Sotto il Tuo Manto

Lunedi, 8 settembre 2025 - Natività Beata Vergine Maria (Letture di oggi)

So a che scopo sono stata creata. So che Dio è il mio fine ultimo. Nessuna creatura può sostituire il mio Creatore nel cammino della mia anima. In tutte le mie attività  miro a lui solo. Gesù, tu spesso ti degnasti di gettare in me i fondamenti della perfezione cristiana, e devo riconoscere che la mia cooperazione fu ben piccola al confronto. Nell'uso che ora faccio delle cose create, mi aiutasti tu o Signore. Il mio cuore è debole; la mia forza viene da te soltanto. (Santa Faustina Kowalska)

Liturgia delle Ore - Letture

Sabato della 24° settimana del tempo ordinario (Santi Andrea Kim Taegon e compagni)

Questa sezione contiene delle letture scelte a caso, provenienti dalle varie sezioni del sito (Sacra Bibbia e la sezione Biblioteca Cristiana), mentre l'ultimo tab Apparizioni, contiene messaggi di apparizioni a mistici o loro scritti. Sono presenti testi della Valtorta, Luisa Piccarreta, don Stefano Gobbi e testimonianze di apparizioni mariane riconosciute.

Vangelo secondo Giovanni 15

1"Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo.2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.3Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato.4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me.5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano.7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato.8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.9Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore.10Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore.11Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
12Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati.13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici.14Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando.15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi.16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda.17Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.

18Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me.19Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia.20Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra.21Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato.22Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato; ma ora non hanno scusa per il loro peccato.23Chi odia me, odia anche il Padre mio.24Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessun altro mai ha fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio.25Questo perché si adempisse la parola scritta nella loro Legge: 'Mi hanno odiato senza ragione'.
26Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza;27e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio.


Primo libro dei Maccabei 1

1Queste cose avvennero dopo che Alessandro il Macedone, figlio di Filippo, uscito dalla regione dei Kittim sconfisse Dario, re dei Persiani e dei Medi, e regnò al suo posto, cominciando dalla Grecia.2Intraprese molte guerre, si impadronì di fortezze e uccise i re della terra;3arrivò sino ai confini della terra e raccolse le spoglie di molti popoli. La terra si ridusse al silenzio davanti a lui; il suo cuore si esaltò e si gonfiò di orgoglio.4Radunò forze ingenti e conquistò regioni, popoli e principi, che divennero suoi tributari.5Dopo questo cadde ammalato e comprese che stava per morire.6Allora chiamò i suoi luogotenenti più importanti, che erano cresciuti con lui fin dalla giovinezza e mentre era ancora vivo divise tra di loro il suo impero.7Regnò dunque Alessandro dodici anni e morì.8I suoi subalterni assunsero il potere, ognuno nella sua regione;9dopo la sua morte tutti cinsero il diadema e dopo di loro i loro figli per molti anni e si moltiplicarono i mali sulla terra.
10Uscì da quelli una radice perversa, Antioco Epìfane, figlio del re Antioco che era stato ostaggio a Roma, e assunse il regno nell'anno centotrentasette del dominio dei Greci.11In quei giorni sorsero da Israele figli empi che persuasero molti dicendo: "Andiamo e facciamo lega con le nazioni che ci stanno attorno, perché da quando ci siamo separati da loro, ci sono capitati molti mali".12Parve ottimo ai loro occhi questo ragionamento;13alcuni del popolo presero l'iniziativa e andarono dal re, che diede loro facoltà di introdurre le istituzioni dei pagani.14Essi costruirono una palestra in Gerusalemme secondo le usanze dei pagani15e cancellarono i segni della circoncisione e si allontanarono dalla santa alleanza; si unirono alle nazioni pagane e si vendettero per fare il male.
16Quando il regno fu consolidato in mano di Antioco, egli volle conquistare l'Egitto per dominare due regni:17entrò nell'Egitto con un esercito imponente, con carri ed elefanti, con la cavalleria e una grande flotta18e venne a battaglia con Tolomeo re di Egitto. Tolomeo fu travolto davanti a lui e dovette fuggire e molti caddero colpiti a morte.19Espugnarono le fortezze dell'Egitto e Antioco saccheggiò il paese di Egitto.
20Ritornò quindi Antioco dopo aver sconfitto l'Egitto nell'anno centoquarantatré, si diresse contro Israele e mosse contro Gerusalemme con forze ingenti.21Entrò con arroganza nel santuario e ne asportò l'altare d'oro e il candelabro dei lumi con tutti i suoi arredi22e la tavola dell'offerta e i vasi per le libazioni, le coppe e gli incensieri d'oro, il velo, le corone e i fregi d'oro della facciata del tempio e lo sguarnì tutto;23si impadronì dell'argento e dell'oro e d'ogni oggetto pregiato e asportò i tesori nascosti che riuscì a trovare;24quindi, raccolta ogni cosa, fece ritorno nella sua regione. Fece anche molte stragi e parlò con grande arroganza.

25Allora vi fu lutto grande per gli Israeliti
in ogni loro regione.
26Gemettero i capi e gli anziani,
le vergini e i giovani persero vigore
e la bellezza delle donne svanì.
27Ogni sposo levò il suo lamento
e la sposa nel talamo fu in lutto.
28Tremò la terra per i suoi abitanti
e tutta la casa di Giacobbe si vestì di vergogna.

29Due anni dopo, il re mandò alle città di Giuda un sovrintendente ai tributi. Egli venne in Gerusalemme con ingenti forze30e rivolse loro con perfidia parole di pace ed essi gli prestarono fede. Ma all'improvviso piombò sulla città, le inflisse colpi crudeli e mise a morte molta gente in Israele.31Mise a sacco la città, la diede alle fiamme e distrusse le sue abitazioni e le mura intorno.32Trassero in schiavitù le donne e i bambini e si impossessarono dei greggi.33Poi costruirono attorno alla città di Davide un muro grande e massiccio, con torri solidissime, e questa divenne per loro una fortezza.34Vi stabilirono una razza empia, uomini scellerati, che si fortificarono dentro,35vi collocarono armi e vettovaglie e, radunato il bottino di Gerusalemme, lo depositarono colà e divennero come una grande trappola;36questo fu un'insidia per il santuario e un avversario maligno per Israele in ogni momento

37Versarono sangue innocente intorno al santuario
e profanarono il luogo santo.
38Fuggirono gli abitanti di Gerusalemme a causa loro
e la città divenne abitazione di stranieri;
divenne straniera alla sua gente
e i suoi figli l'abbandonarono.
39Il suo santuario fu desolato come il deserto,
le sue feste si mutarono in lutto,
i suoi sabati in vergogna
il suo onore in disprezzo.
40Quanta era stata la sua gloria
altrettanto fu il suo disonore
e il suo splendore si cambiò in lutto.

41Poi il re prescrisse con decreto a tutto il suo regno, che tutti formassero un sol popolo42e ciascuno abbandonasse le proprie leggi. Tutti i popoli consentirono a fare secondo gli ordini del re.43Anche molti Israeliti accettarono di servirlo e sacrificarono agli idoli e profanarono il sabato.44Il re spedì ancora decreti per mezzo di messaggeri a Gerusalemme e alle città di Giuda, ordinando di seguire usanze straniere al loro paese,45di far cessare nel tempio gli olocausti, i sacrifici e le libazioni, di profanare i sabati e le feste46e di contaminare il santuario e i fedeli,47di innalzare altari, templi ed edicole e sacrificare carni suine e animali immondi,48di lasciare che i propri figli, non circoncisi, si contaminassero con ogni impurità e profanazione,49così da dimenticare la legge e mutare ogni istituzione,50pena la morte a chiunque non avesse agito secondo gli ordini del re.51Secondo questi ordini scrisse a tutto il regno, stabilì ispettori su tutto il popolo e intimò alle città di Giuda di sacrificare città per città.52Anche molti del popolo si unirono a loro, tutti i traditori della legge, e commisero il male nella regione53e ridussero Israele a nascondersi in ogni possibile rifugio.
54Nell'anno centoquarantacinque, il quindici di Casleu il re innalzò sull'altare un idolo. Anche nelle città vicine di Giuda eressero altari55e bruciarono incenso sulle porte delle case e nelle piazze.56Stracciavano i libri della legge che riuscivano a trovare e li gettavano nel fuoco.57Se qualcuno veniva trovato in possesso di una copia del libro dell'alleanza o ardiva obbedire alla legge, la sentenza del re lo condannava a morte.58Con prepotenza trattavano gli Israeliti che venivano scoperti ogni mese nella città59e specialmente al venticinque del mese, quando sacrificavano sull'ara che era sopra l'altare dei sacrifici.60Mettevano a morte, secondo gli ordini, le donne che avevano fatto circoncidere i loro figli,61con i bambini appesi al collo e con i familiari e quelli che li avevano circoncisi.62Tuttavia molti in Israele si fecero forza e animo a vicenda per non mangiare cibi immondi63e preferirono morire pur di non contaminarsi con quei cibi e non disonorare la santa alleanza; così appunto morirono.64Sopra Israele fu così scatenata un'ira veramente grande.


Giobbe 17

1Il mio spirito vien meno,
i miei giorni si spengono;
non c'è per me che la tomba!
2Non sono io in balìa di beffardi?
Fra i loro insulti veglia il mio occhio.
3Sii tu la mia garanzia presso di te!
Qual altro vorrebbe stringermi la destra?
4Poiché hai privato di senno la loro mente,
per questo non li lascerai trionfare.
5Come chi invita gli amici a parte del suo pranzo,
mentre gli occhi dei suoi figli languiscono;
6così son diventato ludibrio dei popoli
sono oggetto di scherno davanti a loro.
7Si offusca per il dolore il mio occhio
e le mie membra non sono che ombra.
8Gli onesti ne rimangono stupiti
e l'innocente s'indigna contro l'empio.
9Ma il giusto si conferma nella sua condotta
e chi ha le mani pure raddoppia il coraggio.
10Su, venite di nuovo tutti:
io non troverò un saggio fra di voi.
11I miei giorni sono passati, svaniti i miei
progetti,
i voti del mio cuore.
12Cambiano la notte in giorno,
la luce - dicono - è più vicina delle tenebre.
13Se posso sperare qualche cosa, la tomba è la mia
casa,
nelle tenebre distendo il mio giaciglio.
14Al sepolcro io grido: "Padre mio sei tu!"
e ai vermi: "Madre mia, sorelle mie voi siete!".
15E la mia speranza dov'è?
Il mio benessere chi lo vedrà?
16Scenderanno forse con me nella tomba
o caleremo insieme nella polvere!


Salmi 136

1Alleluia.

Lodate il Signore perché è buono:
perché eterna è la sua misericordia.
2Lodate il Dio degli dèi:
perché eterna è la sua misericordia.
3Lodate il Signore dei signori:
perché eterna è la sua misericordia.

4Egli solo ha compiuto meraviglie:
perché eterna è la sua misericordia.
5Ha creato i cieli con sapienza:
perché eterna è la sua misericordia.
6Ha stabilito la terra sulle acque:
perché eterna è la sua misericordia.
7Ha fatto i grandi luminari:
perché eterna è la sua misericordia.
8Il sole per regolare il giorno:
perché eterna è la sua misericordia;
9la luna e le stelle per regolare la notte:
perché eterna è la sua misericordia.

10Percosse l'Egitto nei suoi primogeniti:
perché eterna è la sua misericordia.
11Da loro liberò Israele:
perché eterna è la sua misericordia;
12con mano potente e braccio teso:
perché eterna è la sua misericordia.

13Divise il mar Rosso in due parti:
perché eterna è la sua misericordia.
14In mezzo fece passare Israele:
perché eterna è la sua misericordia.
15Travolse il faraone e il suo esercito nel mar Rosso:
perché eterna è la sua misericordia.

16Guidò il suo popolo nel deserto:
perché eterna è la sua misericordia.
17Percosse grandi sovrani
perché eterna è la sua misericordia;
18uccise re potenti:
perché eterna è la sua misericordia.
19Seon, re degli Amorrei:
perché eterna è la sua misericordia.

20Og, re di Basan:
perché eterna è la sua misericordia.
21Diede in eredità il loro paese;
perché eterna è la sua misericordia;
22in eredità a Israele suo servo:
perché eterna è la sua misericordia.

23Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi:
perché eterna è la sua misericordia;
24ci ha liberati dai nostri nemici:
perché eterna è la sua misericordia.
25Egli dà il cibo ad ogni vivente:
perché eterna è la sua misericordia.

26Lodate il Dio del cielo:
perché eterna è la sua misericordia.


Ezechiele 16

1Mi fu rivolta questa parola del Signore:2"Figlio dell'uomo, fa' conoscere a Gerusalemme tutti i suoi abomini.3Dirai loro: Così dice il Signore Dio a Gerusalemme: Tu sei, per origine e nascita, del paese dei Cananei; tuo padre era Amorreo e tua madre Hittita. Alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu tagliato l'ombelico e non fosti lavata con l'acqua per purificarti; non ti fecero le frizioni di sale, né fosti avvolta in fasce.4.5Occhio pietoso non si volse su di te per farti una sola di queste cose e usarti compassione, ma come oggetto ripugnante fosti gettata via in piena campagna, il giorno della tua nascita.
6Passai vicino a te e ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: Vivi nel tuo sangue7e cresci come l'erba del campo. Crescesti e ti facesti grande e giungesti al fiore della giovinezza: il tuo petto divenne fiorente ed eri giunta ormai alla pubertà; ma eri nuda e scoperta.
8Passai vicino a te e ti vidi; ecco, la tua età era l'età dell'amore; io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità; giurai alleanza con te, dice il Signore Dio, e divenisti mia.9Ti lavai con acqua, ti ripulii del sangue e ti unsi con olio;10ti vestii di ricami, ti calzai di pelle di tasso, ti cinsi il capo di bisso e ti ricoprii di seta;11ti adornai di gioielli: ti misi braccialetti ai polsi e una collana al collo:12misi al tuo naso un anello, orecchini agli orecchi e una splendida corona sul tuo capo.13Così fosti adorna d'oro e d'argento; le tue vesti eran di bisso, di seta e ricami; fior di farina e miele e olio furono il tuo cibo; diventasti sempre più bella e giungesti fino ad esser regina.14La tua fama si diffuse fra le genti per la tua bellezza, che era perfetta, per la gloria che io avevo posta in te, parola del Signore Dio.
15Tu però, infatuata per la tua bellezza e approfittando della tua fama, ti sei prostituita concedendo i tuoi favori ad ogni passante.16Prendesti i tuoi abiti per adornare a vari colori le alture su cui ti prostituivi.17Con i tuoi splendidi gioielli d'oro e d'argento, che io ti avevo dati, facesti immagini umane e te ne servisti per peccare;18poi tu le adornasti con le tue vesti ricamate e davanti a quelle immagini presentasti il mio olio e i miei profumi.19Il pane che io ti avevo dato, il fior di farina, l'olio e il miele di cui ti nutrivo ponesti davanti ad esse come offerta di soave odore. Oracolo del Signore Dio.
20Prendesti i figli e le figlie che mi avevi generati e li sacrificasti loro in cibo. Erano forse poca cosa le tue infedeltà?21Immolasti i miei figli e li offristi a loro, facendoli passare per il fuoco.22Fra tutte le tue nefandezze e infedeltà non ti ricordasti del tempo della tua giovinezza, quando eri nuda e ti dibattevi nel sangue!23Ora, dopo tutta la tua perversione, guai, guai a te! Oracolo del Signore Dio.24In ogni piazza ti sei fabbricata un tempietto e costruita una altura;25ad ogni crocicchio ti sei fatta un altare, disonorando la tua bellezza, offrendo il tuo corpo a ogni passante, moltiplicando le tue prostituzioni.26Hai concesso i tuoi favori ai figli d'Egitto, tuoi corpulenti vicini, e hai moltiplicato le tue infedeltà per irritarmi.27Ed ecco io ho steso la mano su di te; ho ridotto il tuo cibo e ti ho abbandonato in potere delle tue nemiche, le figlie dei Filistei, che erano disgustate della tua condotta sfrontata.
28Non ancora sazia, hai concesso i tuoi favori agli Assiri; ma non soddisfatta29hai moltiplicato le tue infedeltà nel paese di Canaan, fino nella Caldea: e neppure allora ti sei saziata.30Come è stato abbietto il tuo cuore - dice il Signore Dio - facendo tutte queste azioni degne di una spudorata sgualdrina!31Quando ti costruivi un postribolo ad ogni crocevia e ti facevi un'altura in ogni piazza, tu non eri come una prostituta in cerca di guadagno,32ma come un'adultera che, invece del marito, accoglie gli stranieri!33Ad ogni prostituta si da' un compenso, ma tu hai dato il compenso a tutti i tuoi amanti e hai distribuito loro doni perché da ogni parte venissero da te per le tue prostituzioni.34Tu hai fatto il contrario delle altre donne, quando ti prostituivi: nessuno è corso dietro a te, mentre tu hai distribuito doni e non ne hai ricevuti, tanto eri pervertita.
35Perciò, o prostituta, ascolta la parola del Signore.36Così dice il Signore Dio: Per le tue ricchezze sperperate, per la tua nudità scoperta nelle prostituzioni con i tuoi amanti e con tutti i tuoi idoli abominevoli, per il sangue dei tuoi figli che hai offerto a loro,37ecco, io adunerò da ogni parte tutti i tuoi amanti con i quali sei stata compiacente, coloro che hai amati insieme con coloro che hai odiati, e scoprirò di fronte a loro la tua nudità perché essi la vedano tutta.
38Ti infliggerò la condanna delle adultere e delle sanguinarie e riverserò su di te furore e gelosia.
39Ti abbandonerò nelle loro mani e distruggeranno i tuoi postriboli, demoliranno le tue alture; ti spoglieranno delle tue vesti e ti toglieranno i tuoi splendidi ornamenti: ti lasceranno scoperta e nuda.40Poi ecciteranno contro di te la folla, ti lapideranno e ti trafiggeranno con la spada.41Incendieranno le tue case e sarà fatta giustizia di te sotto gli occhi di numerose donne: ti farò smettere di prostituirti e non distribuirai più doni.42Quando avrò saziato il mio sdegno su di te, la mia gelosia si allontanerà da te; mi calmerò e non mi adirerò più.43Per il fatto che tu non ti sei ricordata del tempo della tua giovinezza e mi hai provocato all'ira con tutte queste cose, ecco anch'io farò ricadere sul tuo capo le tue azioni, parola del Signore Dio; non accumulerai altre scelleratezze oltre tutti gli altri tuoi abomini.
44Ecco, ogni esperto di proverbi dovrà dire questo proverbio a tuo riguardo: Quale la madre, tale la figlia.45Tu sei la degna figlia di tua madre, che ha abbandonato il marito e i suoi figli: tu sei sorella delle tue sorelle, che hanno abbandonato il marito e i loro figli. Vostra madre era una Hittita e vostro padre un Amorreo.46Tua sorella maggiore è Samaria, che con le sue figlie abita alla tua sinistra; tua sorella più piccola è Sòdoma, che con le sue figlie abita alla tua destra.47Tu non soltanto hai seguito la loro condotta e agito secondo i loro costumi abominevoli, ma come se ciò fosse stato troppo poco, ti sei comportata peggio di loro in tutta la tua condotta.48Per la mia vita - dice il Signore Dio - tua sorella Sòdoma e le sue figlie non fecero quanto hai fatto tu e le tue figlie!49Ecco, questa fu l'iniquità di tua sorella Sòdoma: essa e le sue figlie avevano superbia, ingordigia, ozio indolente, ma non stesero la mano al povero e all'indigente:50insuperbirono e commisero ciò che è abominevole dinanzi a me: io le vidi e le eliminai.51Samaria non ha peccato la metà di quanto hai peccato tu. Tu hai moltiplicato le tue nefandezze più di loro, le tue sorelle, tanto da farle apparire giuste, con tutte le nefandezze che hai commesse.
52Devi portare anche tu la tua umiliazione, tu che hai giustificato le tue sorelle. Per i tuoi peccati che superano i loro esse sono più giuste di te: anche tu dunque devi essere svergognata e portare la tua umiliazione, perché hai giustificato le tue sorelle.53Ma io cambierò le loro sorti: cambierò le sorti di Sòdoma e delle città dipendenti, cambierò le sorti di Samaria e delle città dipendenti; anche le tue sorti muterò in mezzo a loro,54perché tu porti la tua umiliazione e tu senta vergogna di quanto hai fatto per consolarle.55Tua sorella Sòdoma e le città dipendenti torneranno al loro stato di prima; Samaria e le città dipendenti torneranno al loro stato di prima e anche tu e le città dipendenti tornerete allo stato di prima.56Eppure tua sorella Sòdoma non era forse sulla tua bocca al tempo del tuo orgoglio,57prima che fosse scoperta la tua malvagità? Perché ora tu sei disprezzata dalle figlie di Aram e da tutte le figlie dei Filistei che sono intorno a te, le quali ti dileggiano da ogni parte?58Tu stai scontando la tua scelleratezza e i tuoi abomini. Parola del Signore.59Poiché, dice il Signore Dio: Io ho ricambiato a te quello che hai fatto tu, che hai disprezzato il giuramento e violato l'alleanza.60Anch'io mi ricorderò dell'alleanza conclusa con te al tempo della tua giovinezza e stabilirò con te un'alleanza eterna.61Allora ti ricorderai della tua condotta e ne sarai confusa, quando riceverai le tue sorelle maggiori insieme a quelle più piccole e io le darò a te per figlie, ma non in forza della tua alleanza;62io ratificherò la mia alleanza con te e tu saprai che io sono il Signore,63perché te ne ricordi e ti vergogni e, nella tua confusione, tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato quello che hai fatto. Parola del Signore Dio".


Lettera di Giacomo 5

1E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano!2Le vostre ricchezze sono imputridite,3le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!4Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti.5Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage.6Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza.

7Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate l'agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d'autunno e le piogge di primavera.8Siate pazienti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina.9Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte.10Prendete, o fratelli, a modello di sopportazione e di pazienza i profeti che parlano nel nome del Signore.11Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché 'il Signore è ricco di misericordia e di compassione'.

12Soprattutto, fratelli miei, non giurate, né per il cielo, né per la terra, né per qualsiasi altra cosa; ma il vostro "sì" sia sì, e il vostro "no" no, per non incorrere nella condanna.
13Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia salmeggi.14Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore.15E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati.16Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza.17Elia era un uomo della nostra stessa natura: pregò intensamente che non piovesse e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi.18Poi pregò di nuovo e il cielo diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto.19Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce,20costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati.


Capitolo XII: I vantaggi delle avversità

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1. E' bene per noi che incontriamo talvolta difficoltà e contrarietà; queste, infatti, richiamano l'uomo a se stesso, nel profondo, fino a che comprenda che quaggiù egli è in esilio e che la sua speranza non va riposta in alcuna cosa di questo mondo. E' bene che talvolta soffriamo contraddizione e che la gente ci giudichi male e ingiustamente, anche se le nostre azioni e le nostre intenzioni sono buone. Tutto ciò suol favorire l'umiltà, e ci preserva dalla vanagloria. Invero, proprio quando la gente attorno a noi ci offende e ci scredita, noi aneliamo con maggior forza al testimone interiore, Iddio.  

2. Dovremmo piantare noi stessi così saldamente in Dio, da non avere necessità alcuna di andar cercando tanti conforti umani. Quando un uomo di buona volontà soffre tribolazioni e tentazioni, o è afflitto da pensieri malvagi, allora egli sente di aver maggior bisogno di Dio, e di non poter fare nulla di bene senza di lui. E si rattrista e piange e prega, per il male che soffre; gli viene a noia che la vita continui; e spera che sopraggiunga la morte (2 Cor 1,8), così da poter scomparire e dimorare in Cristo (Fil 1,23). Allora egli capisce che nel mondo non può esserci completa serenità e piena pace.


La dottrina cristiana - Libro quarto

La Dottrina Cristiana - Sant'Agostino d'Ippona

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Tema del quarto libro.

1. 1. Secondo una divisione fatta al principio avevo diviso in due parti il presente libro, che si intitola La Dottrina Cristiana. Difatti, al termine del proemio, dove rispondevo a coloro che avrebbero criticato l'opera, dicevo: Due sono le cose su cui si basa ogni trattato sulle Scritture: il modo di trovare le cose che occorre comprendere e il modo di esporre le cose comprese; parleremo quindi prima del modo di trovare e poi del modo di esporre 1. Orbene, siccome abbiamo parlato diffusamente sul modo di trovare e su questa prima sezione abbiamo riempito tre volumi, ora, con l'aiuto del Signore, saremo brevi nel presentare il modo di esporre. Vorremmo, se possibile, esaurire tutto in un unico libro, di modo che l'opera completa non vada oltre i quattro volumi.

Non è un trattato di retorica profana.

1. 2. All'inizio [del presente libro] mi piace collocare un preambolo per respingere le attese di quei lettori che per caso credessero che io mi metta a impartire i precetti di retorica che appresi e insegnai nelle scuole civili. Li ammonisco a non aspettarsi da me cose del genere. Non perché non siano utili ma perché, se hanno dell'utilità, le imparino con uno studio a parte - se c'è qualche persona dabbene che abbia agio di imparare anche queste cose -, comunque non le stiano a chiedere a me, né in quest'opera né in qualsiasi altra.

Il dottore cristiano deve possedere l'arte retorica.

2. 3. È un fatto che con la retorica si può persuadere tanto il vero quanto il falso. E allora chi oserebbe dire che la verità debba trovarsi inerme in chi la difende contro la menzogna? Voglio dire: perché mai coloro che cercano di persuadere delle falsità dovrebbero, con [forbiti] preamboli, rendersi l'uditore o benevolo o attento o docile e quegli altri non dovrebbero saperlo fare? Perché gli uni dovrebbero riuscire a narrare le falsità in forma succinta, chiara e verosimile, mentre coloro che narrano la verità dovrebbero farlo in modo che l'uditore si annoi, l'argomento proposto resti incomprensibile e, finalmente, sia disgustoso il credere? Perché quelli dovrebbero impugnare la verità con argomenti sballati e difendere la falsità, mentre questi non dovrebbero riuscire né a difendere la verità né a confutare la falsità? Perché quelli con il loro dire dovrebbero riuscire a spaventare, rattristare, rallegrare, infiammare l'animo degli uditori muovendoli e sospingendoli verso l'errore, mentre questi altri, tardi e freddi nei confronti della verità, dovrebbero essere come addormentati? Chi potrebbe essere così balordo da pensare così? In effetti l'argomento che dobbiamo affrontare è quello dell'eloquenza, che ha moltissimo influsso per persuadere tanto le cose buone quanto quelle cattive. Perché dunque non se la procurano con zelo i buoni per combattere in favore della verità, se se ne servono i cattivi per patrocinare cause disoneste e vane a servizio dell'iniquità e dell'errore?

Età e metodo adatti allo studio della retorica.

3. 4. In questa materia ci sono indicazioni e precetti, ai quali se si aggiunge insieme con l'abbondanza e la ricercatezza delle parole una padronanza particolare della lingua stilisticamente perfetta si ottiene quella che si chiama facondia o eloquenza. Coloro che vogliono impararla rapidamente lo debbono fare in età adatta e conveniente, dedicando a ciò un periodo adeguato di tempo ma senza pretenderlo da questo nostro scritto. Al riguardo i sommi maestri dell'eloquenza romana non rifuggirono dal dire che quest'arte, se non la si impara presto, non la si potrà mai imparare a perfezione 2. La qual cosa, se sia vera, che bisogno c'è di domandarselo? In realtà, per quanto la potrebbero imparare, sia pure con una certa difficoltà, anche gli ingegni un po' tardi, noi non la riteniamo di tale importanza da volere che vi si dedichino anche uomini d'età matura e avanzati negli anni. È sufficiente che vi si dedichino i giovani e, fra questi, nemmeno tutti coloro che desideriamo vengano istruiti per l'utilità della Chiesa, ma coloro che non si occupano di cose più urgenti o non sono gravati da necessità da preferirsi a questa in modo evidente. In effetti, se si ha un ingegno acuto e brillante, è più facile impadronirsi dell'eloquenza leggendo o ascoltando persone eloquenti che non mettendosi alla ricerca di norme d'eloquenza. Non mancano opere di letteratura ecclesiastica - anche al di fuori del canone che salutarmente viene collocato all'apice dell'autorità - leggendo le quali un uomo fornito d'ingegno, sebbene non le sappia comporre ma badi soltanto alle cose che vi si dicono, mentre maneggia tali opere, non può non rimanere istruito anche nei riguardi dello stile con cui esse vengono dette. Ciò otterrà più agevolmente se soprattutto vi aggiungerà l'abitudine o di scrivere o di dettare o, finalmente, anche di esporre le cose che sa essere secondo la norma della religione e della fede. Che se manca un tale acume della mente, né si capiranno le norme della retorica né, se le si riesce ad imparare un pochino qualora vengano inculcate con grande sforzo, recano alcun giovamento. È vero infatti anche di coloro che le hanno imparate e riescono a parlare con facondia ed eloquenza, che non tutti, quando parlano, possono pensare alle norme secondo cui parlano, a meno che non trattino proprio di quelle. Tutt'altro! Io ritengo che ce ne sia sì e no qualcuno fra loro, il quale riesca a mettere insieme le due cose, cioè dir bene e pensare, mentre parla, a quelle norme del dire per cui riesce a parlare bene. Bisogna evitare infatti che, mentre si bada a parlare con arte, ci si dimentichi di ciò che si ha da dire. Purtuttavia nei discorsi e nei racconti delle persone eloquenti si trovano applicate le norme di eloquenza, alle quali essi, per parlare o mentre parlavano, non badavano, sia che l'avessero imparate sia che non l'avessero neppure sentite dire. Le mettevano in pratica perché erano eloquenti, non le usavano per diventare eloquenti.

I bambini imparano ascoltando gli adulti.

3. 5. Effettivamente, se è vero che i bambini diventano capaci di parlare imparando le frasi da chi parla, perché non si dovrebbe diventare eloquenti senza che ci venga insegnata in alcun modo la retorica ma leggendo o ascoltando le espressioni delle persone eloquenti e, per quanto si può, imitandole? E che dire se con esempi esperimentiamo che ciò è possibile? Conosciamo infatti moltissime persone che senza studiare le norme della retorica sono diventate più eloquenti di moltissimi altri che le avevano apprese. Non conosciamo però nessuno che sia divenuto eloquente senza avere letto o ascoltato dispute o discorsi di persone eloquenti. È così anche della stessa grammatica con la quale s'impara la precisione del dire. Nemmeno di essa avrebbero bisogno i fanciulli se fosse loro concesso di vivere e crescere in mezzo a uomini che parlassero correttamente. Non conoscendo infatti alcuna espressione sgrammaticata, se ascoltassero sulla bocca di qualcuno espressioni errate, in forza della loro abitudine corretta le disapproverebbero e se ne terrebbero lontani. È quel che fanno gli abitanti di città, anche quelli che non conoscono le lettere, quando rimproverano i contadini.

Il linguaggio dell'oratore cristiano varia secondo le circostanze.

4. 6. Colui che espone ed insegna le divine Scritture, in quanto difensore della retta fede e avversario dell'errore, deve insegnare il bene e distogliere dal male. In questa sua opera oratoria deve conciliare gli animi in contrasto, sollevare gli sfiduciati, proporre agli indotti quel che debbano fare e quel che li attende. Che se invece trova o riesce lui stesso a crearsi degli animi benevoli, attenti e docili, deve fare tutte quelle altre cose che le circostanze richiedono. Se gli uditori debbono essere istruiti, lo si deve fare mediante la narrazione - se pur ce n'è bisogno - perché la cosa di cui si tratta diventi palese. Per rendere certe le cose dubbie, occorre far uso del raziocinio adducendo delle prove. Se poi l'uditore, più che essere istruito, ha bisogno di essere stimolato affinché non rimanga inerte nel praticare quanto già conosce ma presti assenso alle cose che riconosce essere vere, bisogna ricorrere a una maggiore carica oratoria. Occorre usare suppliche e minacce, stimolazioni e riprensioni e tutte le altre svariate arti di muovere gli animi.

Lo stesso si dica di ogni oratore.

4. 7. Ma tutte queste cose che ho elencate non trascura di farle nessuno (o quasi) che voglia con l'eloquenza ottenere un qualche risultato.

L'oratore cristiano dev'essere sapiente prima che eloquente.

5. 7. Ci sono però alcuni che ciò fanno senza mordente, in maniera sgraziata e con freddezza, mentre altri con mordente, in maniera elegante e con vigore. Ebbene, all'opera di cui ci stiamo occupando deve accedere colui che è in grado di trattare o dire la cosa con sapienza, anche se non può farlo con eloquenza, di modo che rechi giovamento agli uditori, sebbene si tratti di un giovamento minore di quello che avrebbe conseguito se avesse saputo parlare anche con eloquenza. Chi poi abbonda di eloquenza fasulla, lo si deve evitare con tanto maggiore cura quanto più l'uditore prova gusto nell'ascoltare da lui ciò che è inutile e, siccome sente che dice le cose con facondia, ritiene che parli anche conforme a verità. Questa norma non ignorarono nemmeno coloro che si accinsero ad insegnare la retorica, i quali riconobbero che, se la sapienza senza l'eloquenza giova poco alle comunità cittadine, l'eloquenza senza la sapienza il più delle volte nuoce moltissimo, certo non giova mai 3. Se a dire cose come queste furono costretti, mossi dalla forza della verità, coloro che impartirono leggi di eloquenza e composero libri in cui ne fecero l'esposizione pur senza conoscere la vera sapienza che è quella celeste, che procede dal Padre della luce, quanto più non dovremo avere gli stessi sentimenti noi che siamo figli e ministri di questa sapienza? In effetti l'uomo parla più sapientemente o meno sapientemente a seconda del progresso più o meno grande che ha fatto nella conoscenza delle sante Scritture. Non dico del fatto di averle molto lette o imparate a memoria ma dell'averle ben comprese e averne scrutato diligentemente il senso. Ci sono infatti coloro che le leggono ma poi le trascurano: le leggono per conoscerle, le trascurano non volendole comprendere. A costoro sono senza dubbio da preferirsi coloro che ritengono meno le parole lette e penetrano con gli occhi del loro cuore nel cuore delle Scritture. A tutti e due poi è preferibile colui che quando vuole ne sa anche parlare e le intende come si deve.

Non a scuola ma dai libri degli oratori si apprende l'oratoria.

5. 8. Ritenere le parole della Scrittura è dunque cosa sommamente necessaria a colui che deve parlarne con sapienza, anche se non può farlo con eloquenza. Quanto più infatti si sente sprovvisto di parole proprie, tanto più deve essere ricco di sentenze bibliche, per cui ciò che dice a parole proprie lo comprovi con quelle, e chi è limitato nel possesso di parole proprie cresca - per così dire - con la testimonianza di chi è grande. Colui infatti che usando parole proprie piacerebbe poco piacerà per le argomentazioni [scritturali] che arreca. Inoltre, chi vuol parlare non solo con sapienza ma anche con eloquenza, essendo certamente più utile se saprà fare le due cose insieme, lo invierei a leggere, ascoltare e imitare nella pratica gli uomini eloquenti, più volentieri che non a seguire i maestri dell'arte retorica. Occorre però che quegli oratori che si leggono o ascoltano abbiano il riconoscimento, da chi li elogia con verità, di avere parlato o di parlare non solo eloquentemente ma anche conforme a verità, poiché quelli che parlano con eloquenza li si ascolta con gusto, quelli che parlano con sapienza li si ascolta in modo salutare. Per questo non dice la Scrittura: La moltitudine degli abili parlatori ma: La moltitudine dei sapienti è salvezza della terra 4. Ebbene, come spesso sono da trangugiarsi, perché fanno bene, cose amare, così occorre sempre evitare la dolcezza che risulti nociva. Ma cosa c'è di meglio di una dolcezza salutare o di una salute soave? Sicché quanto più in quelle pagine si desidera la dolcezza, tanto più facilmente giova il rimedio salutare. Così ci sono degli uomini di Chiesa che hanno trattato le Sacre Scritture non solo con sapienza ma anche con eloquenza. A leggerli [tutti] manca sì il tempo, ma ciò non vuol dire che essi non siano in grado di giovare a chi li studia e dedica loro del tempo.

L'eloquenza dei libri sacri è, nella sua peculiarità, eccellente.

6. 9. A questo punto qualcuno chiederà forse se i nostri autori - coloro dico i cui scritti ispirati divinamente hanno formato il nostro canone con la sua autorità oltremodo salutare - debbono essere chiamati soltanto sapienti o anche eloquenti. È questo un problema che da me e da coloro che sull'argomento la pensano come me, si risolve molto facilmente. In realtà, là dove li capisco, nulla potrà sembrarmi più sapiente, nulla più eloquente. E oso dire che tutti coloro che comprendono a dovere ciò che tali autori dicono, nello stesso tempo comprendono che essi non avrebbero dovuto parlare diversamente. Come infatti c'è una eloquenza che si adatta di più all'età giovanile e un'altra che si adatta meglio all'età senile, e non si può chiamare eloquenza quella che non si adatta alla personalità di colui che parla, così c'è una eloquenza che conviene a quegli uomini degni della massima autorità e completamente divinizzati. In base a tale eloquenza essi hanno parlato, né ce ne sarebbe un'altra a loro confacente né quella si adatterebbe ad altri. Si confà, effettivamente, a loro [e a loro soli]; quanto invece agli altri, più il loro dire sembra ad essi spregevole più li supera in altezza, non per la ventosità ma per la solidità. In quei passi poi dove non li comprendo mi apparirà certo in misura minore la loro eloquenza, tuttavia non dubiterò che essa sia tale quale la riscontro nei passi che comprendo. A tale eloquenza infatti si doveva mescolare anche una certa dose di oscurità, in detti divini e salutari come quelli, per cui il nostro intelletto avrebbe dovuto trarre profitto non solo mediante la [semplice] scoperta ma anche mediante la ricerca.

L'eloquenza degli autori sacri sgorga dalla sapienza.

6. 10. Se avessi tempo, potrei mostrare come nei Libri sacri composti dai nostri autori ci sono tutte le risorse e gli ornamenti dell'eloquenza di cui si vantano coloro che antepongono il proprio linguaggio al linguaggio dei suddetti nostri autori, basandosi non sulla elevatezza ma sulla vacuità. Sono infatti, i nostri, libri che la divina Provvidenza ci ha forniti per istruirci e trasferirci da questo mondo perverso al regno della beatitudine. Ora, se nell'eloquenza dei Libri sacri provo un godimento inesprimibile, non è per le cose che quegli uomini hanno in comune con gli oratori o i poeti del paganesimo; mi riempie piuttosto di ammirazione e di stupore il fatto che essi si sono serviti della nostra eloquenza assoggettandola, per così dire, ad un'altra eloquenza loro propria in modo che loro non facesse difetto né eccedesse i limiti. Una tale eloquenza infatti essi non dovevano né ripudiarla né con essa pavoneggiarsi; e l'una cosa avrebbero fatto se l'avessero [del tutto] evitata, mentre l'altra si sarebbe potuta supporre se fosse stato facile scoprirla. Non mancano certo persone dotte capaci di penetrare i passi oscuri: esse vi trovano dette cose tali che le parole con cui le si dicono non sembrano scelte dall'autore che parla ma somministrate quasi spontaneamente dalle cose stesse. Potresti quasi immaginare che la sapienza sgorghi dalla sua casa, cioè dal cuore del sapiente; e a lei tien dietro, anche se non chiamata, l'eloquenza, a modo di un'ancella inseparabile [dalla sua padrona].

Rm 5, 3-5, bell'esempio di arte retorica.

7. 11. Chi infatti non vede cosa voleva dire e con quanta sapienza si sia espresso l'Apostolo quando dice: Noi ci gloriamo nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza la virtù provata, la virtù provata la speranza, la speranza poi non rimane confusa, poiché l'amore di Dio è stato diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato 5? Se in questo caso un tizio, ignorantemente dotto, si mettesse a sostenere che l'Apostolo ha seguito le norme dell'eloquenza come arte [profana], non si esporrebbe alle irrisioni di tutti i cristiani, dotti e non dotti? Eppure qui si riscontra quella figura che in greco si chiama mentre in latino da diversi la si dice " gradazione ", poiché non la si è voluta chiamare semplicemente " scala " in quanto le parole e il loro significato si trovano connessi e derivanti l'uno dall'altro. Nel nostro caso troviamo in connessione la pazienza con la tribolazione, la virtù provata con la pazienza, la speranza con la virtù provata. Vi si riconosce anche un altro pregio. Terminate alcune parti della frase con l'interruzione della pronuncia, cose che i nostri chiamano membri e cesure mentre i greci e , segue uno sviluppo o giro [di parole] che i greci chiamano , i cui membri restano sospesi mediante la pronuncia di chi parla, finché in ultimo non si arrivi alla chiusa. In concreto, fra ciò che precede il " periodo " il primo membro è: infatti la tribolazione produce la pazienza; il secondo: la pazienza poi la virtù provata; il terzo: la virtù provata la speranza. Poi si presenta in se stesso il " periodo ", che si svolge in tre membri, di cui il primo è: La speranza non rimane confusa; il secondo: perché l'amore di Dio è stato diffuso nei nostri cuori; il terzo: per opera dello Spirito Santo che ci è stato dato. Queste cose e altre simili vengono insegnate nell'arte oratoria. Quanto però all'Apostolo, come non diciamo che egli si sottopose alle norme dell'eloquenza così non neghiamo che l'eloquenza fu al seguito della sua sapienza.

Altro magnifico esempio in 2 Cor 11, 16-30.

7. 12. Scrivendo ai Corinzi, nella seconda lettera rimprovera certi pseudoapostoli, provenienti dal giudaismo, che lo calunniavano. Costretto a lodare se stesso, attribuisce a sé questa che egli chiama insipienza; ma con quanta sapienza, con quanta eloquenza parla! Familiare della sapienza e guida esperta dell'eloquenza, al seguito di quella e precedendo questa, senza respingerne la sequela, egli dice: Ve lo dico di nuovo, perché nessuno mi ritenga un insipiente, altrimenti prendetemi pure per un insipiente, ma permettete che mi glori un poco. Quello che dico, non lo dico secondo Dio ma come in uno stato di follia, in relazione al gloriarmi. Dal momento che molti si gloriano secondo la carne, mi glorierò anch'io. Voi infatti volentieri sopportate gli insipienti, voi che invece siete sapienti: sopportate se qualcuno vi riduce in schiavitù, se vi divora o vi deruba, se si esalta o vi schiaffeggia. Lo dico a titolo di mancata nobiltà quasi che noi fossimo stati deboli. Ma là dove ciascuno osa gloriarsi (lo dico da stolto), lo oso anch'io. Sono Ebrei? Anch'io. Sono Israeliti? Anch'io. Sono stirpe di Abramo? Anch'io. Sono ministri di Cristo? Lo dico da insipiente, io di più. Moltissimo nelle fatiche, più copiosamente nelle carceri, nelle ferite oltre ogni dire, nella morte molto frequentemente. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto i quaranta [colpi] meno uno. Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio e sono stato un giorno e una notte in fondo al mare. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a queste cose che sono esterne, il mio assillo quotidiano [è] la sollecitudine per tutte le Chiese. Chi è debole senza che io divenga debole [con lui]? Chi viene scandalizzato senza che io ne arda? Se occorre gloriarsi, mi glorierò di quel che concerne la mia debolezza 6. Con quanta sapienza siano dette queste cose lo vede chiunque abbia la mente desta. In qual fiume di eloquenza siano poi incanalate, se ne accorge anche chi è in preda al sonno.

Analisi e note a 2 Cor 11, 16-30.

7. 13. Se poi si tratta di un esperto, vi riconosce e le cesure, che i greci chiamano e i membri e i periodi di cui ho parlato poc'anzi. Interposti con opportunissima varietà, ne hanno fatto un discorso di grande bellezza e gli hanno dato come un volto, di cui godono e si emozionano anche i meno preparati. In effetti, esaminando il brano da dove abbiamo iniziato a citarlo, vi troviamo dei periodi, dei quali il primo è il più ridotto, cioè di due membri. Non si danno infatti periodi formati da meno di due membri, mentre se ne possono dare di più membri. Quel primo periodo è dunque questo: Lo dico di nuovo, perché nessuno mi ritenga un insipiente. Ne segue uno di tre membri: Altrimenti, prendetemi pure per un insipiente, ma permettete che mi glori un poco. Quello che viene per terzo ha quattro membri: Quello che dico, non lo dico secondo Dio, ma come in uno stato di follia, in relazione a questa materia del gloriarmi. Il quarto ne ha due: Dal momento che molti si gloriano secondo la carne, mi glorierò anch'io. Anche il quinto ne ha due: Volentieri sopportate gli insipienti voi che invece siete sapienti. Anche il sesto è di due membri: Sopportate infatti se qualcuno vi riduce in schiavitù. Seguono tre cesure: Se vi divora, se vi deruba, se si esalta. Vengono poi tre membri: Se qualcuno vi schiaffeggia, lo dico a titolo di mancata nobiltà, quasi che noi fossimo stati deboli. Si aggiunge un periodo composto di tre membri: Là dove ciascuno osa gloriarsi - lo dico da stolto - lo oso anch'io. Dopo questo, poste delle cesure a modo di interrogazione, si replica a ciascuna con altrettante cesure di risposta, tre cioè contro tre. Sono Ebrei? Anch'io. Sono Israeliti? Anch'io. Sono progenie di Abramo? Anch'io. Si prosegue con una quarta cesura posta a modo di interrogazione come prima, ma si risponde opponendo non un'altra cesura ma un membro. Sono ministri di Cristo? Lo dico da insipiente: Io di più. Quanto alle quattro cesure che seguono, messa da parte con elegantissima scelta ogni interrogazione, le si articolano così: Moltissimo nelle fatiche, più copiosamente nelle carceri, nelle ferite oltre ogni dire, nella morte molto frequentemente. In seguito si frappone un breve periodo che deve essere distinto con la sospensione della pronuncia: Dai Giudei cinque volte (di modo che questo sia un membro cui si collega l'altro) ho ricevuto i quaranta [colpi] meno uno. Poi si ritorna alle cesure e se ne pongono tre: Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio. Segue un membro: Sono stato un giorno e una notte in fondo al mare. Successivamente fluiscono con ordinatissima foga oratoria quattordici cesure: Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli dai falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. Dopo queste interpone un periodo di tre membri: Oltre a queste cose che sono esteriori, il mio assillo quotidiano [è] la sollecitudine per tutte le Chiese. E a questo soggiunge due membri in tono interrogativo: Chi è debole, senza che io diventi debole [con lui]? Chi viene scandalizzato senza che io ne arda? Alla fine tutto questo brano, fatto - diciamo - come di aneliti, termina con un periodo a due membri: Se occorre gloriarsi, mi glorierò di quel che concerne la mia debolezza. Quanto poi abbia di bellezza e di giocondità il fatto che, dopo questa descrizione impetuosa, si riposi in certo qual modo interponendo una breve narrazione, e così faccia anche respirare colui che ascolta, non lo si può spiegare sufficientemente. Continua infatti dicendo: Il Dio e il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco 7. Poi narra brevissimamente i pericoli a cui fu soggetto e come ne sia stato liberato.

Gli autori sacri scrivono evitando l'ostentazione.

7. 14. A voler continuare con il rimanente si andrebbe per le lunghe e così pure se si volessero dimostrare gli stessi pregi letterari ricorrendo ad altri passi delle Sacre Scritture. E che dire se volessi mostrare, per lo meno nel testo dell'Apostolo che ho ricordato, le figure di linguaggio che si insegnano nella retorica? Non sarebbe più facile che gli uomini seri mi prendano per troppo prolisso piuttosto che qualcuno dei dotti mi ritenga bastevole alle sue esigenze? Tutte queste norme, quando vengono insegnate dai maestri, le si considerano cose grosse, le si comprano a gran prezzo e le si vendono con grande sfoggio. Un tale sfoggio ho l'impressione di voler fare anch'io mentre parlo di queste cose. Ma occorreva rispondere agli uomini male istruiti che si credono autorizzati a disprezzare i nostri autori non perché non abbiano ma perché non ostentano quella eloquenza che loro amano eccessivamente.

Paolo non è il solo autore sacro che scriva con eloquenza.

7. 15. Probabilmente qualcuno penserà che io, per mostrare un uomo eloquente fra i nostri, ho scelto di proposito l'apostolo Paolo. Difatti, là dove egli dice: Sebbene inesperto nel parlare, non lo sono nella scienza 8, sembra che parli per fare una concessione ai suoi detrattori, non che egli riconosca la cosa per vera. Se invece avesse detto: Inesperto, è vero, nel parlare, non però nella scienza, non lo si sarebbe in alcun modo potuto intendere diversamente. In realtà non esitò a mettere in rilievo la propria scienza, senza la quale non sarebbe potuto essere il Dottore delle Genti. Certo, se come esempio di eloquenza prendiamo qualche sua pagina, la prendiamo da quelle lettere che anche i suoi critici - che ritenevano spregevole il suo parlare - confessavano però che gli scritti erano notevoli per gravità e robustezza 9. Mi accorgo quindi, a questo punto, di dover dire qualcosa anche dell'eloquenza dei Profeti, presso i quali per il loro linguaggio figurato molte cose si trovano celate: cose che, quanto più sembrano nascoste da parole traslate, tanto più diventano dolci quando le si penetra. In questo libro però debbo ricordare solo quei passi che non mi costringano a spiegare quanto vi è detto ma solo a sottolineare il modo come le cose sono state dette. Lo farò ricorrendo prevalentemente al libro di quel Profeta che parlando di se stesso dice di essere stato pastore e mandriano e da tale professione essere stato divinamente prelevato e inviato a fare da profeta al popolo di Dio 10. Non esaminerò il testo secondo i Settanta, i quali, essendo stati essi stessi aiutati nel tradurre dal divino Spirito, sembra che abbiano detto qualcosa per elevare l'attenzione del lettore a scrutare un senso più spirituale, per cui sono da attribuire a loro alcuni passi troppo oscuri per essere espressi con figure troppo azzardate. Esaminerò il testo come è stato tradotto in latino dall'ebraico ad opera del sacerdote Girolamo, che ha fatto la sua traduzione da esperto nelle due lingue.

Eloquenza in Amos 6, 1-6.

7. 16. Rimproverando dunque certe persone empie, superbe, lussuriose e per conseguenza incuranti dell'amore fraterno, questo profeta campagnolo o nato da campagnoli, gridava dicendo: Guai a voi, ricchi di Sion, che confidate nel monte di Samaria, ottimati e capi dei popoli che incedete con pompa nella casa di Israele! Passate da Calane e guardate, e da lì andate ad Hamat, la grande, e scendete a Gat dei Palestinesi e a tutti i più bei loro regni; [e vedete] se il loro territorio è più grande del vostro. Voi siete stati separati per il giorno della sventura e vi avvicinate al regno dell'iniquità. Voi dormite in letti d'avorio, e vivete da lascivi sui vostri divani; voi mangiate l'agnello preso dal gregge e i vitelli presi dall'armento; e cantate al suono del salterio. Come Davide, credettero di avere strumenti per il canto, mentre bevevano il vino in coppe e si ungevano di ottimo unguento, e per nulla soffrivano dello sfacelo di Giuseppe 11. Forse che quei tali che, ritenendosi dotti ed eloquenti, disprezzano i nostri Profeti come privi d'erudizione e d'eloquenza, se avessero dovuto dire qualcosa di simile al popolo o a persone di tal fatta, l'avrebbero voluto dire diversamente, a meno che non si tratti di quelli fra loro che preferiscono agire da pazzi!

Riflessioni su Amos 6, 1-2.

7. 17. Le orecchie di persone assennate cosa avrebbero desiderato di meglio d'un simile discorso? Dapprima c'è l'invettiva: e di quale fremito non è essa permeata, quasi dovesse destare dei sensi addormentati? Guai a voi, ricchi di Sion, che confidate nel monte di Samaria, ottimati e capi dei popoli che incedete con pompa nella casa di Israele! 12 Successivamente dimostra che sono ingrati ai benefici di Dio, che aveva dato loro un vasto regno, in quanto confidavano nel monte di Samaria, dove effettivamente venivano adorati gli idoli. Per questo dice: Passate da Calne e guardate, e da lì andate ad Hamat la grande, e scendete a Gat dei Palestinesi e a tutti i più bei loro regni; [e vedete] se il loro territorio è più vasto del vostro 13. Mentre vengon dette queste cose, il discorso si adorna, come di fari, di nomi di località, e cioè: Sion, Samaria, Calne, Hamat la grande, Gat dei Palestinesi. In seguito si variano in modo veramente incantevole le parole aggiunte a queste località: Siete ricchi, confidate; passate, andate, scendete 14.

Riflessioni su Amos 6, 3-4.

7. 18. Dopo questo si preannunzia la prigionia che sarebbe sopraggiunta al tempo di un re iniquo, e si aggiunge: Voi siete stati separati per il giorno della sventura e vi avvicinate al regno dell'iniquità. Vengono quindi aggiunte le azioni riguardanti la lussuria: Voi dormite su letti di avorio e vivete da lascivi sui vostri divani; voi mangiate gli agnelli presi dal gregge e i vitelli presi dall'armento 15. Questi sei membri costituiscono tre periodi, ciascuno di due membri. Non dice infatti: " Voi siete stati separati per il giorno della sventura, vi avvicinate al regno dell'iniquità, dormite in letti d'avorio, vivete da lascivi sui vostri divani, mangiate gli agnelli presi dal gregge e i vitelli presi dall'armento ". Se si fosse espresso così, anche questa forma sarebbe stata bella: tutti e sei i membri sarebbero dipesi da un unico pronome e ciascuno sarebbe stato delimitato nel suo ambito dalla voce del lettore. Il Profeta ha fatto qualcosa di più bello: al medesimo pronome si agganciano a due a due le frasi che spiegano le tre affermazioni. Una riguarda la predizione della prigionia: Voi siete stati separati per il giorno della sventura e vi avvicinate al regno dell'iniquità; un'altra si riferisce alla lussuria: Voi dormite su letti di avorio e vivete da lascivi sui vostri divani; la terza poi si riferisce alla voracità: Voi mangiate gli agnelli del gregge e i vitelli dell'armento 16. In tal modo si lascia alla libertà del lettore il terminare i membri isolatamente e farne sei ovvero sospendere la voce al primo, al terzo e al quinto, aggiungendo il secondo al primo, il quarto al terzo e il sesto al quinto, facendo in tal modo - e in maniera molto elegante - tre periodi, ciascuno di due membri. Nel primo mostrerebbe la sciagura imminente, nel secondo il letto maculato da lussuria, nel terzo la mensa stracarica di cibi.

Riflessioni su Amos 6, 5-6.

7. 19. Successivamente attacca la voluttà godereccia dell'udito. Dice: Voi cantate al suono del salterio 17. Ma siccome la musica può essere eseguita anche sapientemente e dal sapiente, con stupenda bellezza di eloquio, egli frena l'impeto dell'invettiva e non si rivolge più a loro ma parla di loro per insegnare a noi a distinguere la musica del sapiente dalla musica del gaudente. Non dice pertanto: " Voi che cantate al suono del salterio e come Davide e credete di avere strumenti per il canto ", ma, dopo di avere detto loro ciò che, in quanto sensuali, dovevano udire: Voi che cantate al suono del salterio, indica in qualche modo anche agli altri la loro imperizia e prosegue: Come Davide e credettero di avere strumenti per il canto, mentre bevevano il vino in coppe e si ungevano di pregiatissimo unguento 18. Queste tre frasi si pronunciano meglio se, con una sospensione tra i primi due membri del periodo si fanno finire col terzo.

Riflessioni su Amos 6, 6.

7. 20. A tutte queste espressioni si aggiunge: E per nulla soffrivano dello sfacelo di Giuseppe 19. Che la si pronunci di seguito, di modo che costituisca un solo membro o che, meglio, la si interrompa così: E per nulla soffrivano e dopo la separazione si incalzi: dello sfacelo di Giuseppe, in modo da ottenere un periodo di due membri, il fatto sta che con splendida bellezza non ha detto: " Non soffrivano per nulla per lo sfacelo del fratello " ma, invece di fratello, ha posto Giuseppe. In tal modo ognuno dei fratelli poteva essere indicato dal nome proprio di colui la cui celebrità fu superiore a quella degli altri fratelli, tanto per i mali che subì come per i benefici con cui li ricompensò. Orbene, questo tropo, che fa intendere in Giuseppe qualsiasi altro dei fratelli, non so se lo si insegni in quell'arte di cui sono stato prima discepolo e poi professore. Comunque non occorre che si dica ad alcuno che non se ne avveda da sé personalmente quanto esso sia bello e come faccia impressione in chi lo legge e comprende.

La sapienza e l'eloquenza degli agiografi derivano da Dio.

7. 21. In realtà molte leggi dell'eloquenza si possono riscontrare in questo unico passo che abbiamo preso come esempio; ma il buon uditore non lo si istruisce col sottoporre il brano ad accurate discussioni, quanto piuttosto lo si entusiasma pronunciandolo con ardente foga. Brani come questo infatti non sono stati composti dall'abilità umana ma sono stati dettati dalla mente di Dio, pieni di sapienza e di eloquenza: non con la sapienza subordinata all'eloquenza, ma con l'eloquenza che non si separa dalla sapienza. Difatti - e l'hanno potuto notare e dire alcuni uomini eloquentissimi e di grande ingegno 20 - le cose che si apprendono nell'arte oratoria non sarebbero osservate e notate e redatte in corpo di dottrina se prima non si trovassero negli ingegni degli oratori. Cosa c'è, quindi, di strano se le si trova anche nei nostri scrittori, mandati da colui che creò le menti? Pertanto, riconosciamo che i nostri autori e maestri canonici sono non solo sapienti ma anche eloquenti, di quella eloquenza che conveniva a tale categoria di persone.

È dono di Dio essere buon interprete della Scrittura.

8. 22. Quanto a noi, siamo soliti prendere degli esempi di eloquenza da quei loro scritti che si comprendono senza difficoltà. Al contrario non riteniamo di doverli imitare in ciò che dissero in maniera oscura con intenti di utilità e di salvezza. Con ciò essi si proponevano di esercitare e, per così dire, limare le menti dei lettori, di escludere il tedio e aguzzare l'ingegno di coloro che volevano apprenderne [il senso], o anche di nasconderlo agli animi degli empi, sia che lo facessero per convertirli a un profondo senso di rispetto, sia che volessero escluderli dalla comprensione dei misteri. In effetti essi hanno parlato in modo che quanti fra i posteri li avessero capiti ed esposti rettamente fossero meritevoli di conseguire nella Chiesa di Dio una seconda grazia, certo diversa ma conseguente alla loro. Chi pertanto si accinge a spiegarli non deve parlare come se avesse la stessa autorità dei libri che espone; ma in tutti i suoi discorsi si sforzi prima di tutto e soprattutto di far capire i libri stessi. Ciò otterrà, per quanto è possibile, con la chiarezza dell'eloquio, per cui se un uditore non capisce, o dipende dall'essere egli molto tardo d'ingegno ovvero dalla difficoltà ed elevatezza delle cose che intendiamo spiegare e dilucidare, ma non deve esserne motivo il nostro modo di parlare, né deve per questo avvenire che quanto diciamo venga compreso imperfettamente o con ritardo.

Come affrontare le questioni difficili e a chi proporle.

9. 23. Succede a volte d'imbattersi in affermazioni che per la loro indole sono incomprensibili o le si comprendono a mala pena, per quanto sia grande e completo il modo di dire di chi parla e ampia la sua spiegazione. Ora queste cose o molto raramente e solo per necessità o mai assolutamente debbono farsi ascoltare dal popolo. Tutt'altro è dei libri. Essi si scrivono per conquistare il lettore che li comprende; che se invece non li si comprende, non sono di peso per chi non vuole leggerli. Lo stesso vale per i colloqui con certe persone: non si deve tralasciare il dovere di portare alla comprensione degli altri le verità che, sebbene difficilissime, noi abbiamo penetrato, qualunque sia lo sforzo richiesto dalla esposizione. Se un uditore o un interlocutore è preso dal desiderio di imparare e non è privo di intelletto che gli consenta di recepire le cose che gli sono proposte, colui che insegna non deve preoccuparsi dell'eloquenza con cui insegna ma dell'evidenza che vuol conseguire.

La scrupolosità linguistica ceda all'appropriata comprensione del senso.

10. 24. Il desiderio profondo di [ottenere] questa evidenza porta a volte a trascurare le parole più ricercate e non si prende cura di ciò che suona bene ma di ciò che esprime e manifesta quanto l'oratore ha intenzione di palesare. In ordine a ciò, disse un tale, parlando di questo genere di eloquenza, che c'è in essa una specie di negligenza diligente 21. Questa negligenza però, se esclude il parlare forbito, non lo fa in modo che cada nella banalità. Peraltro nei buoni maestri è, o deve essere, tanta cura che, se una parola non può essere latina senza essere nello stesso tempo oscura o ambigua - mentre se la cosa viene detta in termini popolari si evita e l'ambiguità e l'oscurità - non si deve parlare con il linguaggio dei dotti ma piuttosto come sogliono i meno istruiti. Così i nostri traduttori non ebbero ritegno di dire: Non congregabo conventicula eorum de sanguinibus 22 [= non radunerò le loro assemblee di sangue], perché ritennero necessario che in quel passo il nome " sangue " fosse usato al plurale, nonostante che in latino lo si usi solo al singolare. Perché un oratore sacro dovrebbe quindi aver paura di dire, parlando a degli incolti, ossum invece di os, per impedire che questa sillaba venga presa come derivante non da quel nominativo il cui plurale è ossa ma da quell'altro da cui deriva il plurale ora, dato che gli orecchi degli africani non sono in grado di percepire la brevità o la lunghezza delle sillabe? Cosa giova infatti una scrupolosità nel parlare che non sia seguita dalla comprensione di chi ascolta, (mentre l'unica ragione del parlare non è assolutamente altra che questa)? Se cioè coloro per i quali noi parliamo in effetti non capiscono il nostro dire? Chi insegna eviterà dunque tutte le parole che non insegnano nulla, e, se in loro vece potrà dirne delle altre corrette e intelligibili, sceglierà queste; se invece non potrà farlo, o perché non ci sono o perché sul momento non gli vengono in mente, si servirà di parole anche meno corrette, purché la cosa in sé sia insegnata e appresa con la necessaria esattezza.

Insistenza doverosa e verbosità nociva.

10. 25. Questa cosa, cioè il farsi capire, dobbiamo ad ogni costo proporcela non solo nei dialoghi tenuti o con una persona o con molte ma anche, e molto più, quando si tengono discorsi al popolo. In realtà, nei dialoghi ognuno può fare delle interrogazioni, mentre invece là, dove tutti tacciono perché sia udita la voce di uno a cui sono rivolti gli sguardi attenti dell'uditorio, lì non è uso né convenienza porre domande su ciò che non si è compreso. Per questo motivo la premura di chi parla deve con ogni sforzo andare incontro a chi è costretto a tacere. È vero che una folla smaniosa di conoscere suole con determinati gesti indicare se abbia capito, ma finché non lo ha indicato bisogna trattare in molti modi l'argomento che si spiega e sempre con molta varietà di esposizione, cosa impossibile a coloro che espongono cose imparate antecedentemente e mandate a memoria a paroletta. Quando poi ci si accorgerà che l'argomento è stato compreso, si deve o por fine al discorso o passare ad altro tema. Difatti, come è gradito colui che rende chiare le cose da conoscersi, così diviene pesante chi insiste su cose ormai note ripetendole all'ascoltatore le cui attese miravano esclusivamente a che venisse dilucidata la difficoltà di ciò che si stava esponendo. È vero che a volte si parla anche di cose note al fine di dilettare; ma lì non si bada tanto alle cose in se stesse quanto al modo di presentarle. Che se anche questo è conosciuto e piace agli uditori, poco o nulla interessa se chi lo riferisce sia lo stesso oratore o un lettore. In effetti le cose scritte in maniera appropriata vengono poi lette con gusto non solo da coloro che ne vengono a conoscenza per la prima volta ma vengono rilette, non senza pari gusto, anche da coloro che da tempo le conoscevano e non se ne erano dimenticati. Gli uni e gli altri le ascoltano volentieri. Quanto poi alle cose di cui ci si è dimenticati, quando le si ricorda è come se venissero insegnate daccapo. Ma ora non voglio trattare del modo di rendersi piacevoli; parlo solo del modo di insegnare le cose a coloro che desiderano impararle. E il modo migliore è questo: far sì che chi ascolta ascolti la verità e comprenda ciò che ha ascoltato. Quando un tale scopo sia stato raggiunto, non ci si deve affannare più oltre intorno alla stessa cosa, quasi per insegnarla più diffusamente, ma si deve solo - se del caso - raccomandarla perché si fissi nel cuore. Che se si riterrà opportuno fare questo, lo si faccia con moderazione per non tediare.

L'eloquenza rende manifesto ciò che è oscuro.

11. 26. In fatto di insegnamento l'eloquenza consiste precisamente in questo: parlare non perché piaccia ciò che incuteva orrore né perché si compia ciò che creava difficoltà, ma perché appaia manifesto ciò che era oscuro. Se tuttavia questo si fa in maniera sgradevole, il suo frutto è percepito solo da quei pochi appassionati che desiderano sapere le cose da apprendersi anche se dette in modo scadente e disadorno. Quando si sono appropriati della verità, si nutrono del gusto di lei, poiché la nota caratteristica dei buoni ingegni sta in questo: nelle parole, amare la verità non le parole. Cosa giova infatti una chiave d'oro se non è in grado di aprire ciò che vorremmo? O che male c'è se una chiave è di legno ma riesce ad aprire? In effetti noi non ci preoccupiamo d'altro che di aprire ciò che è chiuso. Ma poiché hanno fra loro una certa somiglianza quelli che mangiano e quelli che apprendono, ecco che per evitare il disgusto dei più si debbono condire anche quegli alimenti senza i quali non si può vivere.

 
L'oratore deve istruire, piacere, convincere.

12. 27. Un personaggio celebre per la sua eloquenza ha detto - e diceva la verità - che l'oratore deve parlare in modo da istruire, da piacere e da convincere. E aggiungeva: Istruire è necessità; piacere, dolcezza; convincere, vittoria 23. Di queste tre cose quella che è stata segnalata al primo posto, cioè la necessità di istruire, appartiene all'essenza stessa delle cose che diciamo, mentre le altre due riguardano il modo come le diciamo. Chi dunque parla allo scopo di istruire, finché non è stato compreso non ritenga di aver comunicato il suo sapere a colui che si proponeva di istruire. In effetti, sebbene abbia detto le cose che egli personalmente comprende, non deve ritenere di averle dette a colui dal quale non è stato compreso. Se al contrario è stato compreso, in qualunque modo le abbia dette le ha dette bene. Se invece vuol dilettare o convincere colui a cui parla, ciò otterrà non parlando come gli viene sulla lingua ma ricercando anche il modo di porgere. Pertanto come si deve piacere all'uditore per cattivarsene l'ascolto così lo si deve convincere per farlo passare all'azione; e come gli si piace parlando con gradevolezza, così lo si convince se si riuscirà a fargli amare quel che gli si promette, a temere ciò che gli si minaccia, a odiare ciò che gli si rimprovera, ad accettare ciò che gli si raccomanda, a dolersi di ciò che a fosche tinte gli si descrive come spiacevole. Così quando predichi che goda di ciò che procura gioia, che abbia compassione di coloro che a parole gli dipingi come persone meritevoli d'essere compatite, che eviti coloro che spaventandolo gli proponi di dover fuggire. Lo stesso si dica di ogni altra cosa che con l'eloquenza solenne può conseguirsi in ordine all'eccitare gli animi degli uditori non a conoscere ciò che si deve fare, ma a fare ciò che già conoscono come necessario a farsi.

Il compito primario dell'oratore è istruire.

12. 28. Se peraltro gli uditori ancora non conoscono [la cosa], è necessario, certo, che prima li si istruisca e poi commuova. E può capitare che, conosciute in se stesse le cose, se ne entusiasmino in modo che non occorra spronarli con maggiore sforzo di eloquenza. Quando invece è necessario, lo si deve fare, e la necessità sussiste quando, pur conoscendo quel che è da farsi, in realtà essi non lo fanno. Da ciò appare come l'istruire sia una cosa necessaria, in quanto gli uomini possono fare o non fare quel che conoscono, mentre chi direbbe che essi sono obbligati a fare quel che non conoscono? Ne segue che il convincere non sempre è di necessità, in quanto non sempre ne sussiste il bisogno: così nel caso che l'uditore abbia dato l'assenso all'oratore che insegna o riesce ad attirare piacevolmente. Che poi il consentire rappresenti la vittoria lo si ricava dal fatto che uno può insegnare e piacere ma non ottenere l'assenso. E allora cosa giovano le altre due cose, se manca questa terza? Ma nemmeno il piacere è cosa strettamente necessaria. Può succedere infatti che nello stesso discorso divenga palese la verità, e fin qui si resta nell'ambito dell'insegnamento. Non si tratta quindi del modo di parlare, né si bada a che rechi gusto o la verità o il modo di porgerla, ma sono le cose che di per se stesse, una volta chiarite, recano diletto, per essere conformi a verità. Ecco perché capita, e di frequente, che piacciano anche le cose false, una volta chiarite e dimostrate. Non piacciono perché sono false ma, essendo vero che sono false, piace l'argomentazione per la quale si dimostra essere vera la loro falsità.

Per ottenere conseguenze pratiche positive occorrono varie doti nell'oratore.

13. 29. Per andare incontro a quei tali cui, per essere schizzinosi, la verità non piacerebbe se la si presentasse in qualsiasi modo, ma la si deve porgere solo in modo che insieme piaccia anche il discorso dell'oratore, è stata attribuita nell'eloquenza non piccola importanza anche alla piacevolezza del dire. Questa tuttavia, anche se presente, non basta per certi animi induriti cui non reca giovamento né l'aver capito né l'aver gustato l'eloquenza dell'oratore. Che vantaggio infatti recano queste due doti del discorso all'uomo che confessa la verità e loda l'eloquenza, tuttavia non presta l'assenso, che è l'unico scopo a cui tende l'oratore nelle cose che dice volendo creare una persuasione? Se si insegnano infatti cose in cui sia sufficiente credere o conoscere, il consentire ad esse altro non è che confessare la loro verità; ma quando si insegnano cose che si debbono fare e le si insegna appunto perché le si faccia, è vano rendere l'uditore persuaso della verità di ciò che si dice, è vano anche il fatto che piaccia il modo di porgere, se le cose non le si imparano in modo che vengano tradotte in pratica. Occorre dunque che l'oratore ecclesiastico, quando inculca cose da praticarsi, non solamente insegni per istruire o piaccia per impressionare ma anche che convinca in modo da vincere [le resistenze]. Se infatti in un uditore la verità esposta anche con l'aggiunta d'una suadente dizione non consegue l'effetto d'essere accettata, non resta che lo si pieghi a prestare il consenso mediante la forza di una eloquenza solenne.

L'eloquenza sia usata per inculcare cose vere e sante.

14. 30. All'incanto di quest'arte è stato attribuito dalla gente tanto pregio che con essa vengono persuase non solo cose da non farsi, ma anche molti e gravi mali e turpitudini, che sono da fuggirsi e detestarsi. Cose di questo genere sono, viceversa, insegnate da gente cattiva e turpe con tanta eloquenza che, se loro non si consente, almeno vi si prova diletto a leggiucchiarle. Peraltro allontani Dio dalla sua Chiesa ciò che il profeta Geremia diceva rimproverando la sinagoga dei Giudei: Cose spaventose e orribili sono avvenute sulla terra: i profeti profetavano cose inique e i sacerdoti applaudivano con le loro mani e il mio popolo amò tutto questo. E che farete per l'avvenire? 24 O eloquenza tanto più tremenda quanto più pura, e quanto più solida tanto più veemente! Vera scure che spezza le pietre! A tale scure, disse Dio in persona per bocca dello stesso Profeta 25, è simile la sua parola proferita ad opera dei santi Profeti. Lungi dunque, lungi da noi la disgrazia che i sacerdoti applaudano a chi dice cose inique e il popolo di Dio le ami! Lungi da noi, dico, tanta follia! Cosa dovremmo fare quindi per l'avvenire? Ammesso pure che le parole siano meno comprese, piacciano di meno e stimolino di meno, tuttavia le si dicano lo stesso, e che siano ascoltati volentieri gli insegnamenti giusti e non quelli iniqui: cosa che certo non avverrebbe se non venissero detti con finezza oratoria.

Un'eloquenza pomposa non si addice all'oratore cristiano.

14. 31. In una assemblea di gente seria - di cui è detto a Dio: Ti loderò in mezzo ad un popolo serio 26 - non è gradita nemmeno quella artificiosità con cui si parla di cose certo non cattive, ma si adornano di veste pomposa le cose ordinarie e banali, come non si adornerebbero opportunamente e seriamente nemmeno le cose grandi e consistenti. Qualcosa del genere è in una lettera del beato Cipriano: e ciò io credo essere capitato, o anche fatto di proposito, affinché si sapesse dai posteri come il rigore della dottrina cristiana abbia distolto la lingua da simili ridondanze e l'abbia ristretta nell'ambito di una eloquenza più seria e moderata. Tale è appunto l'eloquenza che si riscontra nelle sue lettere successive e che si ama serenamente, si desidera con religiosità, anche se si raggiunge con difficoltà. Diceva dunque in un noto passo: Dirigiamoci a questa sede; i dintorni solitari ci consentono d'appartarci; là le volute vaganti dei tralci si distendono con nodi pendenti fra le canne che le reggono e con tetti frondosi fanno un portico risultante di viti 27. Cose come queste non si dicono senza una fecondità mirabilmente copiosa di eloquenza, ma per essere eccessivamente cariche sconvengono alla gravità [del discorso]. Quanto a quelli che amano questo modo di fraseggiare, nei confronti di chi non parla così ma si esprime più sobriamente riterranno che costoro sono incapaci di usare tale eloquenza, non che la evitano di proposito. Contro di ciò notiamo che quell'uomo santo mostrò e di sapersi esprimere con ricercatezza, perché lo fece in qualche brano, e di rifuggire da tale gergo, poiché in seguito non lo si trova più.

Prima di tenere il discorso occorre pregare il Padre della luce.

15. 32. Il nostro oratore dunque parlerà di cose giuste, sante e buone - di null'altro infatti deve parlare -; e parlando di queste cose userà ogni risorsa possibile perché lo si ascolti in maniera comprensibile, con piacere e con docilità. Il fatto poi che riesca a tanto - se ci riesce e nei limiti entro i quali ci riesce - non dubiti di attribuirlo più alla devozione nella preghiera che non alle risorse oratorie: per cui, dovendo pregare e per sé e per coloro ai quali rivolgerà la parola, sarà prima uomo di preghiera che predicatore. Avvicinandosi l'ora di parlare, prima di muovere la lingua per parlare sollevi a Dio l'anima assetata, in modo che proferisca quel che ha bevuto e versi ciò che lo riempie. In effetti, su ogni argomento che tocchi il campo della fede e della carità ci molte sono le cose da dire e molti i modi con cui le può dire chi le conosce. Ora chi potrebbe valutare rettamente cosa noi dobbiamo dire volta per volta o cosa si aspettano gli uditori di ascoltare da noi all'infuori di colui che penetra i cuori di tutti? E chi fa sì che noi diciamo quel che occorre e com'è necessario se non colui nelle cui mani siamo noi e tutti i nostri discorsi 28? Pertanto chi vuol conoscere la verità e insegnarla impari, certo, tutto ciò che deve insegnare; si procuri una capacità espressiva quale conviene ad un uomo di Chiesa; ma giunto il momento di dover parlare, pensi che a una mente bene intenzionata conviene regolarsi come diceva il Signore: Non pensate a cosa o a come dovete parlare; vi sarà dato infatti in quel momento ciò che dovete dire, poiché non siete voi a parlare ma parla in voi lo Spirito del Padre 29. Se è dunque lo Spirito Santo colui che parla in coloro che per Cristo vengono consegnati ai persecutori, perché non dovrebbe essere lo stesso Spirito Santo a parlare in coloro che presentano Cristo a chi lo vuole conoscere?

Il dovere della predicazione è indispensabile e sublime.

16. 33. Chi poi dice che non occorrono norme sugli argomenti che si debbono insegnare o sul come insegnarli per il fatto che è lo Spirito Santo a renderci maestri, potrebbe anche dire non essere necessario nemmeno pregare perché il Signore dice: Il Padre vostro sa ciò di cui avete bisogno prima ancora che glielo chiediate 30. Allo stesso modo si dovrebbe dire che l'apostolo Paolo non doveva prescrivere a Timoteo e a Tito cosa e come insegnare agli altri. Sono viceversa queste tre lettere dell'Apostolo quelle che deve avere sempre dinanzi agli occhi colui che nella Chiesa ha ricevuto l'incarico di ammaestrare. Non si legge infatti nella Prima Lettera a Timoteo: Annunzia queste cose e insegna 31? Quali poi siano queste cose, è stato detto sopra. Non si legge ancora nella stessa: Non rimproverare un presbitero ma scongiuralo come un padre 32? E nella Seconda Lettera non gli si dice: Conserva la forma delle parole salutari che hai udite da me 33? E ancora nella medesima: Fa' del tutto per presentarti a Dio come ministro accetto, che non si vergogna ma tratta fedelmente la parola di verità 34? In essa è anche scritto: Predica la parola, insisti a tempo opportuno e inopportuno, ammonisci, scongiura, rimprovera con ogni pazienza e sapienza 35. Lo stesso nella Lettera a Tito. Non vi dice forse che il vescovo deve insistere con le sue parole nella dottrina della fede, sì da essere energico nella sana dottrina e riprendere chi la contraddice 36? Vi dice ancora: Tu peraltro di' le cose che sono conformi alla sana dottrina: che i vecchi siano sobri 37, con quel che segue. E ancora: Parla di queste cose, esorta e rimprovera con grande autorità 38. Nessuno ti disprezzi. Esortali ad essere sottomessi ai sovrani e alle autorità 39, eccetera. Che pensare dunque? Forse che l'Apostolo sia in contrasto con se stesso quando, dopo aver detto che i maestri della Chiesa sono mossi dall'azione dello Spirito Santo, comanda loro cosa e in che modo debbano insegnare? O non sarà piuttosto da intendersi che il compito di certi uomini, favoriti di doni dello Spirito Santo, non può non estendersi anche all'istruzione degli stessi maestri, sebbene resti vero che né chi pianta è qualcosa né chi irriga ma Dio che fa crescere 40? Ecco perché, sebbene ci sia il ministero di santi uomini o anche l'intervento degli angeli santi, nessuno apprende rettamente quanto concerne la vita di unione con Dio se da Dio non è reso docile a Dio, al quale si dice nel salmo: Insegnami a compiere il tuo volere poiché tu sei il mio Dio 41. Nello stesso senso l'Apostolo dice ancora a Timoteo, parlando da maestro a discepolo: Tu però persevera nelle cose che hai imparate e sono state a te affidate sapendo da chi le hai apprese 42. Succede qui come nei medicamenti: applicati dagli uomini ad altri uomini, non fanno effetto se non in coloro cui Dio concede la salute. Dio può certo guarire anche senza medicine, mentre le medicine senza di lui non valgono a nulla, anche se occorre usarle, e, se si esercita la medicina per compiere un dovere, ciò è considerato come un'opera di misericordia o di carità. Lo stesso è degli aiuti prestati con l'insegnamento. Somministrati tramite l'uomo, essi giovano all'anima se Dio interviene per farli giovare: quel Dio, dico, che avrebbe potuto dare all'uomo il suo Vangelo anche senza l'uomo e il suo intervento.

Triplice funzione dell'oratoria e stile corrispondente.

17. 34. Pertanto colui che nel suo dire si prefigge di persuadere con ogni sforzo ciò che è buono, senza disprezzare nessuna delle tre cose, cioè insegnare, piacere e convincere, preghi e si dia da fare perché, come abbiamo detto, venga ascoltato con intelligenza, volentieri e con docilità. Che se riesce a far questo adeguatamente e convenientemente, meriterà il nome di persona eloquente, anche se non seguirà l'assenso nell'uditore. Sembra inoltre che a queste tre finalità, cioè insegnare, piacere e convincere, si riallaccino anche le altre tre elencate da quel celebre autore di eloquenza romana quando diceva: Sarà dunque eloquente colui che saprà dire le cose piccole in tono dimesso, le cose di modeste in tono moderato, le cose grandi con eloquenza solenne 43. È come se volesse aggiungere anche le altre tre cose e così spiegasse la stessa e identica massima dicendo: Sarà dunque eloquente colui che nell'insegnare sa dire le cose piccole in stile dimesso, per piacere sa dire le cose di media levatura in tono moderato, per convincere sa dire le cose grandi con eloquenza solenne.

La gravità dei temi religiosi esige sempre un dire elevato.

18. 35. Quel nominato autore avrebbe potuto mostrare come le tre forme del dire da lui descritte si usano nelle cause forensi, non però qui, cioè nelle problematiche ecclesiastiche dove si svolge il discorso di colui che noi vogliamo addestrare. Là infatti si discute di cose piccole quando il giudizio verte su problemi di denaro, di cose grandi invece quando ne va di mezzo l'incolumità o la vita umana. Quando poi non si deve giudicare né del primo né del secondo argomento e non si tratta di cose che l'uditore deve fare o decidere ma è solo questione di solleticare il gusto, si è come nel mezzo fra i due estremi e perciò quella eloquenza fu chiamata " modesta ", cioè misurata. Il termine modus (" misura ") ha dato il nome a modicis (" misurato "). Infatti usiamo modica come sinonimo di parva in modo ingiustificato, non in senso proprio. Viceversa è dei nostri discorsi, in quanto tutte le cose che diciamo, specie quelle che predichiamo al popolo dall'ambone, le dobbiamo riferire alla salute degli uomini, e non alla salute temporale ma alla salvezza eterna (diciamo anche che occorre evitare la rovina eterna), sicché tutte le cose che diciamo sono grandi. Le stesse cause pecuniarie, concernenti cioè il guadagnare o perdere soldi, quando ne parla un oratore ecclesiastico non si possono considerare come piccole cose, sia che si tratti di una somma piccola come di una somma grande. Non è infatti piccola la giustizia che, naturalmente, dobbiamo rispettare anche quando si tratta di piccole somme di denaro, dicendoci il Signore: Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto 44. Pertanto ciò che è insignificante è insignificante ma essere fedeli nelle cose insignificanti è una cosa grande. Difatti, come la ragione formale della rotondità, che cioè dal centro tante linee uguali si protendano verso l'esterno, è identica in un grande disco e in una piccola moneta, così, quando si compiono con giustizia le cose piccole, non per questo diminuisce la grandezza della giustizia stessa.

Conferma desunta da 1 Cor 6, 1-9.

18. 36. Parlando dei giudizi profani (e quali saranno stati se non quelli pecuniari?), l'Apostolo dice: C'è forse qualcuno in mezzo a voi che, avendo una controversia con un altro, osi essere giudicato dagli iniqui e non presso i santi? O non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se da voi è giudicato il mondo sarete incapaci di giudicare cose da nulla? Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più dunque le cose secolari! Se dunque avrete dei giudizi su cose secolari, stabilite come giudici i più spregevoli della comunità. Lo dico a vostra vergogna. Possibile che non ci sia tra voi un qualche sapiente che possa far da giudice tra i fratelli? Ma ecco che un fratello contende col suo fratello, e il giudizio si fa di fronte agli infedeli! Ora è già uno smacco che abbiate litigi fra voi. Perché piuttosto non sopportate l'ingiustizia? Perché non vi lasciate piuttosto defraudare? Ma ecco che voi compite l'iniquità e frodate, e questo a dei fratelli! O non sapete forse che gli iniqui non erediteranno il Regno di Dio? 45 Cos'è che suscita tanto sdegno nell'Apostolo? Che cosa egli riprende, rimprovera, sgrida, minaccia? Quale moto del suo animo egli denuncia con un'alterazione della voce così variata e così rude? Come mai, infine, impiega parole tanto solenni per cose così trascurabili? Tanta foga avrebbero dunque provocato in lui affari terreni? No di certo! Ma egli parla così a motivo della giustizia, della carità, della fede, le quali cose, senza che alcuno sano di mente possa dubitarne, anche nelle questioni piccole sono realtà importanti.

Siccome noi parliamo del Vangelo, il nostro dire verte sempre su cose importanti.

18. 37. Certamente, se ammonissimo i lettori sul modo come debbono trattare gli affari mondani, o per sé o per i propri familiari, dinanzi ai giudici ecclesiastici, giustamente li esorteremmo a presentare le cose con tono dimesso, essendo appunto cose di poco conto. Ma parlando noi qui del modo di esprimersi di colui che vogliamo sia maestro di quelle verità per le quali si è liberati dai mali eterni e si perviene ai beni eterni, ogniqualvolta si tratta di queste cose, o dinanzi al popolo o in privato, sia che ci si rivolga a uno sia a più, sia con amici che con nemici, sia in un discorso prolungato sia in un dialogo, sia in trattati sia in libri, sia in lettere o molto lunghe o molto brevi, si tratta sempre di cose grandi. Forse dare un bicchiere di acqua fresca è una cosa minima e di nessun valore; ma il Signore non disse una cosa minima e insignificante quando asserì che chi l'avesse dato a un suo discepolo non avrebbe perso la sua ricompensa 46. Se, pertanto, il nostro dottore parlerà di questo tema nella Chiesa, non dovrà ritenere che parla di una cosa piccola, e quindi può parlarne non con eloquenza temperata né con eloquenza solenne ma con tono dimesso. Quando parlammo al popolo di questo tema, e Dio mi assisté perché non ne parlassi con parole inadeguate, non accadde forse che da quell'acqua fredda - diciamo così - si sollevasse una enorme fiamma 47, tale da accendere, con la speranza della ricompensa celeste, anche i cuori di uomini freddi e spingerli a compiere opere di misericordia?

Uno stesso argomento può presentarsi in toni diversi.

19. 38. Sebbene il nostro dottore debba parlare di cose grandi, non sempre deve dirle con eloquenza solenne, ma con stile dimesso quando insegna e con tono temperato quando rimprovera o elogia alcunché. Quando invece si tratta di cose da farsi e il discorso è rivolto a persone che dovrebbero farle ma non vogliono, allora dette cose, che sono grandi, le si deve dire con eloquenza solenne, capace di piegare gli animi. Capita a volte che di un e identico argomento, di per sé elevato, si debba parlare con stile dimesso, se lo si insegna; in tono temperato se lo si predica; e con eloquenza solenne se si tratta di far tornare indietro un animo traviato. Cosa c'è infatti più grande di Dio? E non sarà, per questo, oggetto di apprendimento? Ovvero chi insegna l'unità nella Trinità non dovrà trattarne in tono dimesso, di modo che il tema, di per sé difficile a conoscersi, possa essere compreso, nei limiti del possibile? O che si dovranno in tal caso ricercare i fronzoli e non gli argomenti? O che si tratta forse di piegare l'uditore perché faccia qualcosa o non piuttosto istruirlo perché impari? Viceversa, quando si loda Dio o in se stesso o nelle sue opere, quale forma di elocuzione bella, anzi splendida, non sorge dalle labbra di colui che riesce a lodarlo quanto gli è possibile, pur essendo vero che nessuno lo sa lodare come meriterebbe e tuttavia nessuno può non lodarlo? Se invece non lo si adora o insieme con lui o al di sopra di lui si adorano gli idoli o i demoni o qualsiasi altra creatura, questo è un grande disordine, e al fine di distorglierne gli uomini si deve senz'altro parlarne con eloquenza solenne.

Esempio di stile dimesso (Gal 3, 15-22).

20. 39. Un esempio di stile dimesso si ha nell'apostolo Paolo - tanto per riferire una cosa a tutti accessibile - là dove dice: Ditemi, voi che volete essere sotto la legge: non avete ascoltato la legge stessa? Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello della schiava è nato secondo la carne, quello della donna libera in virtù della promessa. Ora tali cose sono dette per allegoria. Le due donne infatti rappresentano le due alleanze; una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar. Il Sinai infatti è un monte nell'Arabia, e corrisponde alla Gerusalemme di adesso, la quale è serva insieme con i suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la nostra madre 48. E parimenti là dove argomenta dicendo: Fratelli, parlo a modo umano, ma un patto stabilito tra uomini nessuno lo annulla o ci fa delle aggiunte. Ora ad Abramo furono annunciate delle promesse, a lui e alla sua discendenza. Non dice: Ai suoi discendenti come se fossero molti, ma a uno solo: alla sua discendenza, che è Cristo. Ora io dico questo: un patto stabilito da Dio, una legge venuta quattrocentotrent'anni dopo non lo annulla sì da rendere vana la promessa. Se l'eredità fosse dalla legge, non sarebbe più dalle promesse; ma ad Abramo l'ha data Dio, in virtù della promessa 49. E perché l'uditore poteva pensare: Perché dunque è stata data la legge, se da essa non deriva l'eredità?, egli stesso si pone questa difficoltà e risponde a modo di interrogazione: A qual fine dunque la legge? E immediatamente risponde: È stata accordata in ordine alle trasgressioni, finché venisse il discendente a cui era stata fatta la promessa, donata per mezzo di angeli ad opera di un mediatore. Ma non si dà mediatore di chi è solo, mentre Dio è uno solo 50. E qui veniva la domanda che l'Apostolo si era posto da sé: La legge è dunque in contrasto con le promesse di Dio? E risponde: Assolutamente no! E motivando l'affermazione dice: Se infatti fosse stata data una legge capace di dare la vita, la giustizia sarebbe certo derivata dalla legge. Ma la Scrittura racchiude tutto nel peccato affinché la promessa fosse data ai credenti mediante la fede in Gesù Cristo 51. E ci sono altri esempi di questo genere. Rientra dunque nel compito di insegnare non solo rendere palesi le cose nascoste e sciogliere i nodi delle questioni ma anche ovviare alle altre questioni che, mentre si trattano le une, possano eventualmente presentarsi, affinché quel che veniamo dicendo non sia oppugnato o rigettato sulla base di queste ultime. A una condizione tuttavia, e cioè che la loro soluzione ci venga prontamente alla memoria e non siamo turbati dal fatto che ciò che non possiamo risolverle tutte. Succede infatti che alla questione [che si tratta] sopraggiungano altre questioni e a queste seconde, altre ancora. A trattarle e risolverle tutte si prolunga troppo il ragionamento e si richiede troppa attenzione, tanto che, se la memoria non è veramente forte e robusta, il trattatista non può ritornare agli inizi donde era sorto il problema. È quindi molto bene refutare [subito] la difficoltà, se viene in mente come farlo, perché non succeda di ricordarsene quando non c'è chi risponda o ci si ricordi quando l'obiettore è presente ma è ormai azzittito, sicché se ne parta senza essere stato sufficientemente guarito [del suo dubbio].

Esempi di stile temperato, presi da S. Paolo.

20. 40. Esempio di stile temperato si ha in queste parole dell'Apostolo: Non riprendere aspramente un anziano ma scongiuralo come un padre, i più giovani come fratelli, le anziane come madri, le giovani come sorelle 52. E in quelle altre: Vi scongiuro, fratelli, per la misericordia di Dio, di offrire i vostri corpi come ostia vivente, santa, accetta a Dio 53. E quasi l'intero brano di questa esortazione è in stile temperato: le parti più belle sono quelle in cui le cose simili si accoppiano armoniosamente alle simili, come i debiti quasi a loro restituzione. Tali sono anche le espressioni del brano seguente: Avendo doni diversi secondo la grazia data a ciascuno: chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede; chi ha un ministero, attenda al ministero; chi l'insegnamento, all'insegnamento; chi l'esortazione, all'esortazione; chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia. La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità. Benedite quelli che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto; abbiate i medesimi sentimenti gli uni per gli altri. E con quanta bellezza tutte queste espressioni, così prolungate, terminano con quel periodo a due membri: Non avendo sentimenti di orgoglio, ma piegandovi a cose umili 54! E poco dopo dice: In questo perseverate: rendete a tutti quello che è loro dovuto: a chi il tributo il tributo, a chi la tassa la tassa, a chi il timore il timore, a chi l'onore l'onore. Tutte queste raccomandazioni, sparse membro a membro, vengono riepilogate e concluse con un periodo circolare di due membri: Non abbiate con alcuno nessun debito all'infuori di quello d'un amore vicendevole 55. E poco più avanti dice: La notte è passata e il giorno si è avvicinato. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce; camminiamo con onestà come durante il giorno; senza orge e ubriachezze; senza vizi e immoralità; senza litigi ed invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e le voglie della carne evitate di soddisfarle mediante la concupiscenza 56. Che se qualcuno avesse detto: " E non soddisfate le voglie della carne mediante la concupiscenza ", avrebbe senz'altro accarezzato l'udito con una chiusa più prolungata, ma il saggio traduttore ha preferito ritenere anche l'ordine delle parole. Come suonino queste parole nella lingua greca, in cui scrisse l'Apostolo, lo vedano coloro che in questa lingua sono esperti fino a distinguere tali finezze; quanto a me, la traduzione che ho fatta seguendo alla lettera l'ordine delle parole non mi sembra che scorra ritmicamente.

Nella Scrittura solo raramente sono osservate le leggi della prosodia e metrica.

20. 41. Effettivamente, questi abbellimenti stilistici che consistono in cesure basate su numero e quantità bisogna dire che mancano nei nostri autori. Questo, se sia opera del traduttore ovvero - come ritengo più probabile - se essi stessi di proposito hanno evitato tali finezze che pur avrebbero loro meritato del plauso, non ardisco definirlo, poiché debbo confessare d'ignorarlo. Una cosa sola io so: che cioè, una persona esperta di prosodia e metrica volesse strutturare la frase secondo le norme di queste scienze - cosa che è facilissimo fare: basta spostare alcune parole, che hanno valore solo per il loro significato, o mutare l'ordine in cui le medesime si trovano - si accorgerà che a quegli uomini divini non mancò nessuna delle cose che nelle scuole dei grammatici o dei retori si sogliono ritenere di grande importanza. Vi troverà inoltre molte specie di locuzioni di bellezza così elevata - sono belle nella nostra lingua ma soprattutto nella loro - che non si trovano per nulla nelle letterature di cui i profani vanno tanto orgogliosi. Occorre tuttavia stare in guardia per non sminuire la portata di quelle sentenze divine e profonde mentre le si vuole sottoporre alla cadenza numerata. In realtà l'arte musicale, dove si applica in pieno la scienza dei numeri, non mancò ai nostri Profeti. Tant'è vero che quell'uomo dottissimo che è Girolamo ha sottolineato esservi anche della metrica, almeno per quanto riguarda la lingua ebraica 57, e per conservarne la verità nelle parole non ne ha voluto fare la traduzione. Quanto a me, per dire quel che sento e che mi è noto più che non lo sia agli altri e più che non l'opinione degli altri, non tralascio nel mio dire - per quanto modestamente ritengo di saper fare - queste cadenze ritmate, e mi piace moltissimo se riesco a trovarle anche nei nostri autori, e proprio perché ve le trovo assai di rado.

Lo stile solenne è talvolta richiesto nell'oratore sacro.

20. 42. Vi è poi lo stile solenne, che dista da quello temperato non tanto per il fatto che si adorna di parole eleganti ma perché esprime violenti affetti dell'animo. Accoglie, è vero, in sé quasi tutti gli abbellimenti formali, ma se non li ha, non ne va in cerca. È mosso infatti dal suo stesso impeto e, se assume eventualmente la bellezza dello stile, le assume perché sospinta dalla sua veemenza intrinseca, non perché vada in cerca di abbellimenti. Per ciò che tratta gli è sufficiente che le parole opportune non vengano scelte come esigenza di espressione ma conseguano l'ardore del cuore. In effetti, se un uomo forte e ardente nel combattere viene armato con una spada d'oro e tempestata di gemme, compie quello che con tali armi si può compiere, e lo compie non perché esse siano preziose ma perché sono armi. Quanto a lui, è sempre lo stesso ma compirà grandissime gesta quando nel vibrare il colpo l'ira gli fa sospingere la freccia 58. L'Apostolo tratta del tollerare pazientemente tutti i mali della vita presente per il servizio al Vangelo forti della consolazione che viene dai doni di Dio. L'argomento è importante e lo si tratta con eloquenza solenne dove non mancano gli ornamenti della retorica. Dice: Ecco ora il tempo favorevole, ecco ora il giorno della salvezza. Non diamo ad alcuno motivo di inciampo perché non venga vituperato il nostro ministero, ma in ogni cosa raccomandiamo noi stessi come ministri di Dio con grande costanza, in mezzo alle tribolazioni, alle necessità, alle angustie, sotto i colpi, nelle prigionie, nelle sommosse, tra le fatiche e le veglie e i digiuni; vivendo in castità, con conoscenza, con longanimità e con dolcezza nello Spirito Santo, in amore sincero, con la parola della verità e la virtù di Dio; mediante le armi della giustizia, armi di offesa e difesa; fra la gloria e l'ignominia, fra la calunnia e la lode; come seduttori eppure veritieri; come ignoti eppur ben conosciuti; come moribondi ma siamo pur vivi; come castigati, ma non siamo messi a morte; come addolorati, eppure sempre lieti; come miserabili, ma facciamo ricchi molti; come gente che non ha nulla, eppure possediamo ogni cosa. Vedi ancora il suo ardore: La nostra bocca è aperta a voi, Corinzi; il nostro cuore si è dilatato 59, con tutto il resto che sarebbe lungo aggiungere.

Rm 8, 28-39: bell'esempio di eloquenza solenne.

20. 43. Non diversamente nella Lettera ai Romani tratta delle persecuzioni di questo mondo e come le si vince con la carità, poggiata sulla speranza certa dell'aiuto divino. Il suo dire è solenne e forbito. Sappiamo - dice - che a quanti amano Dio tutto concorre al bene, a coloro cioè che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? Chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è morto, anzi che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: " Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello " 60. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore 61.

Gal 4, 10-20: altro esempio di eloquenza solenne.

20. 44. La Lettera ai Galati è scritta per intero in stile dimesso, ad eccezione delle ultime parti, dove lo stile è temperato. L'autore tuttavia ad un certo punto vi inserisce un brano così carico di sentimenti che, sebbene privo di tutti quegli abbellimenti che si trovano nei passi ora citati, non potrebbe essere qualificato se non come di stile solenne. Dice: Osservate i giorni e i mesi e gli anni e le stagioni. Ho paura per voi; temo di essermi affaticato invano per voi. Siate come me, ve ne prego, poiché anch'io sono stato come voi. Fratelli, non mi avete offeso in nulla. Sapete che fu a causa di una malattia del corpo che vi annunziai la prima volta il Vangelo; e quella che nella mia carne era per voi una prova non l'avete disprezzata né respinta, ma al contrario mi avete accolto come un angelo di Dio, come Cristo Gesù. Dove sono dunque le vostre felicitazioni? Vi rendo testimonianza che, se fosse stato possibile, vi sareste cavati anche gli occhi per darmeli. Sono dunque diventato vostro nemico dicendovi la verità? Costoro si dànno premura per voi, ma non onestamente; vogliono estraniarvi [da me] perché mostriate zelo per loro. È bello invece essere circondati di premure nel bene sempre e non solo quando io mi trovo presso di voi, figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi! Vorrei essere vicino a voi in questo momento e poter cambiare il tono della mia voce, perché non so cosa fare a vostro riguardo 62. Forse che qui ci sono delle antitesi o le parole sono collocate secondo una certa gradazione o vi sono delle cesure e frasi e periodi? Eppure non è tiepido il grande affetto in forza del quale, come bene ci accorgiamo, diviene bollente anche l'espressione.

Esempio di stile dimesso preso da Cipriano.

21. 45. Queste parole dell'Apostolo sono insieme evidenti e profonde. Esse sono state scritte e imparate a memoria, di modo che, se in esse qualcuno non contento d'una lettura superficiale cerchi di penetrarne le profondità, gli occorre non solo chi le legga e le ascolti ma anche chi le commenti. Vediamo pertanto gli stessi generi del dire in coloro che, attraverso la lettura dei testi scritturali, fecero progressi notevoli nella scienza delle cose divine e salutari e poi la dispensarono alla Chiesa. Il beato Cipriano usa il genere dimesso in quel libro dove tratta del Sacramento del calice. Risolve in effetti il problema se il calice del Signore debba contenere soltanto acqua ovvero acqua mescolata a vino. Ma prendiamo da lì un qualche brano a mo' di esempio. Dopo l'apertura della lettera, cominciando ormai a risolvere la questione che si era proposto di trattare, dice: Sappi dunque che a noi è stato rivolto l'ammonimento che nell'offrire il calice dobbiamo osservare la tradizione apostolica e che non dobbiamo fare altro se non quello che per primo fece per noi il Signore: per cui il calice che si offre in sua memoria lo si offre con mescolanza di acqua e di vino. Dicendo infatti Cristo: " Io sono la vera vite " 63, il sangue di Cristo non è certo acqua ma vino. Né può aversi l'immagine che il suo sangue, con il quale siamo stati redenti e vivificati, si trovi nel calice se al calice manca il vino che rappresenta il sangue di Cristo, come insegnano il mistero e la testimonianza di tutte le Scritture. Troviamo infatti nella Genesi che questa stessa cosa accadde anticipatamente nel gesto simbolico di Noè, nel qual fatto ci fu una figura della passione del Signore. In effetti egli bevve il vino, si ubriacò, restò nudo in casa, giacque in terra con le cosce nude e scoperte, nudità che fu osservata dal suo figlio mezzano mentre dal figlio maggiore e da quello più piccolo fu ricoperta 64. Non è qui necessario riportare il resto, bastando riferire questo solo e cioè che Noè, fungendo da figura della verità avvenire, bevve non l'acqua ma il vino e così rappresentò la passione del Signore. Vediamo inoltre raffigurato il Sacramento del Signore nel sacerdote Melchisedech, secondo quello che attesta la divina Scrittura quando dice: " E Melchisedech, re di Salem, offrì pane e vino - era infatti sacerdote del Dio altissimo -, e benedisse Abramo " 65. Che poi Melchisedech fosse una figura di Cristo lo dichiara nei Salmi lo Spirito Santo quando parlando a nome del Padre dice al Figlio: " Prima della stella mattutina ti ho generato. Tu sei sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedech " 66. Questo e tutto il seguito della lettera conservano il tono di un parlare dimesso, cosa che ogni lettore può facilmente constatare.

Esempio tratto da Ambrogio.

21. 46. Lo stesso fa sant'Ambrogio. Sebbene tratti di un argomento elevato, lo Spirito Santo, e voglia dimostrare come esso sia uguale al Padre e al Figlio, usa un genere letterario dimesso, perché l'argomento che ha preso a trattare non gli richiede ornamenti di parole o mezzi atti a commuovere l'affetto per piegare gli animi ma solo una documentazione oggettiva. Pertanto, al principio dell'opera, dice fra l'altro: Gedeone, avendo udito che, sia pur venendogli a mancare migliaia di uomini, il Signore avrebbe liberato dai nemici il suo popolo mediante un solo uomo, spinto dalla predizione divina offrì un capretto. Secondo l'ordine dell'angelo ne pose la carne sopra una pietra insieme con gli azimi e il tutto innaffiò con del brodo. Appena l'angelo di Dio toccò queste cose con la punta del bastone che teneva in mano, dalla pietra si sprigionò un fuoco che consumò il sacrificio che Gedeone stava offrendo 67. Da questo segno sembra sufficientemente indicato che quella pietra raffigurava il corpo di Cristo, poiché sta scritto: " Bevevano della pietra che li seguiva, e questa pietra era Cristo " 68. Questa nota non si riferisce certamente alla sua divinità ma alla sua carne, che inondò il cuore dei popoli assetati col fiume perenne del suo sangue. Già fin da allora dunque nel mistero fu reso noto che il Signore Gesù nella sua carne, una volta crocifisso, avrebbe cancellato i peccati del mondo, e non soltanto i delitti commessi con le azioni ma anche le cupidigie che hanno sede nell'animo. La carne del capretto dice infatti riferimento alle colpe di azione, mentre il brodo si riferisce alle attrattive della concupiscenza, come sta scritto: " Il popolo ebbe una pessima bramosia e disse: Chi ci darà carne da mangiare? " 69. Il fatto poi che l'angelo stese il bastone e toccò la pietra, dalla quale si sprigionò il fuoco, dimostra che la carne del Signore piena del divino Spirito avrebbe bruciato tutti i peccati degli uomini di qualsiasi condizione. Di questo diceva il Signore: " Sono venuto a portare il fuoco sulla terra " 70. Così nel resto del passo, dove egli si occupa soprattutto di insegnare e dimostrare il tema propostosi.

Esempio di stile temperato preso da Cipriano.

21. 47. Appartiene allo stile temperato l'elogio che fa Cipriano della verginità: Ora il nostro discorso si rivolge alle vergini, delle quali quanto più grande è la dignità tanto più grande deve essere in noi la cura. Sono il fiore spuntato dai germogli della Chiesa, splendore e ornamento della grazia spirituale, gioiosa prole nata a nostra lode ed onore, persone integre e incorrotte, immagine di Dio che rispecchia la santità del Signore, del gregge di Cristo porzione più splendente. Per esse e in esse gode e copiosamente fiorisce la gloriosa fecondità della madre Chiesa, e quanto più il numero della gloriosa verginità aumenta tanto più aumenta la letizia della madre 71. E in un altro passo, alla fine della lettera, dice: Come abbiamo portato l'immagine di colui che fu preso dal fango, così portiamo anche l'immagine di colui che discese dal cielo 72. Ora questa immagine la porta la verginità, la porta l'integrità, la porta la vera santità. La portano le vergini che ricordano i precetti di Dio, che praticano la giustizia unita alla religiosità, che sono salde nella fede, umili nel timore, forti in ogni genere di sopportazione, miti nel tollerare le offese, facili a usare misericordia, unanimi e concordi nella pace fraterna. Tutti questi precetti, ad uno ad uno, dovete rispettare, amare e mettere in pratica voi, o sante vergini, che, badando alle cose di Dio e di Cristo e, scelta per voi la porzione maggiore e migliore, precedete [gli altri fedeli] nell'altare incontro al Signore, al quale vi siete consacrate. Voi che siete avanti negli anni siate maestre delle più giovani; voi più giovani prestate alle più anziane i vostri servizi e siate di stimolo per le coetanee. Tenetevi deste con vicendevoli esortazioni, provocatevi alla gloria con una gara di esempi virtuosi: perseverate coraggiosamente, avanzate spiritualmente, arrivate felicemente [alla mèta] Ricordatevi di noi quando la vostra verginità comincerà ad esser in voi coronata 73.

Esempio di stile temperato preso da Ambrogio.

21. 48. Anche Ambrogio usa il genere di esporre temperato e ornato quando alle vergini consacrate, come a modo di esempio, propone quello che debbono imitare nei [loro] costumi. Dice: Era vergine non solo di corpo ma anche di spirito; non macchiava la sincerità del suo affetto con alcun intrigo sleale. Era umile di cuore, seria nella parola, prudente nell'animo, assai moderata nel discorrere e avida di leggere. Riponeva la sua speranza non nelle ricchezze incerte 74 ma nell'ascoltare le suppliche dei poveri. Era assidua nel lavoro e riservata nel parlare; come giudice dei suoi pensieri era solita prendere Dio, non l'uomo; non danneggiava nessuno ma voleva bene a tutti 75. Rispettava le più anziane, non invidiava le compagne; fuggiva le vanterie, seguiva la ragione, amava la virtù. Quando mai costei offese i genitori sia pure con un moto del volto? quando si mise in discordia con i vicini? quando sdegnò gli umili? quando si burlò del debole o si tenne lontana dal povero? Fra gli uomini, era solita visitare solo quelle categorie di cui per misericordia non doveva vergognarsi e che non doveva evitare per pudore. Nessun cipiglio negli occhi, nessuna espressione procace sulla bocca, nulla di sconveniente negli atti. Nessun gesto molle, non incedere sdilinquito, non voce pettegola; per cui la stessa bellezza del corpo non era altro che l'immagine dello spirito e l'espressione dell'onestà. Una buona casa la si deve poter riconoscere fin dal vestibolo, e, non appena si entra, si deve poter discernere che dentro non ci sono tenebre, quasi che la luce della lucerna collocata dentro risplenda anche fuori. A che scopo dunque ricorderò la sua sobrietà nel cibo e l'attività nei suoi molti servizi? Nell'una si spinse oltre i limiti della natura, nell'altra si privò di quello stesso che la natura richiede. Nell'una non frappose alcun intervallo, nell'altra digiunò a giorni alterni. E se talvolta le veniva il desiderio di rifocillarsi, prendeva tanto cibo quanto fosse stato sufficiente per non morire, non per soddisfare il suo gusto 76, eccetera. Ho scelto questo brano come esempio di stile temperato in quanto nel brano citato l'autore non si propone di far votare la verginità a coloro che non l'hanno votata ma dice come debbono essere coloro che ne han fatto voto. In effetti per ottenere che l'animo intraprenda un tale e tanto proposito occorre senz'altro che sia mosso e infiammato con un discorso solenne. Peraltro il martire Cipriano scriveva sul comportamento delle vergini, non sull'abbracciare il proposito di verginità; il vescovo Ambrogio invece ritenne doverle infiammare anche a questo [e lo fece] con eloquenza solenne.

Esempio di eloquenza solenne preso da Cipriano.

21. 49. Ricorderò tuttavia gli esempi di eloquenza solenne riferita ad un tema che tutti e due trattarono. Tutti e due infatti inveirono contro le donne che si colorano o, piuttosto, scolorano il viso con vari belletti. Trattando questo argomento dice, fra l'altro, il primo: Ecco un pittore che ha disegnato e abilmente colorato il viso, la bellezza e la forma corporea di una persona. Se, una volta dipinto e terminato il quadro, un altro, ritenendosi più esperto, vi mettesse le mani per rifare l'immagine già delineata e dipinta, sarebbe un grave torto verso il precedente artista e giusto sarebbe lo sdegno di costui. E tu crederai di poterti permettere impunemente l'audacia d'una così perversa temerarietà che offende Dio creatore? Se non sei, è vero, impudica nei riguardi degli uomini né ti tolgono la verginità i tuoi trucchi da sgualdrina, tuttavia avendo corrotto e violate le cose che sono di Dio diventi un'adultera ancora peggiore. Con quel che credi ornamento, con quel che credi fascino, tu attenti all'opera di Dio, tu diventi prevaricatrice contro la verità. Ecco la parola dell'Apostolo che ti ammonisce: " Gettate via il lievito vecchio per essere una nuova pasta, poiché siete azzimi. Infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato, sicché dobbiamo celebrare la festa non con il lievito vecchio né con il lievito della malizia e della cattiveria ma con gli azzimi della schiettezza e della verità " 77. O che si mantengono forse la schiettezza e la verità, quando si deturpano le cose schiette e le cose vere si mutano in cose menzognere con l'adulterazione fatta per mezzo del colore e i trucchi dei belletti? Il tuo Signore ti dice: " Non puoi rendere bianco o nero uno solo dei tuoi capelli " 78, e tu per sopraffare la voce del tuo Signore osi reputarti da più di lui? Con tentativo sfrontato e con disprezzo sacrilego ti tingi i capelli, e, con cattivo presagio della sorte futura, ti auguri di avere fin d'ora capelli colore di fiamma 79. Sarebbe troppo lungo aggiungere tutto il resto dei discorso.

Esempio di eloquenza solenne preso da Ambrogio.

21. 50. Parlando contro queste stesse persone il secondo dice: Da qui nascono quegli incentivi ai vari vizi, per cui si tingono le labbra con colori artefatti, e, mentre temono di dispiacere al proprio marito, adulterando il volto preventivano l'adulterio della castità. Quale aberrazione è mai questa: mutare l'aspetto naturale e cercare di mascherarlo! Mentre temono il giudizio del marito, manifestano la perversione del loro proprio giudizio. Colei infatti che desidera mutare le sue fattezze naturali pronunzia in primo luogo un giudizio contro di sé e mentre cerca di piacere agli altri, mostra già prima che non piace a se stessa. O donna, quale giudice cercheremo per valutare la tua bruttezza, all'infuori di te stessa, che temi di mostrarti [come sei]? Se sei bella, perché ti camuffi? Se sei brutta, perché vuoi apparire bella con falsi accorgimenti, non ottenendo grazia né dalla tua coscienza né da parte degli altri, che induci in errore? Tuo marito ama un'altra donna, tu vuoi piacere ad un altro uomo: e ti arrabbi se per caso ama un'altra, tu che gli sei stata maestra di adulterio! Sei tu la cattiva maestra del torto che subisci. Chi ha ceduto alle arti di un adultero rifugge dall'adulterio e, sebbene sia donna spregevole, non seguita a peccare con altri, sebbene pecchi dentro se stessa. Quasi quasi il peccato dell'adulterio è più scusabile poiché lì si pecca contro la castità, qui si altera la natura 80. Ritengo sufficientemente evidente che, dopo un simile tratto di eloquenza, le donne si sentano vivamente spinte a non alterare con belletti la loro forma naturale e a crescere nel pudore e nel timore. Pertanto questo genere di eloquenza non lo giudichiamo dimesso o temperato ma assolutamente solenne. E presso questi due uomini di Chiesa che fra tutti ho voluto citare e in altri che hanno insegnato il bene adeguatamente, cioè come richiesto dal tema, con acume, con abilità e fervore, in molti loro scritti o discorsi si possono trovare questi tre tipi di eloquenza; e chi li studia, a forza di leggerli o ascoltarli spesso, unendovi dell'esercizio personale può anche riuscire a farsene l'abitudine.

Il discorso si alterni come i flutti del mare.

22. 51. Non si deve credere che sia contrario alle norme [dell'arte retorica] mescolare queste tre specie [di eloquenza]; anzi, se lo si sa fare appropriatamente, il discorso venga proprio variato secondo tutte e tre. Se infatti nel parlare ci si dilunga sulla stessa specie, si fa poca presa sull'uditore; se invece si passa da una specie all'altra, anche se si va un po' per le lunghe, il discorso si snoda più gradito. E ciò anche se ogni singola specie ha in se stessa, quando chi parla è eloquente, delle variazioni che non permettono ai sensi di chi ascolta né di raffreddarsi né d'intiepidirsi. È tuttavia più facilmente tollerabile l'uso prolungato dello stile dimesso che non di quello solenne. Le emozioni dell'animo infatti quanto più le si deve suscitare nell'uditore perché ci presti l'assenso, tanto meno, quando detta emozione è stata sufficientemente suscitata, si deve pretendere che si protragga nel suo animo. Si deve pertanto evitare che, mentre vogliamo elevare più in alto colui che è già elevato, lo si faccia scendere più in basso dal punto che aveva raggiunto. Vi si interpongano quindi frasi dette in stile dimesso, e allora sarà bello il ritorno a ciò che è da dirsi in forma solenne, di modo che l'impeto dell'eloquenza si alterni come i flutti del mare. Ne segue che lo stile solenne di eloquenza, se lo si deve usare a lungo, non deve essere il solo ad usarsi ma lo si deve rendere vario con l'inserzione degli altri generi del dire; tuttavia il discorso tutto intero lo si ascriverà a quel genere che in esso prevale.

Intervallare i generi l'uno con l'altro.

23. 52. È interessante stabilire quale genere si deve intervallare con l'altro e quando lo si debba fare, poiché ci sono norme certe e fisse. Difatti nel genere solenne gli inizi debbono essere sempre o quasi sempre di genere temperato, ed è lasciato alla libera scelta dell'oratore dire delle cose in stile dimesso, anche di quelle che potrebbero essere dette in stile solenne. In tal modo le cose che si dicono con alta eloquenza dal confronto con le altre acquistano in solennità e per loro, come attraverso a delle ombre, divengono più luminose. Qualunque poi sia il genere usato, capita che si debbano sciogliere i nodi di qualche difficoltà. Lì c'è bisogno di acume: cosa propriamente riservata al genere dimesso. Per questo un tal genere, anche collegandolo con gli altri due, si deve usare quando capitano argomenti di questo tipo: quando, ad esempio, si deve lodare o riprovare qualcosa che non richieda né la condanna o la liberazione della persona né l'assenso a una qualche azione. Se ciò capita in mezzo a un altro genere oratorio, si deve usare e interporre il genere temperato. Nell'eloquenza solenne dunque trovano posto anche gli altri due generi, e lo stesso accade nell'eloquenza dimessa. Quanto al genere temperato, esso richiede, non sempre ma qualche volta, il genere dimesso, se, come ho detto, occorre risolvere il nodo di una qualche questione, o quando delle cose che potrebbero essere dette con linguaggio ornato non le si adorna ma le si dice con linguaggio dimesso affinché il posto più elevato lo si riservi agli ornamenti [del discorso], che così viene a trovarsi come sull'alto di un letto. L'eloquenza temperata non esige l'eloquenza solenne, in quanto si adopera per dilettare gli animi, non per eccitarli.

Effetti sorprendenti del dire solenne.

24. 53. Non si deve, ovviamente, ritenere che un oratore parli in stile solenne quando lo si acclama di frequente e con calore. Lo stesso risultato infatti ottengono e la finezza dello stile dimesso e gli ornamenti dello stile temperato. Il genere solenne al contrario il più delle volte col suo peso comprime le grida e fa sgorgare le lacrime. Una volta a Cesarea di Mauritania dovetti dissuadere il popolo da una guerra civile, o peggio che guerra civile, che essi chiamavano caterva. Era una battaglia feroce che in un determinato periodo dell'anno combattevano fra loro non solo i concittadini ma anche i parenti e i fratelli e persino i genitori e i figli. Si dividevano in due fazioni e si combattevano fra loro, a colpi di pietre, per alcuni giorni di seguito e, come a ciascuno riusciva, si uccidevano anche. Feci naturalmente ricorso allo stile solenne, come ne ero capace, per sradicare dai loro cuori e costumi un male così crudele e così inveterato, sperando di estinguerlo con la mia parola. Non ritenni tuttavia d'essere riuscito a concludere qualcosa finché non li vidi piangere, non già quando li avevo sentiti applaudire. In effetti, con le acclamazioni mi indicavano che avevano capito e ne godevano, con le lacrime invece che si erano convinti. Quando dunque li vidi piangere ritenni vinta, prima ancora che me lo mostrassero con i fatti, quella feroce consuetudine loro tramandata dai padri e dai nonni e dagli antenati per lunghi secoli, consuetudine che assediava o, meglio, possedeva da nemica i loro cuori. Non appena terminato il discorso, li esortai a volgere il cuore e la bocca a Dio per ringraziarlo; ed ecco sono già circa otto o più anni dacché, per benevola concessione di Cristo, nessuna azione di quella sorta è stata più tentata in quella città. Ci sono molti altri esempi da cui impariamo che gli uomini non mediante grida ma gemiti o, talvolta, con lacrime o, finalmente, col cambiamento dei costumi dànno a divedere ciò che ha operato in loro la sublimità di un discorso sapiente.

Efficacia del genere dimesso.

24. 54. Anche con l'uso del genere dimesso si sono cambiate diverse persone: hanno potuto sapere quel che non sapevano e credere a ciò che prima sembrava loro incredibile, non però si sono decise a praticare ciò che già sapevano doversi praticare ma non lo facevano. Per vincere una tale durezza c'è bisogno dell'eloquenza solenne. In realtà, le lodi e le disapprovazioni, quando le si dice con eloquenza anche usando il genere temperato, colpiscono certuni in modo che nelle lodi o nei rimproveri non solo si rallegrino per l'eloquenza ma anche desiderino vivere in modo lodevole ed evitino di vivere come loro si rimprovera. Ma forse che, tutti coloro che provano il gusto, di fatto si trasformano come fanno, quando si usa il genere solenne, tutti coloro che si convincono? Forse che, quando si usa il genere dimesso, imparano tutti coloro a cui si imparte l'insegnamento o credono nella verità delle cose fino allora sconosciute?

L'eloquenza temperata non è urgente come gli altri generi del dire.

25. 55. Da quanto detto si deduce che quei due generi che mirano alla pratica sono soprattutto necessari a quanti vogliono parlare con sapienza ed eloquenza. Viceversa il genere temperato, nel quale è l'eloquenza stessa che piace, non lo si deve adoperare come fine a se stesso. Lo si deve impiegare per ottenere più presto e più tenacemente l'assenso degli uditori a cose che si dicono utilmente e rettamente. Così facendo, gli uditori si muoveranno più prontamente per il diletto che provoca in loro il discorso ma non hanno bisogno né dell'insegnamento né della spinta della parola, essendo già istruiti e inclini favorevolmente [all'azione]. In effetti, compito universale dell'eloquenza è, in tutti e tre questi generi, dire le cose in modo capace di ottenere la persuasione; il suo fine poi è persuadere con il discorso ciò che si intende [persuadere]. Orbene, in qualunque di questi tre generi si esprima l'oratore, dirà cose adatte per ottenere la persuasione, ma, se di fatto non persuade, non consegue il fine dell'eloquenza. Nel genere dimesso persuade che sono vere le cose che dice; nel genere solenne persuade a che siano tradotte in pratica le cose che già si conoscono come obbligatorie ma non si praticano; nel genere temperato persuade ad ammirare ciò che egli dice con begli ornamenti. Ma che bisogno abbiamo noi di ottenere una simile finalità? Ne vadano a caccia quelli che si gloriano della lingua e se ne vantano nei panegirici e in simili altri discorsi, dove nessuno è da istruirsi né da sospingersi a fare qualcosa ma l'uditore è soltanto da dilettarsi. Quanto invece a noi, riferiamo questa finalità all'altra: cioè anche mediante questo stile vogliamo conseguire quello che ci proponiamo quando parliamo in stile solenne, che cioè il bene morale venga amato e il male fuggito, sempre che la gente non sia così aliena da questo effetto da richiedere, a nostro avviso, proprio il parlare solenne. Lo usiamo inoltre affinché coloro che praticano il bene lo facciano con più cura e vi perseverino con maggiore fermezza. Ne segue che noi usiamo del genere temperato con la sua eleganza non per vanagloria ma conforme a sapienza; non ci contentiamo di dilettare l'uditore ma procuriamo che, anche con l'uso di questo genere, venga aiutato a raggiungere il bene che gli vogliamo inculcare.

La scelta dello stile nell'oratore ecclesiastico.

26. 56. Colui che parla con sapienza e si propone di parlare anche con eloquenza deve ricorrere a questi tre generi del dire, se vuol essere ascoltato in modo da essere compreso, da tornare gradito e da ottenere l'adesione. L'affermazione però non si deve intendere quasi che i singoli effetti corrispondano all'uno o all'altro dei tre generi, dimodoché al genere dimesso corrisponda l'essere udito con comprensione, al temperato l'essere udito con gradimento e al solenne l'essere udito con adesione. Comunque, l'oratore abbia sempre di mira queste tre finalità e per quanto può veda di conseguirle tutte, anche quando si limita ad uno solo di quei tre generi. Non vogliamo infatti procurare della noia quando parliamo in stile dimesso e per questo vogliamo essere ascoltati non solo in modo da essere compresi ma anche accolti volentieri. E quando insegniamo desumendo il nostro dire dalle testimonianze di Dio, cosa ci proponiamo se non d'essere ascoltati docilmente, cioè che si presti loro fede con l'aiuto di colui al quale fu detto: Le tue testimonianze sono tutte molto degne di fede 81? Colui infatti che, sebbene con linguaggio dimesso, racconta qualcosa a chi la deve imparare, cosa intende se non che gli si creda? E chi vorrà ascoltarlo se non si concilia l'uditore anche con una certa eleganza? Se infatti non lo si comprende, chi non si rende conto che egli non potrà essere ascoltato né volentieri né docilmente? Spessissimo capita infatti che con il parlare dimesso si sciolgano questioni difficilissime e le si rendano chiare con una descrizione inattesa. Con esso parimenti si traggon fuori sentenze acutissime da non so quali nascondigli, da cui mai si sarebbe sospettato e le si mette in luce. Ci si convince di errore l'avversario e ci si insegna essere falso ciò che da lui era detto in maniera che sembrava irrefutabile. Con questo genere può andare unita soprattutto una grazia, non ricercata ma in certo qual modo ad esso connaturale, e un certo ritmo di clausole creato non per vanteria ma come necessario [al fraseggiare] e, per così dire, tratto dall'intimo delle cose stesse. In tali ipotesi lo stile dimesso è capace di strappare acclamazioni tali che a stento lo si potrebbe prendere per stile dimesso. Non dipende in realtà dal fatto che avanza disadorno o disarmato ma lotta a corpo nudo se riesce ad abbattere l'avversario con i nervi e con i muscoli, e così con le sue membra fortissime abbatte e distrugge la falsità che gli oppone resistenza. E perché mai con tanta frequenza e insistenza si acclamano coloro che usano questo genere del dire se non perché la verità così dimostrata, difesa e resa invincibile, provoca anche del piacere? Comunque, il nostro dottore e oratore anche quando usa questo genere dimesso deve ottenere il risultato di parlare non solo in modo da essere compreso ma anche ascoltato volentieri e docilmente.

Cautele nell'uso dello stile temperato.

26. 57. Anche l'eloquenza di genere temperato non è lasciata disadorna né la si abbellisce in maniera disdicevole dall'oratore ecclesiastico. Egli non cerca solo di piacere, unico intento che riscontra presso gli oratori profani, ma anche nelle cose che elogia o disapprova vuole senza dubbio essere ascoltato docilmente sia per quanto concerne il desiderare e conservare le une come nell'evitare e respingere le altre. Se però quando lo si ascolta non lo si comprende, non può nemmeno essere ascoltato volentieri. Pertanto quelle tre finalità, che cioè gli uditori comprendano, provino godimento e obbediscano, le si deve avere in vista anche in questo genere dove il primo posto lo tiene senza dubbio il dilettare.

Cautele nell'uso dello stile solenne.

26. 58. Quando poi è necessario smuovere e convincere l'uditore col genere solenne - e questo è necessario quando costui riconosce che si dice la verità e la si dice attraentemente ma poi si ricusa di fare quanto vien detto -, allora senza dubbio bisogna ricorrere all'eloquenza solenne. Ma chi potrà muoversi all'azione senza conoscere quel che gli si dice? o chi viene afferrato in modo che presti ascolto se non ci prova alcun gusto? Ne segue che anche in questo genere, dove con la solennità del dire ci si preoccupa di piegare all'obbedienza il cuore indurito, l'oratore non sarà ascoltato docilmente se non è ascoltato in maniera da essere compreso e affascinato.

L'efficacia dell'oratore dipende dalla vita che vive.

27. 59. Per essere ascoltato docilmente, più che non la solennità dell'elocuzione, ha peso senza dubbio la vita dell'oratore. In effetti, uno che parla dottamente ed eloquentemente ma vive malamente, istruisce certo molti che sono bramosi di imparare ma, come sta scritto, non reca alcuna utilità alla sua anima 82. Al riguardo dice anche l'Apostolo: Sia per secondi fini sia con sincerità, purché si annunzi Cristo 83. In effetti Cristo è la verità, e tuttavia la verità può essere annunziata non con verità, cioè le cose giuste e vere possono essere predicate con cuore perverso e mendace. Così ad esempio viene annunziato Gesù Cristo da coloro che cercano i propri vantaggi, non quelli di Gesù Cristo. I buoni fedeli tuttavia, quando ascoltano, obbediscono non a un qualsiasi uomo ma al Signore in persona, secondo quello che egli diceva: Fate ciò che dicono ma non fate quello che fanno, poiché dicono e non fanno 84. Per questo motivo si ascoltano utilmente anche coloro che non agiscono con profitto personale. In realtà essi vanno in cerca del proprio interesse ma non ardiscono insegnare dottrine personali, almeno quando parlano dall'alto della sede che occupano nella Chiesa e che è costituita dalla sana dottrina. In vista di ciò lo stesso Signore, prima di dire a loro riguardo quel che ho sopra ricordato, diceva: Sedettero sulla cattedra di Mosè 85. Orbene quella cattedra, non loro ma di Mosè, li costringeva a parlare bene, pur comportandosi male. Nella loro vita agivano guardando al proprio interesse; dall'insegnare cose proprie li distoglieva quella cattedra, che apparteneva ad altri.

Il predicatore confermi con la vita la parola che annunzia.

27. 60. Gli oratori che dicono cose che non fanno giovano, è vero, a molti; ma facendo quello che dicono gioverebbero a molti di più. Abbondano infatti persone che cercano di difendere la loro cattiva condotta appellandosi ai propri superiori e maestri. Nel loro cuore o, se la cosa giunge a farli sbottare, anche con la loro bocca rispondono dicendo: Ciò che comandi a me tu perché non lo fai? Succede così che non ascoltino docilmente il predicatore che, lui personalmente, non si ascolta e, insieme al predicatore, disprezzano la stessa parola di Dio che viene loro annunziata. Ne scrive l'Apostolo a Timoteo. Dopo avere detto: Nessuno disprezzi la tua età giovanile, aggiunge anche il motivo per cui non deve essere disprezzato e dice: Ma sii modello ai fedeli nel parlare, nel comportamento, nell'amore, nella fede, nella castità 86.

Più che di piacere si cerchi di giovare.

28. 61. Un maestro di questo tipo, che voglia essere ascoltato docilmente, potrà parlare senza falsi pudori non solo usando lo stile dimesso e quello temperato ma anche quello solenne, per il fatto che non conduce una vita sciatta. Si è scelto la vita buona non trascurando nemmeno la buona fama ma arricchendosi di beni dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini 87, temendo per quanto può l'uno e cercando il bene dei suoi simili. Anche nel suo parlare preferisce piacere più per le cose [che dice] che non per le parole [con cui le dice] e non ritiene di parlare meglio se non quando parla più conforme a verità. Un tal maestro non sarà servo della parola ma la parola del maestro. Questo infatti inculcava l'Apostolo: Non nella sapienza della parola perché non sia privata della sua efficacia la croce di Cristo 88. Si riferisce a questo anche quanto detto a Timoteo: Non disputare a parole, cosa che non giova ad altro se non alla rovina di chi ascolta 89. Non che questo sia detto al fine di non farci dire nulla in favore della verità quando gli avversari la impugnano. Dove andrebbero, se no, a finire le parole che, fra l'altro, dice mostrando quale debba essere il vescovo: Che sappia insegnare la sana dottrina e controbattere gli avversari 90? Non sono infatti, le dispute di parole, arti per vincere l'errore con la forza della verità ma piuttosto per ottenere che le tue parole siano preferite a quelle dell'altro. Viceversa chi non fa dispute di parole, sia che parli in stile dimesso o temperato o solenne, questo intende con le sue parole: che la verità divenga palese, la verità piaccia, la verità spinga all'azione. Difatti anche la carità, che è fine del precetto e pienezza della legge 91, in nessun modo può essere buona quando le cose amate non sono vere ma false. È come quando uno ha bello il corpo ma deforme lo spirito: è da compiangersi più che se avesse deforme anche il corpo. Lo stesso si deve dire di quanti parlano eloquentemente di cose false: sono da compiangersi più che se ne parlassero in maniera sgraziata. In che cosa consiste dunque il parlare non solo con eloquenza ma anche con sapienza? Nell'usare, per le cose vere che occorra porgere all'uditorio, parole appropriate nel genere dimesso, brillanti nello stile temperato e possenti nello stile solenne. Ma se uno non riesce a ottenere le due cose insieme, preferisca dire con sapienza ciò che non sa dire con eloquenza, anziché dire con eloquenza cose insulse.

29. 61. Che se nemmeno questo [parlare in sapienza] gli riesce, si comporti in modo da dare agli altri il buon esempio, e faccia in modo che la sua condotta sia per loro una predica efficace.

L'ecclesiastico poco eloquente può attingere a discorsi scritti da altri.

29. 62. Ci sono, è vero, persone che possono declamare un bel discorso ma non riescono a comporre ciò che debbono pronunziare. In tal caso prendano uno scritto eloquente e sapiente composto da altri, lo imparino a memoria e lo declamino al popolo. Impersonandosi con l'altro, non fanno una cosa riprovevole. In questo modo, certo molto utile, un gran numero di persone diventano annunziatori della verità, pur non essendone maestri, purché tutti vadano d'accordo nel riferire le parole dell'unico Maestro e non ci siano scissioni fra loro 92. Persone come queste non le si deve spaventare con le parole del profeta Geremia, per bocca del quale Dio rimprovera coloro che rubano le sue parole, ciascuno dal suo vicino 93. Quelli che rubano infatti prendono la roba degli altri, ma la parola di Dio non è roba di altri se chi la prende è a lui soggetto; sarebbe roba altrui se uno, pur riferendola bene, vivesse male. Il bene che dice sembrerebbe concepito dal suo ingegno, ma in realtà è in contrasto con i suoi costumi. Pertanto dice Dio che rubano le sue parole coloro che vogliono apparire buoni, dicendo le cose di Dio, mentre invece sono cattivi regolandosi a proprio talento. Infatti, se ci badi attentamente, non sono essi a dire il bene che dicono. Come potrebbero infatti dirlo a parole se con la vita lo rinnegano? Non senza un perché di costoro dice l'Apostolo: Professano di conoscere Dio ma a fatti lo rinnegano 94. Da un lato dunque sono essi che dicono, dall'altro lato non sono essi, poiché sono vere tutte e due le cose asserite dalla Verità. Parlando infatti di gente come questa diceva: Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno 95. Cioè: Fate quel che ascoltate dalla loro bocca, ma non fate ciò che vedete nelle loro opere. E seguitava: poiché dicono ma non fanno 96. Dunque sebbene non pratichino, tuttavia dicono. Ma in un altro passo, rimproverando gente come questa, diceva: Ipocriti, come potete dire cose buone se siete cattivi? 97 Sotto questo aspetto anche le cose che dicono, quando parlano di cose buone, non sono loro a dirle in quanto con la volontà e la condotta rinnegano quello che dicono. Così capita che un uomo facondo e cattivo componga un discorso in cui si annunzia la verità affinché sia pronunziato da un altro che non è elegante ma buono. In questo caso il primo da dentro se stesso estrae cose non sue, quest'altro da una sorgente a lui estranea riceve cose sue. Quando poi i buoni fedeli prestano quest'opera ad altri buoni fedeli, tanto gli uni che gli altri dicono cose proprie, poiché loro è il Dio a cui appartengono le cose che essi dicono ed essi se le rendono proprie perché, anche se non furono loro a comporre il testo, tuttavia vi conformano la vita vivendo secondo quelle norme.

Per ben predicare è necessario premettere la preghiera.

30. 63. Ecco dunque il nostro oratore sul punto di pronunciare il suo discorso davanti al popolo o a un qualsiasi gruppo, ovvero sul punto di dettare quel che sarà riferito al popolo o letto da chi vorrà o potrà. Preghi Dio affinché gli ponga in bocca un buon discorso 98. Se infatti la regina Ester, prima di parlare al re della salvezza temporale del suo popolo, pregò affinché Dio ponesse sulla sua bocca un discorso adeguato, quanto più deve pregare per ricevere un tal dono colui che si industria di ottenere con le parole e la scienza la salute eterna di tante persone 99? Quanto poi a coloro che proclameranno cose ricevute da altri, preghino prima di riceverle per coloro da cui le riceveranno, affinché sia dato ad essi ciò che da essi vogliono ricevere, e dopo che l'hanno ricevuto preghino affinché loro stessi possano ben proclamarlo e perché coloro per il cui bene si proclama lo ricevano. E della felice riuscita della proclamazione rendano grazie a colui dal quale, ne sono certi, hanno ricevuto il dono, di modo che chi si gloria si glori 100 in colui nelle cui mani siamo noi e tutti i nostri discorsi 101.

Agostino è soddisfatto dell'opera scritta, sebbene la ritenga prolissa.

31. 64. Il libro mi è riuscito più lungo di quel che volessi o pensassi; ma non sarà lungo per colui che leggendolo o ascoltandolo, lo troverà gradito. Se poi per qualcuno è lungo e d'altronde lo vuole conoscere, lo legga per parti. Quanto poi a colui che non si cura di conoscerlo, non si lamenti della sua lunghezza. Per me personalmente, io ringrazio il nostro Dio per avere potuto in questi quattro libri esporre - sia pure con le modeste risorse a me date - non chi o come sono io (al quale molte cose difettano) ma chi e quale debba essere colui che si ingegna di recare non solo a se stesso ma anche agli altri un valido contributo fatto di dottrina sana, cioè cristiana.

Note:

 

1 - Cf. supra 1, 1, 1.

2 - Cf. CICERO, De orat. 3, 146.

3 - Cf. CICERO, De inv. 1, 1.

4 - Sap 6, 26.

5 - Rm 5, 3-5.

6 - 2 Cor 11, 16-30.

7 - 2 Cor 11, 31.

8 - 2 Cor 11, 6.

9 - Cf. 2 Cor 10, 10.

10 - Cf. Amos 7, 14-15.

11 - Amos 6, 1-6.

12 - Amos 6, 1.

13 - Amos 6, 2-3.

14 - Amos 6, 4.

15 - Amos 6, 5-6.

16 - Ibidem.

17 - Amos 6, 4.

18 - Amos 6, 5-6.

19 - Amos 6, 6.

20 - Cf. CICERO, De orat. 1, 146; Brutus 30. 46.

21 - Cf. CICERO, De orat. 1, 78.

22 - Sal 15, 4.

23 - Cf. CICERO, De orat. 1, 69.

24 - Ger 5, 30-31.

25 - Cf. Ger 46, 22.

26 - Sal 34, 18.

27 - CYPR., Ad Donat. 1.

28 - Cf. Sap 7, 16.

29 - Mt 10, 19-20.

30 - Mt 6, 8.

31 - 1 Tm 4, 11.

32 - 1 Tm 5, 1.

33 - 2 Tm 1, 13.

34 - 2 Tm 2, 15.

35 - 2 Tm 4, 2.

36 - Tt 1, 9.

37 - Tt 2, 1-2.

38 - Tt 2, 15.

39 - Tt 3, 1.

40 - 1 Cor 3, 7.

41 - Sal 142, 10.

42 - 2 Tm 3, 14.

43 - CICERO, De orat. 1, 101.

44 - Lc 16, 10.

45 - 1 Cor 6, 1-9.

46 - Cf. Mt 10, 42.

47 - Cf. 2 Mac 1, 32.

48 - Gal 4, 21-26.

49 - Gal 3, 15-18.

50 - Gal 3, 19-21.

51 - Gal 3, 22.

52 - 1 Tm 5, 1-2.

53 - Rm 12, 1.

54 - Rm 12, 6-16.

55 - Rm 13, 6-8.

56 - Rm 13, 12-14; cf. Confess. 8, 12, 29.

57 - Cf. HIERON., In Iob. Prol..

58 - VERG., Aen. 7, 507.

59 - 2 Cor 6, 2-11.

60 - Sal 43, 22.

61 - Rm 8, 28-39.

62 - Gal 4, 10-20.

63 - Gv 15, 1.

64 - Cf. Gn 9, 20-23.

65 - Gn 14, 18.

66 - Sal 109, 4; CYPR., Ep. 63, 2-4 (ad Caecilium, de Sacram. calicis)

67 - Cf. Gd 6, 11-21.

68 - 1 Cor 10, 4.

69 - Nm 11, 4.

70 - Lc 12, 49; AMBROS., De Spiritu S., prol. 2-3.

71 - CYPR., De disciplina et habitu virginum 3, 23.

72 - 1 Cor 15, 49.

73 - CYPR., De disciplina et habitu virginum 3, 24.

74 - Cf. 1 Tm 6, 17.

75 - Cf. TEREN., Adelph. 864.

76 - AMBROS., De virgin. 2, 2, 7-8.

77 - 1 Cor 5, 7-8.

78 - Mt 5, 36.

79 - CYPR., De disciplina et habitu virginum 15 ss.

80 - AMBROS., De virgin. 1, 6, 2.

81 - Sal 92, 5.

82 - Sir 37, 22.

83 - Fil 1, 18.

84 - Mt 23, 2.

85 - Mt 23, 2.

86 - 1 Tm 4, 12.

87 - Cf. 2 Cor 7, 21.

88 - 1 Cor 1, 17.

89 - 2 Tm 2, 14.

90 - Tt 1, 9.

91 - 1 Tm 1, 5; Rm 13, 10.

92 - Cf. 1 Cor 1, 10.

93 - Ger 23, 30.

94 - Tt 1, 16.

95 - Mt 23, 3.

96 - Ibid.

97 - Mt 12, 34.

98 - Cf. Est 14, 13.

99 - Cf. 1 Tm 5, 17.

100 - 1 Cor 1, 31.

101 - Cf. Sap 7, 16.


Le virtù di Maria Santissima

Le glorie di Maria - Sant'Alfonso Maria de Liguori

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Sant'Agostino dice che per ottenere con più sicurezza e abbondanza il favore dei santi bisogna imitarli, perché vedendo che noi pratichiamo le virtù da loro esercitate, essi sono più portati a pregare per noi. Maria, la regina dei santi e la nostra prima avvocata, dopo aver sottratto un'anima dagli artigli di Lucifero e averla unita a Dio, vuole che quest'anima cerchi d'imitarla, altrimenti non potrà arricchirla delle sue grazie come vorrebbe, vedendola contraria ai suoi comportamenti. Perciò la Vergine chiama beati quelli che imitano diligentemente la sua vita: « E ora, figli, ascoltatemi! Felici quelli che osservano le mie vie» (Pro 8,32). Chi ama, o è simile o cerca di rendersi simile alla persona amata, secondo il celebre proverbio: « L'amore trova o fa uguali ». Perciò san Girolamo ci esorta dicendo che se noi amiamo Maria, dobbiamo cercare d'imitarla, perché questo è il maggiore omaggio che possiamo offrirle. Riccardo di san Lorenzo afferma che sono e possono chiamarsi veri figli di Maria quelli che cercano di imitare la sua vita. Dunque, conclude san Bernardo, il figlio si sforzi di imitare la Madre, se desidera il suo favore; poiché allora, vedendosi onorata come madre, Maria lo tratterà e favorirà come figlio. In quanto poi alle virtù di questa Madre, anche se i Vangeli non ne riportano molti dettagli, tuttavia, dato che vi si dice che fu piena di grazia, comprendiamo facilmente che Maria ebbe tutte le virtù e tutte in grado eroico. San Tommaso dice: « Ciascuno degli altri santi ha primeggiato in una virtù particolare: uno fu soprattutto casto, un altro fu soprattutto umile, un altro fu soprattutto misericordioso. Ma la beata Vergine ci è stata data come esempio di tutte le virtù ». E sant'Ambrogio afferma: « Così fu Maria, perché la sua vita fosse di esempio a tutti ». Perciò il santo ci lasciò scritto: « Come in un 'immagine rifulga in voi la verginità e la vita di Maria, nella quale risplende ogni forma di virtù. Da lei attingete gli esempi di vita... ciò che dovete correggere, ciò che dovete evitare, ciò a cui dovete aderire » E poiché, come insegnano i santi padri, l'umiltà è il fondamento di tutte le virtù, vediamo in primo luogo quanto fu grande l'umiltà della Madre di Dio.


1. L'umiltà di Maria

« L'umiltà è fondamento e custode delle virtù », dice san Bernardo, e con ragione. Senza umiltà, infatti, non vi può essere alcun'altra virtù in un'anima. Anche se essa possiede tutte le virtù, tutte verranno meno se viene meno l'umiltà. Al contrario, come san Francesco di Sales scrisse alla beata suor Giovanna di Chantal, Dio ama tanto l'umiltà, che subito accorre dove la vede. Questa bella virtù così necessaria era sconosciuta nel mondo, ma il Figlio stesso di Dio venne ad insegnarla sulla terra con il suo esempio e volle che specialmente in essa noi cercassimo d'imitarlo: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore » (Mt 11,29). Come fu la prima e più perfetta discepola di Gesù Cristo in tutte le virtù, così Maria lo fu anche nell'umiltà, per cui meritò di essere esaltata sopra tutte le creature. Fu rivelato a santa Metilde che la prima virtù esercitata dalla Vergine fin dalla fanciullezza fu l'umiltà. Il primo atto dell'umiltà di cuore è avere un basso concetto di sé. Maria ebbe sempre un così basso concetto di se stessa, come fu ugualmente rivelato a santa Metilde, che, pur vedendosi arricchita di grazie più degli altri, non si mise mai al di sopra di nessuno. Spiegando quel passo del Cantico dei cantici: « Mi hai ferito il cuore, sorella mia sposa... con un solo capello del tuo collo » (Ct 4,9 Volg.), l'abate Ruperto dice che questo capello del collo della sposa fu appunto l'umile concetto che Maria ebbe di sé, con cui ferì il cuore di Dio; « che cosa c’è infatti più sottile di un capello? ». Non già che la santa Vergine si stimasse peccatrice, perché l'umiltà è verità, come dice santa Teresa, e Maria sapeva di non aver mai offeso Dio. Non che non confessasse di aver ricevuto da Dio maggiori grazie di tutte le altre creature, perché un cuore umile ben riconosce i favori speciali del Signore per umiliarsi ancor più; ma la divina Madre, alla luce più grande che aveva per conoscere l'infinita grandezza e bontà del suo Dio, conosceva meglio la sua piccolezza. Perciò si umiliava più di ogni altro e con la sposa del Cantico dei cantici diceva: « Non guardate che io sono bruna, perché mi ha abbronzato il sole » (Ct 1,5). San Bernardo commenta: « In confronto al suo splendore, mi trovo nera ». Infatti, dice san Bernardino, « la Vergine aveva sempre un rapporto attuale con la divina maestà e con il proprio niente ». Come una mendicante, se indossa una ricca veste che le è stata donata, non se ne insuperbisce, ma nel vederla tanto più si umilia davanti al suo donatore perché più si ricorda della sua povertà, così Maria, quanto più si vedeva arricchita, tanto più si umiliava, ricordandosi che tutto era dono di Dio. La Vergine stessa disse alla benedettina santa Elisabetta: « Sappi che io mi ritenevo la creatura più spregevole e indegna della grazia di Dio ». San Bernardino afferma: « Come nessuna creatura, dopo il Figlio di Dio, s'innalzò sulle vette della grazia quanto Maria, così nessuna creatura scese più in basso nell'abisso dell'umiltà » Inoltre è atto di umiltà nascondere i doni celesti. Maria volle tacere a san Giuseppe la grazia di essere divenuta Madre di Dio, anche se pareva necessario informarlo, per dissipare i sospetti che lo sposo poteva avere sulla sua onestà vedendola incinta, o almeno per liberarlo dal turbamento. San Giuseppe infatti, non potendo dubitare della castità di Maria e d'altra parte ignorando il mistero, « decise di rimandarla in segreto » (Mt 1,19); e, se l'angelo non gli avesse rivelato che la sposa aveva concepito per opera dello Spirito Santo, l'avrebbe lasciata. Inoltre l'umile rifiuta le lodi per sé e le riferisce tutte a Dio. Maria si turbò nel sentirsi lodare dall'angelo Gabriele e quando santa Elisabetta le disse: « Benedetta tu fra le donne... A che debbo che la Madre del mio Signore venga a me?... Te beata che hai creduto... » (Lc 1), la Vergine, attribuendo tutte quelle lodi a Dio, rispose con l'umile cantico: « L'anima mia magnifica il Signore ». Come se dicesse: Elisabetta, tu lodi me, ma io lodo il Signore a cui solo è dovuto l'onore. Tu ammiri che io venga a te; io ammiro la divina bontà: « il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore ». Tu mi lodi perché ho creduto; io lodo il mio Dio che ha voluto esaltare il mio niente: « perché ha considerato la bassezza della sua serva » (Lc 1,46-48). Maria disse a santa Brigida: « Perché mi umiliavo tanto e ho meritato tanta grazia, se non perché ho saputo e pensavo di non essere e di non avere niente? Perciò non volli la mia lode, ma soltanto quella del donatore e del creatore». Parlando dell'umiltà di Maria, sant'Agostino esclama: « O beata umiltà, che donò Dio agli uomini, aprì il paradiso e liberò le anime dagli inferi ». E’ proprio degli umili il servire, e Maria non esitò ad andare a servire Elisabetta per tre mesi. Dice dunque san Bernardo: « Elisabetta si meravigliava che Maria fosse venuta, ma ancor più si stupisca che sia venuta non per essere servita, ma per servire ». Gli umili se ne stanno in disparte e si scelgono il posto peggiore. Perciò Maria, osserva san Bernardo, quella volta che Gesù stava predicando in una casa (Mt 12), desiderava parlargli ma non volle « interrompere il discorso di suo Figlio con la sua autorità di madre e non entrò nella casa in cui egli parlava ». Per la stessa ragione, stando nel cenacolo con gli apostoli, Maria volle mettersi all'ultimo posto. Leggiamo in san Luca: « Tutti questi perseveravano concordi nella preghiera, assieme con le donne e con Maria, madre di Gesù » (At 1,14). Non che san Luca non conoscesse i meriti della divina Madre, per cui avrebbe dovuto nominarla in primo luogo; ma poiché Maria si era messa all'ultimo posto nel cenacolo, dopo gli apostoli e le altre donne, san Luca menziona tutti i presenti secondo l'ordine in cui stavano collocati. E’ questo il pensiero di un autore. Dice san Bernardo: « Giustamente l'ultima è diventata la prima perché, pur essendo la prima di tutti, si comportava come se fosse l'ultima ». Infine gli umili amano le manifestazioni di disprezzo. Perciò non si legge che Maria fosse presente in Gerusalemme quando nella Domenica delle palme il Figlio fu ricevuto dal popolo con tanti onori. Invece al momento della morte di Gesù la Vergine non si astenne dal comparire in pubblico sul Calvario, affrontando il disonore di essere riconosciuta come madre del condannato, che moriva da infame con una morte infame. Maria disse a santa Bngida: « Che cosa c'è di più spregevole di essere considerata incapace, di avere bisogno di tutto e di credersi la più indegna di tutti? Tale, o figlia, fu la mia umiltà, questa la mia gioia e questa la mia volontà, perché non avevo altro pensiero che di piacere unicamente a mio Figlio ». Alla venerabile suor Paola da Foligno fu dato in un estasi di comprendere quanto fu grande l'umiltà della santa Vergine. Parlandone al suo confessore, la religiosa, piena di stupore, diceva: « Ah padre, l'umiltà della Madonna! Nel mondo non vi è neppure un minimo grado di umiltà in confronto a quella di Maria ». Una volta, il Signore fece vedere a santa Brigida due dame, una tutta fasto e vanità. « Questa, le disse, è la superbia. L'altra che vedi, con atteggiamento modesto, rispettosa verso tutti, con il pensiero rivolto unicamente a Dio e che si considera come un niente, è l'umiltà e si chiama Maria ». Dio volle in tal modo manifestarci che la sua beata Madre era così umile, che era l'umiltà stessa. E certo che per la nostra natura corrotta dal peccato non c'è forse, dice san Gregorio Nisseno, nessuna virtù più difficile da praticare che l'umiltà. Ma non c’è altra via: non potremo mai essere veri figli di Maria se non siamo umili. Dice san Bernardo: « Se non puoi imitare la verginità dell'umile, imita l'umiltà della Vergine ». Ella aborrisce i superbi, chiama a sé soltanto gli umili: « Chi è fanciullo venga a me » (Pro 9,4). Riccardo di san Lorenzo afferma: « Maria ci protegge sotto il mantello dell'umiltà ». La Madre di Dio stessa così parlò a santa Bngida: « Anche tu, figlia mia, vieni e nasconditi sotto il mio mantello; questo mantello è la mia umiltà ». Poi disse che la considerazione della sua umiltà è un buon mantello che riscalda. Ma come il mantello non riscalda se non chi lo porta, non solo con il pensiero, ma anche in opera, così, aggiunse, « la mia umiltà non giova, se non ci si sforza di imitarla. Perciò, figlia mia, rivestiti di questa umiltà ». Quanto sono care a Maria le anime umili! San Bernardo scrive: « La Vergine riconosce e ama quelli che la amano ed è vicina a coloro che la invocano, specialmente a quelli che vede conformi a sé nella castità e nell'umiltà ». Perciò il santo esorta tutti coloro che amano Maria ad essere umili: « Sforzatevi di emulare questa virtù, se amate Maria ». Martino d'Alberro della Compagnia di Gesù per amore della Vergine era solito scopare il convento e raccoglierne le immondizie. Un volta, riferisce il padre Nielremberg, gli apparve la divina Madre e ringraziandolo gli disse: « Quanto mi è cara quest'azione fatta per amor mio!». Dunque, mia Regina, non potrò mai essere tuo vero figlio se non sono umile. Non vedi che i miei peccati dopo avermi reso ingrato verso il mio Signore mi hanno fatto diventare anche superbo? Madre mia, poni tu rimedio alla mia situazione: per i meriti della tua umiltà ottienimi di essere umile, divenendo così figlio tuo. Amen.


2. L'amore di Maria verso Dio

Dice sant'Anselmo: « Quanto più un cuore è puro e vuoto di se stesso, tanto più sarà pieno di amore verso Dio ». Maria fu tutta umile e vuota di sé, scrive san Bernardino e perciò fu tutta piena di amore divino, superando l'amore di tutti gli uomini e di tutti gli angeli verso Dio. Con ragione dunque san Francesco di Sales la chiamò la « Regina dell'amore ». Il Signore ha dato all'uomo questo precetto: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore » (Mt 22,37). « Questo precetto, dice san Tommaso, sarà adempiuto completamente e perfettamente in cielo. Su questa terra viene adempiuto, ma in maniera imperfetta ». Il beato Alberto Magno afferma che in certo modo sarebbe stato disdicevole a Dio imporre un precetto che non fosse stato perfettamente osservato da nessuno, se non vi fosse stata la sua divina Madre, la quale l'osservò perfettamente. Riccardo di san Vittore conferma questo pensiero dicendo: « La madre del nostro Emmanuele fu perfetta nella pratica di ogni virtù. Chi mai adempì come lei quel primo comandamento: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore? L'amore divino fu in lei così ardente che non poté sfiorarla alcun difetto ». « L'amore di Cristo, scrive san Bernardo, non solo ferì, ma trapassò l'anima di Maria tanto che non restò alcuna parte senza ferita. Così ella amò con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze e fu piena di grazia ». Quindi Maria poteva ben dire: « Il mio diletto è per me, e io per lui » (Ct 2,16). « Anche i serafini, dice Riccardo, potevano scendere dal cielo per imparare nel cuore della Vergine il modo di amare Dio » Dio, che è amore (lGv 4,8), venne sulla terra ad accendere in tutti la fiamma del suo divino amore, ma non ne infiammò nessun cuore quanto quello di sua Madre che, essendo libero dagli affetti terreni, era interamente disposto ad ardere di questo fuoco. Così san Girolamo scrive: « L'amore di Dio aveva acceso talmente Maria, che niente al mondo poteva alterare il suo sentimento, ma c' erano in lei un ardore continuo e l'ebbrezza di un amore senza limiti ». Il cuore di Maria divenne dunque tutto fuoco e fiamme, come si legge nel Cantico dei cantici: « Le sue fiaccole sono fiaccole di fuoco e di fiamme » (Ct 8,6). Sant'Anselmo spiega: fuoco, ardendo interiormente per amore; fiamme, risplendendo di fuori con l'esercizio delle virtù. Dunque, quando Maria portava Gesù tra le braccia, si poteva dire che era « fuoco che porta il fuoco » ben a maggior diritto di quanto diceva Ippocrate, in un altro senso, a proposito di una donna che portava in mano il fuoco il Sant'Ildefonso dice: « Lo Spirito Santo infiammò interamente Maria, come fa il fuoco con il ferro; di modo che in lei si vedeva solo la fiamma dello Spirito Santo e si sentiva solo il fuoco dell'amore divino ». Secondo san Tommaso da Villanova, il roveto che Mosè vide ardere senza consumarsi era già il simbolo del cuore della Vergine. Perciò con ragione, dice san Bernardo, Maria fu veduta da san Giovanni vestita di sole: « Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole » (Ap 12,1), perché ella penetrò nell'abisso della divina sapienza al di là di quanto si possa immaginare ed è immersa in quella luce inaccessibile per quanto è possibile a una creatura. San Bonaventura afferma che la santa Vergine non fu mai tentata dall'inferno, perché « come un grande fuoco fa fuggire le mosche, così dal suo cuore ardente di amore venivano scacciati i demoni che non ardivano avvicinarsi a lei ». Riccardo di san Vittore dice ugualmente: « La Vergine fu terribile verso i principi delle tenebre, che non osarono avvicinarsi a tentarla, perché li spaventava la fiamma dell'amore ». Maria stessa rivelò a santa Brigida che in questo mondo non ebbe altro pensiero, altro desiderio, altro gaudio che Dio. Dato che sulla terra la sua anima benedetta stava quasi sempre a contemplare Dio, gli atti d'amore che faceva erano innumerevoli, come scrive il padre Suarez. Ma preferisco dire, con Bernardino da Busto, che Maria, invece di ripetére gli atti d'amore, come fanno gli altri santi, per singolare privilegio, amava sempre attualmente Dio con un atto continuo. Come l'aquila reale, teneva sempre gli occhi fissi sul sole divino, « in maniera tale, dice san Pier Damiani, che né le azioni impedivano la contemplazione, né la contemplazione le impediva di svolgere le sue attività ». Sicché, dice san Germano, fu figura di Maria l'altare propiziatorio, in cui non si spegneva mai il fuoco, né di giorno né di notte. Neppure il sonno impediva a Maria di amare il suo Dio. Se tale privilegio fu concesso ai nostri progenitori nello stato d'innocenza, come afferma sant'Agostino, dicendo che allora « erano ugualmente felici i loro sogni mentre dormivano e la vita quando erano svegli », quello stesso privilegio non deve essere certamente negato alla divina Madre. Glielo accordano il Suarez, l'abate Ruperto, san Bernardino da Siena e sant'Ambrogio il quale, parlando di Maria, lasciò scritto: « Mentre riposava il corpo, vegliava l'animo ». In lei si realizzava ciò che disse il Saggio: « Non si spegne di notte la sua lampada » (Pro 31,18). Si, dice san Bernardino, mentre il suo santo corpo in un leggero sonno prendeva il necessario riposo, « la sua anima liberamente tendeva verso Dio. Perciò allora la sua contemplazione era più perfetta di quanto mai poté essere quella di una persona sveglia. "Io dormo, ma il mio cuore veglia", poteva ella dire con la sposa del Cantico dei cantici (Ct 5,2) ». « Ugualmente felice sia quando dormiva che quando vegliava », dice il Suarez. Insomma, afferma san Bernardino, su questa terra « la mente della Vergine era continuamente immersa nell'ardore del suo amore ». Inoltre ella non fece mai se non quello che seppe essere gradito a Dio e tanto amò Dio quanto stimò di doverlo amare. Di modo che, dice il beato Alberto Magno, « crediamo anche, salvo diverso parere, che nel concepire il Figlio di Dio la beata Vergine abbia ricevuto tanta carità quanta una semplice creatura poteva ricevere in questa vita ». San Tommaso da Villanova aggiunge che con la sua ardente carità la Vergine divenne così bella agli occhi del suo Dio che egli, preso dal suo amore, discese nel seno di lei a farsi uomo. E san Bernardino esclama: « O virtù della Vergine Madre! Una fanciulla ha ferito e rapito il cuore di Dio! ». Ma poiché Maria ama tanto il suo Dio, certamente non richiede nessun' altra cosa dai suoi devoti, quanto che amino Dio come meglio possono. Così appunto disse alla beata Angela da Foligno un giorno in cui essa si era comunicata: « Angela, Sii benedetta dal Figlio mio. Tu cerca di amarlo quanto puoi». A santa Brigida la beata Vergine disse: « Figlia, se vuoi legarmi a te, ama il Figlio mio ». Maria non desidera nulla più che di vedere amato il suo diletto, che è Dio. Il Novarino si domanda perché la santa Vergine con la sposa del Cantico dei cantici pregava gli angeli di dire al suo Signore il grande amore che gli portava: « Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se trovate il mio diletto, ditegli che languisco d'amore » (Ct 5,8). Dio non sapeva già forse quanto ella lo amava? « Perché chiede di mostrare all'amato la ferita che egli stesso ha fatto? ». E il Novarino risponde che la divina Madre volle far conoscere il suo amore non a Dio, ma a noi altri, affinché come lei era ferita, potesse ferire anche noi di amore divino. « Poiché fu ardente d'amore per Dio, dice san Bonaventura, Maria infiamma e rende simili a sé tutti coloro che la amano e l'avvicinano ». Perciò santa Caterina da Siena la chiamava « Portatrice del fuoco» dell'amore divino. Se vogliamo dunque ardere anche noi di questa santa fiamma, cerchiamo sempre di accostarci alla nostra Madre con le preghiere e con gli affetti. Maria, Regina dell'amore, la più amabile, la più amata e la più amante di tutte le creature - come ti diceva san Francesco di Sales - madre mia, tu ardesti sempre d'amore verso Dio. Degnati di donarmene almeno una scintilla. Tu pregasti tuo Figlio per quegli sposi cui mancava il vino: « Non hanno vino » (Gv 2,3); e non pregherai per noi ai quali manca l'amore verso Dio, che siamo tanto obbligati ad amare? Dì pure: « Non hanno amore » e ottienici questo amore. Non ti chiediamo altra grazia che questa. Madre, per l'amore che porti a Gesù, esaudiscici, prega per noi. Amen.


3. La carità di Maria verso il prossimo

L'amore verso Dio e verso il prossimo ci è imposto nello stesso precetto: « Noi abbiamo da Dio questo comandamento: chi ama Dio ami anche il proprio fratello » (lGv 4,21). La ragione, scrive san Tommaso, è che chi ama Dio ama tutte le cose amate da Dio. Santa Caterina da Genova diceva un giorno a Dio: « Signore, tu vuoi che io ami il prossimo, ma io non posso amare che te ». Dio le rispose: « Chi ama me, ama tutte le cose amate da me ». Ma poiché non vi è stato né vi sarà chi più di Maria amasse Dio, così non vi è stato né vi sarà chi più di Maria abbia amato il prossimo. « Una lettiga si è fatta il re Salomone... il centro è un ricamo d'amore delle fanciulle di Gerusalemme» (Ct 3,9 Volg.). A proposito di questo passo il padre Cornelio a Lapide dice che questa lettiga fu il seno della beata Vergine in cui il Verbo Incarnato venne ad abitare e riempì la sua santa Madre di un'immensa carità, affinché ella aiutasse chiunque ricorre a lei. Durante la sua vita Maria fu così piena di carità, che soccorreva i bisognosi senza esserne neppure richiesta. Così fece alle nozze di Cana, quando domandò al Figlio il miracolo del vino, esponendo la pena di quella famiglia: « Non hanno vino » (Gv 2,3). Come era sollecita la Vergine quando si trattava di aiutare il prossimo! Quando per un compito di carità si recò da Elisabetta, « andò in fretta in una regione montuosa » (Lc 1,39). Ma la prova più grande di carità, la diede offrendo alla morte suo Figlio per la nostra salvezza. San Bonaventura dice: « Maria ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo Figlio unigenito ». E sant'Anselmo esclama: « O benedetta fra le donne, che superi gli angeli nella purezza e i santi nella pietà! ». San Bonaventura afferma: « Grande fu la misericordia di Maria verso i miseri mentre era pellegrina su questa terra, ma molto più grande è ora che regna nel cielo, perché vede meglio le miserie degli uomini ». L'angelo rivelò a santa Brigida che non vi è nessuno che preghi senza ricevere grazie per la carità della Vergine. Poveri noi, se Maria non pregasse per noi! Gesù stesso disse a santa Bngida: « Senza l'intercessione di mia Madre, non ci sarebbe speranza di misericordia ». «Beato l'uomo che mi ascolta, dice la divina Madre, vegliando alle mie porte ogni giorno, custodendone la soglia » (Pro 8,34 Volg.), e osserva la mia carità per esercitarla verso gli altri a mia imitazione. San Gregorio Nazianzeno afferma che niente ci può conciliare la benevolenza della Vergine quanto la misericordia verso il prossimo. Dio ci esorta: « Siate misericordiosi come Dio, vostro Padre, è misericordioso » (Lc 6,36). Così anche Maria sembra dire a tutti i suoi figli: « Siate misericordiosi, come la Madre vostra è misericordiosa ». E certo che secondo la carità che noi useremo col prossimo, Dio e Maria l'useranno con noi: « Date e vi sarà dato... con la stessa misura con cui misurate, sarà misurato anche a voi » (Lc 6,38). San Metodio diceva: « Dona al povero e riceverai il paradiso ». Scrisse l'Apostolo: « La pietà è utile a tutto, avendo la promessa della vita presente e di quella futura » (1Tm 4,8). « Chi fa la carità al povero presta a Dio » (Pro 19,17). Commentando queste parole, san Giovanni Crisostomo afferma che chi soccorre i bisognosi fa sì che Dio gli diventi debitore. Madre di misericordia, tu sei piena di carità verso tutti; non ti scordare delle mie miserie. Tu le vedi; raccomandami a Dio che non ti nega nulla. Ottienimi la grazia di poterti imitare nella santa carità, sia verso Dio, sia verso il prossimo. Amen.


4. La fede di Maria

Come la beata Vergine è madre dell'amore e della speranza, così è anche madre della fede. « Io sono la madre del bello amore, del timore e della scienza e della santa speranza » (Eccli [= Sir] 24,24 Volg.). E con ragione, dice sant'Ireneo, poiché quel danno che Eva fece con la sua incredulità, Maria lo riparò con la sua fede Eva, conferma Tertulliano, poiché volle credere al serpente preferendolo a quello che aveva detto Dio, apportò la morte. Ma la nostra Regina, col credere, come le aveva detto l'angelo, che sarebbe divenuta Madre del Signore pur restando vergine, apportò al mondo la salvezza. Sant'Agostino dice che, dando il suo consenso all'Incarnazione del Verbo, Maria, per mezzo della sua fede, aprì agli uomini il paradiso. Spiegando questo passo di san Paolo: « Il marito non credente è santificato dalla moglie credente» (1Cor 7,14), Riccardo di san Lorenzo scrive: « Questa èla donna fedele, per la cui fede è stato salvato Adamo, uomo infedele, e tutta la sua discendenza ». A causa della sua fede la Vergine fu proclamata beata da Elisabetta: « Te beata, che hai creduto; perché si compiranno le cose dette a te dal Signore » (Lc 1,45). Sant'Agostino aggiunge: « Maria fu più beata nell'accogliere la fede di Cristo, che nel concepire la carne di Cristo ». Il padre Suarez dice che la' santa Vergine ebbe più fede di tutti gli uomini e tutti gli angeli. Vedeva il Figlio suo nella stalla di Betlemme e lo credeva il creatore del mondo. Lo vedeva fuggire da Erode e non cessava di credere che era il re dei re. Lo vide nascere e lo credette eterno. Lo vide povero, bisognoso di cibo e lo credette Signore dell'universo; coricato sul fieno e lo credette onnipotente. Osservò che non parlava e credette che era la Sapienza infinita. Lo sentiva piangere e credeva che era il gaudio del paradiso. Lo vide infine morire vilipeso e crocifisso, ma benché negli altri vacillasse la fede, Maria continuò a credere fermamente che egli era Dio. « Vicino alla croce di Gesù stava sua madre » (Gv 19,25). Meditando su queste parole sant'Antonino scrive: « Maria stava salda nella fede, che conservò incrollabile, nella divinità di Cristo ». Per questo, aggiunge il santo, nell'ufficio delle Tenebre si lascia una sola candela accesa. A tale proposito san Leone applica alla Vergine questo passo dei Proverbi: « Non si spegne di notte la sua lampada » (Pro 31,18) a Commentando le parole di Isaia: « Da me solo ho spremuto il torchio e delle genti nessun uomo è con me » (Is 63,3), san Tommaso scrive: « Dice: nessun uomo, a causa della Vergine, nella quale non venne mai meno la fede ». Il beato Alberto Magno esclama: « Ebbe fede in sommo grado colei che, mentre i discepoli dubitavano, non dubitò ». Quindi per la sua grande fede Maria meritò di essere la luce di tutti i fedeli. Così san Metodio la chiama: « La fiaccola dei fedeli » e san Cirillo Alessandrino: « Lo scettro della vera fede ». Per merito della fede di lei la santa Chiesa attribuisce alla Vergine la sconfitta di tutte le eresie: « Rallégrati, Vergine Maria, tu sola hai debellato tutte le eresie nel mondo intero ». San Tommaso da Villanova, spiegando le parole dello Spirito Santo: « Mi hai ferito il cuore, sorella mia sposa... con un solo sguardo dei tuoi occhi » (Ct 4,9), dice che questi occhi furono la fede di Maria, per cui ella molto piacque a Dio Sant'Ildefonso ci esorta: « Imitate la fede di Maria » Ma come possiamo im(tare questa fede di Maria? La fede èinsieme dono e virtù. E dono di Dio in quanto è una luce che Dio infonde nell' anima; è virtù in quanto l'anima la mette in pratica. Perciò la fede ci deve servire da regola non solo per credere, ma anche per agire. Così san Gregorio diceva: « Crede veramente colui che nella sua vita mette in pratica ciò che crede ». E sant'Agostino: « Tu dici: credo. Fa' quello che dici: questa è la fede ». Questo è l'avere una fede viva, cioè il vivere secondo quel che si crede: « Il mio giusto vive di fede » (Eb 10,38). Così visse la beata Vergine, a differenza di coloro che non vivono secondo quel che credono e la cui fede è morta, come dice san Giacomo: « La fede senza le opere è morta » (Gc 2,26). Diogene andava cercando dappertutto un uomo: « Cerco un uomo ». Ma Dio, fra tanti fedeli che vi sono, par che vada cercando un cristiano: « Cerco un cristiano ». Pochi sono quelli che ne compiono le opere; la maggior parte ne porta soltanto il nome. A costoro si dovrebbe dire ciò che Alessandro Magno disse a un soldato codardo che si chiamava anch'egli Alessandro: « Cambia nome o cambia comportamento ». Ma, diceva il venerabile Giovanni Avila, questi sciagurati dovrebbero essere rinchiusi come pazzi in un carcere poiché, pur credendo che sia preparata un'eternità felice per chi vive bene e un'eternità infelice per chi vive male, vivono tuttavia come se non vi credessero. Quindi sant'Agostino ci esorta a vedere le cose con occhi cristiani, cioè che vedono secondo la fede: « Abbiate occhi cristiani». Dalla mancanza di fede, diceva santa Teresa, nascono tutti i peccati. Perciò preghiamo la santa Vergine affinché per i meriti della sua fede ci ottenga una fede viva: « Signora, aumenta la nostra fede! » (cfr. Lc 17,5).


5. La speranza di Maria

Dalla fede nasce la speranza. Dio ci illumina con la fede alla conoscenza della sua bontà e delle sue promesse, affinché ci innalziamo con la speranza al desiderio di possederlo. Poiché dunque Maria ebbe la virtù di una fede eminente, ebbe anche la virtù di una speranza eminente, che le faceva dire con Davide: « Il mio bene è stare vicino a Dio, porre nel Signore Dio la mia speranza » (Sal 72,28). Maria fu quella sposa fedele dello Spirito Santo della quale fu detto: « Chi è costei che sale dal deserto, ricolma di delizie, appoggiata al suo diletto? » (Ct 8,5 Volg.). Sale dal deserto, spiega il cardinale Giovanni Algrino, perché fu sempre distaccata dal mondo, da lei considerato un deserto e perciò, non fidando né nelle creature né nei propri meriti, si appoggio interamente sulla grazia divina nella quale soltanto confidava, per avanzare sempre nell'amore del suo Dio. La santa Vergine dimostrò quanto fosse grande la sua fiducia in Dio in primo luogo quando si accorse che il suo santo sposo Giuseppe, ignorando il modo della sua prodigiosa gravidanza, era turbato e pensava di lasciarla: « Giuseppe... decise di rimandarla in segreto » (Mt 1,19). Come abbiamo già detto in precedenza, sembrava necessario che Maria gli rivelasse il mistero nascosto. « Ma, dice Cornelio a Lapide, la beata Vergine non volle far conoscere ella stessa la grazia ricevuta e preferì abbandonarsi alla divina provvidenza, confidando che Dio avrebbe difeso la sua innocenza e la sua reputazione ». Dimostrò inoltre la fiducia in Dio quando, vicina al parto, si vide esclusa a Betlemme anche dall'albergo dei poveri e ridotta a partorire in una stalla: « Lo depose in una mangiatoia, perché per loro non c'era posto all'albergo » (Lc 2,7). Non pronunziò allora nessuna parola di lamento ma, tutta abbandonata in Dio, confidò che egli l'avrebbe assistita in quella prova. La divina Madre dimostrò un'altra volta la sua grande fiducia nella divina provvidenza quando, avvisata da san Giuseppe di dover fuggire in Egitto, la stessa notte intraprese un così lungo viaggio verso un paese straniero e sconosciuto, senza provviste, senza denaro, senza altro accompagnamento che quello del suo bambino Gesù e del suo povero sposo: Giuseppe « si alzò, prese con sé il bambino e sua madre, nella notte, e parti per l'Egitto » (Mt 2,14). Molto più Maria dimostrò la sua fiducia quando chiese al Figlio la grazia del vino per gli sposi di Cana. Alle sue parole: « Non hanno vino », Gesù aveva risposto: « Che vuoi da me, o donna? Non è ancora venuta la mia ora » (Gv 2,4). Pareva dunque chiaro che la sua domanda fosse respinta. Ma la Vergine, fiduciosa nella bontà divina, disse ai servi: « Fate quello che vi dirà », perché era sicura che il Figlio le avrebbe accordato la grazia. Gesù infatti fece riempire le giare d'acqua e poi la mutò in vino. Impariamo dunque da Maria ad avere piena fiducia, principalmente per quanto riguarda la nostra salvezza eterna, per la quale, benché la nostra cooperazione sia necessaria, tuttavia dobbiamo sperare solo da Dio la grazia per conseguirla, diffidando delle nostre proprie forze e ripetendo con l'apostolo: « Tutto posso in colui che mi dà forza» (Fil 4,13). Mia santa Regina, di te mi dice l'Ecclesiastico che sei la madre della speranza: « Madre... della santa speranza »(Eccli [= Sir] 24,24 Volg.). Di te mi dice la santa Chiesa che sei la speranza stessa: « Salve, speranza nostra ». Quale altra speranza vado dunque cercando? Dopo Gesù sei tu tutta la mia speranza. Così ti chiamava san Bernardo, così voglio chiamarti anch'io: « Tutta la ragione della mia speranza ». E ti dirò sempre con san Bonaventura: « O salvezza di chi ti invoca, salvami ».


6. La castità di Maria

Dopo il peccato di Adamo, essendosi i sensi ribellati alla ragione, la virtù della castità è per gli uomini la più difficile da praticare. « Tra tutte le lotte, dice sant'Agostino, le più aspre sono le battaglie della castità; il combattimento è quotidiano e la vittoria è rara ». Sia sempre lodato il Signore che in Maria ci ha dato un grande modello di questa virtù. A ragione, esclama il beato Alberto Magno, Maria è chiamata « Vergine delle vergini perché, per prima, senza il consiglio e l'esempio di nessuno, offrendo la sua verginità a Dio, gli ha dato poi tutte le vergini che l'hanno imitata ». Già Davide aveva predetto: « Le vergini sue compagne sono introdotte... nel palazzo del re » (Sal 44,15-16). Senza consiglio e senza esempio; sì, dice san Bernardo: « O Vergine, chi ti insegnò a piacere a Dio con la verginità e a condurre sulla terra una vita angelica? ». « Cristo, risponde Sofronio, si scelse per madre questa Vergine purissima, affinché ella fosse per tutti un esempio di castità ». Perciò sant'Ambrogio chiama Maria la vessillifera della verginità5. Per questa sua purezza lo Spirito Santo proclama la santa Vergine bella come la tortorella: « Le tue guance sono belle come le guance della tortora » (Ct 1,9 Volg.). « Tortorella purissima è Maria », commenta Aponio. Perciò fu paragonata anche al giglio: « Come un giglio tra gli spini, così l'amica mia tra le fanciulle » (Ct 2,2). San Dionisio Cartusiano osserva che Maria fu chiamata giglio tra le spine perché « tutte le altre vergini furono spine o per se stesse o per gli altri; ma la beata Vergine né per sé né per gli altri. Infatti col solo farsi vedere infondeva a tutti pensieri e desideri di purezza ». San Tommaso conferma: « La bellezza della beata Vergine spingeva alla castità quelli che la guardavano». San Girolamo pensa che san Giuseppe si mantenne vergine in virtù della compagnia di Maria. Contro l'eretico Elvidio, che negava la verginità di Maria, il santo scrive: « Tu dici ch'e Maria non rimase vergine, ma io sostengo che anche Giuseppe fu vergine grazie a Maria ». Dice un autore che la beata Vergine amò talmente questa virtù, che per conservarla sarebbe stata pronta a rinunziare anche alla dignità di Madre di Dio. Ciò risulta chiaramente dalle parole che Maria rispose all'arcangelo: « Come avverrà questo, poiché io non éonosco uomo? » (Lc 1,34) e dalla sua risposta: « Si faccia di me come hai detto tu » (Lc 1,38). La Vergine mostrava così che dava il suo consenso perché l'angelo le aveva assicurato che sarebbe divenuta madre soltanto per opera dello Spirito Santo. Sant'Ambrogio dice: « Chi conserva la castità è un angelo, chi la perde è un demonio». Quelli che sono casti diventano angeli, come disse il Signore: « Saranno come angeli di Dio » (Mt 22,30), ma quelli che peccano contro la castità diventano odiosi a Dio, come i demoni. San Remigio diceva che la maggior parte degli adulti si perde per questo vizio Rara è la vittoria su questo vizio, come abbiamo detto in precedenza con sant'Agostino. perché non si praticano i mezzi per vincere. Tre sono i mezzi, come dicono, con san Roberto Bellarmino, i maestri della vita spirituale: « Il digiuno, la fuga dai pericoli e la preghiera ». Per digiuno s'intende la mortificazione, specialmente degli occhi e della gola. Benché fosse piena della grazia divina, Maria mortificava i suoi occhi al punto che li teneva sempre bassi e non li fissava mai su nessuno. Così dicono sant'Epifanio e san Giovanni Damasceno e aggiungono che sin da fanciulla era così modesta che suscitava l'ammirazione di tutti. Perciò san Luca nota che nel recarsi a visitare santa Elisabetta, la Vergine « andò in fretta »per essere meno veduta in pubblico. In quanto poi al cibo, narra Filiberto che ad un eremita chiamato Felice fu rivelato che Maria bambina beveva latte solo una volta al giorno. San Gregorio di Tours attesta che ella digiunò in tutta la sua vita. San Bonaventura afferma: « Maria non avrebbe mai ricevuto tanta grazia se non fosse stata molto moderata nel cibo; infatti non si conciliano la grazia e la gola ». Maria insomma praticò la mortificazione in ogni cosa, sicché di lei fu detto: « Le mie mani stillarono mirra » (Ct 5,5). Il secondo mezzo è la fuga dalle occasioni: « Chi evita le insidie sta al sicuro » (Pro 11,15 Volg.). San Filippo Neri diceva: « Nella guerra dei sensi vincono i poltroni », cioè quelli che fuggono le occasioni. Maria fuggiva il più possibile la vista degli uomini; perciò nella visita a santa Elisabetta, come nota Luca, « si mise in viaggio verso la montagna in fretta ». Un autore osserva che la Vergine lasciò la casa di Elisabetta prima che questa partorisse, come si deduce dal Vangelo: « Maria rimase con lei circa tre mesi, poi ritornò a casa sua. Giunse intanto per Elisabetta il tempo di partorire e diede alla luce un figlio » (Lc 1,56-57). Perché non aspettò il parto? Per evitare le conversazioni e le visite che avrebbero avuto luogo in quella casa. Il terzo mezzo è la preghiera. « Sapendo che non avrei ottenuto diversamente (la sapienza) se Dio non la concede... mi rivolsi al Signore e lo pregai » (Sap 8,21). E la Vergine rivelò alla benedettina santa Elisabetta che non ebbe nessuna virtù senza fatica e senza una continua preghiera. San Giovanni Damasceno dice che Maria « èpura e ama la purezza ». Perciò non può sopportare gli impuri. Ma a chi ricorre a lei basterà invocare con fiducia il suo nome per essere liberato da questo vizio. Il venerabile Giovanni Avila diceva che molte persone tentate contro la castità hanno vinto grazie all'amore verso Maria immacolata. Maria, purissima colomba, quanti sono nell'inferno per questo vizio! Signora, liberacene; fa' che nelle tentazioni ricorriamo sempre a te e t'invochiamo dicendo: « Maria, Maria, aiutaci ». Amen.


7. La povertà di Maria

Il nostro amorevole Redentore, per insegnarci a disprezzare i beni mondani, volle essere povero su questa terra. Dice san Paolo: « Da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi della sua povertà » (2Cor 8,9). Perciò Gesù esortava chiunque volesse essere suo seguace: « Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che hai e dallo ai poveri... poi vieni e seguimi » (Mt 19,21). La sua discepola più perfetta, Maria, segui mirabilmente il suo esempio. San Pietro Canisio afferma che con l'eredità lasciatale dai suoi genitori la santa Vergine avrebbe potuto vivere agiatamente, ma si accontentò di essere povera conservando per sé un piccola parte dei suoi beni e distribuendo tutto il resto in elemosina al tempio e ai poveri1. Molti sostengono che Maria fece anche voto di povertà. Ella stessa rivelò a santa Brigida: « Fin dal principio feci voto in cuor mio di non possedere nulla in questo mondo ». I doni ricevuti dai Magi non dovevano essere certamente di poco valore, ma li distribuì tutti ai poveri. Così attesta san Bernardo: « Maria non serbò per sé l'oro offerto dai Magi, che fu considerevole, come si addiceva alla loro dignità regale, ma lo distribuì ai poveri per mezzo di Giuseppe ». Che la divina Madre avesse distribuito subito i doni dei Magi, si deduce dal vedere che andando al tempio non offrì l'agnello che era l'offerta dei benestanti prescritta dal Levitico (Lv 12,6), ma, come dice la legge del Signore, un paio di tortore o due giovani colombi (Lc 2,24), offerta dei poveri. Maria stessa disse a santa Brigida: « Tutto quello che potei avere, lo diedi ai poveri, riservando per me un po' di cibo e il vestito». Per amore della povertà non disdegnò di sposarsi con un semplice fabbro, san Giuseppe, e di sostentarsi con le fatiche delle sue mani, filando e cucendo, come attesta san Bonaventura. Parlando di Maria, l'angelo rivelò a santa Brigida: « Considerava le ricchezze terrene come fango ». Insomma visse sempre povera e povera mori, poiché morendo non si sa che avesse lasciato altro che due povere vesti a due donne che l'avevano assistita in vita, come riferiscono il Metafraste e Niceforo. « Chi ama le cose non diventerà mai santo », diceva san Filippo Neri. Santa Teresa aggiungeva: « E’ giusto che chi va dietro a cose perdute si perda anch'egli » lo. Al contrario, diceva la stessa santa, la virtù della povertà èun bene che comprende tutti gli altri beni. «La virtù della povertà, scrive san Bernardo, non consiste solamente nell'essere povero, ma nell'amare la povertà ». Perciò Gesù disse: « Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli » (Mt 5,3). Beati, perché quelli che non vogliono altro che Dio, in Dio trovano ogni bene e trovano nella povertà il loro paradiso in terra, come lo trovò san Francesco nell'esclamare: « Dio mio e mio tutto». Amiamo dunque « quell'unico bene in cui sono tutti i beni », come esortava sant'Agostino. E preghiamo il Signore con sant'Ignazio: « Dammi soltanto il tuo amore con la tua grazia e sono ricco abbastanza ». Quando ci affligge la povertà, consoliamoci sapendo che Gesù e sua Madre sono stati poveri come noi. « O povero, dice san Bonaventura, ti puoi molto consolare pensando alla povertà di Maria e alla povertà di Cristo ». Madre mia santissima, avesti ben ragione di dire: « Il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore » (Lc 1,47), perché in questo mondo non ambisti e non amasti altro bene che Dio. Signora, staccami dal mondo e « attraimi dietro a te» (Ct 1,3 Volg.) per amare quell’Uno che solo merita di essere amata. Amen.


8.L'ubbidienza di Maria

Per l'amore che portava alla virtù dell'ubbidienza, quando l'arcangelo Gabriele le annunziò la nascita di Gesù, Maria non volle chiamarsi con altro nome che quello di serva: « Ecco la serva del Signore ». « Vera ancella, dice san Tommaso da Villanova, che né con le parole, né con le né con il pensiero si oppose mai all'Altissimo ma opere, spogliandosi di ogni volontà propria visse sempre e in tutto ubbidiente alla divina volontà ». Ella stessa dichiarò che Dio si era compiaciuto di questa sua ubbidienza: « Ha guardato l'umiltà della sua serva » (Lc 1,48). Questa è l'umiltà propria di una serva: essere sempre pronta a ubbidire. Sant'Agostino dice che la divina Madre con la sua ubbidienza rimediò al danno che aveva fatto Eva con la sua disubbidienza: « Come Eva disubbidendo divenne causa di morte per sé e per tutto il genere umano, così Maria Vergine ubbidendo divenne causa di salvezza per sé e per tutto il genere umano ». L'ubbidienza di Maria fu molto più perfetta di quella di tutti gli altri santi. Inclini al male per il peccato originale, gli uomini provano difficoltà nel bene operare; ma non così la beata Vergine. San Bernardino scrive: esente dal peccato originale, « Maria non aveva impedimenti nell'ubbidire a Dio, ma fu come una ruota che si muoveva prontamente ad ogni ispirazione dello Spirito Santo ». Lo stesso santo aggiunge: « La Vergine tenne sempre gli occhi fissi su ciò che piace a Dio e lo esegui con fervido consenso ». Di lei fu detto: « L'anima mia si è liquefatta, quando (il mio diletto) ha parlato » (Ct 5,6). Riccardo di san Lorenzo commenta: « L'anima della Vergine era come uù metallo liquefatto per un incendio d'amore, pronta a prendere tutte le forme della divina volontà ». Maria dimostrò quanto era pronta all'ubbidienza in primo luogo quando per piacere a Dio volle ubbidire anche all'imperatore romano facendo alla volta di Betlemme un viaggio di novanta miglia, in pieno inverno, incinta e povera, tanto che fu costretta a partorire in una stalla. Fu ugualmente pronta quando, avvertita da san Giuseppe, si mise subito in cammino la notte stessa per il lungo e penoso viaggio verso l'Egitto. Perché, si domanda il Silveìra, la rivelazione di fuggire in Egitto fu fatta a san Giuseppe e non alla beata Vergine che più doveva sentirne la fatica? E risponde: « Perché non le fosse tolta l'occasione di esercitare un atto di ubbidienza alla quale era prontissima ». Ma soprattutto Maria dimostrò la sua eroica ubbidienza quando, per ubbidire alla divina volontà, offrì alla morte il Figlio suo con tanta fermezza che, come dice sant'Ildefonso, sarebbe stata pronta a crocifiggere il Figlio, se fossero mancati i carnefici a Quando la donna del Vangelo esclamò: « Beato il ventre che ti ha portato! », Gesù rispose: « Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica » (Lc 11,27-28). Commentando queste parole, il venerabile Beda scrive che Maria fu più felice per l'ubbidienza alla volontà divina che per essere stata costituita Madre di Dio stesso. Quindi sono molto graditi alla Vergine quelli che amano l'ubbidienza. Una volta ella apparve nella sua cella a un religioso francescano, chiamato Accorso. Ma questi, chiamato ad andare a confessare un infermo, si allontanò come gli ordinava l'ubbidienza. Ritornato, trovò Maria che lo stava aspettando e che lodò molto la sua ubbidienza io. Al contrario, la Vergine rimproverò vivamente un altro religioso che, quando suonò la campanella del refettorio, si trattenne a terminare le sue devozioni. Parlando a santa Brigida della sicurezza che vi è nel-l'ubbidire al padre spirituale, Maria le disse: « L'ubbidienza conduce tutti alla gloria ». San Filippo Neri affermava che Dio non chiede conto delle cose fatte per ubbidienza, poiché egli stesso ha detto: « Chi ascolta voi ascolta me. Chi disprezza voi disprezza me » (Lc 10,16). La Madre di Dio rivelò poi a santa Brigida che per merito della sua ubbidienza ha ottenuto dal Signore che tutti i peccatori che ricorrono a lei pentiti, per quanto gravi siano le loro colpe, saranno perdonati. Regina e madre nostra, prega Gesù per noi, ottenendoci per merito della tua ubbidienza di essere fedeli nell'ubbidire alla sua volontà e agli ordini dei padri spirituali. Amen.

9. La pazienza di Maria


Poiché questa terra è luogo di merito, giustamente viene chiamata valle di lacrime. Qui siamo tutti destinati a patire e con la pazienza a salvare le nostre anime nella vita eterna, come disse il Signore: « Con la vostra pazienza salverete le vostre anime » (Lc 21,19). Dio ci diede la Vergine Maria come esempio di tutte le virtù, ma specialmente come esempio di pazienza. San Francesco di Sales osserva che alle nozze di Cana Gesù diede alla santa Vergine quella risposta, con cui mostrava di tenere poco conto delle sue preghiere: « Che importa a me e a te, o donna? », proprio per dare a noi l'esempio della pazienza della sua santa Madre. Ma tutta la vita di Maria fu un esercizio continuo di pazienza. L'angelo rivelò a santa Brigida che la beata Vergine visse sempre tra le pene: « Come la rosa cresce tra le spine, così la santa Vergine crebbe fra le tribolazioni in questo mondo ». La compassione delle pene del Redentore bastò a fare di lei una martire della pazienza. Perciò san Bonaventura dice: « Colei che fu crocifissa concepi il crocifisso ». Quanto poi ella soffrì durante il viaggio e la permanenza in Egitto, come in tutto il tempo che visse con il Figlio nella bottega di Nazaret, l'abbiamo gìa consìderato parlando dei suoi dolori. Basta la sua presenza accanto a Gesù moribondo sul Calvario, a far capire quanto costante e sublime fu la sua pazienza: « Vicino alla croce di Gesù stava sua madre » (Gv 19,25). Proprio per merito di questa sua pazienza, dice il beato Alberto Magno, Maria divenne nostra madre che ci partorì alla vita della grazia4 Se desideriamo dunque essere figli di Maria, bisogna che cerchiamo d'imitarla nella pazienza. « Che cosa mai, dice san Cipriano, può arricchirci più di meriti in questa vita e di gloria nell'altra, che il soffrire le pene con pazienza? ». « Chiuderò la tua via con una siepe di spine », dice il Signore per bocca di Osea (Os 2,6 Volg.). E san Gregorio aggiunge: « Le vie degli eletti sono cosparse di spine ». Come la siepe protegge la vigna, così Dio circonda di tribolazioni i suoi servi, affinché non si attacchino alla terra. San Cipriano conclude dunque che la pazienza ci libera dal peccato e dall'inferno 7. La pazienza è quella che fa i santi: « Rende l'opera perfetta » (Gc 1,4), facendoci sopportare in pace le croci che ci vengono direttamente da Dio, cioè l'infermità, la povertà, ecc. e quelle che ci vengono dagli uomini: persecuzioni, ingiurie, ecc. San Giovanni vide tutti i santi con le palme - segno del martirio - nelle mani: « Dopo ciò apparve una gran folla... avevano palme nelle loro mani » (Ap 7,9); il che significa che tutti gli adulti che si salvano devono essere martiri di sangue o di pazienza. Rallegriamoci dunque, esclama san Gregorio, « possiamo essere martiri senza strumenti di martirio, se siamo pazienti »; se soffriremo le pene di questa vita, come dice san Bernardo, « pazientemente, volentieri, gioiosamente ». Quanto ci frutterà in cielo ogni pena sofferta per Dio! Perciò l'Apostolo ci incoraggia: « Il minimo di sofferenza attuale ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria » (2Cor 4,17). Belli sono i pensieri di santa Teresa a tale proposito. Diceva: « Chi abbraccia la croce, non la sente ». E altrove: « Quando uno è risoluto a patire, è finita la pena ». Quando ci sentiamo oppressi dalle croci, ricorriamo a Maria, che la Chiesa chiama « Consolatrice degli afflitti » e san Giovanni Damasceno « Rimedio di tutti i dolori dei cuori ». Signora mia dolcissima, tu innocente soffristi con tanta pazienza e io che ho meritato l'inferno rifiuterò di soffrire? Madre mia, questa grazia oggi ti chiedo: non di essere liberato dalle croci, ma di sopportarle con pazienza. Per amore di Gesù ti prego di ottenermi da Dio questa grazia. Da te la spero.


10. La preghiera di Maria

Non vi è mai stata su questa terra alcun'anima che come la beata Vergine abbia con tanta perfezione messo in pratica il grande insegnamento del nostro Salvatore: « Bisogna pregare sempre, senza stancarsi mai » (Lc 18,1). Da nessun altro, dice san Bonaventura, possiamo meglio prendere esempio ed imparare la necessità che abbiamo di perseverare nella preghiera, quanto da Maria. Il beato Alberto Magno afferma che, dopo Gesù, la divina Madre fu nella virtù d'orazione la più perfetta di quanti vi sono mai stati e vi saranno. In primo luogo la sua orazione fu continua e perseverante. Sin dal primo istante in cui ebbe la vita e con la vita il perfetto uso della ragione, Maria cominciò a fare orazione. Perciò, per meglio attendere alla preghiera, a tre anni volle rinchiudersi nel ritiro del tempio. Ella stessa disse alla vergine santa Elisabetta: « Mi alzavo sempre a mezzanotte e andavo davanti all'altare del tempio a presentare le mie preghiere al Signore ». Inoltre, per meditare sulle sofferenze di Gesù, dice Odilone, « visitava frequentemente i luoghi della nascita, della passione e della sepoltura del Signore ». San Dionisio Cartusiano scrive: « Nessun affetto disordinato, nessuna distrazione, nessuna occupazione esteriore distoglieva mai la mente della Vergine dalla sua contemplazione ». Per l'amore che portava all'orazione, la beata Vergine amò tanto la solitudine che, come disse a santa Brigida, nel tempio si astenne dal frequentare anche i suoi santi genitori. Riflettendo sulle parole di Isaia: « Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio, e lo chiamerà col nome di Emmanuele » (Is 7,14), san Girolamo osserva che in ebraico la parola Virgo significa propriamente « Vergine ritirata » e dunque già dal profeta fu predetto l'amore che Maria avrebbe portato alla solitudine. Riccardo di san Lorenzo afferma che l'angelo le disse: « Il Signore ècon te, a causa del suo grande amore per la solitudine ». San Vincenzo Ferreri asserisce che la divina Madre « non usciva mai di casa se non per andare al tempio e vi andava tutta raccolta, tenendo sempre gli occhi bassi ». Perciò andando a visitare santa Elisabetta, « partì in fretta ». Da questo, dice sant'Ambrogio, le giovani devono imparare a schivare il pubblico. San Bernardo afferma che per amore della preghiera e della solitudine Maria « era attenta a fuggire la compagnia e la conversazione degli uomini ». Lo Spirito Santo chiama Maria « tortorella »: « Le tue guance sono belle come le guance della tortora » (Ct 1,9 Volg.). Vergello spiega: « La tortorella è amica della solitudine ed è simbolo della forza unitiva della mente ». La Vergine visse sempre solitaria in questo mondo, come in un deserto. Perciò di lei fu detto: « Chi è costei che sale dal deserto, come colonna di fumo? » (Ct 3,6). A proposito di queste parole l'abate Ruperto scrive: « Così salisti dal deserto, avendo un'anima solitaria ». Filone diceva che Dio non parla alle anime se non nella solitudine Dio stesso dichiarò per bocca di Osea: «La condurrò nella solitudine e parlerò al suo cuore» (Os 2,14 Volg.). E san Girolamo esclamava: « O solitudine, in cui Dio parla e conversa familiarmente con i suoi! ». Si, dice san Bernardo, perché « la solitudine e il silenzio che nella solitudine si gode, costringono l'anima ad uscire con il pensiero dalla terra e a meditare i beni del cielo ». Vergine santa, ottienici tu l'amore per la preghiera e la solitudine affinché, distaccandoci dall'amore delle creature, possiamo aspirare soltanto a Dio e al paradiso, in cui speriamo di vederti un giorno, per lodare sempre e amare insieme con te il figlio tuo « Venite a me, o voi tutti che mi desiderate, saziatevi dei miei frutti » (Eccli [= Sir] 24,26 Volg.). I frutti di Maria sono le sue virtù. « Non hai chi ti precede o chi ti segue. Tu sola, donna senza pari, piacesti a Cristo». (Sedulio).


4 gennaio 1944

Maria Valtorta

Dice Gesù:
   «Daniele ispirato da Dio dice[8] una verità ormai troppo trascurata.

   Il mistero del futuro e l’altro più grande mistero dell’al di là non possono essere conosciuti, nella forma e nell’ampiezza voluta da Dio, che unicamente da quelli a cui Dio vuole farli conoscere. Direttamente. Senza intermediari. Senza cornici. Senza apparati. Senza aiutanti.

   Per lo Spirito non ci sono limitazioni, non ostacoli, non confini, non manchevolezze, non bisogni. Egli è potente, libero, subitaneo. Egli trascina con Sé luce e intelligenza. Anche un incolto e un tardo di mente, se investito dallo Spirito di Dio, diviene dotto non della vostra povera scienza umana ma della sublime Scienza di Dio.

   Ho detto:[9] “Ti ringrazio, o Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate agli umili”. Nel dire “Padre” dicevo anche “Spirito”, poiché Uno è il Padre con lo Spirito ed Io sono con Loro, e chi benedice Uno benedice i Tre, e chi è amato da Uno è nelle braccia dei Tre, poiché non vi sono tre Dei ma un Dio solo dalla triniforme Natura e dall’unica Unità.

   Grande il Padre, grande il Figlio, grande lo Spirito. Potente il Padre, potente il Figlio, potente lo Spirito. Santo il Padre, santo il Figlio, santo lo Spirito. In uguale misura.

   Viene il Padre nella sua unità che ci genera. Viene il Figlio con la sua origine che salva. Viene lo Spirito con la sua settiforme fiamma che santifica. Vengono amandosi e amando e fanno di un umile, di un piccolo, un occhio che penetra nel mistero di Dio, una bocca che parla le parole di Dio.

   I baciati da Dio non sono coloro che fra gli uomini, saturi d’errore, hanno fama di maghi e di indovini. Non sono coloro che con manifestazioni istrioniche tentano simulare Dio in loro e affascinare i creduli senza vera fede. Non sono coloro che del loro satanismo fanno un lucro. Questi sono e siano sempre più maledetti!

   I baciati da Dio sono quelli che vivono la vita casta, mortificata, amorosa del servo di Dio. Quelli che rifuggono il plauso e odiano l’esser conosciuti. Quelli che, perduti nel gorgo di luce che è Dio, col cuore nutrito di fede e lo spirito di carità, stanno come mistiche bocche sul mio Io, aspiranti da Me la Verità e la Cognizione. Non forzatori, non prepotenti, non mercanti del mistero, essi accolgono quanto Io do in semplicità, in amore, in onestà. Non profanatori, non si permetterebbero mai di suscitare in nessuna maniera l’ambiente atto a creare quel clima di cui non Io, che di climi e di ambiente non ho bisogno, ve lo ripeto, ma il loro satanismo ha bisogno per ricevere l’efflusso del Maligno.

   Simulatori di Dio e dei suoi santi, peggio che simulatori, parodisti di Dio e dei suoi santi, dei quali dànno una rappresentazione che è sacrilegio. Figli, sudditi, ministri di Satana, zimbelli suoi. Non una parola di verità è nella loro bocca, non una luce nel loro cuore. La Menzogna trascina loro e chi in loro crede nel profondo dell’abisso da essi cercato. Né può essere diversamente, perché anche l’Astuto non può conoscere fino in fondo il pensiero di Dio, ed anche per quel che conosce non dice, poiché egli è sempre il Serpente che canta canzone menzognera per portare la rovina là dove la sua gelosia vede che ancora può essere una dimora per il Signore.

   A che credere a quelle larve, fumo della satanica bocca, che vi si mostrano per simulare ciò che solo Dio può inviarvi per vostra spirituale guida? E non pensate che, se è vero che Dio può accogliere il vostro desiderio di sentirlo per Padre amoroso più che la maggioranza degli uomini non lo desideri, è anche vero che a Dio nessuno, dico nessuno, neppure un santo, può imporsi e dirgli: “Vieni. Io te lo comando”?

   Io vengo quando, dove, come voglio, nell’ora e nell’ambiente che voglio. Io vi parlo per quanto voglio. E fra la semplicità verace che è il mio segno e l’umiltà semplice che è il segno dei miei servi, e la coreografia menzognera e la superbia avida degli altri falsi possessori del vero, vi è ancor più grande differenza di quanto non ve ne sia fra il sole e la notte senza stella, e più vasto abisso di quanto non sia fra sponda e sponda degli oceani il cui profondo in certe zone è a voi immisurabile. Di qua è Dio e il suo Vero. Di là è Satana e il suo Errore. Di qua la mia mano è tesa a benedizione sugli umili fiori che accolgono la mia luce benedicendomi e giudicandosene non degni. Di là la mia mano è tesa a maledire perché sono venefici fiori di putrido stagno avvinghiati da serpi dal tossico eternamente mortale.

   Per conto tuo dico: “Questa è parola mia. Accoglila per tua pace”.

   Le tre croci[10] sono il segno di tre vittime di questa città. L’una già porta il frutto maturo che va staccato dall’albero santo per essere riposto nella Città di Dio. Per lei è venuta la pace e, come il Cristo dopo il martirio, viene calata dalla croce per esser seme a vita beata. Saluta l’anima sorella.

   Le altre due croci sono di altre due vittime. L’una è tua. È ancora alta verso il cielo perché la tua missione dura ancora un poco. È brullo il monte e triste la sua triplice corona. Ma vedi quanto è vicino al Cielo e quanto cielo ha d’intorno. E il mondo come è lontano. Siete già fra l’altare e il cielo, o mie care vittime, e gli angeli sono intorno a voi per raccogliervi lo spirito quando consumate l’ultimo dolore.

   Sempre più vicino ti verrà la visione, perché ardo di farti vivere la mia Passione. Ma non temere. Come ramo che morbido si curva, così la Croce ti deporrà dopo la prova, come ha deposto la tua sorella, e ti si schiuderà il Cielo.
   Va’ in pace.»

[8] dice in Daniele 2, 27, che è il rinvio messo dalla scrittrice accanto alla data.
[9] Ho detto in Matteo 11, 25; Luca 10, 21.
[10] Le tre croci… A questo proposito abbiamo il seguente scritto chiarificatore di Padre Migliorini: Viareggio, 5 gennaio 1944. Da quando assistevo Antonia, avevo interessato il “Portavoce” su di essa. Egli non cessava di pregare, tanto più perché, essendo ambedue delle vittime offerte a Dio per ottenere misericordia dal Signore per molti e specie per questa nostra Italia, si sentivano anime sorelle senza conoscersi. Dal 3 corrente il “Portavoce” vedeva come in lontananza un Calvario dove vi erano erette 3 croci. Due erano erette e ben piantate, ma quella del centro appariva fortemente inclinata come per cadere. La visione rimase un’incognita fino a che ieri il Salvatore fece conoscere che la croce del centro era Antonia che oramai era caduta. Il “Portavoce” è Maria Valtorta. Sul personaggio chiamato “Antonia” riferiremo in una nota in calce allo scritto del 14 gennaio.