Sotto il Tuo Manto

Giovedi, 5 giugno 2025 - San Bonifacio (Letture di oggi)

Ci sono alcuni atteggiamenti che attirano la grazia di Dio: fiducia, umiltà , carità  e soprattutto la gratitudine. Dire grazie a Dio e riconoscere i Suoi benefici, attira nuove grazie nella tua vita. Se tu ringrazi per un dono, Dio te ne darà  altri dieci. Con gratitudine il tuo cuore viene purificato, allargato e reso capace di ricevere altri doni. Più il tuo cuore vive in clima di gratitudine più sarà  aperto all'azione dello Spirito Santo e più potrà  crescere e trasformarsi nell'Amore. (Don Nikola Vucic)

Liturgia delle Ore - Letture

Domenica della 15° settimana del tempo ordinario

Questa sezione contiene delle letture scelte a caso, provenienti dalle varie sezioni del sito (Sacra Bibbia e la sezione Biblioteca Cristiana), mentre l'ultimo tab Apparizioni, contiene messaggi di apparizioni a mistici o loro scritti. Sono presenti testi della Valtorta, Luisa Piccarreta, don Stefano Gobbi e testimonianze di apparizioni mariane riconosciute.

Vangelo secondo Matteo 27

1Venuto il mattino, tutti i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo tennero consiglio contro Gesù, per farlo morire.2Poi, messolo in catene, lo condussero e consegnarono al governatore Pilato.

3Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti e agli anziani4dicendo: "Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente". Ma quelli dissero: "Che ci riguarda? Veditela tu!".5Ed egli, gettate le monete d'argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi.6Ma i sommi sacerdoti, raccolto quel denaro, dissero: "Non è lecito metterlo nel tesoro, perché è prezzo di sangue".7E tenuto consiglio, comprarono con esso il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri.8Perciò quel campo fu denominato "Campo di sangue" fino al giorno d'oggi.9Allora si adempì quanto era stato detto dal profeta Geremia: 'E presero trenta denari d'argento, il prezzo del venduto, che i figli di Israele avevano mercanteggiato,10e li diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore.'

11Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore l'interrogò dicendo: "Sei tu il re dei Giudei?". Gesù rispose "Tu lo dici".12E mentre lo accusavano i sommi sacerdoti e gli anziani, non rispondeva nulla.13Allora Pilato gli disse: "Non senti quante cose attestano contro di te?".14Ma Gesù non gli rispose neanche una parola, con grande meraviglia del governatore.
15Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta.16Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba.17Mentre quindi si trovavano riuniti, Pilato disse loro: "Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?".18Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia.
19Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: "Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua".20Ma i sommi sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a richiedere Barabba e a far morire Gesù.21Allora il governatore domandò: "Chi dei due volete che vi rilasci?". Quelli risposero: "Barabba!".22Disse loro Pilato: "Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?". Tutti gli risposero: "Sia crocifisso!".23Ed egli aggiunse: "Ma che male ha fatto?". Essi allora urlarono: "Sia crocifisso!".
24Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell'acqua, si lavò le mani davanti alla folla: "Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi!".25E tutto il popolo rispose: "Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli".26Allora rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso.

27Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte.28Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto29e, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, con una canna nella destra; poi mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano: "Salve, re dei Giudei!".30E sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo.31Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del mantello, gli fecero indossare i suoi vestiti e lo portarono via per crocifiggerlo.

32Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a prender su la croce di lui.33Giunti a un luogo detto Gòlgota, che significa luogo del cranio,34gli 'diedero da bere vino' mescolato con 'fiele'; ma egli, assaggiatolo, non ne volle bere.35Dopo averlo quindi crocifisso, 'si spartirono le' sue 'vesti tirandole a sorte'.36E sedutisi, gli facevano la guardia.37Al di sopra del suo capo, posero la motivazione scritta della sua condanna: "'Questi è Gesù, il re dei Giudei'".
38Insieme con lui furono crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra.

39E quelli che passavano di là lo insultavano 'scuotendo il capo' e dicendo:40"Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!".41Anche i sommi sacerdoti con gli scribi e gli anziani lo schernivano:42"Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re d'Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo.43'Ha confidato in Dio; lo liberi lui' ora, 'se gli vuol bene'. Ha detto infatti: Sono Figlio di Dio!".44Anche i ladroni crocifissi con lui lo oltraggiavano allo stesso modo.

45Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra.46Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: "'Elì, Elì, lemà sabactàni?'", che significa: "'Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?'".47Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: "Costui chiama Elia".48E subito uno di loro corse a prendere una spugna e, imbevutala 'di aceto', la fissò su una canna e così gli 'dava da bere'.49Gli altri dicevano: "Lascia, vediamo se viene Elia a salvarlo!".50E Gesù, emesso un alto grido, spirò.
51Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono,52i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono.53E uscendo dai sepolcri, dopo la sua risurrezione, entrarono nella città santa e apparvero a molti.54Il centurione e quelli che con lui facevano la guardia a Gesù, sentito il terremoto e visto quel che succedeva, furono presi da grande timore e dicevano: "Davvero costui era Figlio di Dio!".
55C'erano anche là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo.56Tra costoro Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedèo.

57Venuta la sera giunse un uomo ricco di Arimatéa, chiamato Giuseppe, il quale era diventato anche lui discepolo di Gesù.58Egli andò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Allora Pilato ordinò che gli fosse consegnato.59Giuseppe, preso il corpo di Gesù, lo avvolse in un candido lenzuolo60e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia; rotolata poi una gran pietra sulla porta del sepolcro, se ne andò.61Erano lì, davanti al sepolcro, Maria di Màgdala e l'altra Maria.

62Il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i sommi sacerdoti e i farisei, dicendo:63"Signore, ci siamo ricordati che quell'impostore disse mentre era vivo: Dopo tre giorni risorgerò.64Ordina dunque che sia vigilato il sepolcro fino al terzo giorno, perché non vengano i suoi discepoli, lo rubino e poi dicano al popolo: È risuscitato dai morti. Così quest'ultima impostura sarebbe peggiore della prima!".65Pilato disse loro: "Avete la vostra guardia, andate e assicuratevi come credete".66Ed essi andarono e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia.


Genesi 38

1In quel tempo Giuda si separò dai suoi fratelli e si stabilì presso un uomo di Adullam, di nome Chira.2Qui Giuda vide la figlia di un Cananeo chiamato Sua, la prese in moglie e si unì a lei.3Essa concepì e partorì un figlio e lo chiamò Er.4Poi concepì ancora e partorì un figlio e lo chiamò Onan.5Ancora un'altra volta partorì un figlio e lo chiamò Sela. Essa si trovava in Chezib, quando lo partorì.
6Giuda prese una moglie per il suo primogenito Er, la quale si chiamava Tamar.7Ma Er, primogenito di Giuda, si rese odioso al Signore e il Signore lo fece morire.8Allora Giuda disse a Onan: "Unisciti alla moglie del fratello, compi verso di lei il dovere di cognato e assicura così una posterità per il fratello".9Ma Onan sapeva che la prole non sarebbe stata considerata come sua; ogni volta che si univa alla moglie del fratello, disperdeva per terra, per non dare una posterità al fratello.10Ciò che egli faceva non fu gradito al Signore, il quale fece morire anche lui.11Allora Giuda disse alla nuora Tamar: "Ritorna a casa da tuo padre come vedova fin quando il mio figlio Sela sarà cresciuto". Perché pensava: "Che non muoia anche questo come i suoi fratelli!". Così Tamar se ne andò e ritornò alla casa del padre.
12Passarono molti giorni e morì la figlia di Sua, moglie di Giuda. Quando Giuda ebbe finito il lutto, andò a Timna da quelli che tosavano il suo gregge e con lui vi era Chira, il suo amico di Adullam.13Fu portata a Tamar questa notizia: "Ecco, tuo suocero va a Timna per la tosatura del suo gregge".14Allora Tamar si tolse gli abiti vedovili, si coprì con il velo e se lo avvolse intorno, poi si pose a sedere all'ingresso di Enaim, che è sulla strada verso Timna. Aveva visto infatti che Sela era ormai cresciuto, ma che lei non gli era stata data in moglie.15Giuda la vide e la credette una prostituta, perché essa si era coperta la faccia.16Egli si diresse su quella strada verso di lei e disse: "Lascia che io venga con te!". Non sapeva infatti che quella fosse la sua nuora. Essa disse: "Che mi darai per venire con me?".17Rispose: "Io ti manderò un capretto del gregge". Essa riprese: "Mi dai un pegno fin quando me lo avrai mandato?".18Egli disse: "Qual è il pegno che ti devo dare?". Rispose: "Il tuo sigillo, il tuo cordone e il bastone che hai in mano". Allora glieli diede e le si unì. Essa concepì da lui.19Poi si alzò e se ne andò; si tolse il velo e rivestì gli abiti vedovili.20Giuda mandò il capretto per mezzo del suo amico di Adullam, per riprendere il pegno dalle mani di quella donna, ma quegli non la trovò.21Domandò agli uomini di quel luogo: "Dov'è quella prostituta che stava in Enaim sulla strada?". Ma risposero: "Non c'è stata qui nessuna prostituta".22Così tornò da Giuda e disse: "Non l'ho trovata; anche gli uomini di quel luogo dicevano: Non c'è stata qui nessuna prostituta".23Allora Giuda disse: "Se li tenga! Altrimenti ci esponiamo agli scherni. Vedi che le ho mandato questo capretto, ma tu non l'hai trovata".
24Circa tre mesi dopo, fu portata a Giuda questa notizia: "Tamar, la tua nuora, si è prostituita e anzi è incinta a causa della prostituzione". Giuda disse: "Conducetela fuori e sia bruciata!".25Essa veniva già condotta fuori, quando mandò a dire al suocero: "Dell'uomo a cui appartengono questi oggetti io sono incinta". E aggiunse: "Riscontra, dunque, di chi siano questo sigillo, questi cordoni e questo bastone".26Giuda li riconobbe e disse: "Essa è più giusta di me, perché io non l'ho data a mio figlio Sela". E non ebbe più rapporti con lei.
27Quand'essa fu giunta al momento di partorire, ecco aveva nel grembo due gemelli.28Durante il parto, uno di essi mise fuori una mano e la levatrice prese un filo scarlatto e lo legò attorno a quella mano, dicendo: "Questi è uscito per primo".29Ma, quando questi ritirò la mano, ecco uscì suo fratello. Allora essa disse: "Come ti sei aperta una breccia?" e lo si chiamò Perez.30Poi uscì suo fratello, che aveva il filo scarlatto alla mano, e lo si chiamò Zerach.


Proverbi 5

1Figlio mio, fa' attenzione alla mia sapienza
e porgi l'orecchio alla mia intelligenza,
2perché tu possa seguire le mie riflessioni
e le tue labbra custodiscano la scienza.
3Stillano miele le labbra di una straniera
e più viscida dell'olio è la sua bocca;
4ma ciò che segue è amaro come assenzio,
pungente come spada a doppio taglio.
5I suoi piedi scendono verso la morte,
i suoi passi conducono agli inferi.
6Per timore che tu guardi al sentiero della vita,
le sue vie volgono qua e là; essa non se ne cura.
7Ora, figlio mio, ascoltami
e non allontanarti dalle parole della mia bocca.
8Tieni lontano da lei il tuo cammino
e non avvicinarti alla porta della sua casa,
9per non mettere in balìa di altri il tuo vigore
e i tuoi anni in balìa di un uomo crudele,
10perché non si sazino dei tuoi beni gli estranei,
non finiscano le tue fatiche in casa di un forestiero
11e tu non gema sulla tua sorte,
quando verranno meno il tuo corpo e la tua carne,
12e dica: "Perché mai ho odiato la disciplina
e il mio cuore ha disprezzato la correzione?
13Non ho ascoltato la voce dei miei maestri,
non ho prestato orecchio a chi m'istruiva.
14Per poco non mi son trovato nel colmo dei mali
in mezzo alla folla e all'assemblea".
15Bevi l'acqua della tua cisterna
e quella che zampilla dal tuo pozzo,
16perché le tue sorgenti non scorrano al di fuori,
i tuoi ruscelli nelle pubbliche piazze,
17ma siano per te solo
e non per degli estranei insieme a te.
18Sia benedetta la tua sorgente;
trova gioia nella donna della tua giovinezza:
19cerva amabile, gazzella graziosa,
essa s'intrattenga con te;
le sue tenerezze ti inebrino sempre;
sii tu sempre invaghito del suo amore!
20Perché, figlio mio, invaghirti d'una straniera
e stringerti al petto di un'estranea?
21Poiché gli occhi del Signore osservano le vie dell'uomo
ed egli vede tutti i suoi sentieri.
22L'empio è preda delle sue iniquità,
è catturato con le funi del suo peccato.
23Egli morirà per mancanza di disciplina,
si perderà per la sua grande stoltezza.


Salmi 26

1'Di Davide.'

Signore, fammi giustizia:
nell'integrità ho camminato,
confido nel Signore, non potrò vacillare.
2Scrutami, Signore, e mettimi alla prova,
raffinami al fuoco il cuore e la mente.

3La tua bontà è davanti ai miei occhi
e nella tua verità dirigo i miei passi.
4Non siedo con gli uomini mendaci
e non frequento i simulatori.
5Odio l'alleanza dei malvagi,
non mi associo con gli empi.

6Lavo nell'innocenza le mie mani
e giro attorno al tuo altare, Signore,
7per far risuonare voci di lode
e per narrare tutte le tue meraviglie.
8Signore, amo la casa dove dimori
e il luogo dove abita la tua gloria.

9Non travolgermi insieme ai peccatori,
con gli uomini di sangue non perder la mia vita,
10perché nelle loro mani è la perfidia,
la loro destra è piena di regali.
11Integro è invece il mio cammino;
riscattami e abbi misericordia.

12Il mio piede sta su terra piana;
nelle assemblee benedirò il Signore.


Geremia 14

1Parola che il Signore rivolse a Geremia in occasione della siccità:

2Giuda è in lutto,
le sue città languiscono,
sono a terra nello squallore;
il gemito di Gerusalemme sale al cielo.
3I ricchi mandano i loro servi in cerca d'acqua;
essi si recano ai pozzi,
ma non ve la trovano
e tornano con i recipienti vuoti.
Sono delusi e confusi e si coprono il capo.
4Per il terreno screpolato,
perché non cade pioggia nel paese,
gli agricoltori sono delusi e confusi
e si coprono il capo.
5La cerva partorisce nei campi e abbandona il parto,
perché non c'è erba.
6Gli ònagri si fermano sui luoghi elevati
e aspirano l'aria come sciacalli;
i loro occhi languiscono,
perché non si trovano erbaggi.
7"Se le nostre iniquità testimoniano contro di noi,
Signore, agisci per il tuo nome!
Certo, sono molte le nostre infedeltà,
abbiamo peccato contro di te.
8O speranza di Israele,
suo salvatore al tempo della sventura,
perché vuoi essere come un forestiero nel paese
e come un viandante che si ferma solo una notte?
9Perché vuoi essere come un uomo sbigottito,
come un forte incapace di aiutare?
Eppure tu sei in mezzo a noi, Signore,
e noi siamo chiamati con il tuo nome,
non abbandonarci!".

10Così dice il Signore di questo popolo: "Piace loro andare vagando, non fermano i loro passi". Per questo il Signore non li gradisce. Ora egli ricorda la loro iniquità e punisce i loro peccati.
11Il Signore mi ha detto: "Non intercedere a favore di questo popolo, per il suo benessere.12Anche se digiuneranno, non ascolterò la loro supplica; se offriranno olocausti e sacrifici, non li gradirò; ma li distruggerò con la spada, la fame e la peste".13Allora ho soggiunto: "Ahimè, Signore Dio, dicono i profeti: Non vedrete la spada, non soffrirete la fame, ma vi concederò una pace perfetta in questo luogo".14Il Signore mi ha detto: "I profeti hanno predetto menzogne in mio nome; io non li ho inviati, non ho dato ordini né ho loro parlato. Vi annunziano visioni false, oracoli vani e suggestioni della loro mente".15Perciò così dice il Signore: "I profeti che predicono in mio nome, senza che io li abbia inviati, e affermano: Spada e fame non ci saranno in questo paese, questi profeti finiranno di spada e di fame.16Gli uomini ai quali essi predicono saranno gettati per le strade di Gerusalemme in seguito alla fame e alla spada e nessuno seppellirà loro, le loro donne, i loro figli e le loro figlie. Io rovescerò su di essi la loro malvagità".

17Tu riferirai questa parola:
"I miei occhi grondano lacrime
notte e giorno, senza cessare,
perché da grande calamità
è stata colpita la figlia del mio popolo,
da una ferita mortale.
18Se esco in aperta campagna,
ecco i trafitti di spada;
se percorro la città,
ecco gli orrori della fame.
Anche il profeta e il sacerdote
si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare.
19Hai forse rigettato completamente Giuda,
oppure ti sei disgustato di Sion?
Perché ci hai colpito, e non c'è rimedio per noi?
Aspettavamo la pace, ma non c'è alcun bene,
l'ora della salvezza ed ecco il terrore!
20Riconosciamo, Signore, la nostra iniquità,
l'iniquità dei nostri padri: abbiamo peccato contro di te.
21Ma per il tuo nome non abbandonarci,
non render spregevole il trono della tua gloria.
Ricordati! Non rompere la tua alleanza con noi.
22Forse fra i vani idoli delle nazioni c'è chi fa
piovere?
O forse i cieli mandan rovesci da sé?
Non sei piuttosto tu, Signore nostro Dio?
In te abbiamo fiducia,
perché tu hai fatto tutte queste cose".


Lettera ai Romani 5

1Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo;2per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio.3E non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata4e la virtù provata la speranza.5La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
6Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito.7Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene.8Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.9A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall'ira per mezzo di lui.10Se infatti, quand'eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita.11Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione.

12Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato.13Fino alla legge infatti c'era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge,14la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
15Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini.16E non è accaduto per il dono di grazia come per il peccato di uno solo: il giudizio partì da un solo atto per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute per la giustificazione.17Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
18Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l'opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita.19Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
20La legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia,21perché come il peccato aveva regnato con la morte, così regni anche la grazia con la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore.


Capitolo LV: La corruzione della natura e la potenza della grazia divina

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1. O Signore mio Dio, che mi hai creato a tua immagine e somiglianza, concedimi questa grazia grande, indispensabile per la salvezza, come tu ci hai rivelato; così che io possa superare la mia natura, tanto malvagia, che mi trae al peccato e alla perdizione. Ché, nella mia carne, io sento, contraria alla "legge della mia ragione, la legge del peccato" (Rm 7,23), la quale mi fa schiavo e di frequente mi spinge ad obbedire ai sensi. E io non posso far fronte alle passioni peccaminose, provenienti da questa legge del peccato, se non mi assiste la tua grazia santissima, infusa nel mio cuore, che ne avvampa. Appunto una tua grazia occorre, una grazia grande, per vincere la natura, sempre proclive al male, fin dal principio. Infatti, per colpa del primo uomo Adamo, la natura decadde, corrotta dal peccato; e la triste conseguenza di questa macchia passò in tutti gli uomini, talché quella "natura", da te creata buona e retta, ormai è intesa come "vizio e debolezza della natura corrotta". Così, per la libertà che le è lasciata, la natura trascina verso il male e verso il basso. E quel poco di forza che rimane nella natura è come una scintilla coperta dalla cenere. E' questa la ragione naturale, che, pur se circondata da oscurità, è ancora capace di giudicare il bene ed il male, e di separare il vero dal falso; anche se non riesce a compiere tutto quello che riconosce come buono, anche se non possiede la pienezza del lume della verità e la perfetta purezza dei suoi affetti. E' per questo, o mio Dio, che "nello spirito, mi compiaccio della tua legge" (Rm 7,22), sapendo che il tuo comando è buono, giusto e santo, tale che ci invita a fuggire ogni male e ogni peccato. Invece, nella carne, io mi sottometto alla legge del peccato, obbedendo più ai sensi che alla ragione. E' per questo che "volere il bene mi è facile, ma a compiere il bene non riesco" (Rm 7,18). E' per questo che vado spesso proponendomi molte buone cose; ma mi manca la grazia che mi aiuti nella mia debolezza, e mi ritiro e vengo meno anche per una piccola difficoltà. E' per questo che mi avviene di conoscere la via della perfezione e di vedere con chiarezza quale debba essere la mia condotta; ma poi, schiacciato dal peso della corruzione dell'umanità, non riesco a salire a cose più elevate.

2. La tua grazia, o Signore, mi è davvero massimamente necessaria per cominciare, portare avanti e condurre a compimento il bene: "senza di essa non posso far nulla" (Gv 15,5), "mentre tutto posso in te" che mi dai forza, con la tua grazia (Fil 4,13). Grazia veramente di cielo, questa; mancando la quale i nostri meriti sono un nulla, e un nulla si devono considerare anche i doni naturali. Abilità e ricchezza, bellezza e forza, intelligenza ed eloquenza, nulla valgono presso di te, o Signore, se manca la grazia. Ché i doni di natura li hanno sia i buoni che i cattivi; mentre dono proprio degli eletti è la grazia, cioè l'amore di Dio. Rivestiti di tale grazia, gli eletti sono ritenuti degni della vita eterna. Tutto sovrasta, questa grazia; tanto che né il dono della profezia, né il potere di operare miracoli, né la più alta contemplazione non valgono nulla, senza di essa. Neppure la fede, neppure la speranza, né le altre virtù sono a te accette, senza la carità e la grazia.

3. O grazia beata, che fai ricco di virtù chi è povero nello spirito e fai ricco di molti beni chi è umile di cuore, vieni, discendi in me, colmami, fin dal mattino della tua consolazione, cosicché l'anima mia non venga meno per stanchezza e aridità interiore! Ti scongiuro, o Signore: che io trovi grazia ai tuoi occhi. La tua gloria mi basta (2Cor 12,9), pur se non otterrò tutto quello cui tende la natura umana. Anche se sarò tentato e angustiato da molte tribolazioni, non temerò alcun male, finché la tua grazia sarà con me. Essa mi dà forza, guida ed aiuto; vince tutti i nemici, è più sapiente di tutti i sapienti. Essa è maestra di verità e di vita, luce del cuore, conforto nell'afflizione. Essa mette in fuga la tristezza, toglie il timore, alimenta la pietà, genera le lacrime. Che cosa sono io mai, senza la grazia, se non un legno secco, un ramo inutile, da buttare via? "La tua grazia, dunque, o Signore, mi preceda sempre e mi segua, e mi conceda di essere sempre pronto a operare, per Gesù Cristo, Figlio tuo. Amen. (Messale Romano, oremus della XVI domenica dopo Pentecoste).


La felicità

Sant'Agostino - Sant'Agostino d'Ippona

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SITUAZIONE



Tempo e luogo


La discussione inizia il 13 novembre 386, trentaduesimo genetliaco di Agostino, e continua nei due giorni seguenti:

13 novembre pomeriggio nelle terme (cap. 2)

14 " " nelle terme (cap. 3)

15 " " all'aperto (cap. 4)

I dialoganti


Sono presentati da Agostino stesso a Manlio Teodoro. Hanno tutti ruolo essoterico, salvo che nell'intermezzo 2, 13-16:

Agostino non funge da scolarca e non usa la maieusi, si limita alla conclusione finale.

Monica rappresenta la saggezza al di fuori della tradizione classica; i suoi interventi, abbastanza frequenti, rilevano questa sua funzione.

Licenzio interviene ripetutamente e talora con la singolare capacità d'intuizione che lo caratterizza.

Trigezio rappresenta la pacata saggezza che segue alle esperienze.

Navigio è il personaggio essoterico per eccellenza; interviene soltanto tre volte.

Adeodato rappresenta la innocenza del pensiero per l'inesperienza della vita; interviene, dietro richiesta di Agostino, soltanto due volte.

Lastidiano e Rustico, cugini di Agostino, sono soltanto delle presenze.

Le condizioni della vita e la vocazione alla filosofia (1, 1-5).



La sventura e la vocazione alla filosofia.
1. 1. O coltissimo ed egregio Teodoro, se il tragitto indicato dalla ragione e la sola scelta conducessero al porto della filosofia, dal quale si può sbarcare nella regione e terraferma della felicità, non saprei se può offendere l'affermazione che in molto minor numero sarebbero gli uomini che lo raggiungono. Adesso ancora, come osserviamo, di rado e pochi assai vi arrivano. Infatti ci ha lanciato in questo mondo come in un mare tempestoso, irrazionalmente e a caso, almeno all'apparenza, o Dio, o la natura, o la necessità ovvero una nostra scelta o alcuni di questi principi congiunti o tutti insieme. Il problema è di difficile soluzione. Tu hai cominciato a chiarirlo. Nessuno potrebbe dunque sapere dove dirigersi o per dove ritornare se talora, contro la nostra scelta e mentre ci affatichiamo in direzione opposta, una qualche tempesta, di cui gli ignoranti possono ritenere che ci allontani dalla meta, non ci gettasse, senza la nostra consapevolezza e malgrado il nostro errore, nella terra tanto desiderata.

Le tre categorie di naviganti.
1. 2. Ritengo quindi di poter classificare gli individui che la filosofia può accogliere, in tre categorie di naviganti. La prima è di coloro che, raggiunto l'uso della ragione, senza sforzo, con qualche leggero colpo di remi, salpano senza tentare il largo e si rifugiano nella tranquillità. Di là erigono per quanti è possibile, affinché si sforzino di raggiungerli, il faro splendente di qualche loro opera. La seconda categoria, opposta alla precedente, è di coloro che, ingannati dalla fallace superficie del mare, hanno deciso d'avanzare al largo ed osano allontanarsi dalla patria e spesso se ne dimenticano. E se un vento, che credono favorevole, li sospingerà da poppa non saprei in quale direzione e in maniera assai occulta, incorrono nel colmo dell'infelicità. Ma ne sono orgogliosi e soddisfatti perché fino a tal punto li favorisce la serenità assai ingannevole dei piaceri e degli onori. E ad essi non si deve augurare altro che una sfavorevole e, se è poco, una veramente crudele tempesta, proprio in quelle soddisfazioni da cui sono trattenuti nel piacere ed inoltre il vento contrario che li conduca, magari piangenti e gementi, a godimenti sicuri e stabili. Tuttavia taluni di questa categoria, non essendosi ancora molto allontanati, sono ricondotti da avversità non tanto gravi. Sono gli uomini che, quando le lacrimevoli perdite delle loro sostanze o le angustianti difficoltà per futili interessi li stimoleranno a leggere, poiché non rimane loro altro da fare, libri di uomini dotti e molto saggi, si svegliano, per così dire, nel porto stesso, da cui non possono farli uscire le lusinghe del mare troppo falsamente tranquillo. Fra le due precedenti v'è una terza categoria. È di coloro che o fin dall'adolescenza, ovvero dopo essere stati a lungo e duramente sballottati qua e là, tengono lo sguardo volto ad alcuni fari e, sebbene fra i marosi, si ricordano della patria diletta e con dritto corso senza inganni e senza indugi vi ritornano. O più spesso lasciando la retta via a causa delle nebbie o fissando lo sguardo su stelle che declinano all'orizzonte o presi da qualche allettamento, rimandano il tempo propizio alla navigazione, errano piuttosto a lungo e spesso anche rischiano di naufragare. Anche essi spesso sono ricondotti alla auspicata vita serena dalla sventura nei beni caduchi, la quale può apparire come tempesta contraria ai loro tentativi.

Il monte della vanagloriosa filosofia classica.
1. 3. Tutti coloro che in una maniera o nell'altra sono condotti alla regione della felicità devono temere fortemente ed evitare con ogni cura un alto monte che si erge proprio davanti al porto e lascia un adito assai stretto a coloro che vi entrano. Esso è tanto splendido ed è fasciato da luce così ingannevole che invita a soffermarvisi coloro che arrivano e non sono ancora entrati e lusinga di soddisfare, sostituendosi alla regione della felicità, la loro aspirazione. E spesso adesca anche gli uomini giunti al porto e li fa tornare indietro allettandoli con la propria altezza, da cui è gradevole disprezzare gli altri. Essi tuttavia ammoniscono i frequenti viaggiatori di non finire sugli scogli sommersi nelle acque e di non credere che sia facile salire fino a loro e con molta umanità indicano la via da seguire senza pericolo a causa della vicinanza della regione felice. E poiché non vogliono averli soci di una futile gloria, mostrano il luogo della sicurezza. Infatti non altro la ragione vuol fare intendere per alto monte, temibile a coloro i quali si avvicinano o sono già entrati nella filosofia, che l'orgogliosa aspirazione è gloria caduca e vuota. Esso infatti nell'interno è cavo e privo di compattezza sicché, squarciandosi il fragile suolo, può trascinare nella rovina e inghiottire i tronfi individui che vi camminano sopra e sottrarre ad essi, piombati nelle tenebre, la splendida patria che avevano intravisto.

Le esperienze spirituali di Agostino.
1. 4. Stando così le cose, ascolta, o mio Teodoro, poiché a te solo mi rivolgo e te ritengo capace di comprendere il mio intento, ascolta dunque quale delle tre categorie di persone mi ha fatto rivolgere a te, in quale luogo ritengo di essere e quale aiuto mi attendo da te. Fin dal diciannovesimo anno della mia vita, dopo aver letto, nella scuola del retore, il libro di Cicerone, dal titolo L'Ortensio, fui preso da tanto amore per la filosofia che subito decisi di dedicarmi ad essa. Ma non mancarono nebbie per cui il mio navigare fu senza mèta e a lungo, lo confesso, ebbi fisso lo sguardo su stelle che tramontavano nell'oceano e che inducevano nell'errore. Difatti una falsa e puerile interpretazione della religione mi distoglieva dall'indagine. Reso più maturo, mi allontanai dalla foschia e mi creai la persuasione che ci si dovesse affidare più a coloro che usano la ragione che a coloro che usano l'autorità. M'incontrai allora con individui i quali ritenevano che la luce sensibile si deve venerare fra le cose altamente divine. Non ero d'accordo, ma supponevo che intendessero celare una nobile dottrina in concetti arcani. In seguito me li avrebbero svelati. Ma quando, dopo averli esaminati attentamente, li abbandonai soprattutto con la traversata di questo mare, a lungo gli accademici tennero il mio timone fra i marosi in lotta con tutti i venti. Alfine giunsi in questa regione e qui conobbi la stella polare cui affidarmi. Avvertii infatti spesso, nei discorsi del nostro vescovo e talora nei tuoi, che all'idea di Dio non si deve associare col pensiero nulla di materiale e neanche all'idea dell'anima che nel mondo è il solo essere assai vicino a Dio. Ma, lo confesso, ero trattenuto dal volare in seno alla filosofia dagli allettamenti della donna e dell'onore con questa mira che, una volta conseguitili, sorte che è toccata a pochi fortunati, alfine a vele spiegate e con tutta la forza dei remi sarei potuto rifugiarmi nel seno della filosofia e ottenervi la quiete. E letti assai pochi libri di Plotino, di cui so che sei grande ammiratore, e, per quanto mi fu possibile, messa a confronto con essi anche l'autorità che ci ha trasmesso la sacra dottrina, m'infiammai talmente da voler levare subitamente tutte le ancore. Mi trattenne l'apprezzamento di alcune persone. Che altro mancava se non che venisse in aiuto a me, che stavo gingillandomi in problemi di poco conto, una tempesta che può sembrare contraria? E proprio a proposito mi assalì un così grave mal di petto che non avendo forze per sostenere il peso della professione, con la quale avrei forse volto le vele verso le Sirene, ho abbandonato tutto e ho ricondotto la nave, sia pure tutta squassata, alla desiderata quiete.

Lo strato attuale della coscienza di Agostino.
1. 5. Puoi dunque osservare in quale filosofia, come in un porto, io navighi. Ma anche esso è assai largo e la sua ampiezza non del tutto esclude la possibilità dell'errore, sebbene con minor pericolo. Intanto ignoro del tutto a quale parte della regione, la quale sola è felice, devo dirigermi e attraccare. Nulla infatti ho raggiunto di sicuro. Anche il problema dell'anima rolla e beccheggia. E per questo ti scongiuro in nome della virtù, dell'umanità, della comprensione e corrispondenza fra le anime, di porgermi la mano e cioè di amarmi e di credere che io ti corrispondo con l'amore e ti ritengo amico. E se otterrò questo favore, penso di poter raggiungere con piccolo sforzo quello stato di felicità, nel quale, come suppongo, tu già vivi. E ho pensato di spedirti e d'intitolare al tuo nome quella parte delle mie dispute che mi pare di avere svolto con sentimento di religiosità e più degna di esserti dedicata. Vi potrai conoscere ciò che sto facendo e in qual maniera sto raccogliendo nel porto i miei intimi e puoi essere pienamente informato sullo stato della mia coscienza. Non posseggo altri mezzi per indicartelo. Molto opportuno in verità poiché abbiamo disputato sulla felicità e non conosco valore che maggiormente si possa ritenere dono di Dio. Non sono stato atterrito dalla tua cultura poiché non posso temere le cose che amo, anche se non mi riesce di averle; molto meno i favori più alti della fortuna. Sebbene infatti essa in te sia grande, è benevola giacché rende benevoli perfino coloro, ai quali s'impone con la propria superiorità. Ma ormai presta attenzione a quanto intendo esporti.

Presentazione dei partecipanti al dialogo-convito.
1. 6. Il tredici novembre ricorreva il mio compleanno. Dopo un pranzo tanto frugale che non impedì il lavoro della mente, feci adunare nella sala delle terme tutti coloro che non solo quel giorno ma ogni giorno convivevano con me. S'era presentato come luogo appartato, adatto all'occorrenza. Partecipavano, e non ho timore di presentarli per ora con i soli nomi alla singolare tua benevolenza, prima di tutto mia madre, ai cui meriti spetta, come credo, tutto quel che sto vivendo, Navigio mio fratello, Trigezio e Licenzio miei concittadini e discepoli. Volli che non mancassero neanche Lastidiano e Rustico, miei cugini, sebbene non avessero frequentato neppure il maestro di grammatica. Ritenni che il loro buon senso fosse sufficiente all'argomento che intendevo trattare. Con noi era anche mio figlio Adeodato, il più piccolo di tutti. Egli ha tuttavia un ingegno che, salvo errore dovuto all'affetto, promette grandi cose. Ottenuta la loro attenzione, cominciai nei termini seguenti.

Desiderio ricerca e felicità (2, 7 - 16) - La coscienza del bisogno e il desiderio.
2. 7. "Ritenete come evidente che siamo composti di anima e di corpo?". Tutti acconsentirono, ma Navigio rispose che non lo sapeva. "Ma non sai proprio nulla, gli chiesi, ovvero questa è una fra le tante nozioni che non sai?". "Non penso, mi rispose, di non sapere proprio nulla". "Ci puoi dire, replicai, alcuna delle cose che sai?". "Lo posso", rispose. "Se non ti dispiace, dinne qualcuna". E poiché rimaneva perplesso, soggiunsi: "Di vivere per lo meno hai coscienza?". "Si", rispose. "Hai coscienza dunque anche di avere la vita, poiché non si può vivere se non mediante la vita". "Anche questo lo so", mi rispose. "Hai anche coscienza di avere un corpo?". Fece cenno d'assenso. "Dunque sai di risultare del corpo e della vita". "Lo so per ipotesi, ma rimango in dubbio se siano soltanto questi i componenti". "Non dubiti dunque, gli dissi, che questi due, il corpo e l'anima, sono componenti; sei in dubbio se se ne richiede qualche altro a completare e costituire l'uomo". "Si", rispose. "Tratteremo, replicai, il problema un'altra volta, se ci sarà possibile. Ora, poiché siamo tutti d'accordo che non si dà l'uomo senza il corpo e senza l'anima, propongo a tutti il quesito per quale dei due desideriamo il cibo". "Per il corpo", disse Licenzio. Gli altri erano perplessi e discutevano fra di loro con varie argomentazioni in che senso si può dire che il cibo sembra necessario al corpo. Difatti si appetisce per la vita e la vita non appartiene che all'anima. Allora ripresi: "Siete dell'opinione che il cibo è di appartenenza a quella parte che vediamo crescere e irrobustirsi con esso?". Assentirono tutti fuorché Trigezio. Obiettò: "Perché io non sono cresciuto in proporzione al cibo ingurgitato?". Gli risposi: "Tutti i corpi hanno un proprio limite imposto loro dalla natura e non possono violare quella misura; sarebbero tuttavia di minor grandezza se mancassero loro gli alimenti. Con tutta evidenza lo costatiamo negli animali. E nessuno può dubitare che il corpo di tutti gli animali deperisce con la sottrazione del cibo". "Deperisce, obiettò Licenzio, ma non perde la propria grandezza". "Basta al mio intento, gli risposi. Il quesito è se il cibo è di pertinenza del corpo. E n'è di pertinenza poiché con la sua sottrazione si ha il deperimento". Concordemente accettarono la mia opinione.

Bisogno, cibo dell'anima, conoscenza e virtù.
2. 8. "E l'anima, chiesi, non ha un proprio nutrimento? Siete d'accordo che sia la scienza?". "D'accordo, disse mia madre. Penso che l'anima abbia come alimento soltanto la pura conoscenza delle cose". Trigezio si mostrò dubbioso di tale opinione. Ed ella soggiunse: "Non ci hai indicato tu stesso oggi di che e dove l'anima si nutrisce? Hai detto che soltanto a un certo punto del pranzo ti sei accorto della qualità del vasellame che stavamo adoperando perché stavi riflettendo su non saprei quale cosa; tuttavia continuavi a muovere mani e mascelle sulla tua porzione di vivande. Dove era dunque la tua mente in quei momenti in cui, pur mangiando, non vi badavi? Credimi, da questa sorgente e di queste vivande, cioè delle proprie riflessioni e pensieri, si pasce la mente nell'atto in cui con essi si può rappresentare l'oggetto". Gli altri continuavano a mostrare con animazione i propri dubbi in proposito. Allora io intervenni: "Non ammettete forse che la mente delle persone veramente colte ha una formazione e sviluppo superiore a quella degli illetterati?". Ne ammisero l'evidenza. "Quindi, proseguii, giustamente possiamo ritenere che la mente di coloro che sono ignoranti di ogni sapere e non hanno nozioni nelle arti liberali è digiuna e, per così dire, affamata". "Io ritengo, interloquì Trigezio, che sono sazi anche essi, ma di vizi e d'immoderatezza". "Ma, credimi, gli risposi, anche tale stato è sterilità e fame della mente. Il corpo, mancando il necessario alimento, va soggetto a malattie e deperimento che in esso sono indici di fame che consuma. Così lo spirito di quei tali è pieno di mali con i quali rende palese la mancanza di nutrimento. Difatti gli autori classici hanno insegnato che l'immoderatezza (nequitia), madre di. tutti i vizi, è stata denominata dal motivo che è il non qualche cosa (nequidquam). La virtù che le è contraria si denomina moderatezza (frugalitas). Come dunque questa deriva da fecondità (frux), quanto dire da realtà prodotta per una certa fecondità spirituale, così quella da sterilità è denominata immoderatezza, cioè dal suo non essere. È non essere infatti ciò che soggiace al divenire, alla dissoluzione, al cangiamento e che è soggetto come ad un morire momento per momento. Per tal motivo consideriamo come dati per morti gli individui privi di moderatezza. V'è, al contrario, qualche cosa che è in atto, che persiste, che è stabile: la virtù appunto; le sue manifestazioni più nobili e belle sono temperanza e moderatezza. E se l'argomento è più complesso di quanto voi potete comprendere, per lo meno potete accordare che, anche data l'ipotesi d'una certa sazietà della mente degli stolti, si danno due tipi di alimenti tanto naturali che spirituali: l'uno di quelli che producono salute e vita; l'altro di quelli che producono infermità e morte.

Sanità morale e desiderio.
2. 9. Stando così le cose, giacché siamo d'accordo che nell'uomo esistono due componenti, cioè il corpo e l'anima, penso di dover offrire nel mio genetliaco un pranzo più abbondante non solo al nostro corpo, ma anche allo spirito. E vi manifesterò, se avete fame, la qualità del pranzo. Sprecherei la fatica se vi costringessi a mangiare di malavoglia e senza appetito. Si deve, al contrario, auspicare che desideriate queste vivande piuttosto che quelle materiali. L'auspicio si avvererà se il vostro animo è sano. Gli infermi, come possiamo osservare nelle infermità fisiche, ricusano e respingono i cibi convenienti". Con l'espressione del viso e con parole concordi tutti dichiararono di voler prendere e trangugiare la vivanda che avevo preparato.

L'universale desiderio di felicità.
2. 10. E riprendendo il discorso, affermai: Noi desideriamo esser felici. Avevo appena espresso tale principio che l'accettarono all'unanimità. "Ritenete, soggiunsi, che sia felice chi non ha l'oggetto del suo desiderio?". Dissero di no. "Allora chiunque consegua l'oggetto del suo desiderio è felice?". Mia madre intervenne: "Se desidera e consegue il bene è felice; se poi desidera il male, ancorché lo raggiunga, è infelice". Ed io, sorridendole con espressione di gioia, le dissi: "Madre mia, decisamente hai raggiunto la vetta del filosofare. Ti è mancata certamente la terminologia per poterti esprimere come Tullio che ha sull'argomento le seguenti parole. Ne L'Ortensio, il libro che ha scritto a lode e difesa della filosofia, dice: Avviene che coloro i quali sono esercitati nella dialettica, anche se non ancora filosofi, sono unanimi nell'affermare che sono felici coloro che vivono secondo i loro desideri. L'opinione è certamente erronea: desiderare infatti ciò che non è conveniente è somma infelicità. E non è tanto fonte d'infelicità il non conseguire ciò che si desidera quanto desiderare ciò che non è opportuno. Difatti il desiderio disordinato apporta all'uomo un male superiore al bene che apporta la fortuna (Cicerone, framm. 39 t. B.)". A queste parole convenivano con tanta esattezza quelle di lei che, dimentichi del suo sesso, la considerammo un uomo illustre assiso in mezzo a noi. Io frattanto, per quanto potevo, mi sforzavo di comprendere da quale e quanta sovrumana sorgente derivassero le sue parole. Licenzio intervenne: "Dovresti indicarci che cosa, per esser felice, l'uomo deve desiderare e di quali cose è opportuno abbia il desiderio". Gli risposi: "Invitami, se vorrai, nel tuo compleanno ed io mangerò volentieri ciò che mi offrirai. Io ti chiedo di pranzare oggi con me alla stessa condizione e di non chiedermi una vivanda che non è stata ammannita". Egli accettò il richiamo a rientrare rispettosamente nei suoi limiti. Allora continuai: "Finora è stato accettato fra noi che non può esser felice chi non ha ciò che desidera e che non necessariamente è felice chi consegue ciò che desidera". Furono d'accordo.

L'oggetto del desiderio e la felicità.
2. 11. "E, continuai, concedete che chi non è felice, è infelice?". Non contestarono. "Ogni uomo dunque che non ha ciò che desidera è infelice". Furono tutti d'accordo. "Che cosa pertanto, chiesi, l'uomo deve conseguire per esser felice? Forse anche al nostro banchetto sarà presentata una vivanda adatta a non lasciare insoddisfatto l'appetito di Licenzio. Io penso che l'uomo deve tendere all'oggetto che può possedere quando lo desidera". Affermarono che era evidente. "Deve esser dunque, soggiunsi, un bene stabile non dipendente dalla fortuna, non condizionato ai vari accadimenti. Infatti non possiamo assicurarci quando e per tutto il tempo che vogliamo ciò che è perituro e caduco". Fecero un unanime cenno d'assenso. Soltanto Trigezio obiettò: "Vi sono molti che accumulano e godono largamente di beni fragili e condizionati agli avvenimenti, ma fonti di gioia in questa vita e non manca loro alcuno degli oggetti del loro desiderio". Gli chiesi: "Ritieni che chi teme è felice?". "Non lo ritengo", disse. "Dunque se può perdere ciò che ama, può non temere?". "È impossibile", mi rispose. "Ora, conclusi, i beni soggetti al caso si possono perdere. Dunque chi li ama e possiede non può assolutamente esser felice". Non contestò. A questo punto mia madre intervenne: "Anche se fosse sicuro di non perdere le proprie sostanze, tuttavia non ne può esser saziato. Quindi intanto è infelice in quanto è sempre bisognoso". Le chiesi: "Non ritieni che possa esser felice se, abbondando e traboccando di tante ricchezze, stabilisse un limite al desiderio e, contento di esse, ne goda convenientemente e gioiosamente?". "Non è felice, rispose, per il possesso delle sostanze ma per la moderazione del suo desiderio". "Benissimo, replicai. Anche a tale domanda da te non si poteva attendere una risposta diversa. Quindi non abbiamo più dubbi che, se qualcuno ha deciso di esser felice, si deve assicurare ciò che rimane per sempre né può essere sottratto dalla fortuna spietata". "Ormai, intervenne Licenzio, siamo d'accordo su tale verità". "Ritenete, ripresi, che Dio è eterno e non cessa mai d'essere?". "È verità tanto certa, rispose Licenzio, che non è necessario farla argomento del dialogo". E gli altri con profondo sentimento religioso concordarono. "Dunque, conclusi, chi ha Dio è felice".

Le varie opinioni dei convitati.
2. 12. Accettarono la conclusione con viva gioia; ed io ripresi: "Ci rimane da indagare soltanto, come penso, chi è l'uomo che possiede Dio; egli sarà certamente felice. Chiedo la vostra opinione sull'argomento". Licenzio: "Ha Dio chi vive bene". Trigezio: "Ha Dio chi obbedisce ai suoi comandamenti". Alla sua opinione aderì Lastidiano. Il più giovane di tutti: "Ha Dio chi non ha l'animo immondo (cf. Mt 5, 8)". Mia madre approvò tutte le opinioni, ma soprattutto quest'ultima. Navigio se ne era rimasto in silenzio. Gli chiesi come la pensasse. Mi rispose che gli piaceva l'ultima. Mi parve opportuno non trascurare Rustico nel chiedergli la propria opinione su un argomento di tanta importanza poiché mi sembrava che taceva più per vergogna che per volontà. Aderì a Trigezio. Moderazione nella ricerca.

2. 13. Allora ripresi: "Prendo atto dei singoli pareri su un argomento importante che implica pertanto ogni ulteriore problema e ogni ulteriore scoperta purché noi ora, come abbiamo cominciato, lo sottoponiamo all'indagine senza preconcetti e con molta serietà. Per oggi tuttavia non si deve prolungare la trattazione poiché anche lo spirito ha nei suoi conviti una certa intemperanza se si getta sulle vivande senza moderazione e con avidità e rischia, per così dire, l'indigestione. E poiché da essa si deve temere per la sanità mentale come dalla stessa fame, è meglio che domani, se preferite, col ritorno dell'appetito riprendiamo la trattazione. Voglio tuttavia che subito assaporiate ciò che io adesso, come vostro anfitrione, devo apporvi offrendolo direttamente alla vostra mente. Ed è, salvo errore, l'ultima rituale vivanda ammannita e condita dal miele della lezione". Alle mie parole tutti si tesero come verso una vivanda non a portata di mano e insistettero perché mi accingessi a dire di che si trattava. "Non vi pare, dissi, che è conchiusa la discussione iniziata qualche giorno addietro contro gli accademici?". Udito tale nome, i tre, cui era noto il fatto, si alzarono in piedi con vivacità e, quasi con le mani distese, come comunemente avviene, aiutarono con le parole che poterono il servitore che apponeva. Facevano capire che non avrebbero udito nulla di più gradevole. La tesi di Agostino che gli accademici non conseguono felicità...

2. 14. Proposi l'argomento in questi termini: È manifesto che non è felice chi non ha l'oggetto del desiderio, come dianzi è stato logicamente dimostrato. Ma nessuno cerca ciò che non vuol conseguire. Ora essi ricercano sempre la verità, dunque desiderano conseguirla; desiderano, cioè, avere il conseguimento della verità. Ma non la conseguono. Ne deriva che essi non hanno ciò che desiderano e ne deriva quindi che non sono felici. Ma non si è saggi se non si è felici; dunque il filosofo accademico non è un saggio. A questo punto essi, soddisfatti di essersi assicurati l'intera porzione, approvarono gridando. Ma Licenzio, riflettendo più attentamente e diligentemente, esitò a prestar l'assenso e disse: "Mi sono assicurato assieme a voi la porzione poiché ho approvato convinto della conclusione. Ma per il momento non trangugerò nulla e riserverò la mia porzione per Alipio. O la gusterà assieme a me o mi avvertirà sui motivi per non ingerirla". "Ma Navigio piuttosto, dissi, non avendo il fegato sano, dovrebbe temere i dolci". Ed egli sorridendo rispose: "Al contrario, essi mi faranno bene. Non so come, ma la tua confezione contorta e pungente a causa del miele d'Imetto, come dice quel tale, è dolce-asprigna e non costipa l'intestino. Quindi la ingerisco tutta, sia pure con qualche puntura al palato, ma con piena soddisfazione. Non vedo infatti come possa esser contestata la tua conclusione". "È certamente impossibile, intervenne Trigezio. E per questo son contento d'essermi già schierato contro di loro. Infatti non so per quale impulso naturale, o per dire con maggior verità, divino, ho sempre avuto una viva antipatia per loro sebbene non sapessi come confutarli".

... è ribattuta da Licenzio...
2. 15. "Io non li abbandono ancora", disse Licenzio. "Dunque, ribatté Trigezio, dissenti da noi?". "E voi, rimbeccò l'altro, non dissentite da Alipio?". Gli dissi: "Non dubito che, se fosse stato presente Alipio, avrebbe accettato la mia breve dimostrazione. Non avrebbe infatti potuto accogliere l'assurda opinione di ritenere felice chi non ha un bene spirituale tanto eccellente e che ha ardentemente desiderato di avere, ovvero che essi non vogliono raggiungere la verità, o che è saggio chi non è felice. Da questi tre motivi, come se fossero miele, farina e mandorle, è confezionata la torta che temi d'ingerire". "Ed egli, ribatté Licenzio, accetterebbe questo piccolo divertimento da fanciulli abbandonando la ricca tradizione degli accademici? Da essa, come da fiume in piena, la tua breve dimostrazione sarebbe sommersa e trascinata via". "Come se, rimbeccai, stessimo cercando una lunga dimostrazione soprattutto contro Alipio. Egli stesso con il tuo intervento dimostra sufficientemente che questi motivi lievi ma non scarsi di pensiero sono validi e utili. Ma tu che preferisci dipendere dall'autorità di un assente, quale punto biasimi? Che chi non ha l'oggetto del desiderio non è felice? Ovvero che gli accademici, i quali ricercano con ardore la verità, non la vogliono avere, una volta conseguita? O ritieni che l'uomo saggio non è felice?". "È certamente felice, rispose sorridendo sdegnosamente, chi non ha l'oggetto del desiderio". Ordinai che le sue parole fossero trascritte. Ed egli esclamò: "Ma io non l'ho detto". Feci cenno che si trascrivessero ugualmente anche queste. Allora ammise: "L'ho detto". Avevo ordinato, una volta per sempre, che non potesse profferire parola che non fosse trascritta. E così tenevo il giovanotto in esercizio fra la vergogna e l'ostinatezza.

... ma Monica li definisce epilettici.
2. 16. Ma mentre, motteggiandolo con tali parole, lo invitavo ad ingerire, per così dire, la sua porzione, mi accorsi che gli altri ignari dell'argomento e desiderosi di conoscere il tema della nostra scherzosa conversazione, ci guardavano seri. E riferendomi a un caso piuttosto frequente, mi parve di poterli paragonare a quelle persone che, sedendo a mensa con individui sempre affamati ed eccellenti divoratori, o si trattengono dal tirar giù per contegno o si lasciano prendere dalla vergogna. Ma io ero l'anfitrione e tu mi hai insegnato a sostenere la parte di un uomo illustre e, per svelare tutto, dell'uomo vero, ma anche dell'anfitrione in quel convito. Mi turbò quindi il diverso e incoerente trattamento usato alla nostra mensa. Sorrisi a mia madre. E lei, con grande liberalità, mi ordinò di offrire, come se la dispensa fosse sua, la vivanda di cui erano privi. Mi pregò poi: "Dicci ormai chiaramente la posizione di codesti accademici e le loro tesi". Gliene presentai una breve e chiara esposizione in maniera che tutti i presenti potessero comprendere. E lei: "Ma costoro sono affetti da mal caduco". Con questo termine in gergo popolare sono designati coloro che sono sconvolti da attacchi d'epilessia. Nel contempo si alzò per andarsene. E tutti rallegrati ed esilarati dal motto, posta fine alla discussione, ce ne andammo.

Dio e la felicità (3, 17 - 22)



Ricapitolazione della disputa precedente.
3. 17. L'indomani, sempre dopo pranzo ma un po' più tardi del giorno antecedente, ci adunammo i medesimi e nel medesimo luogo. "Oggi, cominciai, siete arrivati tardi al banchetto; ed io penso che il fatto non dipenda dalla cattiva digestione, ma dalla certezza della scarsezza delle vivande. Siete convinti che non dovete iniziare a prendere all'ora consueta un cibo che, a vostro avviso, potete ingoiare in pochi bocconi. Ed era ovvio pensare che non fossero rimasti avanzi d'un pranzo che nel giorno stesso della festa era stato frugale. E forse avete ragione. Io stesso, come voi, non so che cosa v'è stato ammannito. V'è un Altro che non manca di preparare a ciascuno ogni vivanda e soprattutto quelle di questo tipo. Siamo noi che assai spesso manchiamo di nutrirci o per debolezza o per sazietà o per affari. E ieri, con sentimento religioso e con fondamento logico, siamo rimasti d'accordo che egli, con la sua presenza negli uomini, li rende felici. Il nostro ragionamento ha infatti accertato, senza dispareri fra di voi su tale punto, che è felice chi possiede Dio. È stato allora chiesto chi sia, a vostro avviso, che possiede Dio,. Sull'argomento, se ben ricordo, sono state dichiarate tre opinioni. Alcuni hanno ritenuto che possiede Dio chi compie le opere che egli vuole. Altri hanno affermato che possiede Dio chi vive bene. Altri, infine, furono d'opinione che Dio è in coloro in cui non è lo spirito denominato immondo. Convenienza di massima delle tre opinioni.

3. 18. Ma forse con diverse espressioni hanno tutti pensato la stessa cosa. Limitiamoci ad analizzare le prime due opinioni. Chiunque vive bene compie ciò che Dio vuole e chiunque compie ciò che Dio vuole vive bene; altro non è infatti vivere bene che fare ciò che piace a Dio, salvo un vostro disparere". Furono d'accordo. "Più attentamente bisogna esaminare la terza opinione perché, nella terminologia della Sacra Scrittura, immondo spirito, per quanto io ne comprendo, viene inteso in due significati. O s'intende quello che invade l'anima dal di fuori, sconvolge la normale funzione dei sensi e genera negli uomini una specie di mania; e si dice che, per allontanarlo, i sacerdoti impongono le mani ed esorcizzano, cioè lo scacciano con l'invocazione di Dio. Con altra accezione si denomina spirito immondo ogni anima immonda e non significa altro che anima inquinata da vizi e colpe. Pertanto chiedo a te, giovanetto, che forse hai dichiarato questa tua opinione a causa del tuo spirito un po' più sereno e puro, chi ti sembra che non abbia lo spirito immondo: quegli che non è invaso dal demone che di solito rende furibondi gli uomini, ovvero quegli che ha già resa monda l'anima da tutti i vizi e peccati". "Penso, rispose, che non ha lo spirito immondo chi vive castamente". "Ma, soggiunsi, chi intendi come casto: colui che non commette peccato o colui soltanto che si astiene da un illecito contatto carnale?". "Come, rispose, può esser casto se, astenendosi soltanto dall'illecito contatto, non cessa di macchiarsi di altri peccati? Quegli è veramente casto che è fisso in Dio e soltanto a lui aderisce". Volli che le parole del ragazzo fossero trascritte come erano state profferite; quindi continuai: "Ne consegue pertanto necessariamente che questo tale viva bene e chi vive bene è necessariamente casto, salvo il tuo disparere". Manifestò la sua adesione assieme agli altri. "Quindi, conclusi, fino a questo punto c'è unanimità di opinioni.

Cercare Dio: somma di tutti i desideri.
3. 19. Ma ora per un po' vi propongo il problema se Dio può volere che l'uomo lo cerchi". Lo ammisero. "Vi chiedo egualmente se possiamo affermare che vive male chi cerca Dio". "No certamente", risposero. "E rispondete anche a questo terzo quesito: Può lo spirito immondo cercare Dio?". Dissero di no, nonostante una certa esitazione di Navigio che poi cedette alle contestazioni degli altri. "Dunque, conclusi, chi cerca Dio fa ciò che Dio vuole e vive bene e non ha lo spirito immondo. Ma chi cerca Dio non lo ha ancora. Quindi a rigor di logica non consegue che ha Dio in sé chi vive bene o fa ciò che Dio vuole e non ha lo spirito immondo". A questo punto tutti riconobbero ridendo di essere stati tratti in inganno dalle loro stesse ammissioni. Ma mia madre, dopo un lungo momento di stupore, chiese che io chiarissi e dilucidassi distintamente quanto, per esigenza di conchiudere, avevo esposto in forma involuta. Soddisfeci la sua richiesta. Ed ella disse: "Ma nessuno può raggiungere Dio se non lo cerca". "D'accordo, risposi. Tuttavia chi ancora cerca, non ha ancora raggiunto Dio, tuttavia già vive bene. Dunque non di necessità chi vive bene ha Dio". "Ritengo, ribatté, che ognuno ha Dio, ma l'hanno propizio coloro che vivono bene e avverso coloro che vivono male". "Dunque, le risposi, non a rigore di logica abbiamo ammesso che è felice chi ha Dio poiché ogni uomo ha Dio e tuttavia non ogni uomo è felice". "Allora, suggerì, aggiungi propizio". L'obiezione di Navigio sulla ricerca del saggio accademico.

3. 20. "Dunque, soggiunsi, siamo per lo meno sufficientemente d'accordo che è felice chi ha Dio propizio". "Vorrei, interruppe Navigio, essere d'accordo ma mi trattiene la condizione di chi ancora ricerca, soprattutto se tu dovessi concludere che è felice l'accademico che nella disputa di ieri, con termine popolano e non letterario ma assai efficace, a mio parere, fu denominato sofferente di mal caduco. Non posso ammettere che Dio sia avverso a un uomo che lo cerca. E se ciò non è ammissibile, Dio gli sarà propizio e chi ha Dio propizio è felice. Dunque chi lo cerca è felice, ma chi cerca non ha ancora l'oggetto del suo desiderio. Ne conseguirebbe che è felice l'uomo che non possiede ciò che desidera. Ma tale affermazione ieri ci è sembrata assurda e ne abbiamo dedotto che erano stati eliminati i punti deboli della tesi accademica. E per questo ormai Licenzio canterà vittoria su di noi e, come medico saggio per me, mi farà notare che i dolci da me imprudentemente ingeriti a danno della mia salute esigono un simile scotto". Dio propizio e il movimento verso la felicità.

3. 21. A queste parole anche mia madre sorrise. Trigezio intervenne: "Io non vedo come conseguente che Dio è avverso a chi non è propizio, ma penso che si dia una condizione di mezzo". Gli chiesi: "Ma tu ammetti che questo tale, posto in una condizione di mezzo perché Dio non gli è né propizio né ostile, in qualche modo ha Dio?". Essendo egli rimasto perplesso, mia madre intervenne: "Un conto è avere Dio ed un altro non essere senza Dio". "Ma, ribattei, che cosa è meglio: avere Dio o non essere senza Dio?". "Per quanto m'è dato di comprendere, rispose, questa è la mia opinione: chi vive bene ha Dio ma propizio; chi vive male ha Dio ma avverso; chi invece ricerca e non ha ancora trovato non lo ha né ostile né propizio ma non è senza Dio". "Questo, chiesi, è anche il vostro parere?". Risposero affermativamente. "Ditemi, ripresi, e vi prego di scusarmi: non vi pare che Dio sia propizio all'uomo cui concede il suo favore?". Lo ammisero. "E allora, soggiunsi, Dio non dà il suo favore all'uomo che lo cerca?". Risposero di sì. "Dunque, conclusi, chi cerca Dio ha Dio propizio e chi ha Dio propizio è felice. Pertanto è felice anche chi cerca. Ma chi cerca non possiede ancora l'oggetto del suo desiderio. Quindi è felice anche chi non possiede l'oggetto del suo desiderio". "Ma a me, ribatté mia madre, non pare affatto che sia felice chi non possiede l'oggetto del suo desiderio". "Ne conseguirebbe, le risposi, che non necessariamente è felice chi ha Dio propizio". "Se il rigore della logica, soggiunse, postula tale conclusione, m'è impossibile escluderla". "Si avrà pertanto, conclusi, la seguente classificazione: chi ha trovato Dio e lo ha propizio è felice; chi cerca e lo ha propizio non è ancora felice; chi infine con vizi e colpe si rende estraneo a Dio, non solo non è felice ma non vive neppure nel favore di Dio". L'aporia: avere Dio propizio e non esser felici.

3. 22. Le mie parole furono approvate da tutti. "D'accordo, dissi; temo tuttavia che non vi convinca il motivo dianzi da noi accettato e cioè che sarebbe infelice chi non fosse felice. Ne conseguirebbe che è infelice l'uomo che ha [Dio propizio e non è felice appunto perché, come abbiamo detto, ancora cerca Dio]. Ovvero, come dice Tullio, dovremmo reputare ricchi i possessori di molti fondi e poveri i possessori di tutte le virtù? (Cicerone, Hort. framm. 104). Ma considerate se è vero il principio che come chi soggiace alla privazione è infelice, così sia vero che chi è infelice soggiace alla privazione. Di conseguenza sarebbe vera l'opinione da me approvata, mentre veniva dichiarato, come avete udito, che l'infelicità non è altro che soggezione alla privazione. Sarebbe lungo trattare l'argomento oggi e per questo chiedo che non vi dispiaccia di partecipare anche domani a questo convito". E poiché tutti affermarono di gradirlo assai, ci alzammo.

Pienezza e misura (4, 23 - 36)



Problematicità del concetto di privazione.
4. 23. Al terzo giorno della nostra disputa, di mattino, si dissipò la nebbia che ci costringeva ad adunarci nella sala delle terme e si ebbe un limpido pomeriggio. Ci fece piacere quindi scendere nel prato vicino. Ci sedemmo, ciascuno nel luogo che sembrò più comodo. Quindi fu continuata la disputa nei termini seguenti. "Conservo e ritengo valido, cominciai, quasi tutto ciò che voluto mi fosse da voi concesso in risposta alle mie domande. Oggi pertanto, affinché possiamo per qualche giorno por fine a questo nostro banchetto, non rimane nulla o poco, come penso, da darmi in risposta. È stato detto da mia madre che l'infelicità non è altro che privazione ed è stato stabilito da noi che coloro i quali soggiacciano alla privazione sono infelici. Ma la tesi che proprio tutti gli infelici soggiacciano alla privazione ha qualche aspetto problematico che ieri non abbiamo potuto chiarire. Che se la forza del ragionamento riuscirà a dimostrare che è proprio così, sarà stabilito con esattezza chi sia felice. Sarà chi non soggiace alla privazione. Infatti chi non è infelice è felice. È felice dunque chi è libero dalla privazione se risulterà che quella che denominiamo privazione equivale all'infelicità". Non necessariamente chi non soggiace a privazione è felice...

4. 24. "E perché, domandò Trigezio, non si potrebbe già dedurre che è felice chi non soggiace a privazione, dall'evidente principio che chi soggiace a privazione è infelice? Rammento che abbiamo accertato non darsi uno stato di mezzo fra infelice e felice". "Ritieni, gli chiesi, che si dia qualche cosa di mezzo fra morto o vivo? Non si è forse o vivi o morti?". "Ammetto, ribatté, che anche per questo aspetto non si dà qualche cosa di mezzo. Ma a che mira la domanda?". "Perché, gli risposi, tu ritieni, come penso, che chi è stato sepolto da un anno è morto". Non contestò. "E allora, proseguii, forse che vive chi non è stato sepolto da un anno?". "Non consegue", mi rispose. "Quindi, conclusi, dal fatto che chi soggiace alla privazione è infelice non consegue a rigore che chi non soggiace alla privazione è felice sebbene non sia possibile trovare una condizione di mezzo tra felice e infelice come tra vivo e morto".

... poiché la felicità è valore.
4. 25. E poiché alcuni tardavano alquanto a comprendere il ragionamento, tentai di chiarirlo e trattarlo con parole, per quanto possibile, adatte al loro intendimento. "Dunque, dissi, nessuno dubita che è infelice chi soggiace alla privazione. Non costituisce ovviamente difficoltà la soggezione anche degli uomini saggi ai bisogni materiali. Non lo spirito, in cui alberga la felicità, soggiace a tali bisogni. Esso infatti è perfetto e l'essere perfetto non ha bisogni. Per quanto riguarda i beni indispensabili alla vita fisica, il saggio li userà se ci sono e se non ci saranno non si lascerà abbattere dalla loro scarsezza. Il saggio infatti è forte e l'uomo forte non teme. Dunque il saggio non temerà né la morte fisica né le privazioni che si possono allontanare, evitare o differire con l'uso di beni sensibili dei quali potrebbe esser privo. Tuttavia ne usa bene se non mancano. È infatti vero quel detto: È da stolti subire ciò che puoi evitare (Terenzio, Eun. 761). Dunque eviterà la morte e la privazione quanto è possibile e conveniente per non diventare, in caso contrario, infelice non a causa di simile contingenza ma per non averlo voluto, potendolo. Sarebbe segno manifesto di stoltezza. Chi non le evita sarà dunque infelice a causa della sua stoltezza e non per la soggezione ai mali sensibili. Se poi non riuscirà ad evitarli, sebbene vi si adoperi diligentemente, non sarà il loro verificarsi a renderlo infelice. Infatti non è meno vero il detto del medesimo commediografo: Perché non può realizzarsi ciò che vuoi, fa' di volere ciò che è possibile (Terenzio, Andria 305-306). Non può essere infelice colui a cui nulla avviene contro il proprio desiderio. In verità non desidera ciò che non può ottenere. Ha infatti il desiderio di beni assai più sicuri che è quello di non agire se non a norma di virtù e secondo la divina legge della saggezza che non gli possono esser tolte sicuramente.

Al contrario chi è infelice, per mancanza di saggezza, soggiace a privazione.
4. 26. Ed ora esaminate se anche chi è infelice soggiace alla privazione. Costituisce difficoltà ad ammettere tale verità il fatto che molti, i quali godono di una grande quantità di beni di fortuna e ai quali tutto riesce possibile al punto che l'oggetto del loro desiderio dipende da un loro cenno, trovano tuttavia in questa vita gravi difficoltà. Ma facciamo l'ipotesi di un individuo quale Tullio dice che fosse Orata (cf. Cicerone, Hort. framm. 10). Chi potrebbe dire che Orata soggiacesse alla privazione se fu un uomo ricchissimo, dedito al lusso e alla gioia di vivere, cui non mancò nulla di ciò che è piacere, bellezza e buona e perfetta salute? Infatti ebbe a profusione fondi assai produttivi, amici dediti alle gioie e delle sue sostanze usò con molto discernimento per il benessere fisico. Per dirla in breve, un prospero successo seguì a tutti i suoi progetti e desideri. Ma qualcuno di voi obietterà che desiderava avere più di quanto aveva. Non lo sappiamo. Ma facciamo l'ipotesi, e ciò è sufficiente alla nostra indagine, che egli non desiderasse più di quanto possedeva. Ritenete allora che soggiacesse alla privazione?". "Vorrei ammettere, rispose Licenzio, che non desiderasse di più, a parte che non saprei come ammetterlo in un uomo non saggio. Sta il fatto che temeva, poiché era di retto intendimento come si suol dire, l'improvvisa perdita di tutte le sostanze a causa di qualche avversità. Non era difficile comprendere che tutti quei beni, per quanto grandi fossero, erano soggetti alla forza degli avvenimenti". Sorridendo gli risposi: "Stai rilevando, o Licenzio, che questo individuo assai fortunato è stato impedito dal raggiungere la felicità a causa della sua rettitudine. Infatti essendo assai avveduto, prevedeva che poteva perdere tutti i suoi beni. Ed era travagliato da simile timore e spesso ripeteva quel detto popolare: L'uomo che non s'illude è assennato per la propria infelicità (Plutarco, De tranq. an. 1, 465c.)

Quindi l'insipienza è essenziale privazione...
4. 27. Egli e gli altri sorrisero. Io soggiunsi: "Esaminiamo attentamente il motivo per il quale costui, sebbene ebbe timore, non soggiacque alla privazione poiché da qui ha origine il problema. Il soggiacere alla privazione infatti consiste nel non avere e non nel timore di perdere ciò che si ha. Egli era infelice perché temeva, sebbene non fosse soggetto al bisogno. Dunque non si è soggetti al bisogno per il fatto che si è infelici". Anche mia madre, la cui opinione stavo difendendo, approvò assieme agli altri. Tuttavia, esprimendo una riserva disse: "Ancora non so e non riesco bene a comprendere come si possa separare l'infelicità dalla privazione e la privazione dall'infelicità. Anche costui che era ricco e possidente e, come state dicendo, non desiderava più nulla, tuttavia, poiché temeva di perdere, era privo di saggezza. Dunque lo dovremmo considerare bisognoso se fosse stato privo di denaro e di possessioni e non lo considereremo tale per il fatto che era privo della saggezza?". Fu un grido unanime d'ammirazione. Anche io fui non poco contento e lieto che proprio da lei fosse espresso il concetto che avevo inteso di esporre in fine come verità di fondo desunta dagli insegnamenti dei filosofi. "Osservate, esclamai, che altro è la molteplice e varia cultura e altro lo spirito sempre fisso in Dio? Da dove infatti procedono le parole udite che hanno destato la nostra ammirazione se non da lui?". A questo punto Licenzio tutto lieto m'interruppe esclamando: "Certamente non si poteva dire qualche cosa di più vero e di più divino. Non c'è infatti tanta privazione che produca tanta infelicità quanto, esser fuori della saggezza. Chi non è privo della saggezza non ha bisogno assolutamente di nulla".

... la saggezza è felicità, la stoltezza infelicità.
4. 28. "La soggezione alla privazione spirituale, continuai, non è altro che stoltezza. Essa è contraria alla saggezza e così contraria come la morte alla vita, come la felicità all'infelicità senza condizioni di mezzo. Allo stesso modo che l'uomo non felice è infelice e chi non è morto è vivo, così è evidente che chi non è stolto è necessariamente saggio. Ne possiamo dedurre che Sergio Orata non fu infelice tanto perché temeva di perdere i doni di fortuna ma perché era stolto. Ne consegue che sarebbe stato più infelice se non avesse avuto timori da parte di cose tanto instabili e incerte che egli reputava beni. Sarebbe stato infatti più sicuro non per vigile fortezza di spirito ma per torpore mentale, comunque infelice perché immerso nella più profonda stoltezza. Ma se chiunque è privo della saggezza soggiace alla più grande privazione e chi ne è in possesso non ha alcuna privazione, ne consegue che la stoltezza è privazione. Inoltre come ogni stolto è infelice, così ogni infelice è stolto. Dunque è provato che la privazione è infelicità e l'infelicità privazione.

La privazione significa non avere;
4. 29. Trigezio confessò di non aver compreso la conclusione. Che cosa, gli chiesi, abbiamo accertato con la nostra analisi?". Che soggiace alla privazione chi non possiede la saggezza", mi rispose. "E che cosa è, soggiunsi, soggiacere a privazione?". "Non avere la saggezza". "E che cos'è, dissi, non avere la saggezza?". Poiché taceva gli chiesi: "Avere la stoltezza?". "Si", ammise. "Dunque, conclusi, avere la privazione e rispettivamente la stoltezza è la medesima cosa. Ne consegue che privazione è sinonimo di stoltezza. Tuttavia, non so perché, diciamo: Ha la privazione; ovvero: Ha la stoltezza. È lo stesso caso di quando diciamo che un luogo privo di luce ha le tenebre; non significa altro che non avere la luce. Le tenebre non vanno e vengono, ma mancare di luce significa essere nelle tenebre, come esser privo delle vesti significa esser nudo. Insomma, quando s'indossa una veste la nudità non fugge come un oggetto condizionato al moto locale. Così dunque diciamo che si ha la privazione come si dice che si ha la nudità. La privazione è categoria del non avere. Quindi per spiegare, come posso, il mio pensiero, si dice: Ha la privazione, come se si dicesse: Ha il non avere. E pertanto se risulta che la stoltezza è per sé vera e autentica privazione, cerca di comprendere che il problema è stato da noi risolto. Eravamo in dubbio se nel dire infelicità non intendessimo altro che privazione. Abbiamo spiegato che la stoltezza giustamente significa privazione. Dunque dobbiamo ammettere che, come lo stolto è infelice e l'infelice è stolto, così non solo chi soggiace a privazione è infelice ma anche chi è infelice soggiace a privazione. Dal principio che ogni stolto è infelice e ogni infelice è stolto si deduce che la stoltezza è infelicità. Così dal principio che chi soggiace alla privazione è infelice e chi è infelice soggiace alla privazione dobbiamo dedurre che l'infelicità è essenzialmente privazione".

quindi si oppone a pienezza...
4. 30. Tutti dichiararono di essere d'accordo. "Ora è opportuno, proseguii, che esaminiamo chi non soggiace a privazione. Questi sarà l'uomo saggio e felice. Ora la stoltezza è privazione. Il nome stesso indica privazione poiché la parola si usa per significare una certa improduttività e insufficienza. Considerate dunque più attentamente con quanta diligenza gli antichi hanno foggiato tutte o, come si può vedere, alcune parole relative a significati la cui conoscenza era indispensabile. Ormai ammettete che lo stolto soggiace a privazione e chi soggiace a privazione è stolto. Penso che siate anche d'accordo che l'animo stolto è vizioso e che tutti i vizi dello spirito sono inclusi nell'unico concetto di stoltezza. Nel primo giorno di questa nostra disputa abbiamo detto che l'immoderatezza (nequitia) è stata così denominata perché è un non qualche cosa (nequidquam) e che il suo contrario, la moderatezza, è stata nominata da produttività (frux). Dunque in questi due contrari, moderatezza e immoderatezza, sono posti in evidenza l'essere e il non essere. Che cosa pensiamo sia il contrario di privazione, di cui si sta trattando?". Esitarono a rispondere. "Se dicessi ricchezza, intervenne Trigezio, noto che il suo contrario è povertà". "Il concetto è simile, gli risposi. Povertà e privazione di solito significano la stessa, cosa. Tuttavia si deve trovare un altro termine affinché alla parte migliore non ne rimanga uno solo. Difatti mentre la parte di povertà e privazione abbonda di termini, da quest'altra si opporrebbe soltanto il termine di ricchezza. E sarebbe veramente assurdo che si dia privazione di termini nella parte che è contraria alla privazione". "Sono d'avviso, disse Licenzio, che la pienezza, se il termine è passabile, giustamente si oppone alla privazione".

... che consiste nella misura e nel limite.
4. 31. "Per quanto riguarda la terminologia, risposi, ci torneremo sopra in seguito con maggiore attenzione. Non è un aspetto che si debba curare eccessivamente nella ricerca in comune della verità. E sebbene Sallustio, attentissimo ponderatore di parole, contrappone alla privazione l'abbondanza (cf. Sallustio, Cat. 52, 22), accetto codesta pienezza. Neanche nella presente indagine saremo liberi dalla preoccupazione per i grammatici e non dobbiamo correre il rischio di essere puniti da loro per avere usato senza sufficiente esame dei termini che essi hanno posto a nostra disposizione". Sorrisero. "Dunque, continuai, poiché ho deciso, mentre siete intenti in Dio, di prendere in considerazione i vostri pensieri come se fossero oracoli, esaminiamo il significato del termine. Penso che sia più adattabile alla verità. Pienezza e privazione sono in opposizione. Ma anche in questa fattispecie, come nell'altra di immoderatezza e moderatezza, appaiono i due opposti di essere e non essere. E se la privazione è di per sé stoltezza, la pienezza sarà saggezza. Molti hanno giustamente insegnato che la moderatezza è madre di tutte le virtù. In accordo a loro anche Tullio in un discorso ha detto: Ciascuno la intenda come vuole; io ritengo la moderatezza, cioè la regola della misura e del limite, come la virtù più alta (Cicerone, Pro Deiot. 9, 26). Opinione assai ragionevole e conveniente perché ha tenuto in considerazione la produttività, cioè un qualche cosa di cui diciamo l'essere cui è contrario il non essere. Ma a causa dell'uso della parola nel popolo che di solito intende moderatezza come parsimonia, egli ha chiarito il proprio pensiero aggiungendo la regola della misura e del limite. Quindi esaminiamo attentamente questi due termini.

Quindi la saggezza è pienezza...
4. 32. Regola della misura (modestia) deriva da modus (misura) e regola del limite (temperantia) da temperies (limite). E dove si hanno misura e limite non c'è né il più né il meno. Dunque è di per sé la pienezza che abbiamo contrapposto a privazione molto più ragionevolmente che se le avessimo contrapposto abbondanza. Nell'abbondanza infatti sono implicite l'affluenza e quasi la produzione eccessiva di qualche cosa. E quando ciò si verifica al di là della sufficienza, manca la misura, poiché anche una cosa eccessiva è priva della misura. Quindi anche l'abbondanza non è altro dalla privazione poiché l'una e l'altra sono prive della giusta misura. Se poi si analizza il concetto di opulenza, si trova che rientra nella categoria della misura. Infatti opulenza deriva da ops (facoltà, potere). E il troppo non può conferire facoltà se spesso implica maggiore svantaggio del poco. Il poco e il troppo quindi, in quanto sono privi della misura, significano privazione. Ora la misura dell'anima è la saggezza. Infatti non si può negare che la saggezza è contraria alla stoltezza, che la stoltezza è privazione e che alla privazione è contraria la pienezza. Dunque la saggezza è pienezza e la pienezza consiste nella misura. Pertanto la misura per lo spirito consiste nella saggezza. Da qui il proverbio non immeritatamente celebre: È prima norma pratica del vivere: Non di troppo (Terenzio, Andria 61; cf. anche Plutarco, De tranq. an. 16, 474c.).

... e misura.
4. 33. Abbiamo detto al principio della nostra discussione d'oggi che se avessimo accertato la tesi dell'infelicità come privazione, avremmo dichiarato felice chi non soggiace a privazione. Ed è stato quindi dimostrato che esser felici è necessariamente non soggiacere a privazione, cioè esser sapiente. Ma forse voi chiedete che cosa sia la saggezza, poiché il pensiero umano, per quanto gli è possibile in questa vita, ha già tentato di analizzare e chiarire anche il suo significato. Non è altro che la misura dello spirito con cui esso raggiunge l'equilibrio in maniera da non effondersi nel troppo né restringersi al di sotto del limite della pienezza. Si effonde nella lussuria, nella volontà di dominio, nell'orgoglio e simili con cui lo spirito d'individui incapaci di moderazione e infelici crede d'accaparrarsi gioie e potenza. Si restringe nell'avarizia, nella pusillanimità, nella tristezza, nella cupidigia ed altri mali di varia specie, a causa dei quali anche gli infelici ammettono che gli uomini sono infelici. Quando invece lo spirito, raggiunta la saggezza, la fa oggetto della sua meditazione, e quando, per usare le parole di questo ragazzo, si tiene ad essa e non lasciandosi distogliere dalla vanità non si volge al culto dei falsi idoli, al cui peso abbracciato potrebbe cadere dal suo Dio e inabissarsi, allora non teme la mancanza di moderazione e quindi la privazione e l'infelicità. Pertanto chi è felice ha la misura di se stesso, la saggezza.

Dio, in quanto Verità, è l'ideale pienezza e misura...
4. 34. Ora dove la saggezza ha la sua ragione ideale se non nella sapienza di Dio? Sappiamo anche per magistero divino, che il Figlio di Dio è la stessa Sapienza di Dio e il Figlio di Dio è certamente Dio. Dunque chi è felice ha Dio. Sull'argomento si è avuto l'unanime nostro consenso all'inizio di questo banchetto. E voi siete d'avviso che la sapienza è la stessa verità. Anche questo è stato detto: Io sono la verità (Io 14, 6). Ma perché ci sia la verità si richiede la misura ideale da cui quella deriva e in cui realizzatasi ritorna. Alla misura ideale non è superiore altra misura. Se infatti la misura ideale è misura per la mediazione di una misura ideale, è misura per sé. Ma è fondamentale che la misura ideale sia vera misura. Come la verità diventa reale dalla misura, così la misura si conosce dalla verità. Né può avvenire dunque che si dia la verità senza la misura né la misura senza la verità. Chi è il Figlio di Dio? È stato già detto: Verità. E proprio la misura ideale non dovrebbe essere ingenerata? Chi dunque attraverso la verità raggiungerà la misura ideale è felice. Questo è possedere Dio nello spirito, cioè beatificarsi in Dio. Gli altri esseri, sebbene siano nel potere di Dio, non hanno in potere di raggiungerlo.

... di cui partecipando diveniamo felici.
4. 35. Un certo avvertimento, che opera in noi per farci ricordare di Dio, cercarlo e averne sete senza saziarci, ci proviene dalla stessa fonte della verità. Il sole intelligibile diffonde tale raggio sulla nostra vista interiore. Suo è il vero che pensiamo anche quando ci affanniamo a volgerci audacemente verso di lui e contemplarlo nella sua pienezza con occhi non ancora del tutto guariti o appena aperti. Ma ci si rivela soltanto che è Dio perfetto per assenza di mutazione del suo essere. Infatti in lui il tutto e la singola parte sono la stessa perfezione ed in atto è Dio totalità del possibile. Tuttavia finché cerchiamo, non ancora dissetati alla sorgente e, per usare il solito termine, alla pienezza, dobbiamo confessare che non abbiamo raggiunto la misura. Pertanto, nonostante l'aiuto di Dio, non siamo ancora saggi e beati. Questo è dunque il pieno appagamento dello spirito, questa è la felicità: conoscere con vivo sentimento religioso da chi l'uomo è indirizzato alla verità, da quale verità è beatificato e mediante quale principio si ricongiunge alla misura ideale. E questi tre principi sono il Dio unico ed unica sussistenza per coloro che sanno intendere dopo aver superato la falsità della multiforme superstizione pagana". A questo punto mia madre, avendo rievocato le parole che erano profondamente impresse nella sua memoria e risvegliandosi, per così dire, alla propria fede, profferì con gioia il versetto del nostro vescovo: O Trinità, proteggi coloro che t'invocano (Ambrogio, cit. da Deus Creator omnium; PL 32, 1473) e soggiunse: "La felicità consiste senza dubbio nel raggiungimento del fine e si deve aver fiducia che ad esso possiamo esser condotti da una ferma fede, da una viva speranza, da un'ardente carità".

Fine del banchetto e congedo.
4. 36. "E adesso, conclusi, la misura ci ammonisce d'interrompere per alcuni giorni anche il banchetto. Ringrazio, com'è possibile, il sommo e vero Dio Padre e Signore, liberatore delle anime e quindi voi che, cordialmente da me invitati, mi avete riempito di regali. Infatti avete contribuito alla nostra disputa in tal maniera che non posso negare di essere stato saziato dagli stessi miei invitati". Tutti erano soddisfatti e lodavano Dio. E Trigezio esclamò: "Come vorrei che tu ci nutrissi tutti i giorni in tal misura". Gli risposi: "Ma proprio la misura si deve osservare e rispettare in ogni cosa se vi sta a cuore il nostro ritorno a Dio". Posto fine alla disputa con queste parole, ce ne andammo.


PARTE TERZA (3)

Il diario - Beata Elisabetta Canori Mora

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70 – L’AIUTO DEL SANTO RIFORMATORE TRINITARIO


70.1. La via che conduce al santo monte


Il dì 5 febbraio 1823, la notte mi trattenevo in orazioni, nel qual tempo tornai a vedere il suddetto monte, il Signore invitava la povera anima mia ad intraprendere il viaggio, ma io mi ritrovavo molto combattuta, perché avrei voluto subito accettare l’invito, per compiacere il mio Dio, ma un santo timore arrestava il mio passo, mi confondevo ancora per non sapere come intraprendere un incognito viaggio, così malagevole e disastroso.

Ero per questo mesta e dolente, piena di lacrime mi rivolsi al mio Dio e così gli dissi: «A me non mi dà l’animo di salire questo altissimo monte, le mie forze sono troppo deboli».Così mi intesi rispondere: «Hai ragione: né con le tue forze, né con la sola grazia ordinaria potresti al certo salire questa altura; ma sappi però che io sono per comunicarti una particolare grazia, perché tu possa intraprendere questo beato cammino, vieni con me ed osserva la via che conduce al santo monte. Questa è una via occulta e nascosta, non è a tutti palese la maniera di salire questo monte, a me solo è riservata io solo posso condurci quelle anime che più mi piacciono, senza far torto ad alcuno, perché io sono padrone dei miei doni, non c’è anima che possa questa grazia meritare, per quanto si adoperi per amor mio. figlia, il dono è gratuito, rifletti bene, quanto mi devi ringraziare!».

A queste divine parole l’anima mia profondamente si umiliò e liquefacendosi di tenerezza, d’amore e di santo timore insieme, tutta in lacrime si disciolse, con tanto affetto e amore, che non ho termini di poterlo spiegare.

In questo tempo il mio Dio mi condusse nell’interno del monte, e mi fece vedere la strada che alla sommità di detto monte conduceva. Allora l’anima mia esclamò con vivo affetto: «Mio Dio, quanto mai siete grande nelle vostre operazioni! Oh quanto è grande la vostra infinita bontà! L’anima mia resta sorpresa fino al grado di timore; per l’eccesso della vostra infinita carità il mio intelletto vien meno, e affatto si perde nell’eccessivo vostro amore». Con queste ed altre simili espressioni andavo sfogando la fiamma della carità che ardeva nel mio cuore.

Per non tediare tanto vostra paternità reverendissima non sto qui a ridire quanto lungo fosse lo sfogo d’amore e gli umili sentimenti con cui l’anima si trattenne con il suo Dio, e la ripulsa che fece prima di intraprendere il suo viaggio al monte santo; solo dirò che si degnò di condiscendere agli umili desideri che mi venivano comunicati dalla sua santa grazia, desideri erano questi di non oscurare la gloria di Dio; riconoscendomi affatto indegna di calcare la strada di quel santo monte, così dicevo piangendo: «Ah mio Dio, mi riconosco troppo indegna di questo favore! Abbiate riguardo alla vostra gloria, non mi conducete in questo monte santo, perché io sono la creatura più vile, più indegna che abita la terra, sono la stessa abominazione. Mio Dio, prima degnatevi di purificarmi nel vostro prezioso sangue, perché non sia tanto disonorata da me la vostra santità».

Si compiacque di esaudire la mia povera preghiera, e mi promise di purificarmi prima di farmi intraprendere il detto cammino, come di fatti seguì.

Tre giorni si trattenne il mio spirito ai piedi del santo monte, preparandosi con ritiro, mortificazioni, orazioni e dolore dei propri peccati, con atti di profonda umiltà e con lacrime abbondantissime, che mi venivano comunicate dalla grazia del Signore, compartendomi una propria cognizione, che mi faceva conoscere la mia propria viltà e miseria, riconoscendomi indegna di tanto favore mi trattenni in questi tre giorni lodando e benedicendo Dio, il quale si degnò di ammaestrarmi nella pratica delle sode e vere virtù, segnatamente della carità verso Dio e verso il prossimo.

70.2. I fondatori trinitari mi condussero verso il monte santo


Il giorno 8 febbraio 1823, festa di san Giovanni de Matha, fondatore dell’ordine trinitario, il mio spirito, con l’aiuto del Signore, intraprese il suddetto viaggio.

Ecco il fatto come seguì: fino dal giorno 7, vigilia del detto santo, il mio spirito sperimentò in se stesso un grande raccoglimento, unito ad una profonda umiltà. La mattina dell’8, nella santa Comunione viepiù si accrebbero in me questi umili sentimenti, riconoscendomi affatto indegna di intraprendere il suddetto santo viaggio, a questo oggetto mi portai dal mio padre spirituale, e dopo aver fatto una dolente confessione dei miei peccati, piangendo gli dissi: «Padre, come ministro del Signore lei deve zelare l’onore di Dio, dunque non permetta all’anima mia di salire il monte santo, perché Dio resterà da me disonorato. Padre questa è una grande pena per me».

Il mio padre spirituale così mi rispose: «Io voglio che siate umile, ma non vile, dovete confidare in Dio, lui vi invita, voi dovete accettare l’invito, confidate in Dio e non abbiate paura, ché lui vi darà la grazia di corrispondere con fedeltà a quanto vuole da voi, vi dico che non solo ve lo consiglio, che intraprendiate questo santo viaggio, ma ve lo comando. Non voglio assolutamente che rinunciate ai favori di Dio. Andate, andate», mi disse, «che siete una sciocca! Qualunque grazia vi possa fare Dio non sarà mai tanto grande in paragone di quella che vi ha creata e redenta con il suo prezioso sangue».

Alle parole del mio padre, mi umiliai profondamente, conoscendo che diceva benissimo, che io sono una sciocca col ricusare i favori di Dio.

Persuasa di questa verità, chiesi perdono al mio Dio, feci la rinnovazione dei voti, come mi aveva imposto il mio padre, ed accettai l’invito.

Nel tempo che si celebrava la messa cantata, nella chiesa dei trinitari, ecco cosa seguì nel mio spirito. Mi parve di ritrovarmi ai piedi di detto monte santo, Dio per sua bontà mandò un raggio di luce sopra di me, tanto forte e potente, che non solo purificò il mio spirito, ma gli comunicò una chiarezza indicibile, che mi rese tanto bella che non si può immaginare, nonostante che mi vedessi così bella, in luogo di compiacermi, mi sprofondavo umilmente, confessando la mia viltà, rendevo onore e gloria al mio Dio che si era degnato di ammantarmi con il suo divino splendore; vedevo dunque il mio spirito così risplendente e bello, vestito dell’abito trinitario. Il mio spirito si era prostrato sul suolo con la fronte per terra, umiliandosi fino al profondo del suo nulla, ammirando solo l’infinita bontà di Dio, che si degnava comunicarmi la sua divina grazia.

In questo tempo mi parve di vedere uno stuolo immenso di padri trinitari già trapassati all’altra vita, queste sante anime di già gloriose in cielo, venivano a schiere a schiere, uniti a molti santi angeli, venivano a rallegrarsi con la povera anima, per l’ottenuto favore. Dio, per la sua infinita bontà, faceva pompa della sua carità usata verso di me, si compiaceva mostrarmi a tutti quei beati cittadini del cielo. Oh come veniva glorificato Dio da tutti quei beati comprensori! oh come tutti si rallegravano con la sua infinita bontà!

Dio allora manifestò a tutti quei cittadini celesti l’opera che era per fare con questa sua creatura, manifestò ancora per qual fine tanto mi benefica. Così disse Dio: «Oggi sia manifesto in cielo. Verrà il giorno che sarà manifesto agli uomini: tutti dovranno confessare che questa è opera mia!». Tutto questo fu detto con voce sonante e sonora.

In questo tempo il mio spirito se ne stava, per umiltà e per il timore, annientato in se stesso, con la fronte sul suolo, per il grande timore, nonostante che il mio spirito fosse tutto raggiante di luce; si approssimarono i santi fondatori trinitari e mi sollevarono da terra, mi fecero fare tre profondissimi inchini ad onore della santissima Trinità, condussero l’anima mia per la strada del monte santo, assicurandomi di proteggermi e di guidarmi, dandomi la loro santa benedizione da me si partirono, lasciando nel mio cuore un indicibile contento. Piena di coraggio, sperando nella loro valevole intercessione, così l’anima mia diede principio a questo santo viaggio del monte santo, dove al presente si trova; a suo luogo dirò quanto mi andrà seguendo.

70.3. Accetta con umiltà la sua grazia


Il dì 14 febbraio 1823, festa del beato Giovanni Battista, riformatore dell’ordine trinitario, la mattina nella santa Comunione si sopì il mio spirito in Dio in modo molto particolare, restai astratta dai sensi, il Signore mi comunicò un lume molto particolare di propria cognizione; in questa umile situazione mi portai a San Carlo alle Quattro Fontane per ivi assistere alla Messa cantata, mi prostrai in ginocchioni, e così immobile restai per due ore circa, senza più distinguere la mia sensibilità; questo tempo lo passai in umili preghiere e abbondanti lacrime, che dagli occhi versavo in gran copia raccomandandomi al santo riformatore ad ottenermi la remissione dei miei gravissimi peccati, e la grazia di salvare questa povera anima mia. Lo pregavo ancora incessantemente a farmi conoscere se io andavo ingannata dallo spirito delle tenebre; sfogavo ancora, con questo benedetto santo, i miei sentimenti, le mie afflizioni, il mio aggravio nell’avere acconsentito al surriferito favore di Dio, così gli dicevo: «Come volete, santo mio benedetto, che io possa di buona voglia acconsentire di essere trinitaria, se sono la creatura più vile che abita la terra, come? io che sono una stracciona, un’ignorante, come potrò sostenere un simile incarico? Ah, santo mio benedetto, pensateci voi di pregare l’Altissimo, acciò si degni assentarmi da questo forte incarico, mio Dio, io rinunzio a questa grazia, a questo favore».

Piangevo intanto dirottamente: «Mio amorosissimo Dio, rinunzio, sì rinunzio a questo vostro favore, per non disonorare la vostra divina maestà! Mio Dio, voi pure lo sapete che io sono una povera spergiura, santo mio benedetto pensateci voi, che non venga da me disonorato Dio, che tanto cara mi è la sua gloria, il suo onore. Ah, non sia mai vero che per innalzare un verme vilissimo della terra, quale io sono, abbia da oscurarsi la gloria di un Dio di infinita maestà! Santo mio glorioso, zelate voi l’onore di Dio».

Speravo che le mie ragioni avessero convinto il santo zelo del beato Giovanni, mi pareva che i miei sentimenti fossero giusti e prudenti, e che il santo avrebbe preso a difendere l’onore di Dio con l’escludere a me da questo incarico ma fu tutto al contrario di quello che pensavo. Così mi rispose il santo, non facendosi però da me vedere: «Figlia mia», mi disse, «non ti negare ai favori dell’altissimo Dio, adora i suoi divini giudizi, accetta con umiltà la sua grazia».

A queste parole del santo, intesi tutta commuovermi, conoscendo il suo giusto parlare, e la mia stoltezza nel rifiutare le divine misericordie.

Ravveduta, dunque, volevo accettare di buon grado, ma non potevo, perché un forte timore me lo impediva, perché ponevo lo sguardo sopra la mia viltà, non mi reggeva il cuore di attendere a questa grande opera; tornai nuovamente a dire al santo: «Ah, che io mi trovo insufficiente, sono affatto incapace di regolare un’opera sì grande; voi, santo glorioso, sapete quanta fatica vi è costata, quanto avete patito e sofferto».

«Sì», mi rispose il santo: «è vero, mi costò grande fatica, ma tu non devi tanto faticare! altro non devi fare che venire appresso alle mie norme, questo ti basta per compiacere la divina maestà. Mira», mi disse, «o figlia, quanto facile ti sarà il regolare questa opera! Dio con la sua grazia ti faciliterà l’impresa».

Allora mi fece vedere una macchina quanto mai bella, stabile, ma nello stesso tempo movibile, ma io non la so descrivere. Dopo avermi fatto vedere questa bella macchina, soggiunse: «Ti pare adesso tanto ardua l’impresa, tu altro non devi fare che stare al registro di essa. Non temere, che Dio medesimo è l’autore e il regolatore di questa grande opera».

A questa vista restai altamente confusa e convinta, perché conobbi ad evidenza la mia ingratitudine di non voler fare tanto poco per compiacere il mio Dio, gli chiesi per questo umilmente perdono, poi tornai a pregare il santo così: «Mio carissimo padre, deh, per pietà, non mi abbandonate come meriterei, deh vi prego di proteggermi, vi dono la mia volontà, voi presentatela al mio Dio, acciò disponga di me come più gli aggrada».

Rivolta poi a Dio dissi: «Deh, mio amorosissimo Signore, degnatevi di ricevere la mia volontà per le mani di questo vostro fedelissimo servo, io ve la dono, ve la consacro, io ve la offro interamente, fate di me ciò che vi aggrada».

Fatta questa offerta Dio mi fece provare una consolazione di spirito tanto grande, che non lo posso spiegare, un abbandono totale della mia volontà nella divina volontà di Dio, tanto perfetta che può chiamarsi un’intima unione.

Dopo aver goduto questo grande bene, il mio Dio si degnò darmi a vedere il suo fedelissimo servo, il beato Giovanni Battista della santissima Concezione; cosa mai dirò della sua bellezza, della sua gloria? al certo non mi è possibile il poterlo manifestare; ma pure dirò qualche cosa, per non mancare alla santa obbedienza.

Io lo vedevo in atto estatico, tutto assorto in Dio, con tre raggi di splendida luce sopra il suo capo, che lo rendeva tanto bello, che non si poteva mirare il suo volto, per lo splendore.

Dalla croce del suo scapolare scintillava tanto splendore, che non si poteva fissare in lui lo sguardo, questa vista destò in me molta stima e venerazione, ed insieme un indicibile contento, che non posso esprimere, ma questo contento era unito ad un profondo di umiltà, che mi annientava in me stessa e mi faceva solo ammirare l’infinita bontà di Dio.

In questo tempo vidi apparire il glorioso stendardo trinitario, con grande numero di anime dei santi religiosi che militano sotto questo glorioso stendardo, accompagnati da molti santi angeli, che festosi facevano coro cantando inni di gloria all’Altissimo, con somma gioia fu annoverata la povera anima sotto questo glorioso stendardo della santissima.

70.4. Dio solo sa quanto mi costano questi scritti


Per ordine del mio padre spirituale riporto le gravi molestie che ho dovuto soffrire dal nemico tentatore, che voleva a tutto suo costo impedire che io scrivessi quanto passa nel mio spirito nel tempo delle orazioni, con le sue diaboliche suggestioni mi ha sempre perseguitata, acciò non scrivessi; solo Dio sa quanto mi costano questi scritti, quante fatiche e pene ho dovuto soffrire dalla diabolica suggestione, che si trova sempre pronta, quando scrivo per confondermi e farmi credere che quello che passa nel mio spirito nel tempo delle orazioni altro non è che un gioco della mia fantasia alterata, che mi fa vedere tutte quelle rappresentanze fantastiche.

La suggestione mi dice: «Non curare, né raccontare al confessore quello che ti salta per il capo nel tempo dell’orazione, disprezza tutte queste cose, se no andrai ad intisichire, vedi quanto aggravio ti porta il vivere così tediata e concentrata, sciocca che sei, potresti fare una vita allegra e contenta senza tanti pensieri; lascia lo scrivere, non far caso a quanto segue nel tuo spirito, allora potrai divertirti e stare allegra, non dare ascolto al confessore che non sei obbligata di obbedirlo quando ti comanda imprudentemente».

Non solo queste, ma tante altre cose mi suggeriva per persuadermi di lasciare affatto la vita interiore, era tanto forte la tentazione che mi dava gravissima angustia e molte volte sono stata sul punto di stracciare i miei scritti in minutissimi pezzi.

Il nemico mi voleva persuadere dicendomi che andavo formando il mio processo, che questi scritti sarebbero stati l’eterna mia condanna, a queste forti suggestioni io sentivo una pena grandissima, perché mi si ottenebrava la mente e non potevo discernere il vero dal falso, tanto più che mi diceva la verità. «Non vedi», diceva, «che sei una sciocca senza senno, non sei capace al certo di penetrare tanto alto, sei una miserabile, sei un’indegna, in te altro non c’è che sogni e vaniloqui».

Queste ragioni mi pareva che mi quadrassero, perché è vero, verissimo che io sono una scellerata, una sciocca, una insensata, perché ho offeso tante volte gravemente il mio Dio tanto buono; a questo riflesso mi mettevo a piangere e facevo forte ricorso al mio Signore Gesù Cristo, il quale, per sua infinita bontà, immantinente mi dava soccorso con l’illustrare la mia mente; così conoscevo il vero dal falso spirito, che mi voleva subornare con le sue menzogne, così tornava la calma al mio cuore e godevo una pace di paradiso, e una semplicità molto particolare mi campartiva Dio, allora raccontavo tutto al mio Dio quanto mi era seguito come se Dio niente ne sapesse di quanto avevo io patito e questo lo facevo con tanta puerilità, tutta propria dei fanciulli, quando raccontano ai loro genitori le loro angustie, così si convertiva la mia luttuosa scena, in un paradiso di contento, e potevo scrivere tranquillamente per molti giorni, ma poi si tornava da capo a combattere con la medesima suggestione e prosegue a molestarmi tuttora quando scrivo i noti fogli.

Ma non tutte le volte mi era permesso né potevo fare questo ricorso al mio Dio, perché permetteva il Signore che la diabolica suggestione mi inviluppasse di più la mente, e così dovevo patire e soffrire pene molto grandi, perfino a sospendermi le potenze dell’anima; in mezzo alla confusione delle suggestioni, che io non capivo più, tenevo le carte avanti ma non potevo fare neppure una parola, sentivo uno stringimento interno che mi pareva di morire, non ricordarmi più le lettere che compongono le parole, scrivevo una lettera per un’altra, scrivevo affatto fuori di senso.

Nel vedere questi cattivi effetti, ero ancora tentata di impazienza contro me stessa e contro ancora il mio direttore, per avermi imposto questa obbedienza, per quanto mai io possa dire, mai dirò quanto mi costino questi scritti, torno a dire che solo Dio lo sa, che mi ha dato la forza, la grazia di superare questi forti ostacoli.

Per ordine del mio padre spirituale prendo a raccontare un’altra sevizia sofferta dalla diabolica suggestione.

Nell’anno 1823, in cui ci troviamo, per la grazia di Dio, nel mese di febbraio, giorno 17, la sera stavo nel mio oratorio trascrivendo dal giornale vari fatti accadutimi negli scorsi mesi di ottobre, novembre e dicembre, per darne il dovuto discarico al mio padre spirituale. In questo tempo mi assalì improvvisamente la suggestione diabolica, che provò a fare crudo scempio di me, cosa non disse, cosa non fece per sovvertirmi, poco mancò che io non facessi in minutissimi pezzi i miei scritti, tanto fu la diabolica oppressione e l’angustia che mi dava, dicendomi: «Strappa quei fogli, che queste non sono cose da darsi alla luce, è un grande sciocco quell’uomo del tuo confessore, che ti fa scrivere queste baggianate, tu sei una pazza e non ti avvedi che dici cose che sono affatto non solo credibili, ma del tutto impossibili; queste sono cose tutte da riprovarsi e non da approvarsi. Non ti fidare, ché il tuo confessore ti inganna, bella figura fai tu di sollevarti tanto alto! non vedi che sei una miserabile, che sei piena di miserie e peccati?».

A queste verità io viepiù mi inviluppavo, perché conoscevo essere questa verità, che sono la creatura più miserabile, più peccatrice che abita la terra.

In questo caso così funesto mi rivolsi al mio Dio, piangendo dirottamente, confessando questa verità che sono una miserabile, una peccatrice. Mi posi in ginocchioni, con la fronte per terra, ed in questa positura mi trattenni più di mezz’ora, invocando il nome santissimo di Gesù, facendo fervide preghiere, ottenni la liberazione di questa diabolica molestia, ad un tratto tornò la calma al mio cuore, così potei tornare a scrivere con somma pace e tranquillità, godendo una quiete di paradiso.

71 – TI INVITO A MORIRE IN CROCE


71.1. Doloroso viaggio al Getsemani e al Calvario


Il dì 10 febbraio 1823, la sera del giovedì, circa le ore due di notte italiane, stavo nel mio oratorio, quando improvvisamente si concentrò il mio spirito, per attendere ad una intima chiamata del suo Signore; non sapendo cosa dovevo fare, stavo tutta raccolta e concentrata, aspettando l’ordine del mio Signore. Ecco che tutto ad un tratto sono condotta da mano invisibile all’Orto di Getsemani, e quivi sono invitata a patire, a soffrire le ambasce già sofferte dal nostro divino Redentore; ecco che fui assalita da gravissimo affanno e da pene intensissime, la desolazione, la mestizia, il timore, mi facevano agonizzare l’anima; mi trattenni in questo doloroso conflitto buone tre ore, che credevo veramente di finire la vita, per gli interni ed esterni patimenti, un gelido sudore bagnava tutto il mio corpo, uno svenimento interno mi privava di forze, la desolazione, la tristezza interna mi rendeva incapace di ogni umana sensazione; in questo stato, alla meglio che potei, mi coricai nel letto, per dare alquanto riposo alle mie afflitte membra, ma quando credevo di aver terminato il patire, e pensavo di dare qualche conforto all’afflitto mio spirito, fui nuovamente invitata a fare il viaggio afflittivissimo del monte Calvario.

L’anima mia, nonostante che si possa dire semiviva per le pene sofferte nel Getsemani, non ricusò l’invito, ma piena di coraggio, affidata al divino aiuto e agli infiniti meriti di Gesù Cristo, intraprese il doloroso viaggio.

Cosa mai patì, io non so dirlo! perché fu tanto grande e grave l’acerbità delle pene che soffersi, interne ed esterne, che restarono preoccupate le potenze dell’anima e i sentimenti del corpo; in mezzo a tante ambasce, che posso dire di essere stata immersa in un mare amarissimo di affanni e di pene, che io medesima che le soffrivo non le comprendevo, perché superavano la mia ragione, il mio intendimento, le mie forze; io debbo confessare, a mia confusione, che se non perdetti la vita in questo dolorosissimo conflitto, si deve attribuire alla particolare grazia di Dio, che si degnò sovvenire l’anima e il corpo. Io non so dire se terminato il doloroso viaggio l’anima fosse ancora crocifissa, perché l’intenso dolore del viaggio mi privò affatto di ogni altra cognizione.

Il fatto si è che, per lo strazio sofferto, interno ed esterno, mi si agitarono tutti gli umori del corpo, e mi venne una febbre tanto gagliarda e forte, che mi durò tre giorni continui, e dovetti guardare il letto, sentendomi molto male; questo fu sabato, domenica e lunedì.

71.2. Desidero diventare santa


Il martedì notte, 15 febbraio 1823, il Signore si degnò confortare il mio spirito e guarire il mio corpo con la sua divina presenza, stando tutta la notte in mia compagnia, mentalmente trattenendosi con il mio spirito in santi ragionamenti, comunicandogli particolari illustrazioni, mi fece sperimentare gli affetti più vivi del suo santo amore; oh come l’anima mia apprendeva le celesti dottrine che le insegnava il suo divino maestro! oh come si struggeva di santo e puro amore, disfacendosi in lacrime tenerissime di santi affetti, oh come si umiliava profondamente, desiderando di possedere tutte le sante virtù, per piacere al suo divino maestro! oh come desiderava di imitare i suoi esempi! oh quanto desiderava di diventare perfetta e santa, a sua maggior gloria!

Oh notte santa! oh notte benedetta, che si degnò Dio di tanto favorire l’anima mia! oh notte degna che un’altra simil notte forse per me non tornerà più, perché sono tanto scellerata, tanto peccatrice, che sono indegna di simili favori di Dio, perché non mi so approfittare delle sue divine misericordie, ma sempre ingrata qual tigre ircana ai benefici del mio Signore.

Ah, mio amorosissimo Dio, quando sarà che io termini di essere tanto ingrata con voi, che siete con me lo stesso amore, la stessa bontà? ah, mio buon Dio, io sono risoluta di corrispondervi con fedeltà, fino all’ultimo respiro della mia vita, vi supplico, con il più vivo sentimento del cuore, a concedermi la grazia della corrispondenza e della perseveranza.

La mia malattia, che compariva molto seria sul principio, in un istante cessò; perché, come già dissi, il Signore, per sua bontà, mi guarì in un istante, e così potei lasciare di guardare il letto, avendo riacquistato le primiere forze.

Non lasciò Dio, per sua bontà, di consolare la povera anima mia, che si trovava in una penosa desolazione di spirito, ma di tratto in tratto la favoriva con certe locuzioni interne, e così si faceva sentire dalla desolata anima mia, la quale esultava, in mezzo a quelle folte tenebre, al suono della sua divina voce; oh come in un momento passava dalla desolazione alla consolazione, e in un momento passava dalle tenebre alla luce, e dall’aridità passava ad una gioconda soavità; i miei occhi inorriditi ed asciutti in un momento erano arricchiti di abbondantissime lacrime, uniti ai sentimenti più eccellenti delle sode e vere virtù.

Ma tutto questo bene, o Dio, a mia confusione lo dico, non erano in me permanenti, ma solo duravano tanto quanto Dio si degnava trattenersi con me, appena Dio si ritirava la povera anima tornava nella sua amarissima desolazione, soffrendo pene non meno che mortali, che mi facevano agonizzare.

71.3. Buona a niente


In questa penosa situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di 24 giorni, cioè dal dì 25 febbraio 1823 fino al 19 di marzo del detto anno.

Riporto varie locuzioni interne, con le quali Dio consolava in questo tempo di desolazione il mio spirito, come mi istruiva e riprendeva nei miei difetti e mancanze.

Locuzioni interne o siano colloqui tenuti fra Gesù e l’anima nel mese di marzo 1823.

L’anima, conoscendo la sua viltà e miseria, si lamenta con il suo Dio, perché così imperfetta l’abbia condotta al monte santo, il quale è abitato da sante anime perfette, che possiedono tutto il cumulo delle sante virtù.

L’anima parla con se stessa e dice: «Come io, miserabile peccatrice, potrò salire questo santo monte, carica di miserie e peccati, se gli abitatori di questo santo luogo sono giusti e perfetti?».

Da questi umili sentimenti sopraffatta, l’anima fa un dolce ed amoroso rimprovero al suo amante Signore per averla condotta a questo santo monte, l’anima parla con Dio: «Mio Dio, il vostro infinito amore mi ha condotto in questo santo monte di altissima perfezione, gli abitatori di questo sono anime a voi carissime, come dunque volete voi che io, che sono tanto vile e peccatrice, possa abitare questo santo luogo? Io, Gesù mio, ve lo dicevo, non mi ci conducete, che ci farete una triste figura! I santi abitatori di questo luogo reclameranno alla vostra divina giustizia, e con ragione diranno: «Non vogliamo fra noi questo cane morto, che il suo puzzo ci nausea». Mio Dio, hanno ragione queste anime giuste di lamentarsi, io ve lo dicevo che il troppo amore che mi portate vi avrebbe fatto essere redarguito dai vostri servi fedeli, Gesù mio, voi mi ci avete spinta, voi mi avete obbligata di intraprendere questo cammino, io non volevo accettare l’invito, voi mi faceste intendere che il vostro amore sarebbe restato offeso e disgustato se io non obbedivo, dunque, per non disgustarvi, io prontamente obbedii ed accettai l’invito, sperando certo nella infinita bontà. Il vostro divino aiuto, e mediante la vostra santa grazia, che debbo confessare di provarne i buoni effetti, sentendo la mia volontà piena di santi desideri, disposta a patire grandi cose per potervi piacere; ma, Gesù mio, quanto mi confondo, perché mi vedo che non sono buona a niente, mi vedo senza virtù, e come dunque io potrò piacere a voi, che siete la stessa santità? Ah Gesù mio, ditemi voi cosa devo fare per potervi piacere, datemi voi tutte le sante virtù, così mi vedrete contenta, vedete in che stato di afflizione si trova il mio povero cuore per vedersi così povero, vedete quanto piango. Deh per pietà, muovetevi a compassione di me, Gesù mio, a voi mi raccomando per la vostra passione e morte, consolatemi per carità.

Gesù si degna rispondere all’anima: «Figlia, non ti affliggere, ma consolati, che ne hai giusta ragione, la mia grazia ti dà a conoscere la perfezione; vorresti praticarla, ma le forze ti mancano e per questo tanto ti angusti; figlia, confida in me, e non temere! Io non pretendo già dai miei servi quello che non possono fare, senza la mia particolare grazia, tu vorresti arrivare a tenere il tuo sguardo fisso in me, a non pensare che a me, a non parlare che di me».

L’anima risponde: «Ah, mio Signore, questo è quello che desidero, di fissare il mio sguardo in voi per mai più ritirarlo».

Gesù risponde all’anima: «Figlia, questo non è permesso alle anime viatrici, ma solo ai comprensori beati».

L’anima risponde: «Dunque fino che vivo su questa terra, io non potrò fissare il mio sguardo in voi, mio amorosissimo Dio, e se non lo posso ottenere, come dunque questo desiderio io lo sento tanto vivo in me, che per arrivare ad ottenere questa grazia, mio Dio, sarei pronta a fare qualunque sacrificio; ah Gesù mio, quanto sarei felice, ma voi mi dite che questo non è permesso alle anime viatrici, dunque questo che io vi chiedo non è giusto e forse non piace a voi. Gesù mio, ditemi come devo fare, questo desiderio è tanto forte che non posso fare a meno di non abbracciarlo con tutto il sentimento del cuore, degnatevi dunque dirmi Gesù mio cosa devo fare per piacervi e come posso rimediare a questi ingiusti miei desideri».

Gesù risponde all’anima: «Figlia, questi desideri nascono da quelle illustrazioni interne che io ti comparto, la cognizione che io ti dono del mio infinito essere ti fa conoscere il grande bene che sia di possedermi, tanto maggiore sarà la cognizione che acquisterai per mezzo della mia divina grazia, tanto più si accrescerà in te il desiderio di possedermi; figlia, non chiamare ingiusti questi santi desideri, perché sono originati dalla mia grazia, coltivali e non li disprezzare, umilmente ricevili e rendi a me le dovute grazie; sappi che questi sono favori molto speciali che non a tutte le anime io li comparto: se non puoi arrivare a tenere lo sguardo fisso in me, come io per compiacenza lo tengo fisso in te, non ti meravigliare di questo, perché io sono immenso e tu sei creatura limitata di fragil corpo rivestita; figlia, non puoi passare tanto oltre; ma, quando godrai la visione beatifica, ti sarà tolto ogni ostacolo, e allora potrai fissarmi per tutta l’eternità, desidero martirizzi il tuo cuore e il mio amore ti insegni a patire. Deh mirami, o figlia, sopra di una croce, come fui trafitto e schernito, io meco ti invito in croce a morire».

L’anima risponde: «Gesù mio, le vostre parole di vita eterna riempiono il mio cuore di dolcezza e di soavità, sebbene voi non mi parlate che di croce e di pene; ma convinta da queste infallibili verità, sento, per mezzo della vostra santa grazia, tutta la buona disposizione al patire, e adesso conosco che questa è la vera ricchezza dell’anima; sì, mio Dio, datemi da patire quanto vi piace, ma ricordatevi però che sono una povera miserabile, una povera peccatrice; Gesù mio, aiutatemi voi, per carità, deh non mi abbandonate in mezzo ai patimenti, aiutatemi con la vostra santa grazia che sono certa di tutto vincere e superare».

Gesù risponde all’anima: «Abbandona te stessa e troverai me; sta senza elezione e senza alcuna proprietà, se mi vuoi piacere, rasségnati umilmente alla mia volontà, tanto nelle piccole tribolazioni quanto nelle grandi, non eccettuo niente, ma voglio che ti spogli di ogni cosa, altrimenti come potrai esser mia ed io tuo, se tu non sarai spogliata di dentro e di fuori di ogni propria volontà? quanto più presto ciò farai, tanto più mi piacerai e molto più guadagnerai».

L’anima risponde: «Ah mio sapientissimo Signore, che celeste scuola è mai questa che voi mi insegnate, la quale mi rende tanto persuasa, che non posso fare a meno di apprendere quanto voi mi dite, e con piena volontà fare di me un totale sacrificio di tutta me stessa; sì, voglio spogliarmi, per amor vostro, di dentro e di fuori, come mi dite, per potervi davvero piacere. Ma cosa dico, stolta che sono! Gesù mio, io non lo so fare questo spoglio che voi volete da me, vi prego dunque che voi lo facciate in me come vi piace, come vi aggrada, io vi consegno la mia volontà, la mia libertà e quanto sono, per la vostra carità, che mi ha donato l’essere e l’esistenza che tuttora godo; dunque, Gesù mio, sono tutta, tutta vostra, fate di me quello che vi piace: Domine, quid de me vis facere, fiat voluntas tua».

Con queste ed altre simili parole terminò il santo colloquio.

72 – CONGIUNTA CON L’ETERNO BENE


72.1. Il cammino fatto in poco tempo


Riporto quanto mi seguì nello spirito il dì 19 marzo 1823, festa del glorioso patriarca san Giuseppe, dopo la santa Comunione era il mio cuore pieno di tristezza e timore, era tutto intento il mio spirito a considerare la propria sua miseria, la propria sua viltà, era tutto annientato in se stesso, si umiliava profondamente dinanzi al suo Dio, spargendo lacrime di compassione, si presentava al suo Signore, mostrandogli la propria viltà e miseria, quando Dio, per sua bontà, sollevò l’anima mia da questo grande inviluppo in cui giaceva, e le tornò a mostrare quel monte, e le diede a vedere quanto cammino ella aveva fatto in poco tempo, per mezzo della sua santa grazia.

L’anima stupì nel vedere che tanto aveva camminato, perché mi credeva di non avere ancora dato un passo, vidi dunque l’anima mia che aveva di già scorso l’aspra strada del monte e si era inoltrata in quella altura, avendo già fatto molte miglia di quella strada, vedeva di aver fatta la più malagevole, nel vedere che in tanto poco tempo aveva fatto un sì lungo e disastroso viaggio. Mi rallegravo nel Signore e prendevo un poco di coraggio e ne rendevo i più umili ringraziamenti al Signore, ma restavo attonita e confusa, perché conoscevo di non aver fatto niente per amore di Dio, anzi dovevo confessare di essermi portata malissimo e di aver commesso delle mancanze e difetti, di essere stata ingratissima a Dio: piangevo dunque la mia ingratitudine e la mia stoltezza e ne domandavo umilmente perdono al mio buon Dio, il quale prese a consolarmi con dolci ed amorose parole e per assicurarmi che l’anima mia godeva la sua particolar grazia; me la diede a vedere sotto l’immagine di leggiadra donzella, tutta vestita di candidissime e risplendentissime vesti, sopra le quali portava un adornamento di colore rosso, ma tanto bello che io ne restavo ammirata e piena di stupore nel vedere adornamento sì bello e maestoso, vedevo poi che Dio prendeva per sua bontà tanta compiacenza in questo puro spirito, così riccamente adornato della sua divina grazia, che l’univa a sé in un modo molto particolare e santo. L’anima intanto godeva in se stessa un bene così puro e perfetto, che in quei felici momenti mi pareva di godere l’eterna beatitudine, tanto l’anima mia era stretta, unita e congiunta con l’eterno suo bene Dio. Questo distinto favore mi tenne assorta in Dio per lo spazio di tre giorni, che poco e niente capivo le cose sensibili, nelle orazioni e nella santa Comunione restava il mio spirito tanto unito e stretto con il suo Dio, che l’anima mia non distingueva più di abitare in questo mondo sensibile; ero sopraffatta da un profondo e dolce riposo che mi faceva dimenticare le cose tutte della terra.

72.2. Nell’interno del monte


Passati i detti tre giorni, cioè dal dì 19 al 22 marzo 1823, in questa situazione.

Il dì 23 detto, domenica delle palme, nella santa Comunione l’anima fu invitata dal Signore a camminare una strada interna del riferito monte, sicché l’anima per qualche spazio di tempo non camminò al di fuori del monte, ma dentro, all’interno del detto monte. Alla meglio che posso mi spiegherò: questo monte non è di terra pieno, ma è nell’interno vuoto, e vi è la sua strada, ma ardua e scoscesa, che senza un aiuto speciale di Dio non si può al certo salire; questo monte è di pietra durissima, la strada interna è molto recondita ed occulta, solo a Dio è palese, ed è padrone di condurci quelle anime che a lui piace, per pura sua bontà, senza cercare il merito proprio delle anime, per essere questo dono gratuito della sua infinita liberalità, perché se non fosse così, l’anima mia peccatrice non potrebbe al certo trovarsi in questo santo monte; sicché, con ogni verità, possiamo dire che questo è un grande prodigio dell’infinita bontà di Dio, ed a lui si deve tutto l’onore e la gloria, e a me si deve la più profonda umiliazione per la mia cattiva corrispondenza.

Riprendo il filo del racconto, come il mio Dio mi condusse nell’interna strada del monte, mi apparve Dio per mezzo di una splendida luce e così mi parlò: «Mia dilettissima figlia, ti sei riposata per tre giorni, adesso conviene che riprendi il cammino».

Intanto per mezzo di quella luce fui introdotta nell’interno del monte; io restai molto sorpresa, non sapendo che questo monte avesse la strada interna, non poco mi contristai nel vedere la strada tanto stretta ed angusta ed insieme ripidissima, che mi sembrava veramente impossibile il poterla salire, ma il mio Dio mi fece coraggio, promettendomi la sua particolare assistenza; affidata alle sue promesse, intraprese l’anima il suo cammino. Fino a tanto che il Signore si degnò, per mezzo di quella luce, trattenersi con me, non mi avvidi dei disastri della strada ma quando da me si partì, oh Dio, in quali angustie io mi trovai, solo Dio lo sa; il trattenersi con me non fu che per poche ore, mi lasciò che non sapevo ancora camminare, mi lasciò sola e negletta; al buio di quella oscurità, non sapevo dove mettere il piede, ogni momento mi pareva di precipitare, pregavo, piangevo, mi raccomandavo, ma tutto invano, perché il mio Dio non mi ascoltava, anzi viepiù si addensavano in me le folte tenebre, e la desolazione cresceva a dismisura, ah Gesù mio, Dio mio», dicevo, riposare nel suo castissimo e purissimo seno, così la povera anima mia passò ad un tratto dalle tenebre alla luce, dalla fatica ad un dolce riposo di soavità ripieno; questo riposo fu in me permanente tutte e tre le feste della santa Pasqua, i buoni effetti restarono in me fino all’ottava di Pasqua, domenica in Albis, che fu il di 6 aprile 1823. Passati i suddetti 8 giorni, dovette l’anima proseguire il suo cammino il quale intraprese con molta agilità e celerità per avere riposato nei suddetti giorni.

72.3. L’immagine del mio spirito


Il mio Dio per sua bontà mi fece vedere l’anima mia con che agilità camminasse, per mezzo della sua divina grazia, i dirupi, le balze di quella disastrosa e montuosa strada, vidi dunque il mio spirito sotto forma di leggiadra donzella, il suo portamento era umile, savio e modesto, portava la sua croce in spalla, con molta attenzione camminava ed affrettava il suo passo, per compiacere l’amato suo bene, che la stava mirando per mezzo di un piccolo finestrino, che stava nell’altura del detto monte.

Era il piccolo finestrino di tersissimo cristallo, da dove Dio tramandava un raggio della sua divina luce, così veniva ad illustrare la mia mente di santi pensieri, di santi desideri, che riempivano il mio cuore di santo amore e di santo fervore, e così poteva con agilità camminare la povera anima mia e portare la sua croce in spalla, senza sentirne il peso, la portava tanto bene equilibrata, che faceva piacere il vederla scorta da quella divina luce che la rendeva tanto bella che pareva un angelo e non un’anima peccatrice come sono io.

In realtà questa vista destò in me molta afflizione, umiliazione e pianto, perché non trovavo in me quel bene che scorgevo in quello spirito.

Dicevo fra me stessa: «Io sono una grande superba e in questo spirito che mi si dimostra io altro non vedo che umiltà, purità e pazienza, in una parola vedo in questo delineate tutte le sante virtù. Mio Dio», dicevo, «illuminatemi acciò io non vada ingannata», piangevo, mi raccomandavo incessantemente: «Ah mio Dio», dicevo, «io non capisco come va questa cosa, vedo in questo spirito che voi mi fate vedere, che possiede tante belle virtù e mi dite essere questo l’immagine del mio spirito, ma io non trovo in me quel bene che scorgo in esso, anzi trovo tutto l’opposto, io non trovo in me che miserie e peccati».

Così piangevo e sospiravo. Riferii tutto il fatto con molte lacrime al mio padre spirituale, e lo pregai di dirmi se andavo ingannata, per vedermi nelle sante orazioni di raccoglimento tanto dissimile da quella che sono in realtà.

Il mio padre mi rispose così: «State quieta, non vi affliggete, perché, grazie al Signore, non c’è inganno, quello spirito, che voi vedete tanto bello e virtuoso, vuol significare quello che voi siete mediante la grazia di Dio e gli infiniti meriti di Gesù Cristo. Quello poi che voi conoscete in voi stessa è un’altra grazia molto particolare di Dio, che vi fa conoscere che per voi stessa non siete altro che miseria e peccati, per questo è molto ragionevole che vi umiliate profondamente e ringraziate infinitamente il Signore, che vi fa conoscere la vostra miseria».

Queste parole furono bastanti a potermi del tutto quietare conoscendo questa verità chiaramente: che io sono una grande miserabile peccatrice; il sentimento del mio padre spirituale tanto mi persuase che lasciai di piangere, dimessi ogni dubbio di essere ingannata, tanta è la fiducia che il Signore mi dà in questo suo ministro che al suono della sua voce la povera anima mia si quieta e resta del tutto persuasa e tranquilla, non solo adesso che sono sedici anni che dirige il mio spirito, ma fino dal bel principio che si degnò ricevermi per sua figlia spirituale; le sue parole sono state sempre per me così efficaci, che in tutti i casi di interni travagli che ho sofferto, mi ha sempre tranquillizzata e sono sempre tranquilla e contenta.

Tre giorni durò questa vista, tutte le volte che si raccoglieva nelle sante orazioni il mio spirito, io, ricordevole di quanto detto mi aveva il mio padre, mi umiliavo profondamente e dicevo al mio Dio: «Quanto mai siete buono, che ad una creatura tanto miserabile come sono io, voi fate tanto bene! Vedo questo mio spirito tanto bello, conosco bene che questo è l’amore che voi mi portate, mentre in esso vedo delineata la vostra santa grazia, per voi Gesù mio io sono tanto bella, e per me stessa sono tanto brutta e deforme, lasciatemi dunque piangere, Gesù mio, che ne ho giusta ragione, mentre con la mia malizia ho deformato l’anima mia, opera grande della vostra onnipotente mano. Mio Dio», dicevo, «vi domando perdono, vi domando pietà, conosco di aver fatto un grande male».

Così piangevo amaramente tutte le volte che il Signore mi tornava a far vedere il mio spirito, sicché questa orazione, atteso il consiglio del mio buon padre, era per me molto fruttuosa, perché terminava con un grande dolore dei miei peccati, che mi lasciava quasi tramortita, ma quando ci avevo preso piacere di fare questa sorta di orazione, ben presto terminò, facendo Dio per altissimi suoi fini passare il mio spirito ad una penosissima aridità e grave desolazione delle quali darò riscontro nel quarto cartolare, che copierò dal mio giornale del 1823, per poi unirli tutti quanti assieme, quando vostra paternità reverendissima li avrà esaminati. La prego di avvertirmi, per carità, se sono, queste cose che seguono nel mio spirito, inganni del demonio.

72.4. Lo sguardo fisso verso il finestrino


6 aprile 1823. Cartolare quarto. Riprendo il filo del racconto: passato che fu il mio spirito nell’anzidetta grave aridità e desolazione, altro conforto non avevo che tener fisso il mio sguardo in quell’anzidetto finestrino, da dove, di tratto in tratto, Dio si degnava di mandare i raggi del suo divino splendore, e così restava illustrata l’anima mia e confortata da un bene grande, che Dio si degnava comunicarmi, in mezzo a tanti patimenti, affanni e pene, proseguiva dunque l’anima il suo cammino nell’interno del monte, non ero per questo malcontenta; benché fossero grandi le pene che soffrivo ma il divino aiuto, che Dio mi compartiva, era molto grande, perciò camminavo per l’erto monte, quasi senza avvedermi del disastroso viaggio.

La mattina del 17 aprile 1823, nella santa Comunione, fui esortata ad affrettare il passo, per giungere a quel surriferito finestrino, da dove doveva sortire il mio spirito, per così riprendere il suo viaggio nell’esterno del monte; a questa cognizione non poco restai sorpresa, e non mi potevo persuadere come io potessi sortire da quel piccolo finestrino, che non era che un palmo di altezza e uno di larghezza, mi pareva davvero impossibile; mi umiliavo per questa difficoltà che insorgeva nella mia mente, e confessavo la mia ignoranza, assoggettando il mio intelletto ed il mio corto intendimento all’infinita potenza di Dio, al quale niente gli si rende impossibile. Nonostante, però, ne attendevo con ammirazione il successo, difatti la cosa ben presto si avverò. Passati tre giorni dopo questa esortazione, il mio spirito trapassò il detto finestrino e si trovò in un batter d’occhi al di fuori del monte, dove mi trovai tutta circondata da immensa luce; come seguisse il fatto io non lo so, perché non me ne avvidi, per essere stato come un improvviso rapimento, che non mi diede luogo né alla cognizione né alla riflessione di quanto seguiva nell’anima mia per mezzo di questo divino favore, solo posso dire che fui accesa di un grande amore di Dio, che credevo di perdere la vita per la piena dei santi affetti, che inondavano il mio cuore, i quali affetti non potevo contenere per essere molto superiori alle mie forze, e troppo energici e sublimi al basso mio sentimento e corto mio intendimento; qual dolce strazio provò il mio cuore non posso al certo spiegarlo, credevo sicuramente che questa piena di affetti così esuberanti avessero annegato il mio cuore nel mare immenso della divina carità.

Tenevo per certo che questo fuoco divino non si sarebbe in me né estinto né raffreddato, speravo al certo che i buoni effetti fossero in me permanenti; ma, oh Dio! chi lo crederebbe? questa grande piena di santi affetti che avevano non solo inondato il mio cuore, ma lo avevano del tutto annegato, non furono in me permanenti, ma durarono tanto quanto durò il favore divino, e poi ne restai priva affatto, sicché in un momento passò il mio spirito dalla luce alle tenebre, e dalla piena dei santi affetti in una penosissima aridità e gravissima desolazione; questo improvviso ed inaspettato cambiamento mise in grave timore il mio spirito, dubitavo di essere abbandonata dal mio Dio, trovandomi priva del suo divino aiuto, più non sapevo dove mi trovavo, credevo certo di essere abbandonata dal mio Signore per le tante ingratitudini da me commesse verso di lui; volevo piangere la mia sciagura e non potevo, mi volevo raccomandare al mio Dio e non lo sapevo più fare, cresceva per questo la mia angustia, trovandomi priva affatto di ogni sentimento e santo affetto, mi pareva di essere una creatura del tutto insensata; durò questo strazio così crudele per lo spazio di tre giorni. Tanto era forte questo patimento che il povero mio spirito non lo poteva più reggere, parevami perire in mezzo a tanti affanni e pene, mi assicurò di non avermi abbandonata, come io scioccamente credevo, mi promise ancora, per sua bontà, che non mi avrebbe giammai abbandonata; qual consolazione, qual gaudio di paradiso sperimentò il mio cuore a questa consolante nuova, il mio spirito esultò e, ripreso il suo vigore, ringraziò incessantemente il Signore.

Ma, o Dio, appena l’anima mia aveva esultato per avere rintracciato l’amato suo, che sul momento lo tornò a perdere di vista, eccomi dunque di nuovo afflitta e dolente, per aver perduto l’unico mio bene, quale affanno, quale pena, quale smarrimento provavo in me stessa, non so al certo spiegarlo.

Nel tempo di questa grave angustia, mi diede Dio a vedere il mio spirito, vidi dunque il mio spirito seduto giacente per terra, per la strada di quel vastissimo monte, stava appoggiato ad una grande e smisurata pietra, in una positura molto composta e devota, le mani giunte, gli occhi rivolti verso il cielo, l’aria del mesto suo volto dimostrava l’affanno del desolato suo cuore, per la cagione di non vedersi di appresso al suo amato Dio, girava il suo mesto sguardo or qua, or là, da ogni intorno guardava e non lo ritrovava, mandava infuocati sospiri ben lontani per ritrovarlo, ma tutto invano, piangevo amaramente la mia disavventura.

72.5. Vieni appresso a me


In questo stato di derilizione si trattenne il mio spirito per lo spazio di 12 giorni, vale a dire dal 21 aprile fino al 3 maggio 1823.

La notte del 2 maggio mi trattenevo nel mio oratorio orando, quando improvvisamente da interna voce sento dirmi: «Prepàrati, che domani devi di nuovo intraprendere il cammino», questa nuova commosse il mio spirito in affetti santi e devoti, ma molto mi intimorì l’invito, non sapendo qual arduo viaggio dovessi intraprendere; tutto si concentrò il mio spirito, umiliandosi profondamente chiedeva aiuto al Signore, pregandolo a volermi mostrare la strada per dove dovevo camminare, supponendo di riprendere la mia croce in spalla, per così salire l’erto monte.

La mattina del 3 maggio 1823, festa dell’Invenzione della santissima Croce, ricevetti la santa Comunione con sommo raccoglimento di spirito, passai buone tre ore in questo santo raccoglimento, mai niente vedevo di quanto la notte antecedente mi era stato promesso, mai nell’ora quarta della mia orazione ad un tratto si concentrò viepiù il mio spirito, e tornai di bel nuovo a vedere il mio spirito, giacente per terra appoggiato alla detta pietra, quando in un momento da mano invisibile fu il mio spirito levato in piedi, quello che mi recò sommo stupore fu nel vederlo non più con gli abiti di prima, ma vestito da pellegrino con lo sbordone in mano, i piedi scalzi, la testa scoperta.

«Mio Dio», dicevo, «che novità è questa mai? Mio Dio, io sono altamente confusa! Degnatevi di farmi intendere questo cambiamento, questa improvvisa mutazione, invece della croce trovo nelle mie mani uno sbordone, il mio solito abito si è convertito in abito da pellegrino, che improvvisa mutazione è mai questa? datemi la grazia di comprenderla».

In tempo che stavo così perplessa né sapevo consigliare me stessa, ignorando le divine disposizioni, ecco improvvisamente uno splendore che tutta l’interna vista mi abbagliò e riempì il mio cuore di celeste dolcezza. «Ah mio Dio, mio Signore», esclamai, «ecco ai vostri santissimi piedi la vostra misera serva», ma interrotte furono le mie parole dalla sua divina presenza; mi si fece vedere l’umanità santissima di Gesù Cristo, sotto la forma di pellegrino. «Figlia», mi disse, «ti conviene camminare per questa foresta. Io ti scorterò, vieni appresso a me».

Il mio spirito ritroso nell’obbedirlo restò per qualche momento, dubitando di essere ingannato, ma non ardiva spiegarlo, allora riprese a parlare il nobile pellegrino e mi disse: «Seguimi pure, non temere di inganno, io sono la vita, la via e la verità».

A queste parole tramandò dal suo petto una splendida luce di vita eterna, che mi assicurò non esservi inganno, ma quello che mi parlava era il divino mio Redentore; a queste parole, a questo splendore, il mio spirito profondamente si umiliò, e pieno di ammirazione e di santo timore, con santa fiducia e con sommo rispetto e riverenza, intrapresi il cammino per la foresta, andando appresso al divino pellegrino, il quale dopo poco tempo mi si rese invisibile, lasciando un raggio, di luce per guida al mio spirito; scortata da questo raggio, feci il mio viaggio con molto profitto, mercé il divino aiuto. La mia ignoranza non mi permette di spiegare i santi affetti, i buoni desideri, le celesti illustrazioni, le alte cognizioni che il mio Dio, per sua bontà, mi comunicò; oh, come in questo solitario viaggio conoscevo bene la differenza, la diversità che passa fra i beni transitori di questa misera terra da quei veri beni eterni che ci promette Dio, per mezzo degli infiniti meriti del nostro divino Redentore.

Internata l’anima in queste infallibili verità formava le idee più alte, i sentimenti più puri per poterle contemplare, gustando in modo molto particolare queste eterne verità, ad onore e gloria del medesimo Dio e con somma soddisfazione e consolazione del mio spirito, aborrendo ed odiando i vani e superbi beni di questa misera terra che non sono che tristezza e afflizione di spirito.

Il camminare in questo solitario luogo altro non fu che un disporre il mio spirito a proseguire il suo viaggio al monte santo, come appresso dirò.

Il divino pellegrino, nell’invitarmi a camminare presso di lui per quella foresta, mi fece bene intendere che in questa solitudine dovevo apprendere per via di meditazioni e riflessioni molte cose appartenenti alla perfezione. In questa solitudine l’anima mia fu ammaestrata in vari modi, vale a dire, per cognizione, per illustrazione, per intelligenza. Al mio poco giudizio mi pare di conoscere che la cognizione, l’illustrazione, l’intelligenza siano tre gradi di scienza, l’uno diverso dall’altro, come ancora per gli effetti che ne ho sperimentati nel mio spirito, questi tre gradi di divina scienza mi pare ancora che siano l’uno maggiore dell’altro; salva la verità, mentre io mi protesto di essere digiuna affatto di questa dottrina, per non avere mai letto nessuno di questi libri, appartenenti a questa scienza, mi servo dunque degli effetti che ne ho sperimentato in me stessa, per spiegarmi dico così: la cognizione sollevava l’anima mia verso il suo Dio, e gli faceva conoscere le sue divine perfezioni molto da vicino, e con molta chiarezza le ravvisava per immense e incomprensibili che l’anima ne restava ammirata.

L’illustrazione, poi, infiammava la mia volontà, e così la rendeva innamorata di Dio, in guisa tale che l’anima uscì fuori di se stessa, per il grande amore che sente verso l’unico suo vero bene; la divina intelligenza somministra al mio intelletto i mezzi proporzionati per unirsi con l’amato suo Dio, nella santa unione poi, molto maggior lume acquista, e così viepiù va crescendo la fiamma della divina carità. Questo divino fuoco ha preso in me tanta possanza che mi consuma giorno e notte, che sono ridotta pelle e ossa, e sono tanto indebolita nelle forze che mi pare ogni giorno di cessare di vivere, questo pensiero però non mi funesta, ma riempie il mio cuore di giubilo, mercé la grazia di Dio, in cui ho posto tutte le mie speranze.

Tutto quello che ho detto e tutto quello che sono per dire intendo assoggettarlo al savio consiglio e parere di vostra paternità reverendissima, per quiete del mio spirito.

72.6. Vidi Dio con le braccia aperte qual Padre amante


Riprendo il filo del racconto: dopo essere stata così favorita dal Signore in quella foresta, come dicemmo.

Il giorno dell’Ascensione del Signore, che fu il dì 8 maggio 1823, l’anima mia rintraprese il viaggio al monte santo dove prosegue il suo penoso viaggio, perché più si inoltra verso la sommità del santo monte, tanto più si accrescono i travagli e le angustie, andavano sempre più aumentando i santi desideri di possedere Dio.

L’anima dunque, così accesa di santo amore, famelica andava in traccia dell’amato suo bene, desiderando di possederlo e possederlo per sempre. Quali e quante fossero le brame di questo cuore ferito, io non so al certo dirlo, né ho termini di dimostrarlo, ma posso dire, per verità, che neppure io potei comprendere la viva fiamma che mi bruciava il cuore, il forte incendio del divino amore fa dolce strazio del mio povero cuore, altra grazia non cercavo al mio buon Dio, che di morire, per così sciogliermi dai vincoli di questo fragil corpo, così volare liberamente nel castissimo seno del mio Dio.

Questo ardentissimo desiderio martirizza l’anima mia giorno e notte, in guisa tale che io non lo posso più contenere, e sono persuasa mi darà presto la morte, in questi termini, con questi spasimi al cuore, andava l’anima facendo il suo viaggio per l’erto monte, portando con sé l’affanno, la pena, il dolore. Mossosi a compassione, il mio Dio improvvisamente mi si fece vedere alla sommità del monte, vidi il mio Dio che stava con le braccia aperte qual padre amante, significandomi l’ardente brama che in sé conserva di abbracciare la povera anima mia.

Questa vista riempì il mio cuore di somma consolazione, e di tanta dolcezza e gaudio fu ripieno il mio spirito, che per godere di quella sola vista, tenni per bene impiegato tutto quello che avevo patito e faticato nel decorso di tutta la mia vita. Ardisco dire di più, a gloria del medesimo Dio, che mi contenterei di godere di quel bene che godetti in quei felici momenti, di godere questo solo bene per tutta l’eternità, sì, quella sola vista mi basterebbe per farmi eternamente beata; vorrei, per rispetto e riverenza dovuta all’infinita maestà di Dio, tacere e non parlare di quanto vidi alla sommità di quel vastissimo monte, ma la santa obbedienza mi obbliga contro mia voglia il manifestarlo: ma io cosa dirò mai, se la mia bassa mente non poté neppure comprenderlo?

Qual vasto oceano di eterna immensità mi si presentò Dio, alla vista della mia bassa mente. Oh felicissimi momenti, degni solo dell’infinita bontà di un Dio, che tutto si dona per amore alle sue creature! La sola vista, e non il possesso di questo grande bene, mi bastò di farmi beata sopra la terra per quei felici momenti; mi fu mostrato il simbolo della triade sacrosanta, sotto la forma di una splendidissima e vastissima nube, questa aveva tre rappresentanze, benché una sola fosse la nube.

Tre immensi raggi di eterna luce, in essa nube risplendevano, uno distinto dall’altro, benché una sola fosse la luce, conservava, conteneva in se stessa tre qualità di splendori, uno distinto dall’altro.

Cosa così meravigliosa e bella che non si può spiegare, vista che rapisce lo spirito e lo tiene assorto in Dio, vista che dona all’anima tutta la sua felicità, vista che dona all’anima tutte sorte di beni soprabbondanti, inarrabili e incomprensibili.

Non so spiegarmi altrimenti, mentre mi avvedo che lo scrivere su di ciò, altro non è che un oscurare l’alta gloria di un Dio di eterna maestà; spero però che l’infinita bontà di Dio mi abbia per scusata, mentre la santa obbedienza me lo comandò. Non intendo, mai e poi mai, sostenere quello che passa nel mio spirito, ma solo intendo di assoggettarlo al savio consiglio di vostra paternità reverendissima, a cui umilio questi miei scritti, con tutto il dovuto rispetto e massima soggezione filiale alla paterna sua carità.

72.7. Tornai a salire l’erto monte


Questo divino favore mi fu comunicato il dì 6 giugno 1823, giorno che ricorreva la festa del Cuore santissimo di Gesù.

Dopo avere goduto di questo grande bene, che tenne assorto il mio spirito per lo spazio di tre giorni, tornai di bel nuovo a salire l’erto monte con fatica e stento, e ancora con maggior pena, perché dopo aver goduto un sì grande bene, dopo essermi trovata in mezzo a tanta luce, tornare in mezzo a tanta oscurità, dover calcare una terra adusta e montuosa con il grave peso della croce in spalla, ognuno lo può intendere, qual pena sia stata questa per me; oltre ciò si aggiungeva a questa pena un’altra assai maggiore, ed era che l’anima, dopo aver goduto di questo grande bene, ardentemente ne desiderava il possesso, e con ardenti desideri cerca di svincolarsi da questo misero carcere del suo corpo, lo chiedeva con umili preghiere al Signore, così, piangendo e sospirando, mi affaticavo a salire l’erto monte per piacere al mio Dio e per arrivare a goderne il possesso.

In questa situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di giorni 22, vale a dire dal giorno 10, che l’anima riprese il suo viaggio al monte santo, mentre dal giorno 6 giugno, per il favore surriferito, stette il mio spirito assorto in Dio dal dì 6 fino al dì 9, il dì 10 riprese il suo viaggio fino al dì 2 luglio 1823, festa della visitazione di Maria santissima, fatta a santa Elisabetta, giorno molto memore per me, per avere ricevuto in questa festa altri insigni favori, come a suo luogo si è detto.

72.8. Ferisci tu il mio cuore


La mattina, dunque, del 2 luglio, dopo la santa Comunione, si raccolse tutto in Dio il mio spirito, nel tempo che stava così raccolto era tutto occupato a considerare se stesso, il suo niente, il suo nulla, la sua cattività, la sua profonda malizia nell’avere tanto offeso il suo Dio, si umiliava profondamente avanti la sua divina maestà, piangevo amaramente le mie gravi colpe, quando, tutto ad un tratto, fu rapita da Dio l’anima mia e sollevata in modo molto particolare, che non so spiegarlo.

In questo tempo, mi si fece vedere il mio Dio, tutto raggiante di eterna luce, il quale teneva nelle sue santissime mani come un pugnale, mi servo di questo basso termine, per non sapermi altrimenti spiegare, ma cosa più bella io non vidi giammai, né posso ad alcuna cosa sensibile paragonare, dunque dirò, col nobile pugnale Dio l’anima mia ferì: oh dolce ferita, che di santo amore il mio cuore riempì! la nobile ferita, di santo languore; nelle braccia del suo Signore l’anima semiviva se ne restò, perché il colpo amabile trapassò il mio cuore, dal dolore dei peccati e dal divino amore io mi sentivo morire.

L’anima, rivolta a Dio, così prese a parlare: «Amato mio soccorrimi, deh non mi abbandonare, il nobile tuo pugnale il cuore mi trapassò; mio Dio, come farò? E se tu mi hai ferita sanami ancora tu».

Così intesi rispondermi: «Sì, mia cara amica, la nobile ferita io ti risanerò, deh prendi nelle tue mani, il misterioso segnale, sorella mia carissima, ferisci tu il mio cuore».

L’anima ritrosa, ricusa di ciò fare, le mancano gli accenti di potersi con il suo Dio spiegare, il santo timore ingombrava il mio cuore e mi impediva di obbedire; così nuovamente intesi parlare: «Deh, non ti arresti il colpo il santo timore, perché il divino mio amore questo esige da te; deh non mi privare, diletta mia sposa, di questo piacere, ferisci suvvia, l’amante mio cuore».

A queste parole, una forza imponente mi prese la mano e mi obbligò a ferire l’amante cuore del mio Signore. Mandato il colpo, oh colpo fatale, di santo orrore il mio spirito si ricolmò, fra me dicevo, tremante e confusa: «Oh santo ardire, cosa mi facesti fare? ferire un Dio di eterna maestà! questo è un delitto di lesa maestà. Oh Dio, il mio confessore cosa mi dirà, di certo mi griderà, io non ho il coraggio di manifestargli questo fatto, che al solo pensarlo mi sento morire», piangendo dirottamente, dicevo: «Mio Dio, ditemi voi quello che devo fare».

Così mi intesi rispondere: «Dirai al tuo direttore che il tuo Creatore a questo ti obbligò; digli che un uomo Dio ferito fu da te, digli che il dolce strale ti fu dato da me, che tu feristi, oh cara, l’ampiezza del cuore mio, che tu feristi un Dio di eterna maestà! E questo lo volli io, in segno del tuo amore. Con quanta compiacenza io ricevetti il colpo, che mi fu dato da te, sposa carissima, a te mi unisco con perfetta unione e divina congiunzione, per non separarmi mai più da te! Ricevi gli sponsali amplessi, che sono i prodotti del mio parziale amore».

In mezzo a queste e ad altre sante espressioni, Dio, con quel medesimo pugnale, tornò l’anima a ferire. Mi mancano i termini e le espressioni di potermi spiegare, per poter ridire i santi affetti di questi due cuori feriti; ognuno lo può intendere a seconda dei lumi che gli comparte il Signore, ma spiegarlo al certo non si può; lascio dunque a vostra paternità reverendissima l’intendere quanto rozzamente ho detto; come ancora, per quiete del mio spirito, soggetto tutto al savio suo consiglio, per timore di non essere ingannata dal demonio. La prego di esaminare con tutto il rigore i miei scritti, e dirmi con santa libertà se sono ingannata dal demonio.

73 – SPROFONDATA NEL MIO NULLA


73.1. Vidi Dio sopra il monte


Il dì 11 agosto 1823, giorno che ricorreva la festa di santa Chiara, la mattina nella santa Comunione si raccolse il mio spirito in modo molto particolare; in questo tempo, Dio si degnò darmi un lume chiarissimo di propria cognizione, che mi faceva conoscere la mia viltà, la mia miseria, i miei gravi peccati, per i quali piangevo amaramente e ne domandavo al mio Dio umile perdono; dando ero tutta sprofondata nel proprio mio nulla e nella mia cattività, non avevo più ardire di alzare la fronte per chiedere di nuovo perdono al mio Dio, mentre credevo in quel momento di essere dalla divina giustizia punita con un fulmine che al momento mi avesse incenerito, perciò, con umile sentimento, ne attendevo il colpo: tanto l’anima si era internata nella propria sua iniquità, che giusto chiamava Dio, che l’avesse a punire e da sé la volesse dividere, e dividere per sempre.

Ma, oh Dio, qual pena provava l’anima in se stessa, al solo pensarlo inorridiva, diceva fra sé: «Dunque io sarò divisa, e da chi? Dall’amato mio bene Dio? E perché? Forse, anima mia, tu vuoi fare questa divisione? Ah no», diceva l’anima, «io no, certo, vorrei piuttosto morire mille volte, che dividermi dall’amato mio bene! No, non sono io, ma è la divina giustizia che mi vuole dividere dal mio Dio».

Rivolta alla divina giustizia così dicevo: «Oh divino attributo del mio Dio, io ti adoro col più profondo rispetto, ti prego a degnarti di sospendere il fatale colpo di divisione, questo lo chiedo per i meriti del mio Redentore»; rivolta all’umanità santissima, dissi: «Ah Gesù mio, fatemi sperimentare gli effetti della paterna vostra misericordia; oh bontà incomprensibile, e chi mai potrà lodarti sufficientemente, né il cielo né la terra potrà al certo renderti le dovute lodi, e chi mai ti potrà comprendere?».

Appena l’anima mia si rivolse ai meriti di Gesù, che il paterno suo cuore, pieno di misericordia, si rivolse verso l’anima mia, mi si fece vedere il mio Dio sopra l’altura del monte, tutto amore e tutta carità, si mostrava fedele amante all’anima e la invitava al suo divino tabernacolo, il quale vedevo in qualche distanza, ma Dio, acceso della sua divina carità, venne ad incontrare l’anima, per dimostrarle il suo affetto e per donargli anticipatamente le disposizioni dovute a sì eccelso favore, qual è quello di entrare nel divino tabernacolo, dove risiedeva Dio, non incognito, ma bensì sfavillante di eterna luce.

Si degnò Dio di farmi intendere le sante disposizioni che donato aveva al mio spirito, per così farlo degno di questo particolare favore. Nell’incontro che fece Dio all’anima, ebria del suo divino amore, le anticipò un amoroso abbraccio, con il quale abbraccio le comunicò molte grazie e doni spirituali; ricevuti l’anima questi doni, in un momento si trasformò in uno spirito più che celeste, mentre mi pareva di essere come divinizzata, provando in me i mirabili effetti del paterno amplesso, che si degnò Dio donare all’anima mia, per il quale restò come divinizzata.

Dio mi diede a vedere questo spirito così bello, così ricco delle sue grazie e dei suoi doni; lo vedevo molto più bello degli stessi angeli, che intorno di questo spirito gli facevano corona, e pieni di ammirazione stavano contemplando l’infinita bontà di Dio, che tanto bello avesse reso questo spirito con la sua divina grazia, ne encomiavano la sua infinita bontà, lodavano la sua divina carità.

73.2. Figli dell’eterno Padre


Lascio per un momento questo racconto, e prendo a parlare di volo, dei sentimenti propri del mio spirito. Mercé la grazia infusagli da Dio, questo conservava in se stesso una umiltà profondissima, benché si vedesse assai più bello che gli angeli stessi, conosceva chiaramente essere questa sua bellezza un gratuito prestito della divina grazia del suo Signore, non dimenticava essere per se stesso un vile giumento, immeritevole affatto di ogni favore; spiegava con sommo rispetto e riverenza i suoi sentimenti al suo divino Signore, umiliandosi fino al profondo del suo nulla, e con lacrime di tenerezza e di gratitudine, tutta in santi affetti si discioglieva l’anima di puro amore.

Altro non dico, perché il mio dire altro non è che un oscurare la gloria di un Dio, che diede la sua vita per nostro amore e per rendere noi simili a lui, consanguinei ci volle dell’amante Gesù, fratelli suoi ci chiama, partecipi ci fece della sua eterna eredità. Dunque esultiamo di gioia, noi siamo figli dell’eterno, divino Padre. Mio Dio, qual consolazione è questa che inonda il mio cuore, di essere figlia a voi, Dio di eterno amore, di eterna maestà! Adesso comprendo perché tanto mi amate e tante grazie voi mi donate, questi sono gli effetti della paterna vostra bontà, qual figlia mi amate e mi date prova del vostro amore. L’anima mia nella cognizione di queste eterne verità, si umiliava profondamente e ne rendeva le dovute grazie al suo Signore.

73.3. Nel divino tabernacolo


Riprendo il filo del racconto: Dio, di propria mano, introdusse l’anima nel divino tabernacolo, e a sé la unì intimamente e la riempì di gaudio celeste, di amore ardente, che distruggeva la proprietà dell’anima e la medesimava in Dio. Non posso dire di più, ma cosa dirò mai della magnificenza di questo divino tabernacolo? al certo non mi riesce di poterlo manifestare, né tanto poco posso narrare il glorioso ricevimento che ricevette l’anima dall’amante suo Dio, che per l’esuberanza del suo divino amore pareva si fosse dimenticato della sua sovranità per deliziarsi con la povera anima mia.

Altro non dico, perché il savio sapere di vostra paternità reverendissima, intorno a questa divina scienza, molto bene le fa intendere il significato di questi divini favori.

Io non ardisco dire di più, perché sono confusa abbastanza per il rossore che ne provo in me stessa, nello scrivere quanto passa nel mio spirito, questo lo faccio per sola obbedienza, ma mi costa grande ripugnanza, e mi protesto che non intendo in nessuna maniera di dar credito a quanto passa nel mio spirito, ma tutto soggetto col più umile sentimento al savio parere di vostra paternità reverendissima, per quiete del mio spirito.

73.4. Vidi il passaggio di quest’anima in paradiso


Il dì primo ottobre 1823, essendo passata all’altra vita la figliola di un mio grande benefattore, signor G. S., il dì 30 settembre 1823, molto mi impegnai, da miserabile come sono, nella lunga malattia di detta defunta, acciò il Signore si degnasse salvare quest’anima eternamente.

Molte grazie il Signore si degnò farle nella sua dolorosa infermità, segnatamente di visitarla, per ben quattro volte, per mezzo della santissima Comunione sacramentale, compartendole molta pazienza e rassegnazione al suo divino volere, benché si trovasse di fresca età e gravata di numerosa famiglia di figli otto, di tenera età. Ciò nonostante, chinò il capo alla divina volontà.

Si esercitava in atti di somma pazienza, soffrendo il grave suo male per amore di Dio, facendo molte elemosine in vantaggio dell’anima sua.

Io, da miserabile peccatrice, accompagnavo il suo patire con la continua preghiera, essendo io ogni giorno notiziata dal suo buonissimo padre di tutti i mali che pativa la paziente sua figliola.

Subito che fu spirata la bell’anima, il padre mandò ad avvisarmi che la figlia era passata agli eterni riposi, alle ore tre di notte. E questo fu la notte del dì 30 settembre 1823.

Ricevuta questa nuova, immantinente mi portai al mio oratorio; pregai con molto fervore il mio Dio, acciò si degnasse liberare quest’anima dal purgatorio, avendomi il Signore, per sua bontà, permesso di salvare quest’anima, la quale in principio della sua malattia non si trovava troppo disposta, ma per mezzo delle continue preghiere che si fecero a suo vantaggio, il Signore, per gli infiniti suoi meriti, la dispose a morire santamente.

Proseguo. Fui ispirata dal Signore la mattina seguente, che era il primo di ottobre, di farle celebrare la santa Messa dal mio confessore, applicando alla suddetta il santo sacrificio, ancora la povera mia Comunione in suffragio della suddetta.

Ricevuta che ebbi la santa Comunione, pregai incessantemente il mio sacramentato Signore, acciò si degnasse di presto liberare la suddetta anima dal purgatorio. Al Signore piacque di esaudire la mia preghiera, e per sua infinita bontà, mi promise che il giorno seguente mi avrebbe consolata col condurre quest’anima in cielo, a godere la visione beatifica.

All’ora della Messa cantata, al Libera me, Domine, sarebbe liberata dal purgatorio, per mezzo del suo Angelo custode, nel qual giorno ricorreva la festa. Il mio Dio mi fece ben conoscere che questa era una grazia ben grande che mi faceva, di tanto abbreviare il tempo alle sue misericordie, mentre la suddetta anima doveva, per la divina giustizia, ritenersi in purgatorio per lungo spazio di tempo, ma essendo figlia di un mio benefattore, attesa la promessa fattami, mi compartiva, per sua bontà, la grazia.

Quali e quanti fossero i miei ringraziamenti non so dirlo, piangevo di tenerezza nel vedermi favorita dal mio Dio, confessandomi indegnissima di ricevere le sue grazie.

La mattina dei santi Angeli custodi, 2 ottobre, ricevetti la santa Comunione, applicandola in suffragio della suddetta anima. Quando stavo ascoltando la quinta Messa, improvvisamente si raccolse intimamente il mio spirito. In questo tempo vidi il felice passaggio di quest’anima benedetta al paradiso, accompagnata dal suo santo Angelo custode. Vidi ancora una moltitudine di Angeli che vennero ad incontrarla, con grande festa ed applauso la condussero nell’altezza dei cieli, e in un baleno disparve la celeste visione, restando nel mio cuore un gaudio di paradiso e tanto di celeste consolazione nell’anima, che mi tenne assorta in Dio tutta la giornata e buona parte della notte.

La notte del 4 ottobre 1823 stavo nel mio oratorio orando, quando, per mezzo di una interna illustrazione, Dio si degnò chiamare il mio spirito, e conducendolo con lui gli fece scorrere le sue divine magnificenze, gli fece penetrare la sua potenza nel creare tutto il mondo sensibile, condusse il mio spirito nell’altezza dei cieli, e mi fece penetrare la luna, le stelle, il firmamento, mi fece penetrare il sole, i suoi pianeti e tante altre belle cose celesti, che io non so dire. Con tono maestoso e bello diceva Dio all’anima mia: «Vedi, queste sono opere fatte dalla mia onnipotente mano, in un momento le feci: Ipse dixit et facta sunt».

Questo parlare di Dio con l’anima non era con parole sensibili, ma in una maniera che io non so spiegare.

73.5. Un Dio che soffre per l’uomo ingrato!


Proseguo: mi fece Dio scorrere tutti questi vastissimi luoghi con tanta agilità, penetrazione e sottigliezza, che mi pare di poter dire così: il mio spirito, unito al suo Dio, ha penetrato il sole, la luna, le stelle e il firmamento tutto, con altre magnificenze celesti, create dall’onnipotente mano di Dio, che io non so spiegare. Questi milioni di miglia le fece il mio spirito in breve spazio di tempo, conducendo Dio il mio spirito con lui, con tanta velocità e agilità, trasportandomi da un luogo all’altro senza la minima confusione, ma con somma placidezza, di maniera tale che con ponderata intelligenza tutto vedevo e tutto conoscevo: l’infinita potenza, l’infinita sapienza, l’infinita bontà di Dio.

L’anima mia restò estatica nel vedere tante magnificenze. Non posso al certo narrare cosa alcuna di quanto vidi, mancandomi la maniera di parlare di tante stupende cose, né tampoco posso ridire qual fosse lo stupore e la grande ammirazione del mio spirito, nel vedere tanta grandezza e tanta magnificenza, mancandomi l’intelletto per comprendere le tante belle cose che vedevo e conoscevo.

Mi servo di una similitudine, sebbene molto languida, per potermi spiegare, e dico così: come quando si fissa lo sguardo nel vasto oceano, che più la vista è acuta tanto più si vede grande, ma non si può arrivare a vedere il suo fine, il suo termine, per la vastità che esso contiene, in simil guisa, ma senza paragone, è quanto ho detto assai maggiore e senza fine e senza termine fu quanto Dio si degnò farmi intendere. Questa similitudine è molto languida, e non esprime le magnificenze che Dio si degnò manifestare alla povera anima mia, la quale si saziava, si perdeva in quelle bellissime opere, fatte dalla divina mano onnipotente di Dio.

Dopo aver contemplato tutte queste grandezze, Dio condusse con lui il mio spirito a contemplare la sua passione e morte, mi fece scorrere tutta la sua vita fin dalla sua nascita, per così darmi ad intendere quanto è grande l’amore che porta a noi miseri mortali. Oh che tratto d’amore è mai questo: un Dio patire per l’uomo ingrato, ah non è al certo penetrabile!

Potei, per la grazia infusami dell’amoroso mio Dio, penetrare i cieli, il sole, la luna, le stelle e quanto altro di grande e di raro e di bello Dio diede a vedere al mio spirito, ma l’amore grande che è racchiuso nella vita, passione e morte di Gesù Cristo, salvatore nostro, vero Dio e vero uomo, non potei certamente comprenderlo, perché il suo infinito amore, mostratoci nell’incarnazione del Verbo, è un’opera tanto grande, che la mente umana non può comprenderlo, oltrepassando ogni intelligenza angelica.

La povera anima mia, chiamata da Dio a penetrare l’eccesso del suo infinito amore, contenuto in questo vastissimo mistero, restò tanto preoccupata per l’altezza e magnificenza di sì alto e profondo mistero, che si perdette in quella vastità, e per la piena dei santi affetti, che Dio mi comunicò, credevo veramente di perdere la vita nell’immersione vastissima di questo incomprensibile mistero, con trasporto d’amore non posso fare a meno di esclamare: oh opera immensa di amore! oh eccesso incomprensibile di carità, che la sola intelligenza divina ti può comprendere! La mia mente, nonostante la tua particolar grazia, Dio mio, altro non può fare che ammirare l’eccesso infinito dell’immensa tua carità e di compiacermi e rallegrarmi in te, Dio mio, Signore mio, amor mio, eterna mia felicità, possessore di ogni incomprensibile perfezione e bontà. Anzi, Dio mio, tu sei la stessa perfezione e bontà infinita, dunque te solo amo, te solo adoro, te solo desidero godere per tutta l’interminabile eternità.

73.6. Il mio corpo… dondolava


Quando tornai nei propri sensi, trovai il mio corpo che balzava da terra, e per la sua leggerezza faceva come fa una corda appesa nell’alto, che avendo un peso legato al fine di essa, essendo questa alta da terra, si vede dondolare all’urto di una leggera mano che la percuota, in simile guisa trovai che faceva il mio corpo, e per un buon spazio di tempo dovetti soffrire nel corpo questo dondolamento, senza poterlo fermare; questo moto, però, non alterava il mio spirito, che proseguiva a godere la dolcezza e la soavità di quel bene che il mio Dio mi aveva comunicato a larga copia, di quel bene ne godetti per molti giorni, perché restò sopito in Dio il mio spirito.

73.7. Sempre sul monte santo


Digressione: quando dico che il mio spirito è andato scorrendo le campagne, le amene colline, non si è mai per questo dipartito dal monte santo, dove Dio, nello scorso tempo, si degnò condurre l’anima mia di propria sua mano, come ho detto nei passati fogli, essendo queste amene colline e vaste campagne unite e congiunte al medesimo monte santo. L’anima mia ha sempre proseguito il suo viaggio alla sommità di quel monte; ma, di tratto in tratto, Dio si degna condurre l’anima ora sopra le amene colline ora nei vasti e deliziosi campi di questo vastissimo monte, per ricrearla dalla fatica, e per facilitarle il disastroso cammino, per mezzo dei suoi divini favori, ammaestrandola delle celestiali dottrine, con la sua divina sapienza fa sì che l’anima si trasformi da terrestre in celeste, voglio dire che quest’anima, dimentica di tutto il sensibile, non attende che al suo Dio, per amarlo e servirlo con tutta l’ampiezza del suo povero cuore, con tutta l’estensione dell’anima e delle sue forze, donando cento e mille volte la sua volontà al suo Dio, lo prega con trasporto d’amore e somma compiacenza a farsi padrone della sua volontà, tiene per sommo onore che Dio la regoli, la guidi secondo il suo divino beneplacito. In una parola, la povera anima mia si compiace di vivere senza volontà per fare quella del mio Dio, unico e vero bene dell’anima mia, questo lo faccio per quanto valgano le povere mie forze, e per quanto me lo permette la mia grande imperfezione, non lasciando io di essere la più vile ed imperfetta creatura che abita la terra, nonostante i favori che si degna compartirmi Dio, per la sua infinita bontà e misericordia.

73.8. Il mio angelo custode


Il dì 18 ottobre 1823, trovandomi al paese di Marino stavo in orazioni, quando ad un tratto il mio Dio sollevò il mio spirito ad una celeste visione, mi trovai con lo spirito in una amenissima campagna di soavità ripiena; vedevo da quelle amene colline che la circondavano, scendere una moltitudine di santi angeli, i quali festosi venivano a congratularsi con l’anima, per vederla in questo sacro luogo. Queste schiere angeliche mi facevano di intorno corona. Ma bisogna premettere, a mia confusione, che Dio nel condurmi in questo luogo aveva comunicato all’anima mia un celeste splendore, che illuminava tutta quella vasta campagna, la quale risplendeva come risplende il sole nel suo meriggio. Queste schiere angeliche erano tutte accorse all’inaspettato chiarore, e riconoscendo in questa anima l’opera del Signore si congratulavano con lei, lodando e benedicendo l’increata sapienza.

La povera anima era ripiena di confusione e di rossore, per il sentimento, che mi aveva comunicato il mio Dio, di propria cognizione, mi umiliavo fino al profondo cupo abisso del mio nulla, e pregavo quegli angelici spiriti a lodare e ringraziare il mio Dio per me. Fra questi celesti spiriti mi si dava a conoscere il mio angelo custode, il quale vedevo assai più bello di tutti i suoi compagni. Non posso al certo spiegare con qual tenerezza, rispetto e venerazione la povera anima mia ossequiò il suo santo angelo, oh con quanto affetto lo ringraziò di tanti aiuti, di tante grazie, di tanta assistenza che mi ha prestato nel custodirmi. Gli domandai mille volte perdono di tanti disgusti che gli ho dato, in tutto il decorso della mia vita, lo pregai ad aiutarmi e custodirmi, gli promisi di essere fedele al mio Dio, per mezzo della sua divina grazia.

Questo mio santo angelo custode conoscevo essere un angelo delle alte gerarchie degli angeli, di quelli che sono assistenti all’augusto trono di Dio, i quali meritano maggior rispetto e stima. La povera anima mia molto ringraziava il Signore per avergli dato per custode questo inclito personaggio.

Come già dissi, l’anima mia la vedevo sotto il simbolo di leggiadra donzella, cinta di celeste splendore, né la bellezza né il celestiale splendore toglieva all’anima il lume di propria cognizione, che il mio Dio mi aveva donato, anzi, il celeste splendore annientava l’anima nel profondo del proprio suo nulla, e tutto questo bene che vedeva in sé, lo attribuiva giustamente all’infinita bontà di Dio, che sol trionfare nelle più vili sue creature.

73.9. L’anima rapita in Dio


Camminava dunque l’anima mia nel profondo della santa umiltà, quando quei celesti spiriti additarono all’anima il divino tabernacolo, che posto era sopra un altissimo monte, a questa notizia l’anima frettolosa là diresse il suo passo, portata da santi affetti, volando e non camminando si trovò l’anima vicino al divino tabernacolo, dove risiedeva il mio Dio: non posso al certo spiegare di qual tempra fossero i santi affetti e i santi desideri dell’anima, prodotti dal santo e divino amore di Dio.

Alla porta del sacro tabernacolo vi erano due incliti personaggi riccamente vestiti, la loro maestà e bellezza destava nel mio cuore venerazione e rispetto; questi due grandi principi, vedendo l’anima mia accompagnata da quella moltitudine di spiriti celesti, segnatamente dal mio santo angelo custode, che fra tutti quei beati spiriti si distingueva per la sua sovrana bellezza, per essere della gerarchia maggiore. I due principi custodi del divino tabernacolo si degnarono introdurre nel divino tabernacolo la povera anima mia. Cosa dirò mai, se mi manca la lena di proseguire il racconto? Ma la santa obbedienza mi obbliga di manifestare, alla meglio che so e posso, quanto segue nel mio spirito. Dunque, a maggior gloria di Dio, proseguo il racconto con i soliti rozzi miei termini.

La povera anima mia ebbe la sorte di adorare Dio in spirito e verità. Introdotta che fui in quel sacrosanto tabernacolo, l’anima fu rapita in Dio: tante furono le bellissime cose che vidi, tante furono le belle cose che comprese il mio spirito, per mezzo di particolare cognizione e intelligenza, che non so né posso esprimerle né ridirle, tanta fu la piena dell’illustrazione divina, che l’anima restò assorbita, medesimata in Dio.

Non ho al certo termini di spiegare con qual tenerezza di affetto Dio si degnò trattare la povera anima mia, in questo divino suo tabernacolo, non è possibile al certo di manifestarlo.

Di santo orrore era ripieno il mio cuore, fisso tenevo nella mente la mia ingratitudine, la mia infedeltà. In mezzo a tanto bene, la contrizione, il dolore di avere tanto offeso il mio Dio mi crucciava il cuore; l’amore di corrispondenza e la gratitudine da un’altra parte mi struggeva, mi si stemperava il cuore, e con lacrime abbondantissime di dolore e di gratitudine, in questa guisa si liquefaceva il mio spirito. Dio si compiaceva di vedermi in quello stato ridotta per amor suo, a sé univa l’anima intimamente, abbracciandola la stringeva al castissimo suo seno, imprimendo nell’anima affettuosi baci. Oh mia grande confusione! devo aggiungere anche di più, il mio buonissimo Dio poi si degnò di invitare la peccatrice anima mia a fare con lui il simile contraccambio.

A questo invito cresceva a dismisura il sacro orrore dell’anima, e restava fuori di se stessa per lo stupore, e viepiù si accresceva in me il lume della propria cognizione, che mi umiliava profondamente, in maniera tale che non saprei bilanciare se sia più il godere di questi divini favori o la pena che si soffre nel conoscersi immeritevole di queste grazie; la santa umiltà che Dio comparte all’anima mia in questi casi è tanto grande, che l’anima si profonda sotto i piedi degli stessi demoni, benché anche si veda favorita dall’amoroso suo Dio, perché giustamente conosce che questo non è che un tratto purissimo della sua infinita carità.

73.10. Datemi i vostri cuori per amarvi


Il dì primo novembre 1823, festa di tutti i Santi, a maggior gloria di Dio e a mia confusione, scrivo il favore che ricevetti dall’infinita bontà di Dio.

Nei giorni antecedenti a questa festività, con preghiere e lacrime chiedevo, con grandi istanze, il santo amore di Dio, e lo chiedevo per intercessione di tutti i santi che sono in cielo; e per ottenerlo mi rivolgevo alla Madre del santo amore, Maria santissima, e al suo divino figliolo Gesù: «Madre mia», dicevo, «caro mio Gesù, datemi i vostri cuori, per amarvi!».

Questa preghiera la feci per molti giorni, con molto fervore e grande istanza, con lacrime e penitenza, per quanto la santa obbedienza me lo permetteva.

La mattina suddetta, tutto ad un tratto si concentrò il mio spirito in Dio. In questo tempo mi trovai con lo spirito in una amenissima campagna, mi trovai circondata da molti celesti spiriti, i quali invitavano l’anima mia a lodare e benedire l’eterno Dio. L’anima, con profondo rispetto, si unì a quei beati spiriti, e adorò e benedì l’eterna maestà di Dio. Poi mi condussero con loro sopra un altissimo monte, dove io vedevo il mio Dio, che assiso se ne stava nella sua gloria, come riposando, compiacendosi nel suo medesimo splendore. Si degnò invitare la povera anima mia ad approssimarsi a lui.

L’anima, piena di confusione, confessava di essere indegnissima, si copriva di rossore e di santo timore insieme; sbalordita resta l’anima per il divino suo splendore; per questa cagione ricusò il paterno invito. Il mio Dio non si offese per questo, ma, compatendo il mio smarrimento, così prese a parlare: «Diletta mia figlia, il mio splendore ti abbaglia la vista, ti riempie il cuore di santo timore, perciò non ardisci di avvicinarti, hai ragione! ma io per tuo amore oscurerò il mio splendore».

In questo tempo mi si diede a vedere il mio Dio, sotto un’altra forma, e così la povera anima poté a lui avvicinarsi, conservando nel mio cuore il dovuto rispetto e la dovuta stima alla sua divina maestà.

Ricevette l’anima doni e grazie per il suo profitto spirituale, segnatamente il lume di propria cognizione e contrizione dei propri peccati, santo fervore, come ancora si degnò Dio, per sua bontà, alle povere mie preghiere di liberare un grande numero di anime del purgatorio, per le quali incessantemente pregavo in quei santi giorni, in cui ricorreva il loro anniversario. Si degnava il mio Dio di farmele vedere come a schiere a schiere, per mezzo dei loro santi angeli custodi, si compiaceva di introdurle alla celeste magione, per renderle beate per tutta l’interminabile eternità.

L’anima godeva, per questo bel trionfo della divina misericordia, una dolcezza di paradiso, ma da un’altra parte sentiva una santa invidia per la loro sorte, sicché il contento mi si convertiva in pena.

Il dì 10 novembre ritornai dal paese di Marino in Roma, dopo essermi trattenuta 25 giorni, nei quali feci giorni 20 di santi esercizi e di santo ritiro.

73.11. La nave della Chiesa


Il dì 10 gennaio 1824 l’anima fu ammessa a parlare familiarmente con il suo Dio, trattenendosi per sua infinita bontà a parlare con la povera anima delle presenti circostanze della nostra santa religione cattolica e della santa Chiesa.

L’anima mia così pregava il suo Dio per i presenti bisogni della santa Chiesa: «Mio Dio», diceva l’anima, «quando sarà che io vi veda da tutti gli uomini onorato e glorificato come conviene? Ma, oh mio Dio, quanto sono pochi quelli che vi amano! oh quanto è mai grande il numero di quelli che vi disprezzano, mio Dio, che grande pena è questa per me! Credevo con questa nuova elezione di pontefice si fosse rinnovata la santa Chiesa, e che il Cristianesimo avesse a mutare costume; ma, per quanto vedo, camminano ancora nello stesso piede».

A questo mio affannoso parlare, Dio così mi rispose: «Figlia, non ti ricordi che io ti dissi che la nave era la stessa e che poco gioverebbe ai naviganti di questa nave l’aver cambiato il pilota?».

L’anima: «Ah sì, mio Dio, mi ricordo che, tre giorni dopo l’elezione di questo sommo pontefice Leone, mi faceste bene intendere che la serie delle persecuzioni non era per terminare. Mio Dio, se la nave sarà sempre la stessa, noi andremo sempre soggetti agli stessi mali! Ah Signore, metteteci riparo voi, fate una nave nuova, che ci conduca tutti al porto della beata eternità del paradiso! Sì, mio Dio, vi chiedo questa grazia, deh non me la negate, per i vostri infiniti meriti, mi avete promesso di esaudire le povere mie preghiere, deh, per vostra bontà, ascoltatemi dunque, che io vi prego per tutto il Cristianesimo: rimetteteci sul buon sentiero, ve ne prego, ve ne supplico, per il vostro sangue preziosissimo; deh fabbricate la nave di nostra sicurezza!».

Così mi intesi rispondere: «Figlia, prima di costruire questa nave, si devono recidere cinque alberi che sono in terra sopra le loro radici».

A questo parlare, l’anima mia molto si rattristò, pensando che vi fosse un lunghissimo tempo per formare questa nave. «Dunque», dicevo piangendo, «non basteranno due secoli per fabbricare questa nave! Mio Dio, che pena è questa per me, se Noè mise cento anni per fabbricare l’Arca, voi dunque, mio Dio, proseguirete ad essere offeso per tanto spazio di tempo? Io non ci posso pensare, mi sento venir meno dal dolore. Gesù mio, levatemi la vita, mentre non reggo a vedervi tanto offeso».

Piangevo dirottamente ed ero sopraffatta da grande afflizione di spirito; nel tempo che stavo in questa afflittiva situazione, così intesi parlarmi: «Rasserena il tuo spirito, rasciuga pure le tue lacrime. Sappi che questo non è un lavoro terrestre, come quello di Noè, ma un lavoro celeste, mentre i fabbricatori di questa nave sono i miei angeli. Rallègrati, o mia diletta figlia, e non ti rattristare! Il tempo è nelle mie mani, posso abbreviarlo quanto mi piace, prega, non ti stancare, non sarà tanto lungo quanto tu pensi».

L’anima così rispose: «Quanto mi rallegrate, mio Dio, col farmi sapere che vi compiacerete di abbreviare il tempo alle vostre misericordie, venga presto questo tempo benedetto, o mio Signore, che da tutti siate conosciuto, amato e adorato come conviene».

73.12. Il significato dei cinque smisurati alberi


Intanto il mio spirito in un baleno fu condotto a vedere il grande arsenale, dove vedeva molti santi angeli, che erano tutti intenti a dare di mano a questa grande opera; vi erano nel grande arsenale molti legni da costruzione, come ancora gli ordigni per costruire la detta nave, altri legni di costruzione vedevo fuori dell’arsenale allo scampagnato di una grande macchia, fui condotta poi nell’interno di detta macchia, dove mi furono additati i cinque alberi di smisurata grandezza. Osservai che questi cinque alberi con le loro radici alimentavano e producevano un foltissimo bosco di milioni di piante sterili e selvatiche, alla rimembranza di queste, non potei contenere le lacrime, restai attonita e piena di afflizione mi raccomandavo ai santi angeli, acciò disbrigassero la grande opera che gli aveva commessa il Signore.

Comunicai il suddetto fatto al mio padre spirituale, il quale in quel momento niente mi rispose su di ciò, ma il giorno appresso mi disse: «Pregate il Signore, acciò si degni farvi intendere il significato di quei cinque smisurati alberi che vi ha fatto vedere».

Puntualmente obbedii, e pregai il Signore a manifestarmi il significato di quei cinque smisurati alberi; si raccolse il mio spirito in Dio, e in quel tempo feci l’umile petizione al mio Dio, mostrandogli l’obbedienza che mi aveva imposto il mio padre spirituale. Dio, per sua infinita bontà, ricondusse il mio spirito in quella foltissima macchia, dove tornai a vedere i sopraddetti alberi di smisurata grandezza. Per mezzo di intellettuale intelligenza mi si fece intendere essere in questi smisurati alberi denotate le cinque eresie che infettano il mondo in questi nostri tempi, eresie che si oppongono del tutto al nostro santo Evangelo, e ne cercano la propria distruzione, queste maligne piante con le loro venefiche radici davano alimento a tutte quelle piante, che si trovavano in quella foltissima macchia, che altro non vedevo che alberi secchi e sterili.

74 – AFFERRAI IL BRACCIO ONNIPOTENTE DI DIO


74.1. I cattolici del suo tempo


Il dì 22 gennaio 1824, il mio spirito fu di nuovo ricondotto in quella sopraddetta macchia, dove con somma mia pena distinguevo in quella tetra rappresentanza di sterilissimi alberi, come già dissi, la sterilità lacrimevole di tante povere anime, che sono senza numero, che, depravate le loro coscienze, possono chiamarsi senza fede, senza religione, perché a tutto pensano fuorché a quello che ogni buon cattolico è obbligato di pensare, tutto operano fuori di quello che devono operare; ma, tutti intenti e sovvertiti dalle false massime della filosofia dei nostri tempi, conculcano la santa legge di Dio e i suoi divini precetti: queste misere piante sono riguardate dal divino padrone non solo per sterili, ma per nocive e pessime, meritevoli di essere gettate nel fuoco eterno.

Si trovava dunque il mio povero spirito in questa sterilissima terra, guardava con occhio di compassione quelle misere piante, conoscendo il significato di esse, piangeva dirottamente, compassionando lo stato infelicissimo di queste povere anime viatrici; quale e quanta fosse la pena e l’afflizione che ne provava il mio spirito non posso al certo ridirlo. Mi pascevo di amarissime lacrime e dei più affannosi sospiri, pensando che tante anime, redente col sangue preziosissimo di Gesù Cristo, si trovassero in stato così deplorabile; pregavo per queste anime infelici, mi raccomandavo; ma nella preghiera si accresceva in me a dismisura l’affanno e la pena, perché Dio, per sua bontà, mi dava una chiara cognizione della loro malizia, della loro sfacciataggine, della loro temerarietà nell’offenderlo, nel disprezzarlo.

Oh Dio, a questa cognizione il mio spirito restò interdetto, e non poté più pregare, perché la giustizia di Dio me lo vietava. Intanto nel mio cuore si accresceva la pena, l’affanno, ed era trapassato da fiero dolore; il grave timore di vedere un Dio sdegnato mi faceva tremare da capo a piedi e mi riempiva di sacro orrore.

74.2. Dio sdegnato


Quando fui in questo stato ridotta, che già più non distinguevo me stessa per lo spavento, né sapevo se più abitavo la terra dei viventi, allora mi si fece vedere Dio sdegnato, minacciando un subitaneo castigo, vedevo scorrere il suo braccio onnipotente or qua or là per incendiare, per distruggere, per mezzo di fulmini dell’irritato suo sdegno, quasi tutto il mondo.

Nel vedere questo eminente e terribile castigo, che Dio voleva mandare sulla terra, la povera anima mia, benché così atterrita e spaventata, per mezzo della grazia di Dio, riunì le indebolite sue forze, e correndo appresso all’irritato braccio onnipotente di Dio, ritenendolo forte, come un tenero figlio che si stringe al braccio del suo amato padre, quando vede che sdegnato vuole punire con severo flagello i suoi discoli figli, il fanciullo fratello, mosso dalla carità e dall’amore dei suoi fratelli, benché conosca le deboli sue forze, ciò nonostante spera nella pietà del suo buon padre, in simil guisa si diportò il povero mio spirito in questa funesta occasione, ma questo paragone è assai languido per esprimere la verità del fatto.

Il mio spirito dunque riunì le poche sue forze e per mezzo della grazia del Signore, con gemiti e sospiri, gridava misericordia, piangendo dirottamente per muovere a compassione il bel cuore del mio Dio, ma tutto questo non giovava, perché il suo braccio vendicatore si fermasse, tenendo nella sua onnipotente mano cento e mille fulmini racchiusi insieme. Mossa la povera anima mia da santo zelo, per non veder patire tante anime nel fuoco eterno, mi slanciai dunque verso il divino furore di Dio, che procedeva il suo braccio onnipotente e, oltrepassando i limiti del mio proprio dovere e della mia dovuta soggezione, afferrai con le mani dell’anima il braccio onnipotente di Dio e così, tenendomi fortemente stretta ed abbracciata, facevo a lui dolce violenza, ma intanto il braccio onnipotente, preso dal suo giusto furore, scorreva con violenza qual rapido vento, per fulminare, per castigare tutto l’universo. Ciò nonostante, il mio spirito, benché fosse molto malmenato, non lasciò mai di tenere forte il braccio vendicatore di Dio, perché io non volevo che avesse scagliato quei fulmini, che teneva racchiusi nella sua mano onnipotente. La tenevo dunque fortemente stretta con quanta forza avevo, con lacrime e sospiri così gridavo: «Giustissimo giudice, avete ragione, meritiamo per i nostri peccati questo tremendo castigo, ma vi muovano a pietà i meriti infiniti del nostro divino Redentore. Mio Dio, placatevi, per Gesù Cristo vostro figliolo».

Andavo, piena di affanno, ripetendo queste ed altre simili espressioni, invocando ancora l’aiuto di Maria santissima, per ottenere la grazia, non lasciavo intanto di tenere fortemente stretta la mano onnipotente di Dio, acciò non avesse scagliato i fulmini che teneva racchiusi, stretti nella sua mano. Intanto il suo divino braccio, mosso dal suo giusto furore, scorreva per l’aria qual rapidissimo vento. Il mio spirito, benché fosse così dibattuto, che credevo propriamente di morire, per avere scorso così rapidamente per l’aria centinaia e migliaia di miglia, così portato dal braccio onnipotente di Dio, finalmente vinsi la vittoria, anzi, per meglio dire, dico che dopo di avere, per gli infiniti meriti di Gesù Cristo, espugnata la grazia, Dio, per sua infinita bontà, si degnò di cedere alla costanza della povera anima mia, Dio si degnò di farsi vincere cortesemente dalle deboli mie forze, per così magnificare la sua grandezza.

Fatta questa operazione, che al mio povero spirito costò molta fatica e strazio, sia detto tutto alla maggior gloria di Dio, e a mia somma confusione, questa operazione, fatta dalla povera anima mia, si deve tutta a Dio, perché è un sommo ardire di una poverissima creatura peccatrice come sono io, di fare violenza alla divina giustizia di un Dio di infinita maestà.

A dire il vero io non so come la cosa andasse, mi pare di certo che io spontaneamente non deliberassi di commettere un simile ardire, mentre alla sola cognizione che ebbe l’anima dello sdegno di Dio, tremavo di spavento da capo a piedi, conoscendo che anche io entro nel numero dei peccatori, e non sapevo se in quel momento Dio era per mandarmi all’inferno per i miei peccati, e per l’attentato commesso di oppormi alla sua divina giustizia, con fargli violenza, sebbene mi pareva di non essere colpevole del detto attentato, mentre io non avevo deliberato volontariamente di fare al mio Dio una simile resistenza, ma per accrescimento delle mie pene non distinguevo se la mia operazione fosse stata grata al mio Dio.

74.3. Il mio male pareva mortale


Quando tornai nei propri sensi, mi trovai stramazzone per terra nel mio oratorio privato, piena di timore e di spavento, non sapevo dove mi trovavo, dubitavo di essere già nel baratro dell’inferno, perché ricordavo Dio sdegnato, ricordavo il mio sommo ardire, e non sapevo se questa mia operazione fosse stata approvata o riprovata da Dio. Tanto grande fu lo spavento prima e dopo, che io non distinguevo più i propri sensi, ero come stupida, ed il fatto lo comprovò, perché, sopraffatta dallo spavento e dal grandissimo strazio sofferto, per essere stata così malmenata e così portata l’anima in aria rapidamente e così velocemente dalla divina giustizia, ne venne, per conseguenza, a soffrire ancora il corpo, sicché un forte stravaso di umori mi fece gonfiare tutta da capo a piedi, e mi rese cagionevole di salute, in guisa che il mio male pareva mortale, ed io infatti ne provavo i cattivi effetti, e credevo ogni notte di rendere l’anima a Dio.

Soffrivo, per grazia del Signore, con somma pazienza questo grave mio male senza lamentarmi, ma tutto soffrivo con molta ilarità di spirito; compiacendomi nella divina volontà del mio Dio, non ignorando qual fosse la cagione del grave mio male. Ma non passarono molti giorni che le mie due figlie ed altri miei parenti si avvidero del grave mio male, benché a tutto mio costo lo dissimulassi, ma il gonfiore non lo potevo nascondere, si misero questi in molta apprensione nel vedere che non potevo più dare un passo senza grande fatica e stento, per l’affanno di petto e per la gravità di tutta la macchina; vollero dunque le figlie chiamare il medico, e questo si fece con il permesso del mio padre spirituale, il quale sapeva la vera cagione del mio male, ciò nonostante mi disse il suddetto che il medico si doveva chiamare per più riflessi, e che mi fossi soggettata, per amore di Gesù Cristo, a prendere quanto avesse ordinato.

Venne dunque il medico a visitarmi, quando vide il mio aspetto ed intese la narrativa del mio male, mi fece un brutto pronostico, il male lo dichiarò quasi incurabile, disse che era una idropisia pessima e che, attese le deboli mie forze, non avrei certamente retto alla violenza del male. Disse il medico alla mia figlia che il male era veramente mortale e che non potevo sopravvivere.

Io tutto riferii al mio padre spirituale, il quale mi rispose: «Voi sapete l’origine del vostro male, Dio penserà a guarirvi, se a lui piace, una visita che vi faccia Dio vi troverete guarita; ma ciò nonostante la prudenza vuole che vi abbiate cura, e date un poco di nutrimento al vostro corpo, i medicamenti prendeteli con parsimonia, acciò non incorriate in un male peggiore».

Non feci né più né meno di quanto mi disse il mio padre spirituale; e difatti non i medicamenti umani, ma varie visite amorose che si degnò farmi il Signore, in pochi giorni mi trovai da questo male mortale guarita.

Come qui appresso dirò, la maggior pena che mi crucciava il cuore, e mi abbatteva nelle forze, era di non sapere se Dio fosse sdegnato con me, per aver fatto violenza alla sua divina giustizia, sebbene avevo acquistato molta tranquillità, dopo che questo fatto lo avevo comunicato al mio padre spirituale, il quale vedendomi così angustiata, mi disse: «State quieta, che questa operazione non potevate farla da voi spontaneamente, ma Dio è stato quello che ve l’ha fatta fare, dunque non può essere sdegnato con voi, state quieta, se Dio per darvi a patire ve lo vuole tenere occulto ci vuole pazienza, Adorate i suoi divini decreti, patite questa pena per amore di Dio, compiacetevi nella sua santissima volontà».

74.4. Dio mi consolò con una sua amorosa visita


Riprendo il filo del racconto. Ero nella forte ambascia e fuori di modo crucciata da questo funesto pensiero, che Dio fosse sdegnato con me per il motivo già accennato di sopra, una folta tenebra mi occupava l’intelletto, un grave timore mi stringeva il cuore, che mi pareva ogni momento di essere maledetta da Dio, ogni momento mi pareva di piombare nell’inferno, alle volte non sapevo neppure distinguere se abitavo più in questo mondo, tanto era grande il timore di Dio sdegnato.

Passai molti giorni in questa deplorabile situazione, cioè dal 22 gennaio 1824 fino al 12 febbraio, nel qual giorno il mio Dio si degnò consolarmi con un’amorosa sua visita, mi fece intendere che era in pace con me, e amava l’anima mia con particolare predilezione. Questo fu un favore molto particolare dell’infinita bontà di Dio, che io non so spiegare; il Signore si diede a vedere alla povera anima mia tutto raggiante di luce, e qual padre di misericordia, abbracciò teneramente il mio spirito, qual padre amante mi assicurò che io stavo in sua grazia, che grato gli era stato quanto avevo fatto e patito per il mio prossimo, con l’interpormi presso la sua divina giustizia, acciò sospendesse il flagello.

Questa amorosa visita fu per me un’ottima medicina, perché mi fece riacquistare la pace e la tranquillità, che in questa occasione avevo perduta, e così principiarono a mitigare i miei malori; non lasciò Dio per sua bontà di consolarmi nel tempo che era ancora infermo il mio corpo, così per mezzo dei suoi divini favori andavo riacquistando la perduta salute.

Era già passato il mese di febbraio 1824 e ancora ero impotente di poter sortire di casa per andare alla chiesa, sebbene, per grazia del Signore, in questo tempo ed in tutte le altre occorrenze che sono stata inabile di sortire, mai mi è mancata la santa Messa, che si è celebrata nel mio oratorio privato, così la quotidiana Comunione questo ancora si deve attribuire ad una grazia speciale di Dio, mentre in tutte le occasioni che io non sono potuta sortire di casa per incomodo di salute, il Signore mi ha mandato sempre molte elemosine di Messe da celebrarsi nel mio oratorio privato, con tanta abbondanza e provvidenza che io ne restavo ammirata, mentre la mia povertà non mi permetteva questo dispendio.

74.5. Un miracolo perenne


Giacché mi trovo di parlare di questo tratto della divina provvidenza, intorno alle elemosine delle Messe, dirò ancora, a maggior gloria di Dio, varie altre cose non meno mirabili di queste.

Io sono una povera donna gravata dal peso di due figlie, abbandonata dal proprio consorte; il quale, ritiratosi a convivere con sua madre e sorelle, non pensa di dare neppure un soldo per mantenere le figlie, sicché io con le due figlie viviamo di elemosina e di quello che possiamo guadagnare con i lavori. Eppure, chi lo crederebbe? fino ad ora nella povera nostra casa, che sono adesso che scrivo lo spazio di circa dodici anni, che Dio si degna di fare questo perenne miracolo, di non farci mancare niente dell’occorrente, ma secondo il bisogno provvede, e provvede in abbondanza, c’è tanto di farne elemosina anche agli altri, questi caritatevoli sussidi mi vengono somministrati da pie persone, che le sono cognite, che conoscono le mie indigenze, questo lo fanno di loro spontanea volontà, ispirati dal Signore, senza che io chieda niente a nessuno.

Altri tratti della divina provvidenza molto mirabili che ho sperimentati, mi pare meglio di tacerli che raccontarli, mentre il mio Dio tanto mi benefica per sempre più umiliarmi e confondermi per mezzo della sua infinita bontà.

75 – IL MIO RE VUOLE CELEBRARE LE NOZZE CON TE


Riprendo il filo del racconto: il mese di marzo feci portare il quadro del glorioso patriarca san Giuseppe nel mio oratorio privato, per ossequiarlo in tutto il mese quotidianamente, con la celebrazione del santo sacrificio la mattina, e la sera con altri ossequi in suo onore. Io pensai di chiedere al santo patriarca che mi avesse ottenuto dal Signore la sua umiltà, la sua castità, la purità della sua intenzione. Lo pregavo incessantemente a concedermi la grazia di amare Dio quanto lui l’amò in questa vita mortale. Nonostante questi buoni sentimenti io sentivo in me un’aridità di spirito, che mi dava una pena molto considerabile; ma, per mezzo della grazia di Dio, la soffrivo con molta rassegnazione e pazienza.

La festa del glorioso patriarca, nonostante i miei incomodi di salute, con il permesso del mio padre spirituale, mi portai alla chiesa, dove subito intesi una gioia, un contento di paradiso, mi umiliai profondamente dinanzi all’augustissimo sacramento esposto, lo ringraziai di avermi fatto la grazia, dopo due mesi, di poterlo adorare, intanto andava crescendo in me il contento di trovarmi alla reale presenza di Gesù sacramentato. Mi sentivo liquefarmi il cuore dall’amore, e spargendo un profluvio di lacrime non mi saziavo di ringraziarlo, di domandargli mille volte perdono di tanti peccati commessi, e gli promettevo di vero cuore di emendarmi e di fare una buona vita. Gli chiesi, in grazia, di poterlo visitare quotidianamente nel santissimo sacramento dell’altare, e poi gli dissi tante altre cose che mi venivano suggerite dal divino amore. Sfogato che ebbe l’anima questi suoi desideri e questi amorosi affetti, si sopì in Dio.

Quando l’anima si era profondata in questo dolce riposo, ecco un messaggero celeste, che col suono della dolce sua voce destò l’anima e così le disse: «Vieni, o nobile sposa, il mio Re, tuo sposo, ti invita: Vuole con te celebrare le nozze».

A queste parole si destò l’anima, e a questa ambasciata si riempì di santo timore e si profondò nel cupo abisso del suo nulla, si smarrì nel suo niente, non sapendo cosa rispondere, rivolta al suo Dio, con voce tremante, così esclamò: «Eterno mio Dio, e come da questo profondo di miserie, in cui mi ritrovo, dovrò io passare a tanta altezza?Ah, mio Dio, non ne sono degna! Ah, non mi regge il cuore! Un sacro orrore di confusione mi ricopre da capo a piedi».

75.1. Sposa diletta, amica mia, vieni


Intanto che l’anima stava così perplessa e vacillante per il timore, fissò in alto lo sguardo e vide il sovrano suo re, tutto premuroso, acciò l’anima si affrettasse ad andare, spedisce altri sei messaggeri celesti, acciò questi conducano alla sua reale presenza l’anima mia. Oh Dio, a questa seconda spedizione non mi resse più il cuore di più indugiare, ma così ricoperta di confusione e di rossore, spronata dall’amore che sentivo verso il mio sommo bene, frettolosa mi inviai alla sommità del santo monte, dove mi si fecero incontro tutti festosi i sei messaggeri celesti, e come in trionfo accompagnarono l’anima al loro sovrano re. Non fummo là giunti, che le nobili porte del divino tabernacolo aperte si videro, un bello splendore di là sortiva e dolce voce così diceva: «Sposa diletta, amica mia, colomba mia, vieni, deh vieni al talamo del tuo Signore, vieni non più tardar».

Oh Dio, qui mi perdo, non so più parlare, non so cosa dire, mi mancano i termini di potermi spiegare, parlate voi per me, o messaggeri celesti, che mi onoraste con l’accompagnarmi, dite voi per me, che io non so ridire, qual fu il nobile ricevimento che mi fece il mio Dio. Io al certo non lo so ridire, la mente umana non ci può arrivare, né a cose sensibili si possono paragonare; ma, per non mancare alla santa obbedienza, alla meglio che posso, qualche cosa dirò.

Quel divino tabernacolo era un vero paradiso, la bellezza, lo splendore non si può spiegare; nel mezzo di quella luce inaccessibile, vedevo molti nobilissimi personaggi riccamente vestiti, pieni di gloria e di maestà. Questo che dico sono le più piccole cose di quella magnificenza incomprensibile, inarrivabile, impenetrabile. Cosa dirò mai del re della gloria, se questi incliti personaggi altro non erano che suoi cortigiani, che assistevano all’augusto soglio della sovrana sua maestà? L’anima, intanto, ebria di amore, e per il grande splendore, mi credevo di morir in mezzo alla gioia, e l’interno gaudio non potevo più contenere, ma disciolta l’anima e liquefatta come in odore di soavità, grato all’amante divino mio sposo, nelle sue braccia mi fece riposare.

Altro non dico, perché più non so dire, godeva l’anima un paradiso di beni senza distinguere, senza capire l’altezza grande del divino favore; godevo i mirabili effetti di questo favore che mi comunicò l’amante Signore, sentendo il mio cuore ripieno di sante virtù, una umiltà così profonda, un annientamento di me stessa, una interna ed esterna mortificazione, un raccoglimento interno ed esterno, una purità, una semplicità molto particolare, una certa unione speciale col mio Dio, che per molti giorni non mi ricordavo di abitare questo mondo sensibile, ma vivevo come in una solitudine, quasi fuori di me stessa, e il mio spirito si trovava tutto concentrato in Dio.

75.2. Il Signore si degnò di portarmi sopra le sue divine spalle


Da questo grande bene che godetti, per lo spazio di giorni sette, il mio spirito passò in una profonda oscurità di mente, unita ad una derelizione di spirito, che mi portava ad un gravissimo patimento. In questo stato, così, altro sollievo non trovavo, che di portarmi con il pensiero all’orto del Getsemani, unendo le mie pene a quelle dell’amante mio Redentore; mescolando le mie pene con le sue gravissime pene, così veniva sollevato l’afflitto mio spirito, benché si accrescessero di molto i miei patimenti, per la compassione che sentivo della passione e morte del mio Redentore. L’amore e il dolore di averlo tanto offeso lacerava il mio cuore, conoscendo essere stata io la cagione di tanto sudor di sangue, che versò l’amato mio bene nell’orto. Alla rimembranza di tanta mia ingratitudine, piangevo amaramente le mie colpe e ne domandavo umilmente perdono al mio appassionato Signore.

In questa afflittiva situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di giorni quindici. Una mattina, improvvisamente, dopo la santa Comunione, il Signore sollevò il mio spirito per mezzo della sua divina grazia, fui condotta dallo Spirito del Signore, in un luogo del tutto nuovo: mi trovai alla sponda di un grande lago, alla vista del quale si atterrì il mio spirito, e rivolta al mio Dio, così esclamai: «Dio mio, per la tua infinita bontà, non mi abbandonare in questo grave pericolo».

A me pare, se non erro, dicevo fra me stessa, che questo lago sia il lago dei leoni, dove fu posto Daniele profeta, questo mi pare un torrente di affanni e di pene insuperabili, e come farò io che sono tanto debole e miserabile, come farò a resistere a tanti urti di tentazioni, mio Dio, dubito di mancarvi di fedeltà, mio Dio, mio Signore, ricordatevi che me lo avete promesso, che mi avreste liberata da queste brutte tentazioni. Degnatevi mantenermi la parola, deh non mi abbandonate in questo penoso conflitto!».

Nel tempo che ero così abbattuta dal forte timore di intraprendere questa nuova battaglia, ecco che tutto ad un tratto sento rinvigorire il mio spirito dal dono della fortezza: «Mio Dio, riprendo con costanza invitta, se voi volete, eccomi pronta, sono contenta di soffrire per amor vostro ogni sorta di travagli, non dubito punto della vostra particolare assistenza».

Ero già determinata di gettarmi in quel profondo lago, quando il mio Signore si degnò farsi da me vedere alla sponda di quel lago, tutto raggiante di luce, con volto piacevole, così mi disse: «Figlia arrèstati, il tuo coraggio ha pagato il mio cuore. Mia diletta figlia, vedi fin dove giunge il mio amore verso di te, ah non regge il mio cuore di vederti in mezzo a questo doloroso conflitto di tentazioni. Figlia, sopra le mie spalle affidati, ed io ti tragitterò da questa all’altra sponda, e ti condurrò sopra quel monte».

L’anima dunque alle dolci parole del suo Signore, piena di rispetto e di venerazione, con santa fiducia, sopraffatta da santo timore sopra le divine sue spalle si abbandonò. L’amante Signore non solo mi tragittò da quella all’altra sponda, ma si degnò portarmi, sopra le divine sue spalle, fino alla sommità di quell’altissimo monte, che io molto da lontano vedevo, e di sua propria mano mi collocò in un piccolo recinto, contornato di altissime muraglie, adagiandomi sopra una risplendente nube, che era in questo recinto, e lì mi fece riposare. Oh dolce riposo! veramente degno dello Spirito del Signore, e chi mai potrà manifestare la sublimità di questo misterioso riposo? Nel tempo che l’anima mia stava così assorta in Dio e riposava nella sua immensità, il Signore di propria sua mano chiuse la porta impenetrabile ma prima di chiudere si degnò assicurarmi che mi amava con parziale amore, dandomi parola che in questo luogo non sarei molestata dai miei nemici, e che nessuno dei miei avversari avrebbe ardito di perturbarmi.

Molte altre cose mi disse l’amante Signore, per rendere quieta e contenta la povera anima mia peccatrice, mi disse inoltre che in ogni mio bisogno avessi invocato il suo santissimo nome in aiuto. Non poco restai contenta e sopraffatta dal dolce riposo, il quale durò per lo spazio di tre giorni, nei quali io posso dire che, l’anima mia non esisteva più nel mondo, ma riposava nelle braccia santissime dell’amante suo Signore, tanto era unita l’anima mia al suo Dio, che in qualche maniera posso dire che per lo spazio di tre giorni, vissi di una vita quasi divina, mentre il mio respirare era un atto continuato di amore di Dio, che pacificamente incendiava il mio cuore, e lo faceva ardere di puro e santo amore, veniva questo divino amore corredato da tutte le sante virtù.

75.3. Sopra un’altura i miei capitali nemici


Beata me, felice me, se questo stato fosse stato in me permanente, ma, passati i tre giorni, mi trovai in quella solitudine senza la presenza dell’amato mio bene, sola, raminga e piena di timore, benché circondata fossi dalle alte muraglie, che mi rendevano sicura del tutto, come ancora ricordavo l’immancabile parola datami dal mio Signore Gesù Cristo, prima di chiudere la porta impenetrabile del detto recinto, dove io mi trovavo. Ciò nonostante nel tempo che stavo fra il timore e la speranza, sento da lungi un forte mormorio, fisso lo sguardo e vedo sopra un’altura riuniti i miei capitali nemici, che congiuravano contro di me, e macchinavano, a danno mio, una forte insidia.

A questa cognizione l’anima mia, con tutto l’affetto del cuore, invocò il santissimo nome di Gesù in aiuto e, palpitando per il timore, piangevo dirottamente e chiedevo al mio Dio soccorso per difendermi dai miei capitali nemici.

Non ebbi terminata la preghiera che il mio buon Dio, per sua bontà, fu in mio soccorso, e così mi parlò al cuore con voce sonante e piena di maestà: «In manibus portabunt te, ne forte offendas ad lapidem pedem tuum». L’anima mia, rivolta al suo Dio, così esclamò: «Ah mio Dio, mio Signore, non sono le pietre che mi offendono, ma sono i miei capitali nemici che mi insidiano, deh aiutatemi per pietà».

Dio così tornò a parlarmi, con voce imponente e autorevole verso i miei avversari nemici, e tutto piacevole ed affabile verso l’anima mia: «Super aspidem et basiliscum ambulabis, et conculcabis leonem et draconem». Con suono di voce dolcissima, e piena di carità, così mi soggiunse: «Quoniam in me speravit, liberabo eum; protegam eum, quoniam cognovit nomen meum».

A questo parlare del sovrano mio bene, l’anima, piena di santa fiducia nell’onnipotenza di Dio, dolcemente riposò, dileguandosi dal mio cuore ogni ombra di timore. Restai nella mia solitudine, dove tuttora mi ritrovo, senza essere stata più molestata dai miei nemici, ma non lascio però di soffrire grandi pene e travagli, in mezzo ad una pace e tranquillità di spirito. Il santo e divino amore fa crudo strazio di me. Oh Dio, di qual tempra sei, o divino amor mio, che tanta possanza hai tu di me, non mi fai requiare né notte né dì. Con mille spade tu ferisci il mio cuore, deh per pietà, guariscimi tu. Ah, tu ben sai qual sia il mio desio: di essere sciolta da queste catene del corpo mortale, per venire in cielo a regnare con te, questo solo è il rimedio per guarire il mio povero cuore, questa è la pena, questi sono i travagli che tuttora soffro in questa solitudine, in mezzo alla pace e alla tranquillità, come dissi di sopra.

Non lascio, in questa solitudine, di meditare la passione e morte del mio amante redentore Gesù, a cui affido, ai suoi meriti infiniti, la causa della mia eterna salvezza. Conoscendomi immeritevole di questa grazia, per i miei gravi peccati ed enormissima ingratitudine, piango amaramente le mie colpe, e gli domando umilmente perdono, gli domando pietà e misericordia, e così mi inabisso nel proprio mio nulla, tutto questo lo faccio per mezzo della divina grazia.

75.4. Vedo una città bella e magnifica


Erano passati quaranta e più giorni che l’anima mia si trovava ancora in quel sopraddetto recinto dove Dio l’aveva posta, un giorno, all’improvviso, vedo uno splendore che mi sollecitò a fissare lo sguardo alla sommità del cielo. Quanto vedo, con sommo mio stupore, una città quanto mai bella e magnifica. L’atrio, ossia lo spiazzo vastissimo, che conduceva a quella santa città, era di tersissimo cristallo. Le mura erano altissime, alla sommità delle quali vedevo tre lucidissimi cristalli in forma di tre occhi, i quali avevano la loro corrispondenza nell’interno, nella gloriosa magione, dove la povera anima mia sempre fisso teneva il suo sguardo, aspirando e sospirando con infuocati sospiri al possesso di quella beata patria da dove, di tempo in tempo, vedevo cose molto meravigliose e belle.

Una volta, dall’occhio di mezzo, mi si fece vedere il mio Dio tutto raggiante di luce, che veramente mi rapì il cuore, tanta era la sua bellezza, che non ho termini di poterlo spiegare. A questa vista si accrebbe a dismisura il mio amore verso il mio Dio, gli affetti dell’anima non potevo più contenere, per la cognizione che mi veniva comunicata dalla divina grazia. Il veemente desiderio di possederlo, formava un dolce ma penoso martirio nell’anima mia, che ogni poco credeva di morire. Per abbreviare lo scritto non dico di più.

75.5. Teneva una corona preparata per me


Un’altra volta mi fu mostrata una corona quanto mai bella, unita a varie palme gloriose che la circondavano; e il mio Dio, dopo avermela mostrata, con il suo braccio onnipotente e maestoso, mi fece intendere che quella corona a quelle palme unita, mi era stata meritata dall’unigenito suo divino Figlio, Signore mio Gesù Cristo, mi fece intendere che mi fossi affaticata per conquistarla, che per me la teneva preparata.

Oh quante lacrime mi costò questa vista, oh quanto si umiliò la povera anima mia, per mezzo della divina cognizione che Dio si degnò compartirmi! Oh Dio, qual pena fu la mia, nel conoscere col lume soprannaturale la mia passata e presente ingratitudine, oh qual confusione, oh qual rossore, oh qual dolore provai di avere tante e poi tante volte offeso il mio Dio di bontà infinita! Dicevo piangendo, con il cuore contrito e umiliato: «Dio mio, e perché mai volete voi coronare la mia fronte con quella preziosa corona che mi avete fatto vedere? Io altro non ho fatto che offendere la vostra divina maestà».

Nel tempo che l’anima era portata dall’eccesso del dolore, e si era profondata nell’abisso del suo proprio nulla, Dio per sua bontà, per non vederla perire nell’eccessivo dolore, dolcemente la fece riposare nel castissimo suo seno, e così la ricreò con meravigliosa soavità e dolcezza, facendomi comprendere, con alta intelligenza, l’amore grande che porta alle anime redente col sangue preziosissimo del suo divino Figliolo.

Non dico più, per brevità, e per confusione di manifestare l’eccesso incredibile e incomprensibile dell’amore infinito che Dio porta a quelle anime che si donano a lui, col consacrargli la loro volontà e con purità di intenzione, non altro cercano che piacere a lui solo, altro non cercano che la perfetta unione della divina sua volontà.

Oh che amor grande dimostra il Signore a queste anime, in certe occasioni, propriamente pare che dimentichi se stesso, la sua grandezza, la sua immensità. Quello che ho detto, sia detto a mia confusione, e alla maggior gloria della sua divina bontà.

76 – L’ANIMA MIA RESTÒ PURIFICATA


76.1. Adorna di tutte le virtù


Il dì 25 giugno 1824 festa del Santissimo Cuore di Gesù, dopo la Santa Comunione, la povera anima mia, ad un tratto fu sopraffatta dallo Spirito del Signore, il quale operò in me, con l’effusione della sua divina grazia, cose molto eccellenti, che io non so spiegare, quello che posso dire è che, ad un tratto, la povera anima mia si trovò adorna di tutte le sante virtù morali e teologali, le quali mi fecero operare degli atti interni di virtù così eccelsi e sublimi, che io ne restai meravigliata e confusa per lo stupore.

Oh quanto bene era assistita l’anima dalla virtù della fede, della speranza, della carità verso Dio e verso il prossimo, come bene ero assistita dalla santa umiltà, purità e semplicità. Tutto questo lo dico a gloria del mio Dio e a mia somma confusione. In quei felici momenti io non conoscevo più me stessa, tanto l’anima si era avvicinata al suo Dio e per riverbero riceveva e scolpiva in se stessa la santità di Dio medesimo, mentre Dio, di sua volontà, ne faceva all’anima mia un dono gratuito.

Nel tempo che mi trattenevo in questi santi esercizi di virtù, segnatamente nell’annientamento di tutta me stessa, riconoscendomi indegnissima di possedere tutte queste sante virtù, ne rendevo umili grazie al mio Dio. Ecco che vedo dalla santa città sortire una luce inaccessibile, nella quale riconoscevo il mio Dio. Da veemente attrazione l’anima mia fu tirata in alto, oltrepassando le alte mura dell’anzidetto recinto, e approssimata fu l’anima a quella bellissima luce, ed a questa luce, in un baleno, mi vidi intimamente unita e strettamente abbracciata, per ben tre volte, provando nell’anima un bene indicibile e inarrabile, che sopravanzava il mio corto intendimento. In questa maniera l’anima restò netta e purificata da ogni colpa e mancanza. Restò il mio spirito, per lo spazio di tre giorni, tutto assorto in Dio, desideroso di esercitarsi nella pratica delle sante virtù con maggiore premura e impegno di prima.

Lascio a gloria di Dio, senza prolungarmi di più, non so se mi sarò saputa spiegare, con la rozza mia dicitura, ma spero che vostra paternità reverendissima saprà condonare alla mia ignoranza l’oscuro ed ottenebrato mio scritto, che mi fa rossore e vergogna di presentarlo a vostra reverenza.

Nel secondo cartolare, appresso di questo, darò conto a vostra paternità reverendissima come nel giorno 29 giugno 1824, festa dei gloriosissimi santi apostoli Pietro e Paolo, il Signore si degnò cambiare situazione alla povera anima mia, conducendola sopra un altro monte, molto più elevato dell’anzidetto monte.

76.2. Sopra un altro monte molto più elevato


Secondo cartolare dell’anno 1824. Il dì 29 giugno, festa dei gloriosi santi apostoli Pietro e Paolo, dopo la santissima Comunione, mi trattenni in orazioni per lo spazio di tre ore e più, senza distinguere, senza capire la propria sensazione, mentre Dio, per sua bontà, aveva come sottratto il mio spirito dal corpo, ovvero sollevato fosse il mio spirito sopra i propri sensi.

In questo tempo il Signore cambiò situazione alla povera anima mia, ma prima di fare questa divina operazione, molti furono i lumi interni che si degnò compartirmi di propria cognizione di me stessa, compartendomi cognizioni ed intelligenza molto alta per conoscere l’ineffabile suo amore.

Rapita l’anima da questa divina cognizione, si inabissò nel proprio suo nulla, umiliandosi profondamente, confessando l’alta bontà di questo grande ed incomprensibile Dio onnipotente, e con ogni giustizia inabissando me stessa nel profondo del mio nulla. Quando, per mezzo di questa divina illustrazione, ero così profondata ed annientata, il mio Dio si degnò manifestarsi alla povera anima mia, ed ecco il fatto come seguì. Stava l’anima in quell’anzidetto recinto sopra quel monte dove Dio l’aveva collocata, come si è già detto nei passati fogli del primo cartolare del 1824.

In questo giorno piacque al mio Dio di condurmi sopra un altro monte, molto più elevato di quello di prima. Il mio spirito si trovava in quell’anzidetto monte, dentro a quel recinto bene muragliato ed impenetrabile. L’anima mia, dopo la santa Comunione, si era dolcemente sopita in Dio, dopo le anzidette cognizioni. Come in soave sonno riposavo nell’infinita bontà di Dio, quando, ad un tratto, fu destata l’anima da un armonico canto di dolcezza e di soavità ripieno. Il rimbombo dell’amabile voce in quel solitario luogo lo rendeva un vero paradiso, mi desta l’anima e fissa lo sguardo e vede aperta la porta del surriferito recinto, e con sommo suo stupore vede l’agnello immacolato. Vedo il mio Gesù, che con l’armonica sua voce invita l’anima a sortire da quel luogo ed andare presso di lui. L’anima si arresta prima di accettare l’invito, e con umile preghiera al suo Signore ricorre, per timore di essere ingannata, ma l’agnello divino bene si fa conoscere dall’anima, per quello che egli è. Assicurata dal vero, prontamente obbedisce, sorte dal recinto e se ne va presso al divino agnello, il benignissimo Signore avverte l’anima di porre il suo piede nelle sue orme divine, altrimenti, le dice, che non potrà salire sopra quell’altissimo monte.

L’anima intimorita da questa istruzione divina, con somma diligenza, attenta badava di porre il suo piede sopra le orme di quel puro ed immacolato agnello, che scintillava fiamme della più pura carità, e inebriava l’anima del santo e divino amore. In questa guisa, camminando mi trovai, senza avvedermi del disastroso viaggio, sopra quell’altissimo monte. Arrivata che fu l’anima alla sommità di quello, sopraffatta da interna dolcezza, ebria di santo amore, si riposò in quella benedetta terra del santo monte, che può chiamarsi vera abitazione di Dio.

Non posso al certo spiegare la bellezza, l’amenità, la soavità di questo benedetto monte. L’anima dunque, sopraffatta da un tanto bene inarrabile ed incomprensibile, dolcemente si riposò, e il divino agnello, compiacendosi di avere trasportata la povera anima mia tanto oltre, dolcemente nel seno dell’anima, graziosamente anch’esso si addormentò. Oh dolce riposo, che trasformò l’anima nel suo Signore, io non ho termini, io non ho lena di potermi spiegare; i santi affetti, l’ardente amore strettamente mi univano, mi congiungevano al mio divino Signore. Altro non dico, perché non so ridire, che cose grandi siano questi favori divini, che Dio comparte alle anime per sua infinita bontà.

Il dì 6 luglio 1824, il divino agnello pur si degnò farsi vedere, ma per mettere tutto in chiaro, alla meglio che mi sarà possibile, per mezzo della divina grazia, descriverò la situazione di questo benedetto monte. Era questo monte altissimo, amenissimo e di soavità ripieno, ai piedi di questo monte vi era un mare placidissimo, le dolcissime sue acque cristalline, spumeggianti di splendore, da dove si vedeva in prospettiva la beata magione. Benché quel beato soggiorno io lo vedevo in distanza, sotto la similitudine di un magnificentissimo fabbricato triangolare, come ho di già detto nel primo cartolare del 1824. Conosco in vero la mia ignoranza, non avendo termini sufficienti di spiegare la bellezza, la vastità, la magnificenza di queste spirituali intelligenze, o siano divine rappresentanze intellettuali, che il Signore si degna mostrarmi, nel più segreto ed intimo dell’anima mia. Ed è ben vero che non si possono alle cose sensibili paragonare, per quanto grandi e belle siano le cose che vediamo in questa terra mortale, c’è una grande diversità dalle celesti alle terrestri, dalle cose spirituali alle temporali; mi pare al certo che lo scrivere i favori e le grazie che Dio comparte alle anime, per sua infinita bontà, altro non sia che segnare al muro, con un nero carbone, la bellezza e lo splendore del sole.

76.3. Voglio farmi santa


Riprendo il filo del racconto. Il divino agnello pur si degnò farsi vedere dalla povera anima mia. Oh qual consolazione provò il mio cuore! Di santi affetti fu ricolma la povera anima, alla vista del suo divino Signore! Dopo dolci e varie espressioni, il divino agnello si compiacque nel seno dell’anima di riposare, ed intanto che l’anima dolcemente dormiva, unita all’amato suo bene, ad un sol cenno dell’agnello divino, le dolci acque del placido mare gonfiar si videro, ed innalzare fin sopra al monte, per così bagnare ed immergere l’anima, che unita stava e riposava con il suo agnello divino. Si scosse l’anima alla dolce immersione, e più strettamente al suo bene si unì. Le preziose acque di questo mare divino, più bella e più pura resero l’anima, e più accettabile divenne all’amato suo bene. Di più spiegarmi non mi conviene. L’intenda chi intende, quanto grande sia l’amore immenso di un Dio creatore, di un Dio redentore. Non so spiegarmi, non so parlare, perdono ti chiedo, o Dio immortale, dei rozzi termini che mi conviene usare, la mia ignoranza non sa encomiare la tua alta bontà. Deh, padre mio, rivolta a lei perdono chiedo a vostra paternità, se non so esprimere, se non so dire l’amore grande del mio Gesù.

Questi divini favori, che di tratto in tratto mi comunicava il mio Dio, per pura sua bontà, rendevano viepiù illuminata l’anima mia a conoscere qual bene sia Dio, e quanto mai sono grandi le sue divine perfezioni; a questo chiaro lume, l’anima si inabissava nel proprio suo nulla, riconoscendosi immeritevolissima di questi divini favori. Riconoscendo i propri miei peccati, difetti e mancanze, con tanta chiarezza, che, sopraffatta da santo orrore, odiavo me stessa per le gravi offese fatte al mio buon Dio, piangevo amaramente, e con tutto il fervore possibile domandavo in grazia al Signore, che mi avesse liberata da tutti questi difetti e mancanze, che in me conoscevo, per mezzo della sua divina grazia.

Concepii una certa speranza, di ottenere questa grazia in virtù dei meriti del mio salvatore Gesù, al giusto riflesso che me lo aveva meritato con tutto lo sborso del suo preziosissimo sangue. Dicevo dunque al mio Dio con santa fiducia: «Non mi spaventano i miei peccati, le mie mancanze e difetti. Io voglio farmi santa, Gesù mio. L’opera ha da essere tutta vostra. Sì, voglio farmi santa a vostra maggior gloria, e non ad altro fine vi chiedo questa grazia».

La suddetta preghiera era fervente, umile, frequente, insistente e semplice, piena di fiducia, sperando, per gli infiniti meriti di Gesù Cristo, per certo di ottenere la suddetta grazia, di maniera che tutte le mattine, nell’accostarmi a ricevere la santissima Comunione, speravo di divenir santa, con il prodigioso contatto dell’eucaristico sacramento. Con umili e ferventi proteste dicevo al mio Gesù sacramentato: «Il fine per cui vi ricevo, Gesù mio, voi lo sapete. Fate, mio Dio, in questo momento, questo miracolo: Santificate la povera anima mia peccatrice», e con santa fiducia ne speravo assolutamente la grazia, e benché nella giornata cadessi in molti difetti, pur non mi perdevo di coraggio, dicevo fra me stessa: se non sono divenuta santa questa mattina, spero certo che domani mattina otterrò da voi la grazia, Gesù mio.

77 – CON L’AGNELLO DIVINO


77.1. Diventare santa per mezzo della comunione


Passai tutto il mese di luglio 1824 in questo ardente desiderio, mettendo in pratica, con ogni attenzione, tutti i mezzi opportuni per non mancare nella giornata. Raccomandandomi di frequente al Signore, procuravo di vigilare sopra me stessa, per non mancare né con opere, né con parole, chiedendo umilmente grazie al Signore di esercitarmi nelle sante virtù. Una mattina, più del solito toccata l’anima mia dalla grazia di Dio, nel comunicarmi chiesi la grazia di diventar santa, per mezzo di questo divino sacramento. Era tanta la santa fiducia che mi compartiva il mio Dio, che arrivai a non poterne dubitare. Dicevo al mio santo Angelo custode: «Pregate anche voi, o Angelo mio tutelare; anzi vi dico ringraziate per me il mio Dio, perché questa mattina, di certo, mi fa santa, con il suo divino contatto. Rallegratevi, Angelo mio benedetto, perché se vi siete degnato assistermi peccatrice, avrete la gloria di assistermi giustificata, per il sangue prezioso del mio Gesù, io confido e spero di ottenere la santificazione dell’anima mia».

Con queste, ed altre simili espressioni fiduciali, mi accostai a ricevere questo cibo divino, questo pane di vita eterna, con umili sentimenti e con abbondanza di lacrime, che versavo in larga copia. Dopo essermi trattenuta nei più umili ringraziamenti, ricevuto che ebbi il mio Dio sacramentato, l’anima mia si sopì in Dio, facendo uno spoglio totale di tutta me stessa, abbandonandomi in tutto e per tutto al suo divino beneplacito. Questo spoglio totale, ossia staccamento di tutta me stessa, fu molto singolare, perché mi fu comunicato dal Signore per speciale grazia. Sicché io non posso ridire di qual tempra fosse questo spoglio, questo staccamento di tutta me stessa, per il quale l’anima purificata, assottigliata, poté liberamente penetrare ed essere introdotta nell’immensità di Dio, dove conobbi, con molta chiarezza, cosa mai corre dal finito all’infinito, in una parola, cosa siamo noi e cosa sia Dio, cosa siano i beni transitori e quali gli eterni.

77.2. Il divino Agnello mi invitava ad andare da lui


Nel tempo che l’anima conosceva queste grandi verità, e che ne godeva un bene sommo in Dio medesimo, per essere l’anima mia tanto racchiusa e intimamente unita alla divina immensità di Dio, che non ho termini di saperlo spiegare; nel tempo che godevo di questo bene inarrabile, nel quale stavano occupate tutte e tre le potenze dell’anima mia, e si erano in questo immenso bene smarrite, e affatto perdute, tutto ad un tratto, cessò l’illustrazione, tornarono le potenze ad agire tutte innamorate di Dio, in quell’istante mi trovai sopra un altissimo monte, dove vedevo una moltitudine di santi Angeli, tutti in bell’ordine disposti. Questa sola vista sarebbe bastata, per riempire il mio cuore di contento, perché era tanta la loro bellezza, la loro vaghezza, la loro maestà e purità, che in quei sovrani spiriti risplendeva la beltà del mio Dio.

Le legioni di questi angelici spiriti, che circondavano questo santo monte, bastavano per renderlo un vero paradiso. Ma quanto più attonita restò la povera anima mia, quando si vide assai più favorita dal suo Dio, restai piena di smarrimento e di stupore, quando vidi dall’alto dei cieli un’immensa luce, nel mezzo della quale, vedevo tutto raggiante il divino agnello, che placidamente riposava ad occhi aperti, sopra quella luce inaccessibile. Fisso teneva il suo sguardo sopra la povera anima mia, e mi invitava acciò mi approssimassi a lui. Ma, oh Dio! l’anima sopraffatta da sommo timore, non aveva il coraggio di fare ciò; ma, annientata in se stessa, si profondava con umile rispetto e particolare reverenza, senza potermi muovere da dove mi trovavo, ma tremavo da capo a piedi, piena di rossore, mi confessavo indegnissima di trovarmi in luogo sì eccelso; ma siccome a questo portento prodigioso di misericordia vi era presente la grande imperatrice del cielo, Maria Vergine santissima, ah non resse il materno cuore della sovrana Regina nel vedere che tanto di pena provava la povera anima mia e che non poteva, per il grande timore, obbedire al cortese invito del divino Signore.

77.3. La Regina Maria mi accompagnò al trono dell’Agnello


Mossasi a compassione, la Madre di misericordia, di vedermi tanto annichilata, e priva di coraggio, per compiacere l’agnello divino, in persona venne l’amorosa Signora, piena di gloria e di maestà e di bellezza, a farmi coraggio, e lei stessa si degnò accompagnarmi vicino all’augusto trono dell’agnello divino. Quando fummo in una certa distanza, tre santi Angeli sollecitamente portarono tre ricchi sgabelli, in uno dei quali si adagiò la grande regina Maria santissima, nell’altro sgabello sedette il grande precursore Giovanni Battista, riccamente vestito e pieno di splendore, il quale, prima di adagiarsi sopra lo sgabello, fece tre profondi inchini. Io stavo in piedi, accanto a Maria santissima. Il suo splendore ricopriva la mia confusione. Io ero fuori di me stessa, nel vedere cose così grandi e così meravigliose, ed insieme così misteriose, che io non sapevo come andassero a terminare. Nel tempo che stavo così concentrata e piena di ammirazione, sopraffatta da santo timore, la Vergine santissima mi obbligò di adagiarmi sopra lo sgabello, seduta che fui anche io accanto alla divina Madre, il santo precursore sciolse la sua profetica lingua, ed encomiò il divino agnello e la sua Vergine Madre. Indirizzò il suo discorso alla povera anima mia, dicendomi parole di vita eterna; alle parole di questo santo glorioso, tutta mi disciolsi in lacrime d’amore e di compunzione. Terminato il suo discorso, ci alzammo tutti e tre in piedi, e in questo tempo vedo che un Angelo delle prime gerarchie, genuflesso ai piedi di Maria santissima, le presentò un ricchissimo calice, adorno di preziosissime gemme. Era questo calice coperto con la sua patena. La grande madre di Dio, prese il calice nelle sue santissime mani, il messaggero celeste, con profondo rispetto e riverenza, con un candidissimo panno levò dal calice la preziosa patena, e la divina Signora dette all’anima mia a bere di quel prezioso liquore. Oh balsamo! oh liquore divino di soavità ripieno! Quali mirabili effetti in quei preziosi momenti mi facesti provare! Quale trasmutazione facesti tu dell’anima mia! Qual fiamma di carità accendesti nel povero mio cuore! Quale illustrazione al mio intelletto! Qual lume alla mia mente! E chi potrà mai ridirne i prodigiosi effetti? Io no di certo. Sicché taccio, senza passare più oltre, mentre mi pare, che certi favori di Dio siano, per l’infinita bontà di Dio, compartiti alle anime, senza termini, senza misura, senza limiti. E chi ardirà di parlarne! Mi permetta, dunque, vostra paternità reverendissima, che io ponga fine a questo mio racconto gaudioso, e mi dia licenza di narrare come da questo gaudio passai a soffrire le pene più afflittive di spirito, di aridità, di oscurità, di foltissime tenebre, che la povera anima mia si ridusse in uno stato deplorabile. Sono certa che non recherà meraviglia a vostra paternità reverendissima questo mio racconto così luttuoso, benché al vivo e io non lo posso manifestare di qual tempra siano queste sorte di patimenti, in cui Dio pone le anime dopo di averle favorite; ma vostra reverenza, come perito di questa scienza, bene intende il tutto, benché io non mi sappia, per la mia ignoranza, spiegare. A me pare così: quanto più Dio si degna sollevare le anime con i suoi divini favori, tanto più gli dà a patire, sprofondandole nel cupo abisso del patire. Questo basti per dire tutto.

In questi gravissimi patimenti passò la povera anima mia il mese di agosto, settembre, ottobre, novembre e dicembre 1824; ma devo dire però, a gloria del medesimo Dio, che in questi quattro mesi, non mancò l’amorosissimo Signore, di tratto in tratto, favorire la povera anima mia, e così risorgerla dalle agonie mortali in cui si trovava; ma questi divini favori erano di poca durata, e formati tanto nell’intimo dell’anima, che appena ne aveva la cognizione, che si dileguavano dalla mia mente e tornavo nel mio doloroso conflitto. Qualcuno che ne ricordo lo scriverò, avendo trascurato lo scrivere, per i gravi patimenti che mi hanno ridotta come insensata.

77.4. L’imperatrice del cielo mi coronò con una preziosa corona


Il dì 15 agosto 1824, festa di Maria Santissima Assunta in cielo, dopo la santissima Comunione fu l’anima trasportata in un luogo amenissimo, bellissimo, dove vedevo questa divina Signora, cinta da immensa luce, corteggiata da una moltitudine di sante vergini e da stuolo immenso di Angeli. A questa vista, non posso al certo spiegare qual gioia, qual contento provò il mio cuore, godetti un paradiso di contento, allora sì non sentivo più le pene mie, ma un torrente di celeste gaudio inondava l’anima mia. La divina Signora si degnò chiamare a sé l’anima mia, ma io, per rispetto e riverenza, stavo ritrosa nell’obbedire al cenno della Vergine e Madre, ma due Angeli delle prime gerarchie si degnarono di accompagnarmi all’augusto suo trono, dove mi prostrai ginocchioni con umile rispetto e profonda riverenza, piena di confusione per vedermi così favorita in mezzo a tante sante vergini, che la loro bellezza e il loro splendore era incomprensibile; io non avevo coraggio di mirarle, perché ero tutta annientata in me stessa. Intanto la divina Signora si degnò coronare la mia testa con una preziosa corona; così disparve la celeste visione lasciando nel mio spirito i sentimenti più vivi di affetto e di amore verso l’Imperatrice del cielo. Riconoscendomi indegnissima di sì alto favore, la supplicavo con lacrime e con preghiere, acciò si degnasse concedermi la grazia di corrispondere ai tanti divini favori, che Dio mi ha compartiti per sua pura bontà.

77.5. Il purgatorio rimase poco meno che vuoto


Nel mese di settembre e ottobre 1824, per avere trascurato lo scrivere, so di avere ricevuti dei celesti favori, ma adesso che scrivo sono tanto avvolta nelle dense tenebre, non mi ricordo, né saprei dire, cosa siano questi celesti favori, perché dove mi volgo trovo il patire, se mi concentro mi par di morire. Il mio diletto se ne fugge da me. Invano lo cerco, con affanni e sospiri, l’amore si compiace nel vedermi patire, l’anima intanto, per compiacere l’amore, ansiosa brama di viepiù patire.

Nel mese di novembre 1824, nell’ottava dei defunti, fui favorita in tutti gli otto giorni di particolare grazia, in vantaggio delle anime sante del purgatorio. Dopo lunghe orazioni che facevo per suffragare le suddette anime, si degnava farsi vedere l’agnello divino. Con tutta piacevolezza mi domandava cosa bramavo. L’anima frettolosa rispondeva: «Ah, mio Signore, voi lo sapete, desidero liberare le anime sante dal purgatorio».

L’agnello divino così mi rispose piacevolmente: «Te ne concedo la grazia; a tuo arbitrio libera quante anime vuoi dal purgatorio». L’anima rispose: «Mio Dio, mio Signore, e come volete che io faccia a liberarle, se sono tanto miserabile e peccatrice? Gesù mio, venite voi con me a quel carcere, allora sono certa di liberarle!». «Sì», rispose il divino agnello, «andiamo, voglio compiacerti!».

Allora l’anima fu invitata dal suo Signore ad abbandonarsi sopra i sacri omeri del misterioso agnello, e così preceduti e seguiti da stuolo immenso di santi Angeli e da una splendidissima luce, che circondò l’agnello immacolato Gesù, l’anima intanto riposava sopra le spalle dell’agnello divino.

All’apparire quella splendida luce, nel tenebroso carcere, si sentivano i gemiti e le preghiere di quelle sante anime, che chiedevano misericordia e pietà. La povera anima mia, alle lamentevoli voci, si sentiva scoppiare il cuore, e soffocata mi sentivo da tenero pianto, dalla compassione mi pareva di morire.

Ognuno può immaginare con quanto fervore pregassi il mio buon Signore, stringendolo forte al mio cuore. Con sommo amore per quelle sante anime chiedevo misericordia e pietà. L’amante agnello così mi disse: «Figlia diletta mia, poni la tua mano nel forame del mio cuore, e lascia scorrere il mio sangue a larga copia». L’anima prontamente obbedì, ponendo con sommo rispetto e riverenza tre dita nel forame del sacro costato di Gesù Cristo, e immantinente si vide quel divino Agnello intriso del proprio sangue. Oh, sangue preziosissimo! io ti adoro profondamente.

L’anima, a questo prodigioso portento di amore, restò estatica per l’ammirazione e per il grande amore che sentiva verso l’amorosissimo Gesù. Quel sangue divino, che scorreva in larga copia, andò ad estinguere quelle atroci fiamme. Allora si vide la moltitudine di quelle sante anime purganti ripiene di gioia e di contento. Scesero allora in quel carcere i loro santi Angeli custodi, e le condussero con sommo gaudio al cielo, in mezzo ad una risplendente luce. La povera anima mia restò piena di contento, e fuori di se stessa, ammirando l’infinita bontà di Dio.

In tutti gli otto giorni dell’anniversario dei fedeli defunti mi seguì questo fatto, sempre nei medesimi termini. L’ultimo giorno ebbi il contento di vedere, con sommo mio stupore, quel carcere poco meno che vuoto.

Quali e quanti furono i ringraziamenti che fece l’anima al suo Dio, non ho termini di poterlo spiegare.

77.6. Verso una vita deiforme


Nel mese di dicembre 1824, proseguì l’anima a soffrire il suo martirio interno di abbandoni penosissimi, di desolazioni crudissime, di tenebre densissime. Solo provavo di tratto in tratto qualche interno soccorso, ma tanto intimo che l’anima appena lo poté distinguere.

Mentre mi pare che Dio stia facendo nell’anima mia un’opera, la quale non voglia manifestarla all’anima, sicché l’anima sente in sé l’opera del Signore, ma ne vive digiuna affatto.

L’opera per se stessa è molto dolorosa per lo spirito e per il corpo. Ciò nonostante, Dio si degna, per sua infinita bontà, di comunicare all’anima tanta fortezza, tanta compiacenza di adempire, di compiacere la sua santissima volontà, che lo stesso patire mi si converte in un gaudio di dolcezza; mentre le pene che soffro, interne ed esterne, non le cederei per tutto l’oro del mondo.

Conosco che questa è una sciocca comparanza: dico che le tengo tanto care, perché in queste pene trovo tutto il mio Dio. Dunque, felici pene, benedette pene, che mi unite al mio divino Signore!

L’opera che sta facendo Dio nella povera anima mia, se non sbaglio, mi pare che sia di mio grande profitto. Mentre Dio mi va spogliando di tutte le cose sensibili e intelligibili, immaginarie e ideabili, per lo ché in tutte le mie operazioni, esterne ed interne, mi pare di vivere secondo il divino beneplacito, non ricercando io alcun proprio utile, gusto e onore, ma l’unico compiacimento, interesse e gloria di Dio, al quale mi sono interamente tutta donata e consacrata, quindi mi pare che la bontà del Signore voglia ammettere la povera anima al passaggio di una vita deiforme.

Tutto soggetto con umile rispetto al savio consiglio di vostra paternità reverendissima, mentre non so se questo passaggio convenga ad un’anima tanto scellerata, tanto peccatrice come sono io.

Prego il mio Gesù crocifisso a dar lume a vostra riverenza, acciò possa conoscere e chiaramente distinguere se la povera anima mia vivesse mai ingannata da un falso spirito. Il tutto rimetto al dotto suo parere, dal quale dipende, per obbedienza dovutale, la mia quiete di spirito.



4-142 Settembre 3, 1902 Dice Gesù: Tutto ciò che meritai nella mia vita, lo cedetti a tutte le creature, in modo speciale e sovrabbondante a chi è vittima per amor mio.

Luisa Piccarreta (Libro di Cielo)

(1) Questa mattina, trovandomi nel solito mio stato, mi sono sentita venire un male naturale, tanto forte, da sentirmi morire. Onde temendo che potessi passare dal tempo all’eternità, e molto più temevo ché il benedetto Gesù appena viene, ed al più ad ombra, ché se ci veniva secondo il solito, io non temeva punto, quindi per fare che mi potessi trovare in buon punto, pregavo il Signore che mi cedesse l’esercizio della sua santa mente per soddisfare ai mali che ho potuto fare coi miei pensieri, i suoi occhi, la sua bocca, le sue mani, i piedi, il cuore, e tutto il suo sacratissimo corpo per soddisfare a tutti i mali che ho potuto commettere, ed a tutto il bene che doveva fare e non ho fatto. Mentre ciò facevo, il benedetto Gesù è venuto tutto vestito a festa, in atto di ricevermi tra le sue braccia e mi ha detto:

(2) “Figlia mia, tutto ciò che meritai, cedetti a tutte le creature, in modo speciale e sovrabbondante a chi è vittima per amor mio; ecco che tutto ciò che vuoi ti cedo non solo a te, ma a chi vuoi tu”.

(3) Ed io ricordandomi del confessore gli ho detto: “Signore, se mi portate vi prego di contentare il padre”. E Lui:

(4) “E’ certo che qualche ricompensa ha ricevuto mercé la carità che ti ha fatto; e siccome lui ha cooperato, venendo tu a Me nell’ambiente dell’eternità, altra ricompensa gli darò”.

(5) Il male ingagliardiva sempre più, ma mi sentivo felice trovandomi al porto dell’Eternità. In questo mentre è venuto il confessore e mi ha chiamato all’ubbidienza. Io avrei voluto tacere tutto, ma lui mi ha obbligato di dire tutto, e lui se n’è uscito col solito ritornello di non dover morire per ubbidienza, con tutto ciò il male non cessava.