maestà e bellezza destava nel mio cuore venerazione e rispetto; questi due grandi principi, vedendo l’anima mia accompagnata da quella moltitudine di spiriti celesti, segnatamente dal mio santo angelo custode, che fra tutti quei beati spiriti si distingueva per la sua sovrana bellezza, per essere della gerarchia maggiore. I due principi custodi del divino tabernacolo si degnarono introdurre nel divino tabernacolo la povera anima mia. Cosa dirò mai, se mi manca la lena di proseguire il racconto? Ma la santa obbedienza mi obbliga di manifestare, alla meglio che so e posso, quanto segue nel mio spirito. Dunque, a maggior gloria di Dio, proseguo il racconto con i soliti rozzi miei termini.
La povera anima mia ebbe la sorte di adorare Dio in spirito e verità. Introdotta che fui in quel sacrosanto tabernacolo, l’anima fu rapita in Dio: tante furono le bellissime cose che vidi, tante furono le belle cose che comprese il mio spirito, per mezzo di particolare cognizione e intelligenza, che non so né posso esprimerle né ridirle, tanta fu la piena dell’illustrazione divina, che l’anima restò assorbita, medesimata in Dio.
Non ho al certo termini di spiegare con qual tenerezza di affetto Dio si degnò trattare la povera anima mia, in questo divino suo tabernacolo, non è possibile al certo di manifestarlo.
Di santo orrore era ripieno il mio cuore, fisso tenevo nella mente la mia ingratitudine, la mia infedeltà. In mezzo a tanto bene, la contrizione, il dolore di avere tanto offeso il mio Dio mi crucciava il cuore; l’amore di corrispondenza e la gratitudine da un’altra parte mi struggeva, mi si stemperava il cuore, e con lacrime abbondantissime di dolore e di gratitudine, in questa guisa si liquefaceva il mio spirito. Dio si compiaceva di vedermi in quello stato ridotta per amor suo, a sé univa l’anima intimamente, abbracciandola la stringeva al castissimo suo seno, imprimendo nell’anima affettuosi baci. Oh mia grande confusione! devo aggiungere anche di più, il mio buonissimo Dio poi si degnò di invitare la peccatrice anima mia a fare con lui il simile contraccambio.
A questo invito cresceva a dismisura il sacro orrore dell’anima, e restava fuori di se stessa per lo stupore, e viepiù si accresceva in me il lume della propria cognizione, che mi umiliava profondamente, in maniera tale che non saprei bilanciare se sia più il godere di questi divini favori o la pena che si soffre nel conoscersi immeritevole di queste grazie; la santa umiltà che Dio comparte all’anima mia in questi casi è tanto grande, che l’anima si profonda sotto i piedi degli stessi demoni, benché anche si veda favorita dall’amoroso suo Dio, perché giustamente conosce che questo non è che un tratto purissimo della sua infinita carità.
73.10. Datemi i vostri cuori per amarvi
Il dì primo novembre 1823, festa di tutti i Santi, a maggior gloria di Dio e a mia confusione, scrivo il favore che ricevetti dall’infinita bontà di Dio.
Nei giorni antecedenti a questa festività, con preghiere e lacrime chiedevo, con grandi istanze, il santo amore di Dio, e lo chiedevo per intercessione di tutti i santi che sono in cielo; e per ottenerlo mi rivolgevo alla Madre del santo amore, Maria santissima, e al suo divino figliolo Gesù: «Madre mia», dicevo, «caro mio Gesù, datemi i vostri cuori, per amarvi!».
Questa preghiera la feci per molti giorni, con molto fervore e grande istanza, con lacrime e penitenza, per quanto la santa obbedienza me lo permetteva.
La mattina suddetta, tutto ad un tratto si concentrò il mio spirito in Dio. In questo tempo mi trovai con lo spirito in una amenissima campagna, mi trovai circondata da molti celesti spiriti, i quali invitavano l’anima mia a lodare e benedire l’eterno Dio. L’anima, con profondo rispetto, si unì a quei beati spiriti, e adorò e benedì l’eterna maestà di Dio. Poi mi condussero con loro sopra un altissimo monte, dove io vedevo il mio Dio, che assiso se ne stava nella sua gloria, come riposando, compiacendosi nel suo medesimo splendore. Si degnò invitare la povera anima mia ad approssimarsi a lui.
L’anima, piena di confusione, confessava di essere indegnissima, si copriva di rossore e di santo timore insieme; sbalordita resta l’anima per il divino suo splendore; per questa cagione ricusò il paterno invito. Il mio Dio non si offese per questo, ma, compatendo il mio smarrimento, così prese a parlare: «Diletta mia figlia, il mio splendore ti abbaglia la vista, ti riempie il cuore di santo timore, perciò non ardisci di avvicinarti, hai ragione! ma io per tuo amore oscurerò il mio splendore».
In questo tempo mi si diede a vedere il mio Dio, sotto un’altra forma, e così la povera anima poté a lui avvicinarsi, conservando nel mio cuore il dovuto rispetto e la dovuta stima alla sua divina maestà.
Ricevette l’anima doni e grazie per il suo profitto spirituale, segnatamente il lume di propria cognizione e contrizione dei propri peccati, santo fervore, come ancora si degnò Dio, per sua bontà, alle povere mie preghiere di liberare un grande numero di anime del purgatorio, per le quali incessantemente pregavo in quei santi giorni, in cui ricorreva il loro anniversario. Si degnava il mio Dio di farmele vedere come a schiere a schiere, per mezzo dei loro santi angeli custodi, si compiaceva di introdurle alla celeste magione, per renderle beate per tutta l’interminabile eternità.
L’anima godeva, per questo bel trionfo della divina misericordia, una dolcezza di paradiso, ma da un’altra parte sentiva una santa invidia per la loro sorte, sicché il contento mi si convertiva in pena.
Il dì 10 novembre ritornai dal paese di Marino in Roma, dopo essermi trattenuta 25 giorni, nei quali feci giorni 20 di santi esercizi e di santo ritiro.
73.11. La nave della Chiesa
Il dì 10 gennaio 1824 l’anima fu ammessa a parlare familiarmente con il suo Dio, trattenendosi per sua infinita bontà a parlare con la povera anima delle presenti circostanze della nostra santa religione cattolica e della santa Chiesa.
L’anima mia così pregava il suo Dio per i presenti bisogni della santa Chiesa: «Mio Dio», diceva l’anima, «quando sarà che io vi veda da tutti gli uomini onorato e glorificato come conviene? Ma, oh mio Dio, quanto sono pochi quelli che vi amano! oh quanto è mai grande il numero di quelli che vi disprezzano, mio Dio, che grande pena è questa per me! Credevo con questa nuova elezione di pontefice si fosse rinnovata la santa Chiesa, e che il Cristianesimo avesse a mutare costume; ma, per quanto vedo, camminano ancora nello stesso piede».
A questo mio affannoso parlare, Dio così mi rispose: «Figlia, non ti ricordi che io ti dissi che la nave era la stessa e che poco gioverebbe ai naviganti di questa nave l’aver cambiato il pilota?».
L’anima: «Ah sì, mio Dio, mi ricordo che, tre giorni dopo l’elezione di questo sommo pontefice Leone, mi faceste bene intendere che la serie delle persecuzioni non era per terminare. Mio Dio, se la nave sarà sempre la stessa, noi andremo sempre soggetti agli stessi mali! Ah Signore, metteteci riparo voi, fate una nave nuova, che ci conduca tutti al porto della beata eternità del paradiso! Sì, mio Dio, vi chiedo questa grazia, deh non me la negate, per i vostri infiniti meriti, mi avete promesso di esaudire le povere mie preghiere, deh, per vostra bontà, ascoltatemi dunque, che io vi prego per tutto il Cristianesimo: rimetteteci sul buon sentiero, ve ne prego, ve ne supplico, per il vostro sangue preziosissimo; deh fabbricate la nave di nostra sicurezza!».
Così mi intesi rispondere: «Figlia, prima di costruire questa nave, si devono recidere cinque alberi che sono in terra sopra le loro radici».
A questo parlare, l’anima mia molto si rattristò, pensando che vi fosse un lunghissimo tempo per formare questa nave. «Dunque», dicevo piangendo, «non basteranno due secoli per fabbricare questa nave! Mio Dio, che pena è questa per me, se Noè mise cento anni per fabbricare l’Arca, voi dunque, mio Dio, proseguirete ad essere offeso per tanto spazio di tempo? Io non ci posso pensare, mi sento venir meno dal dolore. Gesù mio, levatemi la vita, mentre non reggo a vedervi tanto offeso».
Piangevo dirottamente ed ero sopraffatta da grande afflizione di spirito; nel tempo che stavo in questa afflittiva situazione, così intesi parlarmi: «Rasserena il tuo spirito, rasciuga pure le tue lacrime. Sappi che questo non è un lavoro terrestre, come quello di Noè, ma un lavoro celeste, mentre i fabbricatori di questa nave sono i miei angeli. Rallègrati, o mia diletta figlia, e non ti rattristare! Il tempo è nelle mie mani, posso abbreviarlo quanto mi piace, prega, non ti stancare, non sarà tanto lungo quanto tu pensi».
L’anima così rispose: «Quanto mi rallegrate, mio Dio, col farmi sapere che vi compiacerete di abbreviare il tempo alle vostre misericordie, venga presto questo tempo benedetto, o mio Signore, che da tutti siate conosciuto, amato e adorato come conviene».
73.12. Il significato dei cinque smisurati alberi
Intanto il mio spirito in un baleno fu condotto a vedere il grande arsenale, dove vedeva molti santi angeli, che erano tutti intenti a dare di mano a questa grande opera; vi erano nel grande arsenale molti legni da costruzione, come ancora gli ordigni per costruire la detta nave, altri legni di costruzione vedevo fuori dell’arsenale allo scampagnato di una grande macchia, fui condotta poi nell’interno di detta macchia, dove mi furono additati i cinque alberi di smisurata grandezza. Osservai che questi cinque alberi con le loro radici alimentavano e producevano un foltissimo bosco di milioni di piante sterili e selvatiche, alla rimembranza di queste, non potei contenere le lacrime, restai attonita e piena di afflizione mi raccomandavo ai santi angeli, acciò disbrigassero la grande opera che gli aveva commessa il Signore.
Comunicai il suddetto fatto al mio padre spirituale, il quale in quel momento niente mi rispose su di ciò, ma il giorno appresso mi disse: «Pregate il Signore, acciò si degni farvi intendere il significato di quei cinque smisurati alberi che vi ha fatto vedere».
Puntualmente obbedii, e pregai il Signore a manifestarmi il significato di quei cinque smisurati alberi; si raccolse il mio spirito in Dio, e in quel tempo feci l’umile petizione al mio Dio, mostrandogli l’obbedienza che mi aveva imposto il mio padre spirituale. Dio, per sua infinita bontà, ricondusse il mio spirito in quella foltissima macchia, dove tornai a vedere i sopraddetti alberi di smisurata grandezza. Per mezzo di intellettuale intelligenza mi si fece intendere essere in questi smisurati alberi denotate le cinque eresie che infettano il mondo in questi nostri tempi, eresie che si oppongono del tutto al nostro santo Evangelo, e ne cercano la propria distruzione, queste maligne piante con le loro venefiche radici davano alimento a tutte quelle piante, che si trovavano in quella foltissima macchia, che altro non vedevo che alberi secchi e sterili.
74 – AFFERRAI IL BRACCIO ONNIPOTENTE DI DIO
74.1. I cattolici del suo tempo
Il dì 22 gennaio 1824, il mio spirito fu di nuovo ricondotto in quella sopraddetta macchia, dove con somma mia pena distinguevo in quella tetra rappresentanza di sterilissimi alberi, come già dissi, la sterilità lacrimevole di tante povere anime, che sono senza numero, che, depravate le loro coscienze, possono chiamarsi senza fede, senza religione, perché a tutto pensano fuorché a quello che ogni buon cattolico è obbligato di pensare, tutto operano fuori di quello che devono operare; ma, tutti intenti e sovvertiti dalle false massime della filosofia dei nostri tempi, conculcano la santa legge di Dio e i suoi divini precetti: queste misere piante sono riguardate dal divino padrone non solo per sterili, ma per nocive e pessime, meritevoli di essere gettate nel fuoco eterno.
Si trovava dunque il mio povero spirito in questa sterilissima terra, guardava con occhio di compassione quelle misere piante, conoscendo il significato di esse, piangeva dirottamente, compassionando lo stato infelicissimo di queste povere anime viatrici; quale e quanta fosse la pena e l’afflizione che ne provava il mio spirito non posso al certo ridirlo. Mi pascevo di amarissime lacrime e dei più affannosi sospiri, pensando che tante anime, redente col sangue preziosissimo di Gesù Cristo, si trovassero in stato così deplorabile; pregavo per queste anime infelici, mi raccomandavo; ma nella preghiera si accresceva in me a dismisura l’affanno e la pena, perché Dio, per sua bontà, mi dava una chiara cognizione della loro malizia, della loro sfacciataggine, della loro temerarietà nell’offenderlo, nel disprezzarlo.
Oh Dio, a questa cognizione il mio spirito restò interdetto, e non poté più pregare, perché la giustizia di Dio me lo vietava. Intanto nel mio cuore si accresceva la pena, l’affanno, ed era trapassato da fiero dolore; il grave timore di vedere un Dio sdegnato mi faceva tremare da capo a piedi e mi riempiva di sacro orrore.
74.2. Dio sdegnato
Quando fui in questo stato ridotta, che già più non distinguevo me stessa per lo spavento, né sapevo se più abitavo la terra dei viventi, allora mi si fece vedere Dio sdegnato, minacciando un subitaneo castigo, vedevo scorrere il suo braccio onnipotente or qua or là per incendiare, per distruggere, per mezzo di fulmini dell’irritato suo sdegno, quasi tutto il mondo.
Nel vedere questo eminente e terribile castigo, che Dio voleva mandare sulla terra, la povera anima mia, benché così atterrita e spaventata, per mezzo della grazia di Dio, riunì le indebolite sue forze, e correndo appresso all’irritato braccio onnipotente di Dio, ritenendolo forte, come un tenero figlio che si stringe al braccio del suo amato padre, quando vede che sdegnato vuole punire con severo flagello i suoi discoli figli, il fanciullo fratello, mosso dalla carità e dall’amore dei suoi fratelli, benché conosca le deboli sue forze, ciò nonostante spera nella pietà del suo buon padre, in simil guisa si diportò il povero mio spirito in questa funesta occasione, ma questo paragone è assai languido per esprimere la verità del fatto.
Il mio spirito dunque riunì le poche sue forze e per mezzo della grazia del Signore, con gemiti e sospiri, gridava misericordia, piangendo dirottamente per muovere a compassione il bel cuore del mio Dio, ma tutto questo non giovava, perché il suo braccio vendicatore si fermasse, tenendo nella sua onnipotente mano cento e mille fulmini racchiusi insieme. Mossa la povera anima mia da santo zelo, per non veder patire tante anime nel fuoco eterno, mi slanciai dunque verso il divino furore di Dio, che procedeva il suo braccio onnipotente e, oltrepassando i limiti del mio proprio dovere e della mia dovuta soggezione, afferrai con le mani dell’anima il braccio onnipotente di Dio e così, tenendomi fortemente stretta ed abbracciata, facevo a lui dolce violenza, ma intanto il braccio onnipotente, preso dal suo giusto furore, scorreva con violenza qual rapido vento, per fulminare, per castigare tutto l’universo. Ciò nonostante, il mio spirito, benché fosse molto malmenato, non lasciò mai di tenere forte il braccio vendicatore di Dio, perché io non volevo che avesse scagliato quei fulmini, che teneva racchiusi nella sua mano onnipotente. La tenevo dunque fortemente stretta con quanta forza avevo, con lacrime e sospiri così gridavo: «Giustissimo giudice, avete ragione, meritiamo per i nostri peccati questo tremendo castigo, ma vi muovano a pietà i meriti infiniti del nostro divino Redentore. Mio Dio, placatevi, per Gesù Cristo vostro figliolo».
Andavo, piena di affanno, ripetendo queste ed altre simili espressioni, invocando ancora l’aiuto di Maria santissima, per ottenere la grazia, non lasciavo intanto di tenere fortemente stretta la mano onnipotente di Dio, acciò non avesse scagliato i fulmini che teneva racchiusi, stretti nella sua mano. Intanto il suo divino braccio, mosso dal suo giusto furore, scorreva per l’aria qual rapidissimo vento. Il mio spirito, benché fosse così dibattuto, che credevo propriamente di morire, per avere scorso così rapidamente per l’aria centinaia e migliaia di miglia, così portato dal braccio onnipotente di Dio, finalmente vinsi la vittoria, anzi, per meglio dire, dico che dopo di avere, per gli infiniti meriti di Gesù Cristo, espugnata la grazia, Dio, per sua infinita bontà, si degnò di cedere alla costanza della povera anima mia, Dio si degnò di farsi vincere cortesemente dalle deboli mie forze, per così magnificare la sua grandezza.
Fatta questa operazione, che al mio povero spirito costò molta fatica e strazio, sia detto tutto alla maggior gloria di Dio, e a mia somma confusione, questa operazione, fatta dalla povera anima mia, si deve tutta a Dio, perché è un sommo ardire di una poverissima creatura peccatrice come sono io, di fare violenza alla divina giustizia di un Dio di infinita maestà.
A dire il vero io non so come la cosa andasse, mi pare di certo che io spontaneamente non deliberassi di commettere un simile ardire, mentre alla sola cognizione che ebbe l’anima dello sdegno di Dio, tremavo di spavento da capo a piedi, conoscendo che anche io entro nel numero dei peccatori, e non sapevo se in quel momento Dio era per mandarmi all’inferno per i miei peccati, e per l’attentato commesso di oppormi alla sua divina giustizia, con fargli violenza, sebbene mi pareva di non essere colpevole del detto attentato, mentre io non avevo deliberato volontariamente di fare al mio Dio una simile resistenza, ma per accrescimento delle mie pene non distinguevo se la mia operazione fosse stata grata al mio Dio.
74.3. Il mio male pareva mortale
Quando tornai nei propri sensi, mi trovai stramazzone per terra nel mio oratorio privato, piena di timore e di spavento, non sapevo dove mi trovavo, dubitavo di essere già nel baratro dell’inferno, perché ricordavo Dio sdegnato, ricordavo il mio sommo ardire, e non sapevo se questa mia operazione fosse stata approvata o riprovata da Dio. Tanto grande fu lo spavento prima e dopo, che io non distinguevo più i propri sensi, ero come stupida, ed il fatto lo comprovò, perché, sopraffatta dallo spavento e dal grandissimo strazio sofferto, per essere stata così malmenata e così portata l’anima in aria rapidamente e così velocemente dalla divina giustizia, ne venne, per conseguenza, a soffrire ancora il corpo, sicché un forte stravaso di umori mi fece gonfiare tutta da capo a piedi, e mi rese cagionevole di salute, in guisa che il mio male pareva mortale, ed io infatti ne provavo i cattivi effetti, e credevo ogni notte di rendere l’anima a Dio.
Soffrivo, per grazia del Signore, con somma pazienza questo grave mio male senza lamentarmi, ma tutto soffrivo con molta ilarità di spirito; compiacendomi nella divina volontà del mio Dio, non ignorando qual fosse la cagione del grave mio male. Ma non passarono molti giorni che le mie due figlie ed altri miei parenti si avvidero del grave mio male, benché a tutto mio costo lo dissimulassi, ma il gonfiore non lo potevo nascondere, si misero questi in molta apprensione nel vedere che non potevo più dare un passo senza grande fatica e stento, per l’affanno di petto e per la gravità di tutta la macchina; vollero dunque le figlie chiamare il medico, e questo si fece con il permesso del mio padre spirituale, il quale sapeva la vera cagione del mio male, ciò nonostante mi disse il suddetto che il medico si doveva chiamare per più riflessi, e che mi fossi soggettata, per amore di Gesù Cristo, a prendere quanto avesse ordinato.
Venne dunque il medico a visitarmi, quando vide il mio aspetto ed intese la narrativa del mio male, mi fece un brutto pronostico, il male lo dichiarò quasi incurabile, disse che era una idropisia pessima e che, attese le deboli mie forze, non avrei certamente retto alla violenza del male. Disse il medico alla mia figlia che il male era veramente mortale e che non potevo sopravvivere.
Io tutto riferii al mio padre spirituale, il quale mi rispose: «Voi sapete l’origine del vostro male, Dio penserà a guarirvi, se a lui piace, una visita che vi faccia Dio vi troverete guarita; ma ciò nonostante la prudenza vuole che vi abbiate cura, e date un poco di nutrimento al vostro corpo, i medicamenti prendeteli con parsimonia, acciò non incorriate in un male peggiore».
Non feci né più né meno di quanto mi disse il mio padre spirituale; e difatti non i medicamenti umani, ma varie visite amorose che si degnò farmi il Signore, in pochi giorni mi trovai da questo male mortale guarita.
Come qui appresso dirò, la maggior pena che mi crucciava il cuore, e mi abbatteva nelle forze, era di non sapere se Dio fosse sdegnato con me, per aver fatto violenza alla sua divina giustizia, sebbene avevo acquistato molta tranquillità, dopo che questo fatto lo avevo comunicato al mio padre spirituale, il quale vedendomi così angustiata, mi disse: «State quieta, che questa operazione non potevate farla da voi spontaneamente, ma Dio è stato quello che ve l’ha fatta fare, dunque non può essere sdegnato con voi, state quieta, se Dio per darvi a patire ve lo vuole tenere occulto ci vuole pazienza, Adorate i suoi divini decreti, patite questa pena per amore di Dio, compiacetevi nella sua santissima volontà».
74.4. Dio mi consolò con una sua amorosa visita
Riprendo il filo del racconto. Ero nella forte ambascia e fuori di modo crucciata da questo funesto pensiero, che Dio fosse sdegnato con me per il motivo già accennato di sopra, una folta tenebra mi occupava l’intelletto, un grave timore mi stringeva il cuore, che mi pareva ogni momento di essere maledetta da Dio, ogni momento mi pareva di piombare nell’inferno, alle volte non sapevo neppure distinguere se abitavo più in questo mondo, tanto era grande il timore di Dio sdegnato.
Passai molti giorni in questa deplorabile situazione, cioè dal 22 gennaio 1824 fino al 12 febbraio, nel qual giorno il mio Dio si degnò consolarmi con un’amorosa sua visita, mi fece intendere che era in pace con me, e amava l’anima mia con particolare predilezione. Questo fu un favore molto particolare dell’infinita bontà di Dio, che io non so spiegare; il Signore si diede a vedere alla povera anima mia tutto raggiante di luce, e qual padre di misericordia, abbracciò teneramente il mio spirito, qual padre amante mi assicurò che io stavo in sua grazia, che grato gli era stato quanto avevo fatto e patito per il mio prossimo, con l’interpormi presso la sua divina giustizia, acciò sospendesse il flagello.
Questa amorosa visita fu per me un’ottima medicina, perché mi fece riacquistare la pace e la tranquillità, che in questa occasione avevo perduta, e così principiarono a mitigare i miei malori; non lasciò Dio per sua bontà di consolarmi nel tempo che era ancora infermo il mio corpo, così per mezzo dei suoi divini favori andavo riacquistando la perduta salute.
Era già passato il mese di febbraio 1824 e ancora ero impotente di poter sortire di casa per andare alla chiesa, sebbene, per grazia del Signore, in questo tempo ed in tutte le altre occorrenze che sono stata inabile di sortire, mai mi è mancata la santa Messa, che si è celebrata nel mio oratorio privato, così la quotidiana Comunione questo ancora si deve attribuire ad una grazia speciale di Dio, mentre in tutte le occasioni che io non sono potuta sortire di casa per incomodo di salute, il Signore mi ha mandato sempre molte elemosine di Messe da celebrarsi nel mio oratorio privato, con tanta abbondanza e provvidenza che io ne restavo ammirata, mentre la mia povertà non mi permetteva questo dispendio.
74.5. Un miracolo perenne
Giacché mi trovo di parlare di questo tratto della divina provvidenza, intorno alle elemosine delle Messe, dirò ancora, a maggior gloria di Dio, varie altre cose non meno mirabili di queste.
Io sono una povera donna gravata dal peso di due figlie, abbandonata dal proprio consorte; il quale, ritiratosi a convivere con sua madre e sorelle, non pensa di dare neppure un soldo per mantenere le figlie, sicché io con le due figlie viviamo di elemosina e di quello che possiamo guadagnare con i lavori. Eppure, chi lo crederebbe? fino ad ora nella povera nostra casa, che sono adesso che scrivo lo spazio di circa dodici anni, che Dio si degna di fare questo perenne miracolo, di non farci mancare niente dell’occorrente, ma secondo il bisogno provvede, e provvede in abbondanza, c’è tanto di farne elemosina anche agli altri, questi caritatevoli sussidi mi vengono somministrati da pie persone, che le sono cognite, che conoscono le mie indigenze, questo lo fanno di loro spontanea volontà, ispirati dal Signore, senza che io chieda niente a nessuno.
Altri tratti della divina provvidenza molto mirabili che ho sperimentati, mi pare meglio di tacerli che raccontarli, mentre il mio Dio tanto mi benefica per sempre più umiliarmi e confondermi per mezzo della sua infinita bontà.
75 – IL MIO RE VUOLE CELEBRARE LE NOZZE CON TE
Riprendo il filo del racconto: il mese di marzo feci portare il quadro del glorioso patriarca san Giuseppe nel mio oratorio privato, per ossequiarlo in tutto il mese quotidianamente, con la celebrazione del santo sacrificio la mattina, e la sera con altri ossequi in suo onore. Io pensai di chiedere al santo patriarca che mi avesse ottenuto dal Signore la sua umiltà, la sua castità, la purità della sua intenzione. Lo pregavo incessantemente a concedermi la grazia di amare Dio quanto lui l’amò in questa vita mortale. Nonostante questi buoni sentimenti io sentivo in me un’aridità di spirito, che mi dava una pena molto considerabile; ma, per mezzo della grazia di Dio, la soffrivo con molta rassegnazione e pazienza.
La festa del glorioso patriarca, nonostante i miei incomodi di salute, con il permesso del mio padre spirituale, mi portai alla chiesa, dove subito intesi una gioia, un contento di paradiso, mi umiliai profondamente dinanzi all’augustissimo sacramento esposto, lo ringraziai di avermi fatto la grazia, dopo due mesi, di poterlo adorare, intanto andava crescendo in me il contento di trovarmi alla reale presenza di Gesù sacramentato. Mi sentivo liquefarmi il cuore dall’amore, e spargendo un profluvio di lacrime non mi saziavo di ringraziarlo, di domandargli mille volte perdono di tanti peccati commessi, e gli promettevo di vero cuore di emendarmi e di fare una buona vita. Gli chiesi, in grazia, di poterlo visitare quotidianamente nel santissimo sacramento dell’altare, e poi gli dissi tante altre cose che mi venivano suggerite dal divino amore. Sfogato che ebbe l’anima questi suoi desideri e questi amorosi affetti, si sopì in Dio.
Quando l’anima si era profondata in questo dolce riposo, ecco un messaggero celeste, che col suono della dolce sua voce destò l’anima e così le disse: «Vieni, o nobile sposa, il mio Re, tuo sposo, ti invita: Vuole con te celebrare le nozze».
A queste parole si destò l’anima, e a questa ambasciata si riempì di santo timore e si profondò nel cupo abisso del suo nulla, si smarrì nel suo niente, non sapendo cosa rispondere, rivolta al suo Dio, con voce tremante, così esclamò: «Eterno mio Dio, e come da questo profondo di miserie, in cui mi ritrovo, dovrò io passare a tanta altezza?Ah, mio Dio, non ne sono degna! Ah, non mi regge il cuore! Un sacro orrore di confusione mi ricopre da capo a piedi».
75.1. Sposa diletta, amica mia, vieni
Intanto che l’anima stava così perplessa e vacillante per il timore, fissò in alto lo sguardo e vide il sovrano suo re, tutto premuroso, acciò l’anima si affrettasse ad andare, spedisce altri sei messaggeri celesti, acciò questi conducano alla sua reale presenza l’anima mia. Oh Dio, a questa seconda spedizione non mi resse più il cuore di più indugiare, ma così ricoperta di confusione e di rossore, spronata dall’amore che sentivo verso il mio sommo bene, frettolosa mi inviai alla sommità del santo monte, dove mi si fecero incontro tutti festosi i sei messaggeri celesti, e come in trionfo accompagnarono l’anima al loro sovrano re. Non fummo là giunti, che le nobili porte del divino tabernacolo aperte si videro, un bello splendore di là sortiva e dolce voce così diceva: «Sposa diletta, amica mia, colomba mia, vieni, deh vieni al talamo del tuo Signore, vieni non più tardar».
Oh Dio, qui mi perdo, non so più parlare, non so cosa dire, mi mancano i termini di potermi spiegare, parlate voi per me, o messaggeri celesti, che mi onoraste con l’accompagnarmi, dite voi per me, che io non so ridire, qual fu il nobile ricevimento che mi fece il mio Dio. Io al certo non lo so ridire, la mente umana non ci può arrivare, né a cose sensibili si possono paragonare; ma, per non mancare alla santa obbedienza, alla meglio che posso, qualche cosa dirò.
Quel divino tabernacolo era un vero paradiso, la bellezza, lo splendore non si può spiegare; nel mezzo di quella luce inaccessibile, vedevo molti nobilissimi personaggi riccamente vestiti, pieni di gloria e di maestà. Questo che dico sono le più piccole cose di quella magnificenza incomprensibile, inarrivabile, impenetrabile. Cosa dirò mai del re della gloria, se questi incliti personaggi altro non erano che suoi cortigiani, che assistevano all’augusto soglio della sovrana sua maestà? L’anima, intanto, ebria di amore, e per il grande splendore, mi credevo di morir in mezzo alla gioia, e l’interno gaudio non potevo più contenere, ma disciolta l’anima e liquefatta come in odore di soavità, grato all’amante divino mio sposo, nelle sue braccia mi fece riposare.
Altro non dico, perché più non so dire, godeva l’anima un paradiso di beni senza distinguere, senza capire l’altezza grande del divino favore; godevo i mirabili effetti di questo favore che mi comunicò l’amante Signore, sentendo il mio cuore ripieno di sante virtù, una umiltà così profonda, un annientamento di me stessa, una interna ed esterna mortificazione, un raccoglimento interno ed esterno, una purità, una semplicità molto particolare, una certa unione speciale col mio Dio, che per molti giorni non mi ricordavo di abitare questo mondo sensibile, ma vivevo come in una solitudine, quasi fuori di me stessa, e il mio spirito si trovava tutto concentrato in Dio.
75.2. Il Signore si degnò di portarmi sopra le sue divine spalle
Da questo grande bene che godetti, per lo spazio di giorni sette, il mio spirito passò in una profonda oscurità di mente, unita ad una derelizione di spirito, che mi portava ad un gravissimo patimento. In questo stato, così, altro sollievo non trovavo, che di portarmi con il pensiero all’orto del Getsemani, unendo le mie pene a quelle dell’amante mio Redentore; mescolando le mie pene con le sue gravissime pene, così veniva sollevato l’afflitto mio spirito, benché si accrescessero di molto i miei patimenti, per la compassione che sentivo della passione e morte del mio Redentore. L’amore e il dolore di averlo tanto offeso lacerava il mio cuore, conoscendo essere stata io la cagione di tanto sudor di sangue, che versò l’amato mio bene nell’orto. Alla rimembranza di tanta mia ingratitudine, piangevo amaramente le mie colpe e ne domandavo umilmente perdono al mio appassionato Signore.
In questa afflittiva situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di giorni quindici. Una mattina, improvvisamente, dopo la santa Comunione, il Signore sollevò il mio spirito per mezzo della sua divina grazia, fui condotta dallo Spirito del Signore, in un luogo del tutto nuovo: mi trovai alla sponda di un grande lago, alla vista del quale si atterrì il mio spirito, e rivolta al mio Dio, così esclamai: «Dio mio, per la tua infinita bontà, non mi abbandonare in questo grave pericolo».
A me pare, se non erro, dicevo fra me stessa, che questo lago sia il lago dei leoni, dove fu posto Daniele profeta, questo mi pare un torrente di affanni e di pene insuperabili, e come farò io che sono tanto debole e miserabile, come farò a resistere a tanti urti di tentazioni, mio Dio, dubito di mancarvi di fedeltà, mio Dio, mio Signore, ricordatevi che me lo avete promesso, che mi avreste liberata da queste brutte tentazioni. Degnatevi mantenermi la parola, deh non mi abbandonate in questo penoso conflitto!».
Nel tempo che ero così abbattuta dal forte timore di intraprendere questa nuova battaglia, ecco che tutto ad un tratto sento rinvigorire il mio spirito dal dono della fortezza: «Mio Dio, riprendo con costanza invitta, se voi volete, eccomi pronta, sono contenta di soffrire per amor vostro ogni sorta di travagli, non dubito punto della vostra particolare assistenza».
Ero già determinata di gettarmi in quel profondo lago, quando il mio Signore si degnò farsi da me vedere alla sponda di quel lago, tutto raggiante di luce, con volto piacevole, così mi disse: «Figlia arrèstati, il tuo coraggio ha pagato il mio cuore. Mia diletta figlia, vedi fin dove giunge il mio amore verso di te, ah non regge il mio cuore di vederti in mezzo a questo doloroso conflitto di tentazioni. Figlia, sopra le mie spalle affidati, ed io ti tragitterò da questa all’altra sponda, e ti condurrò sopra quel monte».
L’anima dunque alle dolci parole del suo Signore, piena di rispetto e di venerazione, con santa fiducia, sopraffatta da santo timore sopra le divine sue spalle si abbandonò. L’amante Signore non solo mi tragittò da quella all’altra sponda, ma si degnò portarmi, sopra le divine sue spalle, fino alla sommità di quell’altissimo monte, che io molto da lontano vedevo, e di sua propria mano mi collocò in un piccolo recinto, contornato di altissime muraglie, adagiandomi sopra una risplendente nube, che era in questo recinto, e lì mi fece riposare. Oh dolce riposo! veramente degno dello Spirito del Signore, e chi mai potrà manifestare la sublimità di questo misterioso riposo? Nel tempo che l’anima mia stava così assorta in Dio e riposava nella sua immensità, il Signore di propria sua mano chiuse la porta impenetrabile ma prima di chiudere si degnò assicurarmi che mi amava con parziale amore, dandomi parola che in questo luogo non sarei molestata dai miei nemici, e che nessuno dei miei avversari avrebbe ardito di perturbarmi.
Molte altre cose mi disse l’amante Signore, per rendere quieta e contenta la povera anima mia peccatrice, mi disse inoltre che in ogni mio bisogno avessi invocato il suo santissimo nome in aiuto. Non poco restai contenta e sopraffatta dal dolce riposo, il quale durò per lo spazio di tre giorni, nei quali io posso dire che, l’anima mia non esisteva più nel mondo, ma riposava nelle braccia santissime dell’amante suo Signore, tanto era unita l’anima mia al suo Dio, che in qualche maniera posso dire che per lo spazio di tre giorni, vissi di una vita quasi divina, mentre il mio respirare era un atto continuato di amore di Dio, che pacificamente incendiava il mio cuore, e lo faceva ardere di puro e santo amore, veniva questo divino amore corredato da tutte le sante virtù.
75.3. Sopra un’altura i miei capitali nemici
Beata me, felice me, se questo stato fosse stato in me permanente, ma, passati i tre giorni, mi trovai in quella solitudine senza la presenza dell’amato mio bene, sola, raminga e piena di timore, benché circondata fossi dalle alte muraglie, che mi rendevano sicura del tutto, come ancora ricordavo l’immancabile parola datami dal mio Signore Gesù Cristo, prima di chiudere la porta impenetrabile del detto recinto, dove io mi trovavo. Ciò nonostante nel tempo che stavo fra il timore e la speranza, sento da lungi un forte mormorio, fisso lo sguardo e vedo sopra un’altura riuniti i miei capitali nemici, che congiuravano contro di me, e macchinavano, a danno mio, una forte insidia.
A questa cognizione l’anima mia, con tutto l’affetto del cuore, invocò il santissimo nome di Gesù in aiuto e, palpitando per il timore, piangevo dirottamente e chiedevo al mio Dio soccorso per difendermi dai miei capitali nemici.
Non ebbi terminata la preghiera che il mio buon Dio, per sua bontà, fu in mio soccorso, e così mi parlò al cuore con voce sonante e piena di maestà: «In manibus portabunt te, ne forte offendas ad lapidem pedem tuum». L’anima mia, rivolta al suo Dio, così esclamò: «Ah mio Dio, mio Signore, non sono le pietre che mi offendono, ma sono i miei capitali nemici che mi insidiano, deh aiutatemi per pietà».
Dio così tornò a parlarmi, con voce imponente e autorevole verso i miei avversari nemici, e tutto piacevole ed affabile verso l’anima mia: «Super aspidem et basiliscum ambulabis, et conculcabis leonem et draconem». Con suono di voce dolcissima, e piena di carità, così mi soggiunse: «Quoniam in me speravit, liberabo eum; protegam eum, quoniam cognovit nomen meum».
A questo parlare del sovrano mio bene, l’anima, piena di santa fiducia nell’onnipotenza di Dio, dolcemente riposò, dileguandosi dal mio cuore ogni ombra di timore. Restai nella mia solitudine, dove tuttora mi ritrovo, senza essere stata più molestata dai miei nemici, ma non lascio però di soffrire grandi pene e travagli, in mezzo ad una pace e tranquillità di spirito. Il santo e divino amore fa crudo strazio di me. Oh Dio, di qual tempra sei, o divino amor mio, che tanta possanza hai tu di me, non mi fai requiare né notte né dì. Con mille spade tu ferisci il mio cuore, deh per pietà, guariscimi tu. Ah, tu ben sai qual sia il mio desio: di essere sciolta da queste catene del corpo mortale, per venire in cielo a regnare con te, questo solo è il rimedio per guarire il mio povero cuore, questa è la pena, questi sono i travagli che tuttora soffro in questa solitudine, in mezzo alla pace e alla tranquillità, come dissi di sopra.
Non lascio, in questa solitudine, di meditare la passione e morte del mio amante redentore Gesù, a cui affido, ai suoi meriti infiniti, la causa della mia eterna salvezza. Conoscendomi immeritevole di questa grazia, per i miei gravi peccati ed enormissima ingratitudine, piango amaramente le mie colpe, e gli domando umilmente perdono, gli domando pietà e misericordia, e così mi inabisso nel proprio mio nulla, tutto questo lo faccio per mezzo della divina grazia.
75.4. Vedo una città bella e magnifica
Erano passati quaranta e più giorni che l’anima mia si trovava ancora in quel sopraddetto recinto dove Dio l’aveva posta, un giorno, all’improvviso, vedo uno splendore che mi sollecitò a fissare lo sguardo alla sommità del cielo. Quanto vedo, con sommo mio stupore, una città quanto mai bella e magnifica. L’atrio, ossia lo spiazzo vastissimo, che conduceva a quella santa città, era di tersissimo cristallo. Le mura erano altissime, alla sommità delle quali vedevo tre lucidissimi cristalli in forma di tre occhi, i quali avevano la loro corrispondenza nell’interno, nella gloriosa magione, dove la povera anima mia sempre fisso teneva il suo sguardo, aspirando e sospirando con infuocati sospiri al possesso di quella beata patria da dove, di tempo in tempo, vedevo cose molto meravigliose e belle.
Una volta, dall’occhio di mezzo, mi si fece vedere il mio Dio tutto raggiante di luce, che veramente mi rapì il cuore, tanta era la sua bellezza, che non ho termini di poterlo spiegare. A questa vista si accrebbe a dismisura il mio amore verso il mio Dio, gli affetti dell’anima non potevo più contenere, per la cognizione che mi veniva comunicata dalla divina grazia. Il veemente desiderio di possederlo, formava un dolce ma penoso martirio nell’anima mia, che ogni poco credeva di morire. Per abbreviare lo scritto non dico di più.
75.5. Teneva una corona preparata per me
Un’altra volta mi fu mostrata una corona quanto mai bella, unita a varie palme gloriose che la circondavano; e il mio Dio, dopo avermela mostrata, con il suo braccio onnipotente e maestoso, mi fece intendere che quella corona a quelle palme unita, mi era stata meritata dall’unigenito suo divino Figlio, Signore mio Gesù Cristo, mi fece intendere che mi fossi affaticata per conquistarla, che per me la teneva preparata.
Oh quante lacrime mi costò questa vista, oh quanto si umiliò la povera anima mia, per mezzo della divina cognizione che Dio si degnò compartirmi! Oh Dio, qual pena fu la mia, nel conoscere col lume soprannaturale la mia passata e presente ingratitudine, oh qual confusione, oh qual rossore, oh qual dolore provai di avere tante e poi tante volte offeso il mio Dio di bontà infinita! Dicevo piangendo, con il cuore contrito e umiliato: «Dio mio, e perché mai volete voi coronare la mia fronte con quella preziosa corona che mi avete fatto vedere? Io altro non ho fatto che offendere la vostra divina maestà».
Nel tempo che l’anima era portata dall’eccesso del dolore, e si era profondata nell’abisso del suo proprio nulla, Dio per sua bontà, per non vederla perire nell’eccessivo dolore, dolcemente la fece riposare nel castissimo suo seno, e così la ricreò con meravigliosa soavità e dolcezza, facendomi comprendere, con alta intelligenza, l’amore grande che porta alle anime redente col sangue preziosissimo del suo divino Figliolo.
Non dico più, per brevità, e per confusione di manifestare l’eccesso incredibile e incomprensibile dell’amore infinito che Dio porta a quelle anime che si donano a lui, col consacrargli la loro volontà e con purità di intenzione, non altro cercano che piacere a lui solo, altro non cercano che la perfetta unione della divina sua volontà.
Oh che amor grande dimostra il Signore a queste anime, in certe occasioni, propriamente pare che dimentichi se stesso, la sua grandezza, la sua immensità. Quello che ho detto, sia detto a mia confusione, e alla maggior gloria della sua divina bontà.
76 – L’ANIMA MIA RESTÒ PURIFICATA
76.1. Adorna di tutte le virtù
Il dì 25 giugno 1824 festa del Santissimo Cuore di Gesù, dopo la Santa Comunione, la povera anima mia, ad un tratto fu sopraffatta dallo Spirito del Signore, il quale operò in me, con l’effusione della sua divina grazia, cose molto eccellenti, che io non so spiegare, quello che posso dire è che, ad un tratto, la povera anima mia si trovò adorna di tutte le sante virtù morali e teologali, le quali mi fecero operare degli atti interni di virtù così eccelsi e sublimi, che io ne restai meravigliata e confusa per lo stupore.
Oh quanto bene era assistita l’anima dalla virtù della fede, della speranza, della carità verso Dio e verso il prossimo, come bene ero assistita dalla santa umiltà, purità e semplicità. Tutto questo lo dico a gloria del mio Dio e a mia somma confusione. In quei felici momenti io non conoscevo più me stessa, tanto l’anima si era avvicinata al suo Dio e per riverbero riceveva e scolpiva in se stessa la santità di Dio medesimo, mentre Dio, di sua volontà, ne faceva all’anima mia un dono gratuito.
Nel tempo che mi trattenevo in questi santi esercizi di virtù, segnatamente nell’annientamento di tutta me stessa, riconoscendomi indegnissima di possedere tutte queste sante virtù, ne rendevo umili grazie al mio Dio. Ecco che vedo dalla santa città sortire una luce inaccessibile, nella quale riconoscevo il mio Dio. Da veemente attrazione l’anima mia fu tirata in alto, oltrepassando le alte mura dell’anzidetto recinto, e approssimata fu l’anima a quella bellissima luce, ed a questa luce, in un baleno, mi vidi intimamente unita e strettamente abbracciata, per ben tre volte, provando nell’anima un bene indicibile e inarrabile, che sopravanzava il mio corto intendimento. In questa maniera l’anima restò netta e purificata da ogni colpa e mancanza. Restò il mio spirito, per lo spazio di tre giorni, tutto assorto in Dio, desideroso di esercitarsi nella pratica delle sante virtù con maggiore premura e impegno di prima.
Lascio a gloria di Dio, senza prolungarmi di più, non so se mi sarò saputa spiegare, con la rozza mia dicitura, ma spero che vostra paternità reverendissima saprà condonare alla mia ignoranza l’oscuro ed ottenebrato mio scritto, che mi fa rossore e vergogna di presentarlo a vostra reverenza.
Nel secondo cartolare, appresso di questo, darò conto a vostra paternità reverendissima come nel giorno 29 giugno 1824, festa dei gloriosissimi santi apostoli Pietro e Paolo, il Signore si degnò cambiare situazione alla povera anima mia, conducendola sopra un altro monte, molto più elevato dell’anzidetto monte.
76.2. Sopra un altro monte molto più elevato
Secondo cartolare dell’anno 1824. Il dì 29 giugno, festa dei gloriosi santi apostoli Pietro e Paolo, dopo la santissima Comunione, mi trattenni in orazioni per lo spazio di tre ore e più, senza distinguere, senza capire la propria sensazione, mentre Dio, per sua bontà, aveva come sottratto il mio spirito dal corpo, ovvero sollevato fosse il mio spirito sopra i propri sensi.
In questo tempo il Signore cambiò situazione alla povera anima mia, ma prima di fare questa divina operazione, molti furono i lumi interni che si degnò compartirmi di propria cognizione di me stessa, compartendomi cognizioni ed intelligenza molto alta per conoscere l’ineffabile suo amore.
Rapita l’anima da questa divina cognizione, si inabissò nel proprio suo nulla, umiliandosi profondamente, confessando l’alta bontà di questo grande ed incomprensibile Dio onnipotente, e con ogni giustizia inabissando me stessa nel profondo del mio nulla. Quando, per mezzo di questa divina illustrazione, ero così profondata ed annientata, il mio Dio si degnò manifestarsi alla povera anima mia, ed ecco il fatto come seguì. Stava l’anima in quell’anzidetto recinto sopra quel monte dove Dio l’aveva collocata, come si è già detto nei passati fogli del primo cartolare del 1824.
In questo giorno piacque al mio Dio di condurmi sopra un altro monte, molto più elevato di quello di prima. Il mio spirito si trovava in quell’anzidetto monte, dentro a quel recinto bene muragliato ed impenetrabile. L’anima mia, dopo la santa Comunione, si era dolcemente sopita in Dio, dopo le anzidette cognizioni. Come in soave sonno riposavo nell’infinita bontà di Dio, quando, ad un tratto, fu destata l’anima da un armonico canto di dolcezza e di soavità ripieno. Il rimbombo dell’amabile voce in quel solitario luogo lo rendeva un vero paradiso, mi desta l’anima e fissa lo sguardo e vede aperta la porta del surriferito recinto, e con sommo suo stupore vede l’agnello immacolato. Vedo il mio Gesù, che con l’armonica sua voce invita l’anima a sortire da quel luogo ed andare presso di lui. L’anima si arresta prima di accettare l’invito, e con umile preghiera al suo Signore ricorre, per timore di essere ingannata, ma l’agnello divino bene si fa conoscere dall’anima, per quello che egli è. Assicurata dal vero, prontamente obbedisce, sorte dal recinto e se ne va presso al divino agnello, il benignissimo Signore avverte l’anima di porre il suo piede nelle sue orme divine, altrimenti, le dice, che non potrà salire sopra quell’altissimo monte.
L’anima intimorita da questa istruzione divina, con somma diligenza, attenta badava di porre il suo piede sopra le orme di quel puro ed immacolato agnello, che scintillava fiamme della più pura carità, e inebriava l’anima del santo e divino amore. In questa guisa, camminando mi trovai, senza avvedermi del disastroso viaggio, sopra quell’altissimo monte. Arrivata che fu l’anima alla sommità di quello, sopraffatta da interna dolcezza, ebria di santo amore, si riposò in quella benedetta terra del santo monte, che può chiamarsi vera abitazione di Dio.
Non posso al certo spiegare la bellezza, l’amenità, la soavità di questo benedetto monte. L’anima dunque, sopraffatta da un tanto bene inarrabile ed incomprensibile, dolcemente si riposò, e il divino agnello, compiacendosi di avere trasportata la povera anima mia tanto oltre, dolcemente nel seno dell’anima, graziosamente anch’esso si addormentò. Oh dolce riposo, che trasformò l’anima nel suo Signore, io non ho termini, io non ho lena di potermi spiegare; i santi affetti, l’ardente amore strettamente mi univano, mi congiungevano al mio divino Signore. Altro non dico, perché non so ridire, che cose grandi siano questi favori divini, che Dio comparte alle anime per sua infinita bontà.
Il dì 6 luglio 1824, il divino agnello pur si degnò farsi vedere, ma per mettere tutto in chiaro, alla meglio che mi sarà possibile, per mezzo della divina grazia, descriverò la situazione di questo benedetto monte. Era questo monte altissimo, amenissimo e di soavità ripieno, ai piedi di questo monte vi era un mare placidissimo, le dolcissime sue acque cristalline, spumeggianti di splendore, da dove si vedeva in prospettiva la beata magione. Benché quel beato soggiorno io lo vedevo in distanza, sotto la similitudine di un magnificentissimo fabbricato triangolare, come ho di già detto nel primo cartolare del 1824. Conosco in vero la mia ignoranza, non avendo termini sufficienti di spiegare la bellezza, la vastità, la magnificenza di queste spirituali intelligenze, o siano divine rappresentanze intellettuali, che il Signore si degna mostrarmi, nel più segreto ed intimo dell’anima mia. Ed è ben vero che non si possono alle cose sensibili paragonare, per quanto grandi e belle siano le cose che vediamo in questa terra mortale, c’è una grande diversità dalle celesti alle terrestri, dalle cose spirituali alle temporali; mi pare al certo che lo scrivere i favori e le grazie che Dio comparte alle anime, per sua infinita bontà, altro non sia che segnare al muro, con un nero carbone, la bellezza e lo splendore del sole.
76.3. Voglio farmi santa
Riprendo il filo del racconto. Il divino agnello pur si degnò farsi vedere dalla povera anima mia. Oh qual consolazione provò il mio cuore! Di santi affetti fu ricolma la povera anima, alla vista del suo divino Signore! Dopo dolci e varie espressioni, il divino agnello si compiacque nel seno dell’anima di riposare, ed intanto che l’anima dolcemente dormiva, unita all’amato suo bene, ad un sol cenno dell’agnello divino, le dolci acque del placido mare gonfiar si videro, ed innalzare fin sopra al monte, per così bagnare ed immergere l’anima, che unita stava e riposava con il suo agnello divino. Si scosse l’anima alla dolce immersione, e più strettamente al suo bene si unì. Le preziose acque di questo mare divino, più bella e più pura resero l’anima, e più accettabile divenne all’amato suo bene. Di più spiegarmi non mi conviene. L’intenda chi intende, quanto grande sia l’amore immenso di un Dio creatore, di un Dio redentore. Non so spiegarmi, non so parlare, perdono ti chiedo, o Dio immortale, dei rozzi termini che mi conviene usare, la mia ignoranza non sa encomiare la tua alta bontà. Deh, padre mio, rivolta a lei perdono chiedo a vostra paternità, se non so esprimere, se non so dire l’amore grande del mio Gesù.
Questi divini favori, che di tratto in tratto mi comunicava il mio Dio, per pura sua bontà, rendevano viepiù illuminata l’anima mia a conoscere qual bene sia Dio, e quanto mai sono grandi le sue divine perfezioni; a questo chiaro lume, l’anima si inabissava nel proprio suo nulla, riconoscendosi immeritevolissima di questi divini favori. Riconoscendo i propri miei peccati, difetti e mancanze, con tanta chiarezza, che, sopraffatta da santo orrore, odiavo me stessa per le gravi offese fatte al mio buon Dio, piangevo amaramente, e con tutto il fervore possibile domandavo in grazia al Signore, che mi avesse liberata da tutti questi difetti e mancanze, che in me conoscevo, per mezzo della sua divina grazia.
Concepii una certa speranza, di ottenere questa grazia in virtù dei meriti del mio salvatore Gesù, al giusto riflesso che me lo aveva meritato con tutto lo sborso del suo preziosissimo sangue. Dicevo dunque al mio Dio con santa fiducia: «Non mi spaventano i miei peccati, le mie mancanze e difetti. Io voglio farmi santa, Gesù mio. L’opera ha da essere tutta vostra. Sì, voglio farmi santa a vostra maggior gloria, e non ad altro fine vi chiedo questa grazia».
La suddetta preghiera era fervente, umile, frequente, insistente e semplice, piena di fiducia, sperando, per gli infiniti meriti di Gesù Cristo, per certo di ottenere la suddetta grazia, di maniera che tutte le mattine, nell’accostarmi a ricevere la santissima Comunione, speravo di divenir santa, con il prodigioso contatto dell’eucaristico sacramento. Con umili e ferventi proteste dicevo al mio Gesù sacramentato: «Il fine per cui vi ricevo, Gesù mio, voi lo sapete. Fate, mio Dio, in questo momento, questo miracolo: Santificate la povera anima mia peccatrice», e con santa fiducia ne speravo assolutamente la grazia, e benché nella giornata cadessi in molti difetti, pur non mi perdevo di coraggio, dicevo fra me stessa: se non sono divenuta santa questa mattina, spero certo che domani mattina otterrò da voi la grazia, Gesù mio.
77 – CON L’AGNELLO DIVINO
77.1. Diventare santa per mezzo della comunione
Passai tutto il mese di luglio 1824 in questo ardente desiderio, mettendo in pratica, con ogni attenzione, tutti i mezzi opportuni per non mancare nella giornata. Raccomandandomi di frequente al Signore, procuravo di vigilare sopra me stessa, per non mancare né con opere, né con parole, chiedendo umilmente grazie al Signore di esercitarmi nelle sante virtù. Una mattina, più del solito toccata l’anima mia dalla grazia di Dio, nel comunicarmi chiesi la grazia di diventar santa, per mezzo di questo divino sacramento. Era tanta la santa fiducia che mi compartiva il mio Dio, che arrivai a non poterne dubitare. Dicevo al mio santo Angelo custode: «Pregate anche voi, o Angelo mio tutelare; anzi vi dico ringraziate per me il mio Dio, perché questa mattina, di certo, mi fa santa, con il suo divino contatto. Rallegratevi, Angelo mio benedetto, perché se vi siete degnato assistermi peccatrice, avrete la gloria di assistermi giustificata, per il sangue prezioso del mio Gesù, io confido e spero di ottenere la santificazione dell’anima mia».
Con queste, ed altre simili espressioni fiduciali, mi accostai a ricevere questo cibo divino, questo pane di vita eterna, con umili sentimenti e con abbondanza di lacrime, che versavo in larga copia. Dopo essermi trattenuta nei più umili ringraziamenti, ricevuto che ebbi il mio Dio sacramentato, l’anima mia si sopì in Dio, facendo uno spoglio totale di tutta me stessa, abbandonandomi in tutto e per tutto al suo divino beneplacito. Questo spoglio totale, ossia staccamento di tutta me stessa, fu molto singolare, perché mi fu comunicato dal Signore per speciale grazia. Sicché io non posso ridire di qual tempra fosse questo spoglio, questo staccamento di tutta me stessa, per il quale l’anima purificata, assottigliata, poté liberamente penetrare ed essere introdotta nell’immensità di Dio, dove conobbi, con molta chiarezza, cosa mai corre dal finito all’infinito, in una parola, cosa siamo noi e cosa sia Dio, cosa siano i beni transitori e quali gli eterni.
77.2. Il divino Agnello mi invitava ad andare da lui
Nel tempo che l’anima conosceva queste grandi verità, e che ne godeva un bene sommo in Dio medesimo, per essere l’anima mia tanto racchiusa e intimamente unita alla divina immensità di Dio, che non ho termini di saperlo spiegare; nel tempo che godevo di questo bene inarrabile, nel quale stavano occupate tutte e tre le potenze dell’anima mia, e si erano in questo immenso bene smarrite, e affatto perdute, tutto ad un tratto, cessò l’illustrazione, tornarono le potenze ad agire tutte innamorate di Dio, in quell’istante mi trovai sopra un altissimo monte, dove vedevo una moltitudine di santi Angeli, tutti in bell’ordine disposti. Questa sola vista sarebbe bastata, per riempire il mio cuore di contento, perché era tanta la loro bellezza, la loro vaghezza, la loro maestà e purità, che in quei sovrani spiriti risplendeva la beltà del mio Dio.
Le legioni di questi angelici spiriti, che circondavano questo santo monte, bastavano per renderlo un vero paradiso. Ma quanto più attonita restò la povera anima mia, quando si vide assai più favorita dal suo Dio, restai piena di smarrimento e di stupore, quando vidi dall’alto dei cieli un’immensa luce, nel mezzo della quale, vedevo tutto raggiante il divino agnello, che placidamente riposava ad occhi aperti, sopra quella luce inaccessibile. Fisso teneva il suo sguardo sopra la povera anima mia, e mi invitava acciò mi approssimassi a lui. Ma, oh Dio! l’anima sopraffatta da sommo timore, non aveva il coraggio di fare ciò; ma, annientata in se stessa, si profondava con umile rispetto e particolare reverenza, senza potermi muovere da dove mi trovavo, ma tremavo da capo a piedi, piena di rossore, mi confessavo indegnissima di trovarmi in luogo sì eccelso; ma siccome a questo portento prodigioso di misericordia vi era presente la grande imperatrice del cielo, Maria Vergine santissima, ah non resse il materno cuore della sovrana Regina nel vedere che tanto di pena provava la povera anima mia e che non poteva, per il grande timore, obbedire al cortese invito del divino Signore.
77.3. La Regina Maria mi accompagnò al trono dell’Agnello
Mossasi a compassione, la Madre di misericordia, di vedermi tanto annichilata, e priva di coraggio, per compiacere l’agnello divino, in persona venne l’amorosa Signora, piena di gloria e di maestà e di bellezza, a farmi coraggio, e lei stessa si degnò accompagnarmi vicino all’augusto trono dell’agnello divino. Quando fummo in una certa distanza, tre santi Angeli sollecitamente portarono tre ricchi sgabelli, in uno dei quali si adagiò la grande regina Maria santissima, nell’altro sgabello sedette il grande precursore Giovanni Battista, riccamente vestito e pieno di splendore, il quale, prima di adagiarsi sopra lo sgabello, fece tre profondi inchini. Io stavo in piedi, accanto a Maria santissima. Il suo splendore ricopriva la mia confusione. Io ero fuori di me stessa, nel vedere cose così grandi e così meravigliose, ed insieme così misteriose, che io non sapevo come andassero a terminare. Nel tempo che stavo così concentrata e piena di ammirazione, sopraffatta da santo timore, la Vergine santissima mi obbligò di adagiarmi sopra lo sgabello, seduta che fui anche io accanto alla divina Madre, il santo precursore sciolse la sua profetica lingua, ed encomiò il divino agnello e la sua Vergine Madre. Indirizzò il suo discorso alla povera anima mia, dicendomi parole di vita eterna; alle parole di questo santo glorioso, tutta mi disciolsi in lacrime d’amore e di compunzione. Terminato il suo discorso, ci alzammo tutti e tre in piedi, e in questo tempo vedo che un Angelo delle prime gerarchie, genuflesso ai piedi di Maria santissima, le presentò un ricchissimo calice, adorno di preziosissime gemme. Era questo calice coperto con la sua patena. La grande madre di Dio, prese il calice nelle sue santissime mani, il messaggero celeste, con profondo rispetto e riverenza, con un candidissimo panno levò dal calice la preziosa patena, e la divina Signora dette all’anima mia a bere di quel prezioso liquore. Oh balsamo! oh liquore divino di soavità ripieno! Quali mirabili effetti in quei preziosi momenti mi facesti provare! Quale trasmutazione facesti tu dell’anima mia! Qual fiamma di carità accendesti nel povero mio cuore! Quale illustrazione al mio intelletto! Qual lume alla mia mente! E chi potrà mai ridirne i prodigiosi effetti? Io no di certo. Sicché taccio, senza passare più oltre, mentre mi pare, che certi favori di Dio siano, per l’infinita bontà di Dio, compartiti alle anime, senza termini, senza misura, senza limiti. E chi ardirà di parlarne! Mi permetta, dunque, vostra paternità reverendissima, che io ponga fine a questo mio racconto gaudioso, e mi dia licenza di narrare come da questo gaudio passai a soffrire le pene più afflittive di spirito, di aridità, di oscurità, di foltissime tenebre, che la povera anima mia si ridusse in uno stato deplorabile. Sono certa che non recherà meraviglia a vostra paternità reverendissima questo mio racconto così luttuoso, benché al vivo e io non lo posso manifestare di qual tempra siano queste sorte di patimenti, in cui Dio pone le anime dopo di averle favorite; ma vostra reverenza, come perito di questa scienza, bene intende il tutto, benché io non mi sappia, per la mia ignoranza, spiegare. A me pare così: quanto più Dio si degna sollevare le anime con i suoi divini favori, tanto più gli dà a patire, sprofondandole nel cupo abisso del patire. Questo basti per dire tutto.
In questi gravissimi patimenti passò la povera anima mia il mese di agosto, settembre, ottobre, novembre e dicembre 1824; ma devo dire però, a gloria del medesimo Dio, che in questi quattro mesi, non mancò l’amorosissimo Signore, di tratto in tratto, favorire la povera anima mia, e così risorgerla dalle agonie mortali in cui si trovava; ma questi divini favori erano di poca durata, e formati tanto nell’intimo dell’anima, che appena ne aveva la cognizione, che si dileguavano dalla mia mente e tornavo nel mio doloroso conflitto. Qualcuno che ne ricordo lo scriverò, avendo trascurato lo scrivere, per i gravi patimenti che mi hanno ridotta come insensata.
77.4. L’imperatrice del cielo mi coronò con una preziosa corona
Il dì 15 agosto 1824, festa di Maria Santissima Assunta in cielo, dopo la santissima Comunione fu l’anima trasportata in un luogo amenissimo, bellissimo, dove vedevo questa divina Signora, cinta da immensa luce, corteggiata da una moltitudine di sante vergini e da stuolo immenso di Angeli. A questa vista, non posso al certo spiegare qual gioia, qual contento provò il mio cuore, godetti un paradiso di contento, allora sì non sentivo più le pene mie, ma un torrente di celeste gaudio inondava l’anima mia. La divina Signora si degnò chiamare a sé l’anima mia, ma io, per rispetto e riverenza, stavo ritrosa nell’obbedire al cenno della Vergine e Madre, ma due Angeli delle prime gerarchie si degnarono di accompagnarmi all’augusto suo trono, dove mi prostrai ginocchioni con umile rispetto e profonda riverenza, piena di confusione per vedermi così favorita in mezzo a tante sante vergini, che la loro bellezza e il loro splendore era incomprensibile; io non avevo coraggio di mirarle, perché ero tutta annientata in me stessa. Intanto la divina Signora si degnò coronare la mia testa con una preziosa corona; così disparve la celeste visione lasciando nel mio spirito i sentimenti più vivi di affetto e di amore verso l’Imperatrice del cielo. Riconoscendomi indegnissima di sì alto favore, la supplicavo con lacrime e con preghiere, acciò si degnasse concedermi la grazia di corrispondere ai tanti divini favori, che Dio mi ha compartiti per sua pura bontà.
77.5. Il purgatorio rimase poco meno che vuoto
Nel mese di settembre e ottobre 1824, per avere trascurato lo scrivere, so di avere ricevuti dei celesti favori, ma adesso che scrivo sono tanto avvolta nelle dense tenebre, non mi ricordo, né saprei dire, cosa siano questi celesti favori, perché dove mi volgo trovo il patire, se mi concentro mi par di morire. Il mio diletto se ne fugge da me. Invano lo cerco, con affanni e sospiri, l’amore si compiace nel vedermi patire, l’anima intanto, per compiacere l’amore, ansiosa brama di viepiù patire.
Nel mese di novembre 1824, nell’ottava dei defunti, fui favorita in tutti gli otto giorni di particolare grazia, in vantaggio delle anime sante del purgatorio. Dopo lunghe orazioni che facevo per suffragare le suddette anime, si degnava farsi vedere l’agnello divino. Con tutta piacevolezza mi domandava cosa bramavo. L’anima frettolosa rispondeva: «Ah, mio Signore, voi lo sapete, desidero liberare le anime sante dal purgatorio».
L’agnello divino così mi rispose piacevolmente: «Te ne concedo la grazia; a tuo arbitrio libera quante anime vuoi dal purgatorio». L’anima rispose: «Mio Dio, mio Signore, e come volete che io faccia a liberarle, se sono tanto miserabile e peccatrice? Gesù mio, venite voi con me a quel carcere, allora sono certa di liberarle!». «Sì», rispose il divino agnello, «andiamo, voglio compiacerti!».
Allora l’anima fu invitata dal suo Signore ad abbandonarsi sopra i sacri omeri del misterioso agnello, e così preceduti e seguiti da stuolo immenso di santi Angeli e da una splendidissima luce, che circondò l’agnello immacolato Gesù, l’anima intanto riposava sopra le spalle dell’agnello divino.
All’apparire quella splendida luce, nel tenebroso carcere, si sentivano i gemiti e le preghiere di quelle sante anime, che chiedevano misericordia e pietà. La povera anima mia, alle lamentevoli voci, si sentiva scoppiare il cuore, e soffocata mi sentivo da tenero pianto, dalla compassione mi pareva di morire.
Ognuno può immaginare con quanto fervore pregassi il mio buon Signore, stringendolo forte al mio cuore. Con sommo amore per quelle sante anime chiedevo misericordia e pietà. L’amante agnello così mi disse: «Figlia diletta mia, poni la tua mano nel forame del mio cuore, e lascia scorrere il mio sangue a larga copia». L’anima prontamente obbedì, ponendo con sommo rispetto e riverenza tre dita nel forame del sacro costato di Gesù Cristo, e immantinente si vide quel divino Agnello intriso del proprio sangue. Oh, sangue preziosissimo! io ti adoro profondamente.
L’anima, a questo prodigioso portento di amore, restò estatica per l’ammirazione e per il grande amore che sentiva verso l’amorosissimo Gesù. Quel sangue divino, che scorreva in larga copia, andò ad estinguere quelle atroci fiamme. Allora si vide la moltitudine di quelle sante anime purganti ripiene di gioia e di contento. Scesero allora in quel carcere i loro santi Angeli custodi, e le condussero con sommo gaudio al cielo, in mezzo ad una risplendente luce. La povera anima mia restò piena di contento, e fuori di se stessa, ammirando l’infinita bontà di Dio.
In tutti gli otto giorni dell’anniversario dei fedeli defunti mi seguì questo fatto, sempre nei medesimi termini. L’ultimo giorno ebbi il contento di vedere, con sommo mio stupore, quel carcere poco meno che vuoto.
Quali e quanti furono i ringraziamenti che fece l’anima al suo Dio, non ho termini di poterlo spiegare.
77.6. Verso una vita deiforme
Nel mese di dicembre 1824, proseguì l’anima a soffrire il suo martirio interno di abbandoni penosissimi, di desolazioni crudissime, di tenebre densissime. Solo provavo di tratto in tratto qualche interno soccorso, ma tanto intimo che l’anima appena lo poté distinguere.
Mentre mi pare che Dio stia facendo nell’anima mia un’opera, la quale non voglia manifestarla all’anima, sicché l’anima sente in sé l’opera del Signore, ma ne vive digiuna affatto.
L’opera per se stessa è molto dolorosa per lo spirito e per il corpo. Ciò nonostante, Dio si degna, per sua infinita bontà, di comunicare all’anima tanta fortezza, tanta compiacenza di adempire, di compiacere la sua santissima volontà, che lo stesso patire mi si converte in un gaudio di dolcezza; mentre le pene che soffro, interne ed esterne, non le cederei per tutto l’oro del mondo.
Conosco che questa è una sciocca comparanza: dico che le tengo tanto care, perché in queste pene trovo tutto il mio Dio. Dunque, felici pene, benedette pene, che mi unite al mio divino Signore!
L’opera che sta facendo Dio nella povera anima mia, se non sbaglio, mi pare che sia di mio grande profitto. Mentre Dio mi va spogliando di tutte le cose sensibili e intelligibili, immaginarie e ideabili, per lo ché in tutte le mie operazioni, esterne ed interne, mi pare di vivere secondo il divino beneplacito, non ricercando io alcun proprio utile, gusto e onore, ma l’unico compiacimento, interesse e gloria di Dio, al quale mi sono interamente tutta donata e consacrata, quindi mi pare che la bontà del Signore voglia ammettere la povera anima al passaggio di una vita deiforme.
Tutto soggetto con umile rispetto al savio consiglio di vostra paternità reverendissima, mentre non so se questo passaggio convenga ad un’anima tanto scellerata, tanto peccatrice come sono io.
Prego il mio Gesù crocifisso a dar lume a vostra riverenza, acciò possa conoscere e chiaramente distinguere se la povera anima mia vivesse mai ingannata da un falso spirito. Il tutto rimetto al dotto suo parere, dal quale dipende, per obbedienza dovutale, la mia quiete di spirito.
3-2 Novembre 3, 1899 Trastullo di Gesù con Luisa.
Luisa Piccarreta (Libro di Cielo)
(1) Questa mattina il mio amabile Gesù è venuto e mi ha trasportato fuori di me stessa, dentro d’una chiesa ed è scomparso, ed io sono lasciata sola. Ora, trovandomi alla presenza del Santissimo Sacramento, ho fatto la mia solita adorazione; ma mentre ciò facevo, mi pareva che fossi divenuta tutt’occhi, per vedere se potevo scorgere il dolce Gesù. In questo mentre, l’ho visto sopra dell’altare, da bambino, che mi chiamava con la sua graziosa manina. Chi può dirne il contento? Ho volato da Lui, e senza pensare ad altro, l’ho stretto fra le mie braccia e l’ho baciato, ma nell’atto di fare ciò, ha preso un aspetto serio, e mostrava di non gradire i miei baci ed ha incominciato a respingermi. Io, ciò non curando, seguitavo e gli ho detto: “Carino mio, bello, l’altro giorno volesti Tu sfogarti con me, coi baci e con gli abbracci, ed io ti diedi tutta la libertà; oggi voglio teco sfogarmi anch’io; deh! dammi la libertà”. Ma Lui seguitava a respingermi e vedendo che io non cessavo, mi è scomparso. Chi può dire quanto sono lasciata mortificata ed impensierita nel trovarmi in me stessa? Ma dopo poco è ritornato ed io volendo chiedergli perdono delle mie impertinenze, mi ha perdonato col volersi lui sfogarsi con me, e mentre mi baciava mi ha detto:
(2) “Diletta del cuor mio, la mia Divinità abita in te abitualmente, e siccome tu vai inventando nuove cose come farmi deliziare con te, così Io, per renderti la pariglia, uso nuovi modi come farti deliziare con Me”.
(3) Con ciò ho capito che è stato uno scherzo che Gesù voleva fare.