Sotto il Tuo Manto

Lunedi, 8 settembre 2025 - Natività Beata Vergine Maria (Letture di oggi)

Dobbiamo avere amore, gentilezza ed eroismo che tocchi il cuore di Dio e porti molte anime al cuore ferito di Gesù. Come debbono essere pure le nostre mani se devono toccare il corpo di Cristo così come il sacerdote lo tocca sotto le apparenze del pane sull'al­tare! con quanto amore, devozione e fede egli alza l'Ostia Consacrata: dobbiamo avere gli stessi sentimenti quando solleviamo il corpo di un povero mala­to. Mettiamo lo stesso amore, la stessa fede e devozio­ne nei nostri atti ed egli lo accetterà  come se l'avessi­mo fatto personalmente a lui. (Madre Teresa di Calcutta)

Liturgia delle Ore - Letture

Lunedi della 14° settimana del tempo ordinario

Questa sezione contiene delle letture scelte a caso, provenienti dalle varie sezioni del sito (Sacra Bibbia e la sezione Biblioteca Cristiana), mentre l'ultimo tab Apparizioni, contiene messaggi di apparizioni a mistici o loro scritti. Sono presenti testi della Valtorta, Luisa Piccarreta, don Stefano Gobbi e testimonianze di apparizioni mariane riconosciute.

Vangelo secondo Luca 24

1Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato.2Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro;3ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù.4Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti.5Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: "Perché cercate tra i morti colui che è vivo?6Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea,7dicendo che bisognava che il Figlio dell'uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno".8Ed esse si ricordarono delle sue parole.

9E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri.10Erano Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli.11Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse.

12Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l'accaduto.

13Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Èmmaus,14e conversavano di tutto quello che era accaduto.15Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro.16Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo.17Ed egli disse loro: "Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?". Si fermarono, col volto triste;18uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: "Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?".19Domandò: "Che cosa?". Gli risposero: "Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo;20come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso.21Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute.22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro23e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo.24Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto".
25Ed egli disse loro: "Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti!26Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?".27E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.28Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano.29Ma essi insistettero: "Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino". Egli entrò per rimanere con loro.30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro.31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista.32Ed essi si dissero l'un l'altro: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?".33E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro,34i quali dicevano: "Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone".35Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

36Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: "Pace a voi!".37Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma.38Ma egli disse: "Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?39Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho".40Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi.41Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: "Avete qui qualche cosa da mangiare?".42Gli offrirono una porzione di pesce arrostito;43egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.

44Poi disse: "Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi".45Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse:46"Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno47e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.48Di questo voi siete testimoni.49E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto".

50Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse.51Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo.52Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia;53e stavano sempre nel tempio lodando Dio.


Giosuè 6

1Ora Gèrico era saldamente sbarrata dinanzi agli Israeliti; nessuno usciva e nessuno entrava.2Disse il Signore a Giosuè: "Vedi, io ti metto in mano Gèrico e il suo re. Voi tutti prodi guerrieri,3tutti atti alla guerra, girerete intorno alla città, facendo il circuito della città una volta. Così farete per sei giorni.4Sette sacerdoti porteranno sette trombe di corno d'ariete davanti all'arca; il settimo giorno poi girerete intorno alla città per sette volte e i sacerdoti suoneranno le trombe.5Quando si suonerà il corno dell'ariete, appena voi sentirete il suono della tromba, tutto il popolo proromperà in un grande grido di guerra, allora le mura della città crolleranno e il popolo entrerà, ciascuno diritto davanti a sé".
6Giosuè, figlio di Nun, convocò i sacerdoti e disse loro: "Portate l'arca dell'alleanza; sette sacerdoti portino sette trombe di corno d'ariete davanti all'arca del Signore".7Disse al popolo: "Mettetevi in marcia e girate intorno alla città e il gruppo armato passi davanti all'arca del Signore".8Come Giosuè ebbe parlato al popolo, i sette sacerdoti, che portavano le sette trombe d'ariete davanti al Signore, si mossero e suonarono le trombe, mentre l'arca dell'alleanza del Signore li seguiva;9l'avanguardia precedeva i sacerdoti che suonavano le trombe e la retroguardia seguiva l'arca; si procedeva a suon di tromba.10Al popolo Giosuè aveva ordinato: "Non urlate, non fate neppur sentire la voce e non una parola esca dalla vostra bocca finché vi dirò: Lanciate il grido di guerra, allora griderete".11L'arca del Signore girò intorno alla città facendo il circuito una volta, poi tornarono nell'accampamento e passarono la notte nell'accampamento.
12Di buon mattino Giosuè si alzò e i sacerdoti portarono l'arca del Signore;13i sette sacerdoti, che portavano le sette trombe di ariete davanti all'arca del Signore, avanzavano suonando le trombe; l'avanguardia li precedeva e la retroguardia seguiva l'arca del Signore; si marciava a suon di tromba.14Girarono intorno alla città, il secondo giorno, una volta e tornarono poi all'accampamento. Così fecero per sei giorni.
15Al settimo giorno essi si alzarono al sorgere dell'aurora e girarono intorno alla città in questo modo per sette volte; soltanto in quel giorno fecero sette volte il giro intorno alla città.16Alla settima volta i sacerdoti diedero fiato alle trombe e Giosuè disse al popolo: "Lanciate il grido di guerra perché il Signore mette in vostro potere la città.
17La città con quanto vi è in essa sarà votata allo sterminio per il Signore; soltanto Raab, la prostituta, vivrà e chiunque è con lei nella casa, perché ha nascosto i messaggeri che noi avevamo inviati.18Solo guardatevi da ciò che è votato allo sterminio, perché, mentre eseguite la distruzione, non prendiate qualche cosa di ciò che è votato allo sterminio e rendiate così votato allo sterminio l'accampamento di Israele e gli portiate disgrazia.19Tutto l'argento, l'oro e gli oggetti di rame e di ferro sono cosa sacra per il Signore, devono entrare nel tesoro del Signore".20Allora il popolo lanciò il grido di guerra e si suonarono le trombe. Come il popolo udì il suono della tromba ed ebbe lanciato un grande grido di guerra, le mura della città crollarono; il popolo allora salì verso la città, ciascuno diritto davanti a sé, e occuparono la città.21Votarono poi allo sterminio, passando a fil di spada, ogni essere che era nella città, dall'uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino il bue, l'ariete e l'asino.
22Ai due uomini che avevano esplorato il paese, Giosuè disse: "Entrate nella casa della prostituta, conducete fuori lei e quanto le appartiene, come le avete giurato".23Entrarono i giovani esploratori e condussero fuori Raab, suo padre, sua madre, i suoi fratelli e tutto quanto le apparteneva; fecero uscire tutta la sua famiglia e li stabilirono fuori dell'accampamento di Israele.24Incendiarono poi la città e quanto vi era, soltanto l'argento, l'oro e gli oggetti di rame e di ferro deposero nel tesoro della casa del Signore.25Giosuè però lasciò in vita Raab, la prostituta, la casa di suo padre e quanto le apparteneva, ed essa abita in mezzo ad Israele fino ad oggi, perché aveva nascosto gli esploratori che Giosuè aveva inviato a Gèrico.
26In quella circostanza Giosuè fece giurare: "Maledetto davanti al Signore l'uomo che si alzerà e ricostruirà questa città di Gèrico! Sul suo primogenito ne getterà le fondamenta e sul figlio minore ne erigerà le porte!".
27Il Signore fu con Giosuè, la cui fama si sparse in tutto il paese.


Salmi 72

1'Di Salomone.'

Dio, da'al re il tuo giudizio,
al figlio del re la tua giustizia;
2regga con giustizia il tuo popolo
e i tuoi poveri con rettitudine.

3Le montagne portino pace al popolo
e le colline giustizia.
4Ai miseri del suo popolo renderà giustizia,
salverà i figli dei poveri
e abbatterà l'oppressore.
5Il suo regno durerà quanto il sole,
quanto la luna, per tutti i secoli.

6Scenderà come pioggia sull'erba,
come acqua che irrora la terra.
7Nei suoi giorni fiorirà la giustizia
e abbonderà la pace,
finché non si spenga la luna.
8E dominerà da mare a mare,
dal fiume sino ai confini della terra.

9A lui si piegheranno gli abitanti del deserto,
lambiranno la polvere i suoi nemici.
10Il re di Tarsis e delle isole porteranno offerte,
i re degli Arabi e di Saba offriranno tributi.
11A lui tutti i re si prostreranno,
lo serviranno tutte le nazioni.

12Egli libererà il povero che grida
e il misero che non trova aiuto,
13avrà pietà del debole e del povero
e salverà la vita dei suoi miseri.
14Li riscatterà dalla violenza e dal sopruso,
sarà prezioso ai suoi occhi il loro sangue.

15Vivrà e gli sarà dato oro di Arabia;
si pregherà per lui ogni giorno,
sarà benedetto per sempre.
16Abbonderà il frumento nel paese,
ondeggerà sulle cime dei monti;
il suo frutto fiorirà come il Libano,
la sua messe come l'erba della terra.

17Il suo nome duri in eterno,
davanti al sole persista il suo nome.
In lui saranno benedette
tutte le stirpi della terra
e tutti i popoli lo diranno beato.
18Benedetto il Signore, Dio di Israele,
egli solo compie prodigi.
19E benedetto il suo nome glorioso per sempre,
della sua gloria sia piena tutta la terra.
Amen, amen.


Salmi 106

1Alleluia.

Celebrate il Signore, perché è buono,
perché eterna è la sua misericordia.
2Chi può narrare i prodigi del Signore,
far risuonare tutta la sua lode?
3Beati coloro che agiscono con giustizia
e praticano il diritto in ogni tempo.

4Ricordati di noi, Signore, per amore del tuo popolo,
visitaci con la tua salvezza,
5perché vediamo la felicità dei tuoi eletti,
godiamo della gioia del tuo popolo,
ci gloriamo con la tua eredità.

6Abbiamo peccato come i nostri padri,
abbiamo fatto il male, siamo stati empi.
7I nostri padri in Egitto
non compresero i tuoi prodigi,
non ricordarono tanti tuoi benefici
e si ribellarono presso il mare, presso il mar Rosso.
8Ma Dio li salvò per il suo nome,
per manifestare la sua potenza.

9Minacciò il mar Rosso e fu disseccato,
li condusse tra i flutti come per un deserto;
10li salvò dalla mano di chi li odiava,
li riscattò dalla mano del nemico.
11L'acqua sommerse i loro avversari;
nessuno di essi sopravvisse.
12Allora credettero alle sue parole
e cantarono la sua lode.

13Ma presto dimenticarono le sue opere,
non ebbero fiducia nel suo disegno,
14arsero di brame nel deserto,
e tentarono Dio nella steppa.
15Concesse loro quanto domandavano
e saziò la loro ingordigia.

16Divennero gelosi di Mosè negli accampamenti,
e di Aronne, il consacrato del Signore.
17Allora si aprì la terra e inghiottì Datan,
e seppellì l'assemblea di Abiron.
18Divampò il fuoco nella loro fazione
e la fiamma divorò i ribelli.

19Si fabbricarono un vitello sull'Oreb,
si prostrarono a un'immagine di metallo fuso;
20scambiarono la loro gloria
con la figura di un toro che mangia fieno.
21Dimenticarono Dio che li aveva salvati,
che aveva operato in Egitto cose grandi,
22prodigi nel paese di Cam,
cose terribili presso il mar Rosso.
23E aveva già deciso di sterminarli,
se Mosè suo eletto
non fosse stato sulla breccia di fronte a lui,
per stornare la sua collera dallo sterminio.

24Rifiutarono un paese di delizie,
non credettero alla sua parola.
25Mormorarono nelle loro tende,
non ascoltarono la voce del Signore.
26Egli alzò la mano su di loro
giurando di abbatterli nel deserto,
27di disperdere i loro discendenti tra le genti
e disseminarli per il paese.

28Si asservirono a Baal-Peor
e mangiarono i sacrifici dei morti,
29provocarono Dio con tali azioni
e tra essi scoppiò una pestilenza.
30Ma Finees si alzò e si fece giudice,
allora cessò la peste
31e gli fu computato a giustizia
presso ogni generazione, sempre.

32Lo irritarono anche alle acque di Meriba
e Mosè fu punito per causa loro,
33perché avevano inasprito l'animo suo
ed egli disse parole insipienti.

34Non sterminarono i popoli
come aveva ordinato il Signore,
35ma si mescolarono con le nazioni
e impararono le opere loro.
36Servirono i loro idoli
e questi furono per loro un tranello.
37Immolarono i loro figli
e le loro figlie agli dèi falsi.
38Versarono sangue innocente,
il sangue dei figli e delle figlie
sacrificati agli idoli di Canaan;
la terra fu profanata dal sangue,
39si contaminarono con le opere loro,
si macchiarono con i loro misfatti.

40L'ira del Signore si accese contro il suo popolo,
ebbe in orrore il suo possesso;
41e li diede in balìa dei popoli,
li dominarono i loro avversari,
42li oppressero i loro nemici
e dovettero piegarsi sotto la loro mano.
43Molte volte li aveva liberati;
ma essi si ostinarono nei loro disegni
e per le loro iniquità furono abbattuti.
44Pure, egli guardò alla loro angoscia
quando udì il loro grido.
45Si ricordò della sua alleanza con loro,
si mosse a pietà per il suo grande amore.
46Fece loro trovare grazia
presso quanti li avevano deportati.
47Salvaci, Signore Dio nostro,
e raccoglici di mezzo ai popoli,
perché proclamiamo il tuo santo nome
e ci gloriamo della tua lode.

48Benedetto il Signore, Dio d'Israele
da sempre, per sempre.
Tutto il popolo dica: Amen.


Daniele 5

1Il re Baldassàr imbandì un gran banchetto a mille dei suoi dignitari e insieme con loro si diede a bere vino.2Quando Baldassàr ebbe molto bevuto comandò che fossero portati i vasi d'oro e d'argento che Nabucodònosor suo padre aveva asportati dal tempio, che era in Gerusalemme, perché vi bevessero il re e i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine.3Furono quindi portati i vasi d'oro, che erano stati asportati dal tempio di Gerusalemme, e il re, i suoi grandi, le sue mogli e le sue concubine li usarono per bere;4mentre bevevano il vino, lodavano gli dèi d'oro, d'argento, di bronzo, di ferro, di legno e di pietra.5In quel momento apparvero le dita di una mano d'uomo, le quali scrivevano sulla parete della sala reale, di fronte al candelabro. Nel vedere quelle dita che scrivevano,6il re cambiò d'aspetto: spaventosi pensieri lo assalirono, le giunture dei suoi fianchi si allentarono, i ginocchi gli battevano l'uno contro l'altro.
7Allora il re si mise a gridare, ordinando che si convocassero gli astrologi, i caldei e gli indovini. Appena vennero, il re disse ai saggi di Babilonia: "Chiunque leggerà quella scrittura e me ne darà la spiegazione sarà vestito di porpora, porterà una collana d'oro al collo e sarà il terzo signore del regno".
8Allora entrarono nella sala tutti i saggi del re, ma non poterono leggere quella scrittura né darne al re la spiegazione.
9Il re Baldassàr rimase molto turbato e cambiò colore; anche i suoi grandi restarono sconcertati.
10La regina, alle parole del re e dei suoi grandi, entrò nella sala del banchetto e, rivolta al re, gli disse: "Re, vivi per sempre! I tuoi pensieri non ti spaventino né si cambi il colore del tuo volto.11C'è nel tuo regno un uomo, in cui è lo spirito degli dèi santi. Al tempo di tuo padre si trovò in lui luce, intelligenza e sapienza pari alla sapienza degli dèi. Il re Nabucodònosor tuo padre lo aveva fatto capo dei maghi, degli astrologi, dei caldei e degli indovini.12Fu riscontrato in questo Daniele, che il re aveva chiamato Baltazzàr, uno spirito superiore e tanto accorgimento da interpretare sogni, spiegare detti oscuri, sciogliere enigmi. Si convochi dunque Daniele ed egli darà la spiegazione".
13Fu quindi introdotto Daniele alla presenza del re ed egli gli disse: "Sei tu Daniele un deportato dei Giudei, che il re mio padre ha condotto qua dalla Giudea?14Ho inteso dire che tu possiedi lo spirito degli dèi santi e che si trova in te luce, intelligenza e sapienza straordinaria.15Poco fa sono stati condotti alla mia presenza i saggi e gli astrologi per leggere questa scrittura e darmene la spiegazione, ma non sono stati capaci.16Ora, mi è stato detto che tu sei esperto nel dare spiegazioni e sciogliere enigmi. Se quindi potrai leggermi questa scrittura e darmene la spiegazione, tu sarai vestito di porpora, porterai al collo una collana d'oro e sarai il terzo signore del regno".
17Daniele rispose al re: "Tieni pure i tuoi doni per te e da' ad altri i tuoi regali: tuttavia io leggerò la scrittura al re e gliene darò la spiegazione.
18O re, il Dio altissimo aveva dato a Nabucodònosor tuo padre regno, grandezza, gloria e magnificenza.19Per questa grandezza che aveva ricevuto, tutti i popoli, nazioni e lingue lo temevano e tremavano davanti a lui: egli uccideva chi voleva, innalzava chi gli piaceva e abbassava chi gli pareva.
20Ma, quando il suo cuore si insuperbì e il suo spirito si ostinò nell'alterigia, fu deposto dal trono e gli fu tolta la sua gloria.
21Fu cacciato dal consorzio umano e il suo cuore divenne simile a quello delle bestie; la sua dimora fu con gli ònagri e mangiò l'erba come i buoi; il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, finché riconobbe che il Dio altissimo domina sul regno degli uomini, sul quale innalza chi gli piace.22Tu, Baldassàr suo figlio, non hai umiliato il tuo cuore, sebbene tu fossi a conoscenza di tutto questo.23Anzi tu hai insolentito contro il Signore del cielo e sono stati portati davanti a te i vasi del suo tempio e in essi avete bevuto tu, i tuoi dignitari, le tue mogli, le tue concubine: tu hai reso lode agli dèi d'oro, d'argento, di bronzo, di ferro, di legno, di pietra, i quali non vedono, non odono e non comprendono e non hai glorificato Dio, nelle cui mani è la tua vita e a cui appartengono tutte le tue vie.24Da lui fu allora mandata quella mano che ha tracciato quello scritto,25di cui questa è la lettura: MENE, TEKEL, PERES,26e questa ne è l'interpretazione: 'Mene': Dio ha computato il tuo regno e gli ha posto fine.27'Tekel': tu sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato mancante.28'Peres': il tuo regno è diviso e dato ai Medi e ai Persiani".29Allora, per ordine di Baldassàr, Daniele fu vestito di porpora, ebbe una collana d'oro al collo e con bando pubblico fu dichiarato terzo signore del regno.
30In quella stessa notte Baldassàr re dei Caldei fu ucciso:31Dario il Medo ricevette il regno, all'età di circa sessantadue anni.


Prima lettera di Giovanni 2

1Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto.2Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.

3Da questo sappiamo d'averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti.4Chi dice: "Lo conosco" e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui;5ma chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di essere in lui.6Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato.
7Carissimi, non vi scrivo un nuovo comandamento, ma un comandamento antico, che avete ricevuto fin da principio. Il comandamento antico è la parola che avete udito.8E tuttavia è un comandamento nuovo quello di cui vi scrivo, il che è vero in lui e in voi, perché le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende.9Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre.10Chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v'è in lui occasione di inciampo.11Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi.

12Scrivo a voi, figlioli,
perché vi sono stati rimessi i peccati in virtù del suo nome.
13Scrivo a voi, padri,
perché avete conosciuto colui che è fin dal principio.
Scrivo a voi, giovani,
perché avete vinto il maligno.
14Ho scritto a voi, figlioli,
perché avete conosciuto il Padre.
Ho scritto a voi, padri,
perché avete conosciuto colui che è fin dal principio.
Ho scritto a voi, giovani,
perché siete forti,
e la parola di Dio dimora in voi
e avete vinto il maligno.

15Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui;16perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo.17E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!

18Figlioli, questa è l'ultima ora. Come avete udito che deve venire l'anticristo, di fatto ora molti anticristi sono apparsi. Da questo conosciamo che è l'ultima ora.19Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; ma doveva rendersi manifesto che non tutti sono dei nostri.20Ora voi avete l'unzione ricevuta dal Santo e tutti avete la scienza.21Non vi ho scritto perché non conoscete la verità, ma perché la conoscete e perché nessuna menzogna viene dalla verità.22Chi è il menzognero se non colui che nega che Gesù è il Cristo? L'anticristo è colui che nega il Padre e il Figlio.23Chiunque nega il Figlio, non possiede nemmeno il Padre; chi professa la sua fede nel Figlio possiede anche il Padre.
24Quanto a voi, tutto ciò che avete udito da principio rimanga in voi. Se rimane in voi quel che avete udito da principio, anche voi rimarrete nel Figlio e nel Padre.25E questa è la promessa che egli ci ha fatto: la vita eterna.
26Questo vi ho scritto riguardo a coloro che cercano di traviarvi.27E quanto a voi, l'unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna.
28E ora, figlioli, rimanete in lui, perché possiamo aver fiducia quando apparirà e non veniamo svergognati da lui alla sua venuta.29Se sapete che egli è giusto, sappiate anche che chiunque opera la giustizia, è nato da lui.


Capitolo LV: La corruzione della natura e la potenza della grazia divina

Leggilo nella Biblioteca

1. O Signore mio Dio, che mi hai creato a tua immagine e somiglianza, concedimi questa grazia grande, indispensabile per la salvezza, come tu ci hai rivelato; così che io possa superare la mia natura, tanto malvagia, che mi trae al peccato e alla perdizione. Ché, nella mia carne, io sento, contraria alla "legge della mia ragione, la legge del peccato" (Rm 7,23), la quale mi fa schiavo e di frequente mi spinge ad obbedire ai sensi. E io non posso far fronte alle passioni peccaminose, provenienti da questa legge del peccato, se non mi assiste la tua grazia santissima, infusa nel mio cuore, che ne avvampa. Appunto una tua grazia occorre, una grazia grande, per vincere la natura, sempre proclive al male, fin dal principio. Infatti, per colpa del primo uomo Adamo, la natura decadde, corrotta dal peccato; e la triste conseguenza di questa macchia passò in tutti gli uomini, talché quella "natura", da te creata buona e retta, ormai è intesa come "vizio e debolezza della natura corrotta". Così, per la libertà che le è lasciata, la natura trascina verso il male e verso il basso. E quel poco di forza che rimane nella natura è come una scintilla coperta dalla cenere. E' questa la ragione naturale, che, pur se circondata da oscurità, è ancora capace di giudicare il bene ed il male, e di separare il vero dal falso; anche se non riesce a compiere tutto quello che riconosce come buono, anche se non possiede la pienezza del lume della verità e la perfetta purezza dei suoi affetti. E' per questo, o mio Dio, che "nello spirito, mi compiaccio della tua legge" (Rm 7,22), sapendo che il tuo comando è buono, giusto e santo, tale che ci invita a fuggire ogni male e ogni peccato. Invece, nella carne, io mi sottometto alla legge del peccato, obbedendo più ai sensi che alla ragione. E' per questo che "volere il bene mi è facile, ma a compiere il bene non riesco" (Rm 7,18). E' per questo che vado spesso proponendomi molte buone cose; ma mi manca la grazia che mi aiuti nella mia debolezza, e mi ritiro e vengo meno anche per una piccola difficoltà. E' per questo che mi avviene di conoscere la via della perfezione e di vedere con chiarezza quale debba essere la mia condotta; ma poi, schiacciato dal peso della corruzione dell'umanità, non riesco a salire a cose più elevate.

2. La tua grazia, o Signore, mi è davvero massimamente necessaria per cominciare, portare avanti e condurre a compimento il bene: "senza di essa non posso far nulla" (Gv 15,5), "mentre tutto posso in te" che mi dai forza, con la tua grazia (Fil 4,13). Grazia veramente di cielo, questa; mancando la quale i nostri meriti sono un nulla, e un nulla si devono considerare anche i doni naturali. Abilità e ricchezza, bellezza e forza, intelligenza ed eloquenza, nulla valgono presso di te, o Signore, se manca la grazia. Ché i doni di natura li hanno sia i buoni che i cattivi; mentre dono proprio degli eletti è la grazia, cioè l'amore di Dio. Rivestiti di tale grazia, gli eletti sono ritenuti degni della vita eterna. Tutto sovrasta, questa grazia; tanto che né il dono della profezia, né il potere di operare miracoli, né la più alta contemplazione non valgono nulla, senza di essa. Neppure la fede, neppure la speranza, né le altre virtù sono a te accette, senza la carità e la grazia.

3. O grazia beata, che fai ricco di virtù chi è povero nello spirito e fai ricco di molti beni chi è umile di cuore, vieni, discendi in me, colmami, fin dal mattino della tua consolazione, cosicché l'anima mia non venga meno per stanchezza e aridità interiore! Ti scongiuro, o Signore: che io trovi grazia ai tuoi occhi. La tua gloria mi basta (2Cor 12,9), pur se non otterrò tutto quello cui tende la natura umana. Anche se sarò tentato e angustiato da molte tribolazioni, non temerò alcun male, finché la tua grazia sarà con me. Essa mi dà forza, guida ed aiuto; vince tutti i nemici, è più sapiente di tutti i sapienti. Essa è maestra di verità e di vita, luce del cuore, conforto nell'afflizione. Essa mette in fuga la tristezza, toglie il timore, alimenta la pietà, genera le lacrime. Che cosa sono io mai, senza la grazia, se non un legno secco, un ramo inutile, da buttare via? "La tua grazia, dunque, o Signore, mi preceda sempre e mi segua, e mi conceda di essere sempre pronto a operare, per Gesù Cristo, Figlio tuo. Amen. (Messale Romano, oremus della XVI domenica dopo Pentecoste).


Protreptico ai Greci

San Clemente Alessandrino - San Clemente Alessandrino

Leggilo nella Biblioteca

Capitolo 1


Amfione tebano e Arione di Metimna furono, tutti e due, abili nel canto, e, tutti. e due, mito e ancora questo loro canto è... argomento di canto per il coro degli Elleni - a causa dell'arte musicale per la quale l'uno adescò un pesce, l'altro cinse di mura Tebe. Un altro cantore, un trace (altro mito ellenico, questo), ammansiva le fiere col semplice canto e trapiantava da un posto all'altro gli alberi, i faggi, per mezzo della musica. Potrei narrarti anche un altro mito, fratello di questi, e parlarti di un altro cantore, Eunomo locrese, e della cicala Pitica. Era raccolta a Pito una solenne adunanza di Elleni, per celebrare la morte del serpente, ed era Eunomo che cantava il canto funebre del rettile; se questo canto fosse un inno o un lamento funebre sul serpente non saprei dire: quello che è certo è che vi era una gara, ed Eunomo suonava la cetra nell'ora della calura, quando le cicale, scaldate dal sole, cantavano sotto le foglie, su per i monti. Esse cantavano certamente, non in onore del serpente morto, del Pitico, ma del Dio sapientissimo un canto sciolto da ogni legge, migliore dei canti di Eunomo, regolati da leggi. Ed ecco si spezza una corda al Locrese, la cicala vola sul giogo della cetra, trillava sopra lo strumento musicale come su di un ramo: e il cantore, adattato il suo al canto della cicala, suppl in tal modo la corda mancante. Non fu dunque la cicala a essere attirata dal canto di Eunomo, come vuole il mito, che innalzò a Pito una statua di bronzo raffigurante Eunomo con la sua cetra, e la alleata del Locrese nella gara: ma spontaneamente essa vola sulla cetra, e canta spontaneamente, mentre agli Elleni, invece, sembra che essa non abbia fatto che rispondere alla musica di quello. Come dunque avete potuto prestar fede a vane favole, fino a supporre che gli animali siano affascinati dalla musica? Invece, solo il volto luminoso della verità (a quanto pare) vi sembra imbellettato, ed è guardato da voi con diffidenza. E cosi, il Citerone e l'Elicona e i monti degli Odrisi e dei Traci, luoghi di iniziazione all'errore, a causa dei misteri sono stati consacrati e celebrati con inni. Io, sebbene non si tratti che di favole, mi commuovo alle tante sventure, che sogliono essere argomento di tragedie: per voi invece le storie luttuose sono diventate drammi, e gli attori dei drammi spettacolo di gioia. Ma i drammi, e i poeti concorrenti alle Lenee, e già completamente ebbri, recingiamoli magari di edera, mentre essi delirano stranamente nel celebrare il bacchico rito, ma... rinchiudiamoli, insieme coi satiri e il tiaso furente e col restante coro di demoni, nei già invecchiati Elicona e Citerone. E facciamo scendere, invece, dall'alto, dal cielo, la Verità, insieme con la splendidissima Sapienza, verso il monte sacro di Dio e il coro sacro dei profeti. Ed essa, brillando di una luce che splende quanto più lontano è possibile, illumini dappertutto coloro che si rotolano nelle tenebre, e liberi gli uomini dall'errore, tendendo la sua altissima mano, cioè l'intelligenza, verso la salvezza. Ed essi, rialzate le loro teste, e levati gli occhi verso l'alto, lascino il Citerone e l'Elicona ed abitino Sion: "Da Sion infatti uscirà la Legge e il Verbo del Signore da Gerusalemme", cioè il Verbo celeste, il genuino competitore, incoronato nel teatro di tutto il mondo. E il mio Eunomo canta, non sul modo di Terpandro Nè su quello di Capione, e neppure su quello frigio o lidio o dorico, ma sull'eterno modo della nuova armonia, che ha nome da Dio, "il canto nuovo", il canto levitico: che duolo ed ira lenisce e dà l'oblio d'ogni male. Dolce e verace farmaco contro il dolore è stato infuso in questo canto. Mi sembra perciò che quel Trace e il Tebano e il Metimneo siano stati una sorta di uomini che non sono uomini, degli impostori, e che col pretesto della musica avendo corrotto la vita umana, per mezzo di qualche abile incantesimo essendo invasati dal demone, per condurre gli uomini alla rovina, celebrando delle efferatezze nei riti dei misteri e facendo dei lutti l'oggetto di onori divini, per primi abbiano tratto gli uomini al culto degli idoli: e con pietre e con tavole, cioè con statue e pitture, abbiano posto le fondamenta alla balordaggine della consuetudine, aggiogando alla estrema schiavitù, coi loro canti e i loro incantamenti, quella libertà veramente bella, di coloro che sono liberi cittadini sotto il cielo. Ma non tale è il mio cantore, Nè è giunto per sciogliere in lungo tempo l'amara schiavitù dei demoni che ci tiranneggiano: ma facendoci passare dal giogo dei demoni al giogo mite e filantropico della pietà, di nuovo richiama verso il cielo quelli che sono stati scagliati sulla terra. Solo lui infatti, fra quanti mai furono, mansuefaceva le fiere più selvagge di tutte, cioè gli uomini: mansuefaceva volatili, cioè gli uomini leggeri, rettili, cioè gli ingannatori, leoni, cioè gli iracondi, porci, cioè gli uomini dediti ai piaceri, lupi, cioè gli uomini rapaci. Pietre e legno sono gli inintelligenti, ma anche più insensibile delle pietre è l'uomo immerso nell'ignoranza. Testimone venga a noi la voce profetica, che s'accorda col canto della verità, voce che compiange coloro che si son consumati nell'ignoranza e nella follia: "Dio è capace di far sorgere da queste pietre dei figli ad Abramo ": Dio, il quale, avendo commiserato la grande stupidità e la durezza di cuore di quelli che sono diventati pietre rispetto alla verità, destò il seme della pietà, dotato del sentimento della virtù, da quelle pietre, cioè, dalle genti che hanno creduto nelle pietre. Un'altra volta, in un certo punto ha chiamato "prole di vipere" certi ipocriti velenosi e versipelle, che tendono insidie alla giustizia. Ma anche di questi serpenti, se qualcuno di sua volontà si penta, seguendo il Verbo, diventa "uomo di Dio ". Altri chiama allegoricamente "lupi", vestiti di pelli di pecore, intendendo significare i rapaci in forme di uomini. E tutte queste selvaggissime fiere, e le consimili pietre, lo stesso canto celeste le trasformò in uomini mansueti. "Eravamo infatti, eravamo una volta anche noi dissennati, disobbedienti, erranti, schiavi di piaceri e desideri vani, viventi nella malizia e nell'invidia, odiosi e odiantici l'un l'altro", come dice la Scrittura Apostolica, "ma quando apparve la bontà e la filantropia di Dio, nostro Salvatore, essa ci salvò, non per effetto delle opere che noi compiemmo in giustizia, ma secondo la sua misericordia". Vedi quanto potè il nuovo canto! Esso ha fatto uomini dalle pietre e uomini dalle fiere. Quelli che erano altrimenti morti, perchè non erano partecipi di quella che è veramente vita, solo ch'ebbero ascoltato il canto, rivissero. Questo canto anche ordinò armoniosamente l'universo, e accordò la dissonanza degli elementi in un ordine di consonanza, affinchè l'intero cosmo si armonizzasse con esso: e lasciò andare libero il mare, ma gli imped di invadere la terra, e rese ferma, al contrario, la terra, che prima era mobile, e la fissò come confine del mare. E calmò l'impeto del fuoco con l'aria, quasi che temperasse l'armonia dorica con la lidia; e mitigò il rigido freddo dell'aria con la mescolanza del fuoco, temperando armonicamente queste estreme note dell'universo. E questo canto incorrotto - sostegno del tutto e armonia dell'universo - che si estese dal centro alle estremità e dai vertici al centro, armonizzò questo tutto, non secondo la musica tracia, che è simile a quella di Iubal, ma secondo la paterna volontà di Dio, che David emulò. Il Verbo di Dio, nato da David ed esistente prima di lui, disprezzò la lira e la cetra, strumenti inanimati, e, avendo armonizzato collo Spirito Santo questo mondo, ed il piccolo mondo, cioè l'uomo, la sua anima come il suo corpo, suona a Dio per mezzo di questo strumento di molte voci, e canta con questo strumento che è l'uomo: " Giacchè tu sei per me cetra e flauto e tempio ": cetra, per l'armonia, flauto, per lo spirito, tempio, per il Verbo, affinchè l'una risuoni, l'altro spiri, e l'altro comprenda il Signore. Appunto David, il re, il citarista, di cui poco fa abbiamo fatto menzione, esortava alla verità, distoglieva dagli idoli, e molto era lontano dal celebrare i demoni, i quali anzi erano scacciati da lui con la musica verace, con la quale egli col solo canto guar Saul, quando questi era posseduto da essi. Il Signore fece l'uomo bello, spirante strumento, fatto a sua immagine: e certamente Egli stesso è uno strumento di Dio: strumento in tutto armonico, ben accordato e santo, sapienza che è sopra questo mondo, Verbo celeste. Che cosa vuole dunque questo strumento, il Verbo di Dio, il Signore, e il Nuovo Canto? Schiudere gli occhi dei ciechi e aprire le orecchie dei sordi e guidare verso il cammino della giustizia quelli che zoppicano o errano, mostrare Dio agli uomini dissennati, far cessare la corruzione, vincere la morte, riconciliare col Padre i figli disobbedienti. Lo strumento di Dio è filantropico: il Signore compassiona, castiga, esorta, ammonisce, salva, custodisce, e, per di più, come ricompensa della nostra istruzione, promette il regno dei cieli, questo solo guadagno traendo di noi, cioè la nostra salvezza. Il vizio infatti si nutre della rovina degli uomini, la verità, invece, come l'ape, senza guastare nessuna delle cose esistenti, non si allieta che della salvezza degli uomini. Tu hai dunque la promessa di Dio, hai la sua filantropia: partecipa della grazia. E il mio canto salutare non crederlo nuovo nello stesso senso in cui si dice nuovo un utensile o una casa: giacchè esso era "prima della stella del mattino" e "nel principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo ". Ma antico l'errore, e cosa nuova la verità sembra essere. Sia dunque che l'antichità dei Frigi sia dimostrata da mitiche capre, o, al contrario, che quella degli Arcadi sia dimostrata dai poeti che li dichiarano anteriori alla luna, o ancora, che quella degli Egiziani sia dimostrata da coloro che sognano che la terra di costoro sia stata la prima a produrre dei ed uomini: ma nessuno di costoro è anteriore a questo mondo, noi, invece, siamo anteriori alla fondazione del cosmo, in quanto a che, per il fatto di essere destinati ad essere in Lui, siamo stati generati anteriormente da Dio, noi, le creature razionali del Verbo di Dio, per il quale esistiamo dal principio, perchè il "Verbo era nel principio". Ma in quanto il Verbo era dall'origine, era ed è principio divino di ogni cosa, ma in quanto ora prese il nome - anticamente santificato, e degno della potenza: Cristo - il Verbo è stato da me chiamato Nuovo Canto. Il Verbo dunque, cioè Cristo, è la causa, e del nostro essere anticamente (era infatti in Dio) e del nostro esser bene, ed ora è apparso personalmente agli uomini questo Verbo, il solo che è tutte e due le cose, Dio e uomo, causa per noi di tutti i beni, dal quale imparando il vivere rettamente, siamo avviati verso la vita eterna. Infatti, secondo quel divino Apostolo del Signore, "la grazia salutare di Dio apparve a tutti gli uomini istruendoci, affinchè, rifiutata l'empietà e i desideri mondani, vivessimo sobriamente e giustamente e piamente nel mondo di ora, aspettando la beata speranza e l'apparizione della gloria del grande Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo ". Questo è il Canto Nuovo, cioè l'apparizione, che fra di noi ha brillato soltanto ora, del Verbo che era nel principio, e perciò preesisteva: apparve sulla terra da poco il preesistente Salvatore, apparve Colui che esiste in Colui che esiste (perchè " il Verbo era presso Dio "), come Maestro; apparve il Verbo dal quale sono state create tutte le cose, e dopo averci dato nel principio il vivere, mediante la creazione, come Demiurgo, ci insegnò il ben vivere, apparsoci come Maestro; per poterci procurare dopo, come Dio, il vivere eternamente. Egli però non ora per la prima volta ebbe compassione di noi, per il nostro errore, ma già prima, dal principio, ne aveva avuto compassione, ed ora Egli, essendo apparso, ci ha salvati mentre eravamo già sul punto di perire. Giacchè ancora la maligna e strisciante fiera, con le sue arti magiche rende schiavi gli uomini e li supplizia, vendicandosi su di essi, come a me pare, al modo dei barbari, che si dice leghino gli schiavi di guerra ai cadaveri, finchè insieme putrefacciano. Questo maligno tiranno, infatti, questo serpente, avvinti a pietre e tavole e statue e altrettali idoli, mediante l'infelice vincolo della superstizione, quegli uomini che riesce a far suoi finì dalla nascita, li porta, proprio secondo il detto, a seppellire vivi insieme con quelli, finchè insieme con quelli periscano. Perciò (Poichè uno solo è l'ingannatore, che nel principio trasse Eva verso la morte, e ora vi trae anche gli altri uomini), uno anche è il soccorritore e ausiliatore nostro, il Signore, che dal principio preannunziava profeticamente e ora già anche chiaramente ci invita alla salvezza. Fuggiamo dunque, ubbidendo al precetto dell'Apostolo, "il principe della potestà dell'aria, dello spirito che ora opera nei figli della disobbedienza ", e accorriamo presso il Salvatore, il Signore, che ora e sempre esortava gli uomini alla salvezza, per mezzo dei prodigi e dei segni in Egitto, e nel deserto per mezzo del rovo e della nuvola che in grazia della Sua filantropia seguiva, come una ancella, gli Ebrei. Col timore destato da queste cose egli incitava gli uomini dal cuore indurito, ma in seguito anche per mezzo del sapientissimo Mosè e dell'amante della verità, Isaia, e di tutto il coro profetico, Egli converte al Verbo in modo più razionale quelli che hanno orecchie per udire; e qualche volta insulta, qualche volta anche minaccia, su alcuni degli uomini anche piange, per altri canta: e fa come un buon medico, che cura i corpi ammalati, applicando ad alcuni cataplasmi, per altri ricorrendo a frizioni, e per altri a lavaggi, e alcuni aprendo col ferro, altri bruciando, qualche volta anche amputando, se mai sia possibile che l'uomo, anche a costo di perdere qualche parte o membro, ricuperi la salute. Di molte voci è il Salvatore, e di molti modi, per ottenere la salvezza degli uomini: minacciando ammonisce, insultando converte, lamentando compassiona, suonando esorta, per mezzo del rogo parla (perchè quelli avevano bisogno di segni e di prodigi) e col fuoco spaventa gli uomini, facendo suscitare in cima a una colonna la fiamma, segno insieme di grazia e di terrore: per gli obbedienti, luce, per i disobbedienti, fuoco. Ma Poichè la carne è più pregevole della colonna e del rovo, dopo quelle cose parlano i profeti, il Signore stesso che parla in Isaia, Egli stesso in Elia, Egli stesso nella bocca dei profeti. Ma se tu non credi nei profeti e ritieni una favola così gli uomini come il fuoco, ti parlerà il Signore stesso, " il quale, essendo nella forma di Dio, non fece sua proprietà della sua uguaglianza con Dio: ma vuotò se stesso ", il Dio misericordioso che desidera salvare l'uomo. E lo stesso Verbo ormai ti parla chiaramente, riempiendo di vergogna la vostra incredulità, s, dico, il Verbo di Dio diventato uomo, affinchè anche tu da un uomo possa imparare come un uomo diventi Dio. Quindi non è assurdo, o amici, che, mentre Dio sempre ci esorta alla virtù, noi, invece, rifiutiamo l'aiuto e rimandiamo la salvezza? Non ci esorta dunque alla salvezza anche Giovanni e non è egli interamente una voce esortatrice? Interroghiamo dunque lui stesso: " Chi sei? di quale paese?" Non dirà di essere Elia, negherà di essere Cristo, ma confesserà di essere voce gridante nel deserto. Chi è dunque Giovanni? Per abbracciarlo in una immagine, sia lecito dirlo "una voce del Verbo esortatrice, gridante nel deserto". Che cosa gridi, o voce? " Dillo anche a noi". " Fate diritte le vie del Signore ". Precursore è Giovanni e la sua voce è precorritrice del Verbo, voce incitatrice, che prepara alla salvezza, voce esortatrice alla eredità dei cieli, voce per la quale la terra sterile e deserta finisce di essere infeconda. Questa fertilità secondo me la predisse la voce dell'Angelo; precorritrice del Signore era anche quella, la quale dava la buona novella alla donna sterile, come Giovanni al deserto. Per questa voce del Verbo, dunque, la donna sterile diventa feconda di figli e la terra deserta produce frutti. Le due voci precorritrici del Signore, quella dell'Angelo e quella di Giovanni, vogliono significare, secondo me, la salvezza riposta in serbo per noi, cosicchè, dopo l'apparizione di questo Verbo, noi riportiamo il frutto della fecondità, cioè la vita eterna. La Scrittura, infatti, col mettere insieme le due voci, chiarisce il tutto: " Ascolti, colei che non partorisce; parli, colei che non ha i dolori del parto, Poichè più numerosi saranno i figli della derelitta, che di colei che ha il marito " . E a noi che l'Angelo recava la buona novella, noi che Giovanni esortava a conoscere l'agricoltore, a cercare l'uomo. Il marito della sterile e il coltivatore della terra deserta sono infatti una stessa persona, la quale riemp della divina potenza così la donna sterile come la terra deserta. Poichè molti erano i figli della donna di nobile nascita, ma era in seguito senza figli a causa della sua incredulità (cioè, la donna ebrea, che in origine aveva avuto molti figli), la donna sterile riceve il marito, la terra deserta l'agricoltore; quindi ambedue diventarono madri l'una di frutti, l'altra di figli credenti, in virtù del Verbo; ma ancora per gli increduli rimane sterile e deserta. Giovanni, l'araldo del Verbo, in questo modo esortava ad essere preparati per la venuta di Dio, cioè di Cristo: e questo era ciò che voleva significare il silenzio di Zacharia: silenzio, che aspettava il frutto precursore di Cristo, affinchè la luce della verità, cioè il Verbo, rompesse, divenuto buona novella, il mistico silenziò dei profetici enigmi. Ma tu, se desideri vedere veramente Dio, ricorri a purificazioni, che si addicono a Dio, non a foglie di alloro e a bende adornate di lana e di porpora, ma incoronato di giustizia e cinto delle foglie della temperanza, cerca con ogni cura Cristo. "Giacchè io sono la porta", dice in un luogo, la quale bisogna che imparino coloro che vogliono conoscere Dio, affinchè egli ci apra tutte le porte dei cieli; giacchè sono razionali le porte del Verbo, e non le apre che la chiave della fede. " Nessuno conobbe Dio se non il Figlio e colui al quale l'abbia rivelato il Figlio ". Io so bene che Colui che apre questa porta, sinora chiusa, dopo rivela le cose che son dentro e ci mostra quelle cose che non era possibile prima conoscere, se non da coloro che siano entrati per mezzo di Cristo, ch’è il solo per mezzo del quale si possa contemplare Dio.

Capitolo 2


Non state dunque a cercare i penetrali dei templi, dove non è Dio, e le bocche dei baratri, piene di ciurmeria, o il lebete Thesprotio o il tripode Cirrheo o il vaso di bronzo di Dodona. La "vecchia quercia" venerata dalle sabbie deserte e l'oracolo ch’è ivi, marcito insieme con la quercia, abbandonateli alle leggende che hanno fatto già il loro tempo. Ha taciuto così la fonte di Castalia, e l'altra fonte di Colofone e le altre acque profetiche ugualmente son morte: e, benchè tardi, si sono tuttavia rivelate finalmente vuote del loro vano orgoglio, dopochè si dispersero insieme colle leggende che loro erano proprie. Esponici, anche, della restante vaticinazione o piuttosto farneticazione, i responsi... che non rispondono: l'oracolo Clario, il Pitico, il Didimeo, Amfiarao, Apollo, e Amfiloco; e, se vuoi, consacra insieme con essi gli osservatori dei prodigi, e gli auguri e gli interpreti dei sogni. Va' a porre nello stesso tempo presso il Pitio gli aleuromanti e i crithomanti e i ventriloqui, che son tenuti tuttora in grande onore presso il popolo. E i santuari degli Egiziani e le necromanzie dei Tirreni siano abbandonati alle tenebre. Vere scuole di inganno degli uomini non credenti, e bische di pretto errore, sono queste, in tutto piene di follia. Compagni di questo genere di ciurmeria sono le capre, esercitate alla vaticinazione, e i corvi educati dagli uomini a dare responsi. E che diresti se ti esponessi i misteri? Non ne farò la parodia, come dicono abbia fatto Alcibiade, ma metterò a nudo assai bene, fondandomi sulla verità, la ciurmeria che è nascosta sotto di essi, e, come sulla scena della vita, presenterò per mezzo dell'encyclema agli spettatori della verità gli stessi vostri così detti dei, ai quali appartengono le mistiche iniziazioni. Dioniso furente i Baccanti lo adorano col rito della pazzia sacra, la quale consiste nel divoramento di carni crude, per il quale essi compiono la distribuzione rituale delle carni delle vittime, incoronati di serpenti, invocando col nome di Evan quella Eva, a causa della quale l'errore tenne dietro da presso; e simbolo dei riti bacchici è un serpente consacrato. Ora, va notato che, secondo l'esatta voce degli Ebrei, il nome Evia, con lo spirito aspro, significa serpente femina; Demetra e Core sono diventate già l'argomento di un dramma mistico, e l'errare e il ratto e il lutto delle due li celebra Eleusi alla luce delle fiaccole. Ora, mi sembra che l'etimologia delle parole orgia e mysteria sia, per la prima, da org‚ (= ira) - dall'ira, cioè, che Demetra concep contro Zeus -, per l'altra da mysos - dalla contaminazione cioè, che si verificò nei riguardi di Dioniso -. Ma se anche derivi da un certo Myunte attico, che Apollodoro dice essere perito in una caccia, io non ho alcuna difficoltà: vuol dire che i vostri misteri sono stati glorificati con onori sepolcrali. Puoi seguire altra via, e intendere mysteria - Poichè le lettere si corrispondono - come mytheria: giacchè, se mai altri, proprio questi tali miti vanno a caccia dei più barbari dei Traci, dei più insensati dei Frigi, dei superstiziosi tra gli Elleni. Perisca dunque colui che fu l'iniziatore di questo inganno per gli uomini: sia esso Dardano, che introdusse i misteri della Madre degli dei, sia Eetione, che fondò le cerimonie e i riti dei Samotraci, sia quel Frigio, Mida, che imparò dall'Odrisio, e quindi diffuse tra i suoi sudditi, l'abile inganno. Giacchè, quanto a me, non mi potrebbe mai persuadere coi suoi inganni il ciprio isolano, Cinyra, il quale, nell'ambizione di divinizzare una meretrice del suo paese, osò portare dalla notte alla luce del giorno gli osceni riti di Afrodite. Melampo, il figlio di Amythaone, fu, secondo altri, quegli che trasportò dall'Egitto nell'Ellade le feste di Demetra, cioè un lutto celebrato con inni. Per conto mio, questi uomini, padri di empi miti e di perniciosa superstizione, io li chiamerei originatori di mali, Poichè furono essi che piantarono nella vita umana quel seme di male e di rovina che sono i misteri. Ma ormai, giacchè è giunto il momento, dimostrerò che piene di inganno e di ciurmeria sono le vostre stesse cerimonie: e se voi siete stati iniziati, ancora di più riderete di queste vostre venerate leggende. Parlerò apertamente delle cose che voi tenete nascoste, senza vergognarmi di dire quello che voi non vi vergognate di adorare. Quella aphrogenes (0= nata dalle spume), dunque, e kyprogenes (= nata a Cipro), l'amante di Cinyra (dico Afrodite, la " philomedes, perchè nacque dai medea ", da quei genitali amputati di Urano, da quei genitali libidinosi, che dopo il taglio fecero violenza all'onda), in quanto è per voi degno frutto delle parti salaci, nei riti in cui si celebra questa voluttà marina un grano di sale, come simbolo della sua nascita, e un fallo sono dati in regalo a coloro che si iniziano nell'arte della fornicazione; e questi nell'essere iniziati, pagano ad essa il tributo di una moneta, come gli amanti all'amica. I misteri di Deo non sono altro che gli amorosi amplessi di Zeus con la madre Demetra, e l'ira di Deo (che non so se in seguito debba chiamare ancora madre o moglie) a causa delfa quale si dice sia stata chiamata Brimo, e le supplicazioni di Zeus, e la bevanda di fiele e lo strappamento del cuore delle vittime e le altre operazioni nefande. I medesimi riti compiono i Frigi in onore di Attis e di Cibele e dei Coribanti. Essi hanno diffuso la storia di Zeus, come egli, strappati i testicoli di un montone, sia andato a gettarli in mezzo al seno di Deo, pagando così una finta pena dell'amplesso violento, col simulare di aver mutilato se stesso. I simboli di questa iniziazione, quando io ve li abbia, per soprappiù, esposti, vi muoveranno certamente il riso, anche se non ne abbiate voglia per la condanna che loro ne deriva. " Mangiai dal timpano, bevvi dal cembalo, portai il cerno, mi introdussi nella camera nuziale". Questi simboli non sono un obbrobrio? non sono una beffa i misteri? E che diresti se aggiungessi il resto? Diventa incinta Demetra, cresce Core e di nuovo questo Zeus, che l'aveva generata, si unisce con Persefone, con la propria figlia, dopo essersi unito con la madre Deo, dimentico della precedente contaminazione (padre e corruttore della vergine, Zeus), e si unisce in forma di serpente e così si rivelò per quello che era in realtà. è certo almeno che simbolo dei misteri Sabazii per coloro che si iniziano è il " dio che si avvolge attraverso il seno"; questo è un serpente che è fatto svolgere attraverso il seno di coloro che vengono iniziati, una prova della intemperanza di Zeus. Persefone diviene incinta di un bimbo in forma di toro; certo, dice un poeta cultore degli idoli: Padre al serpente un toro e padre al toro un serpente, sopra il monte un bifolco è il suo nascosto stimolo, con stimolo di bifolco indicando, io credo, la ferula che incoronano i Baccanti. Vuoi che ti racconti anche la raccolta dei fiori fatta da Persefone, e il suo canestro, e il ratto compiuto da Aidoneo, e la voragine apertasi nella terra, e le troie di Eubuleo, inghiottite insieme con le due dee, ch’è la ragione per la quale nelle Tesmoforie, nel visitare le sacre caverne della dea, sogliono cacciarvi dentro delle porchette?. Questo è il mito che le donne festeggiano variamente nelle città, nelle Tesmoforie, nelle Sciroforie, nelle Arretoforie, rappresentando drammaticamente in molti modi, come in una tragedia, il ratto di Persefone. I misteri di Dioniso sono addirittura inumani. Egli era ancora piccolo, e, mentre i Cureti danzavano intorno a lui una danza guerriera, i Titani essendosi introdotti con inganno, e avendolo allettato con giocattoli infantili, questi Titani dunque lo fecero a brani, che ancora era un bambino, come dice il poeta della Iniziazione, il tracio Orfeo: il turbo, il rombo, e i pupattoli dalle flessibili membra ed i begli aurei pomi delle canore Esperidi. E non è inutile, allo scopo di condannarli, esporre gli inutili simboli di questa vostra iniziazione: l'astragalo, la palla, la trottola, le mele, il rombo, lo specchio, il vello. Atena dunque, per avere sottratto il cuore di Dioniso, fu chiamata Pallade dal palpitare (p llein) del cuore. Ma i Titani che lo avevano sbranato, posto un lebete su di un tripode e gettatevi le membra di Dioniso, prima le facevano cuocere e poi, conficcatele negli spiedi, "le tenevano sopra il fuoco ". Zeus, apparso dopo (forse, Poichè era dio, per avere sentito l'odore delle carni che stavano cuocendo, che è " l'onore dovuto", che i vostri dei riconoscono " di avere avuto in sorte") fa scempio dei Titani col fulmine, e le membra di Dioniso le affida al figlio suo Apollo perchè le seppellisca. Questi, giacchè non disobbed a Zeus, le trasporta sul Parnaso e qui depone il cadavere fatto a brani. Se vuoi contemplare anche i riti dei Coribanti, sappi che questi erano tre fratelli, due dei quali, avendo ucciso il terzo, avvolsero in un drappo di porpora il capo del morto e, dopo averlo incoronato, lo seppellirono, portandolo su uno scudo di bronzo ai piedi dell'Olimpo. E questo sono i misteri, per dirla in breve, niente altro che stragi e seppellimenti; i sacerdoti di questi misteri, chiamati Anactotelesti da coloro ai quali interessa chiamarli, aggiungono altri strani portenti a questo fatto luttuoso, quando proibiscono di porre sulla tavola apio con tutte le radici; giacchè credono che l'apio appunto sia nato dal sangue coribantico versato: alla stessa guisa precisamente che le donne che festeggiano le Tesmoforie evitano di mangiare i frutti del melograno che siano caduti a terra, perchè ritengono che i melograni siano nati dalle gocce del sangue di Dioniso. Chiamando poi col nome di Cabiri i Coribanti proclamano anche il rito dei Cabiri: giacchè questi due fratricidi, presa, quasi spoglia del combattimento la cesta, nella quale erano posti i genitali di Dioniso, la portarono nella Tirrenia, mercanti di merce gloriosa; e qui prendevano dimora, essendo esuli, e trasmisero ai Tirreni il loro prezioso insegnamento di pietà, consistente nella venerazione di genitali e di una cesta. E questa fu non senza verosimiglianza la ragione per la quale alcuni vogliono dare a Dioniso il nome di Attis, perchè privato dei genitali. E che meraviglia che i Tirreni, che sono dei barbari, siano così iniziati ai misteri di vergognose passioni, quando gli Ateniesi e il resto dell'Ellade, mi vergogno perfino a dirlo, hanno miti pieni di vergogna come quelli che si riferiscono a Deo? Deo infatti, errando alla ricerca della figlia Core, presso Eleusi (questa è una località dell'Attica) è vinta dalla stanchezza, e si siede su un pozzo, in preda al dolore. Questo è proibito anche ora a coloro che vengono iniziati, affinchè non sembri che gli iniziati imitino la dea nel suo dolore. Abitavano in quel tempo Eleusi degli indigeni i cui nomi erano Baubò, Dysaules, Triptolemo, e inoltre Eumolpo ed Eubuleo. Bifolco era Triptolemo, pastore Eumolpo, porcaro Eubuleo; è da essi che fior in Atene questa ierofantica stirpe degli Eumolpidi e dei Keryci. Ordunque (giacchè non mi tratterrò dal dirlo) Baubò, avendo ospitato Deo, le porge un beverone, e Poichè questa rifiutava di prenderlo e non voleva bere (Poichè era in lutto), Baubò dispiaciutasi fortemente della cosa, ritenendo il rifiuto come un'offesa fatta a lei, alzate le vesti, scopre le sue vergogue, e le mostra alla dea. Essa invece, Deo, si diletta di quella vista e a stento finalmente accetta la pozione, rallegrata da quello spettacolo. Questi sono i secreti misteri degli Ateniesi. Questi misteri riferisce anche Orfeo, e io ti citerò i versi stessi di Orfeo, affinchè tu abbia nel mistagogo un testimone della loro svergognatezza: Così dicendo, i pepli si tirò in alto e mostrò un'immagine oscena del corpo; era quella di Iacco fanciullo, ridente (Poichè l'agitava) di sotto al sen di Baubò; e allora la dea, Poichè vide, sorrise dentro il suo cuore, e accettò il lucido vaso con entro la mista bevanda. E il motto dei misteri eleusinii è: " digiunai, bevvi il cyceone, presi dalla cesta, avendo fatto quello che dovevo fare, riposi nel canestro e dal canestro nella cesta ". Begli spettacoli davvero, e che si addicono a una dea! Questi riti di iniziazione sono dunque degni della notte e del fuoco e del " magnanimo", o piuttosto insensato, popolo degli Erettidi, e, inoltre, anche degli altri Elleni, cui " dopo morte attendono cose che neppure si aspettano". A chi vaticina Eraclito di Efeso? Ai " nottivaghi, ai maghi, ai baccanti, alle baccanti, ai mysti ", a costoro egli minaccia le pene dopo la morte, a costoro vaticina il fuoco; " giacchè empiamente essi si iniziano ai misteri che sono in uso fra gli uomini " . Consuetudine dunque e vana credenza sono i misteri, e cioè un inganno teso dal serpente, inganno che gli uomini venerano, allorchè con falsa pietà coltivano queste iniziazioni che non sono in realta iniziazioni e questi riti pieni di empietà. E quali sono anche le ceste mistiche! Bisogna infatti rivelare le cose sacre che si contengono in esse, e denunziare le cose non dicibili. Queste cose non sono dolci di sesamo, e piramidi e dolci in forma di gomitoli e focacce dai molti ombelichi e grani di sale e un serpente, il mistico simbolo di Dioniso Bassareo? Non sono melagrane, oltre a ciò, e rami di fico, e ferule, e tralci di edera, e oltre a ciò, focacce rotonde e papaveri? Sono queste le loro cose sacre! E, inoltre, gli ineffabili simboli di GE Temide (cioè Demetra): l'origano, la lucerna, la spada, il pettine femminile, che è, in linguaggio eufemistico e mistico, l'organo femminile. O che sfacciata impudenza! Una volta la notte, che copriva il piacere per gli uomini temperanti, era silenziosa: ora, divenuta una tentazione all'intemperanza per coloro che si iniziano, la notte è piena di voci; e il fuoco con la luce delle fiaccole rivela le oscene passioni. Spegni, o ierofante, il fuoco. Risparmia, o daduco, le lampade; la luce accusa il tuo Iacco; lascia che la notte nasconda i misteri; i riti siano onorati dalle tenebre; il fuoco non rappresenta una parte da teatro: il suo compito è di convincere e di punire. Questi, i misteri degli atei: atei giustamente io chiamo costoro, che non hanno conosciuto Colui che è veramente Dio, e venerano un bambino sbranato dai Titani e una donnetta in lutto, e le parti che veramente ma soltanto per pudore non si possono nominare. Duplice è la forma di ateismo di cui essi sono affetti, la prima consistente nel fatto che ignorano Dio, in quanto a che non riconoscono come Dio quegli che è veramente Dio; l'altra, la seconda, la quale consiste in questo errore, di credere che esistano coloro che non esistono, e di chiamare dei questi che in realtà non sono dei o piuttosto che neppure esistono, ma che non sono che semplici nomi. Per questo l'Apostolo ci biasima dicendo: " Ed eravate stranieri ai patti della promessa, non avendo la speranza, ed essendo atei nel mondo". Molti beni ricadano sul capo del re degli Sciti, chiunque mai egli sia stato! Questi trafisse con un dardo un suo concittadino, che presso gli Sciti imitava il rito della Madre degli dei, in uso presso i Ciziceni, battendo un timpano e facendo risuonare un cembalo e tenendo appese al collo immagini della dea, come un menagyrte: per la considerazione che questi, che era divenuto lui stesso effeminato presso i Greci, si faceva maestro anche agli altri Sciti di quella morbosa effeminatezza. Perciò (giacchè non bisogna affatto nasconderlo) mi vien fatto di meravigliarmi come mai abbiano chiamato atei Evemero di Agrigento e Nicanore di Cipro e Diagora e Ippone, tutti e due di Melo, e inoltre quello di Cirene (chiamato Teodoro) e molti altri, che sono vissuti saggiamente e hanno scorto più acutamente, credo, degli altri uomini l'errore riguardante questi dei. Essi, è vero, non hanno conosciuto la verità stessa, ma almeno hanno sospettato l'errore, il che non è piccola scintilla di saggezza, la quale cresce, come seme, verso la verità. Uno di essi prescrive agli Egiziani: " Se li stimate dei, non piangeteli Nè battetevi; ma se li piangete, non stimateli più dei "; un altro, avendo preso un Eracle, fatto d'un pezzo di legno (stava a cuocere qualche cosa in casa, come è verosimile), " Su dunque, o Eracle disse - ora è tempo che come ad Euristeo, così anche a noi compia questa tredicesima fatica, e a Diagora appresti il desinare! ", e quindi lo pose nel fuoco come un pezzo di legno. Punti estremi dell'ignoranza sono dunque l'ateismo e l'adorazione dei demoni, al di qua dei quali bisogna cercare in tutti i modi di mantenersi. Non vedi il santo interprete della verità, Mosè, che vieta all'eunuco e al mutilato dei genitali e inoltre al figlio della meretrice di prender parte all'assemblea?. Vuol significare oscuramente, coi due primi, il costume ateo, che è stato privato della divina e generativa potenza, con l'altro, col terzo, colui che si attribuisce molti falsi dei, invece di colui che solo è Dio, come il figlio della cortigiana si attribuisce molti padri, per ignoranza del suo vero padre. Ma vi era negli uomini una certa innata, originaria comunanza col cielo, la quale si è ottenebrata per l'ignoranza, ma improvvisamente balza fuori dalle tenebre e torna a risplendere, come mostrano, per esempio, quei versi nei quali da qualcuno è stato detto: Vedi questo infinito etere in alto che circonda la terra nel suo molle abbraccio... E questi altri: Della terra veicolo, che hai sede sopra la terra, chiunque sia, a vedere incomprensibile... E quante altre cose di tal natura cantano i figli dei poeti. Ma opinioni errate e condotte fuori dalla retta via, opinioni veramente perniciose, volsero " la pianta celeste ", l'uomo, fuori dalla vita celeste e lo piegarono sulla terra, a figure fatte di terra avendolo indotto ad attaccarsi. Alcuni infatti, facilmente ingannandosi riguardo allo spettacolo del cielo, e fidando nella sola vista, nell'osservare i movimenti degli astri, furono presi da meraviglia e divinizzarono gli astri chiamandoli dei da thein (= correre), e adorarono il sole, come gli Indi, e la luna, come i Frigi. Altri, nel cogliere i frutti coltivati delle piante, chiamarono Deo il grano, come gli Ateniesi, e Dioniso la vite, come i Tebani. Altri, avendo considerato il contraccambio che suole avere il male, divinizzano le punizioni, adorando perfino le sventure. Da qui i poeti drammatici hanno inventato le Erinni e le Eumenidi, e dei Palamnei e Prostropei e, inoltre, Alastori. Anche alcuni filosofi, seguendo l'esempio dei poeti, rappresentano, anche loro, come divinità le varie forme delle vostre passioni, il Timore, e l'Amore, e la Gioia, e la Speranza, come fece appunto anche l'antico Epimenide, che innalzò in Atene altari alla Hybris e alla Anaideia. Altri dei, derivati dagli stessi avvenimenti della vita, sono creati dagli uomini e sono rappresentati corporeamente tali sono le divinità attiche Dike e Clotho e Lachesi e Atropo, e Eimarmène, e Auxò e Thallò. Vi è una sesta maniera di introdurre l'inganno e di fornire nuovi dei, quella, in base alla quale gli uomini annoverano i dodici d‚i, dei quali Esiodo canta quella sua teogonia, e ai quali si riferisce tutto ciò che Omero dice intorno agli dei. Ne resta un'ultima (Poichè sette sono tutte queste maniere), quella che ha origine dai benefici divini che vengono agli uomini. Non conoscendo infatti il dio che li beneficava inventarono certi Dioscuri salvatori, ed Eracle allontanatore di mali e Asclepio medico. Sono queste le sdrucciolevoli e dannose trasgressioni della verità, che trascinano giù dal cielo l'uomo e lo volgono verso il baratro. Voglio ora mostrarvi da vicino gli stessi dei, perchè vediate quali siano e se veramente esistano, affinchè una buona volta cessiate dall'errore e di nuovo accorriate al cielo. " Giacchè eravamo anche noi figli dell'ira, come anche gli altri; ma Dio, che è ricco in misericordia, per il grande suo amore, col quale ci amò, quando eravamo già morti nel peccato ci fece rivivere insieme con Cristo". " Giacchè il Verbo è vivente ", e quegli che è stato sepolto insieme con Cristo è elevato insieme con Dio. Ma quelli che sono ancora non credenti, sono chiamati " figli dell'ira", allevati, cioè, per l'ira. Ma noi non siamo più creature dell'ira, perchè ci siamo staccati dall'errore, e balziamo verso la verità. In questo modo noi, che una volta eravamo figli della licenza, siamo diventati ora, grazie all'amore del Verbo per l'uomo, figli di Dio; ma è a voi che si riferisce il vostro poeta, l'agrigentino Empedocle: è per questo che voi, da gravi mali crucciati non mai dagli acerbi dolori l'animo alleggerirete. Orbene, la maggior parte delle cose riguardanti i vostri dei non sono che favole e invenzioni; ma le altre, quelle che si è creduto che siano realmente avvenute, non sono che delle notizie riferentisi a degli uomini turpi e che sono vissuti dissolutamente: Con folle orgoglio voi andate, e il dritto e giusto sentiero abbandonato, per quello partiste di rovi e di spini. A che andate errando, mortali? Cessate, o stolti, Lasciate l'oscuritd della notte, e conquistate la luce! Questo ci prescrive la profetica e poetica Sibilla, ce lo prescrive anche la Verità, la quale, spogliando da queste spaventevoli e terrificanti maschere la turba degli dei, dimostra con alcune somiglianze di nome la falsità delle vostre credenze. Così, per esempio: vi son di quelli i quali riferiscono che vi furono tre dei chiamati Zeus, uno, nato dall'Etere, in Arcadia, gli altri due, figli di Crono; di questi due, l'uno nato in Creta, l'altro, invece, in Arcadia. Vi sono di quelli che suppongono esseri state cinque dee chiamate Atena, l'una figlia di Efesto, la Ateniese, l'altra di Nilo, l'Egiziana, la terza di Crono, la inventrice della guerra, la quarta di Zeus, che i Messeni hanno chiamato Coryphasia dalla madre, e infine la figlia di Pallante e di Titanide figlia dell'Oceano, la quale, avendo ucciso empiamente il padre, si è adornata della pelle paterna come di un vello. Inoltre, di divinità chiamate Apollo, Aristotele ne elenca una prima, il figlio di Efesto e di Atena (qui non è più vergine Atena), una seconda in Creta, il figlio di Cyrbante, una terza, il figlio di Zeus, e una quarta, l'Arcade, il figlio di Sileno; questo è chiamato Nomio presso gli Arcadi; oltre a questi il libico, il figlio di Ammone. E il grammatico Didimo aggiunse a questi anche un sesto, il figlio di Magnete. Ma quanti Apolli vi sono anche attualmente, uomini innumerevoli, mortali e destinati a perire, i quali sono stati chiamati in modo simile a quello con cui furono chiamate le divinità sopradette? E se ti dicessi i molti Asclepii o gli Ermes che si annoverano o gli Efesti della mitologia? Non vi parrà che io faccia opera superflua, sommergendo i vostri orecchi con tutti questi nomi? Ma le patrie e le arti e le vite e, oltre a ciò, le tombe, dimostrano che essi sono stati uomini. Ares, per esempio, il quale è quanto più è possibile onorato anche presso i poeti, Ares, degli uomini peste, omicida, eversore di mura. questo " voltafaccia" e " implacabile" era, come dice Epicarmo, spartano, ma Sofocle lo sa trace ed altri arcade. Omero dice che fu tenuto incatenato per tredici mesi: Tollerò Ares, allora che Oto ed il forte Efialte, d'Aloeo figli, legaronlo in saldi nodi gagliardi; ed in prigione di bronzo fu legato per tredici mesi. Molti beni ricadano sulla testa dei Cari, i quali gli fanno sacrifizi di cani. E gli Sciti non cessino di sacrificargli gli asini, come dice Apollodoro, e Callimaco: Febo di tra iperborei sacrifizi d'asini sorge. E lo stesso poeta, altrove: Dilettan Febo le splendide immolazioni di asini. Efesto, che Zeus scagliò dall'Olimpo, " dalla soglia divina ", caduto a Lemno, faceva il fabbro ferraio, essendo storpio di tutti e due i piedi, " ma sotto, le gambe sottili movevansi agili ". Hai anche il medico, non solo il fabbro tra gli dei; e il medico era avaro, si chiamava Asclepio. E ti citerò il tuo poeta, il beota Pindaro: Indusse anche quello con grande mercede nelle mani apparsogli, l'oro; ma con le mani il Cronide lanciata la folgore traverso il petto di entrambi, lor tolse il respiro rapidamente, ed il fulmine ardente inflisse loro la morte; ed Euripide: Fu Zeus la causa, che mi uccise il figlio Asclepio, col lanciargli in cuor la folgore. Questo dunque giace fulminato nei confini di Cynosuride. Filocoro poi, dice che in Teno è onorato come medico Poseidone; e che la Sicilia è posta sopra Crono e che qui egli giace sepolto. Patrocle di Thuri e Sofocle il giovane in alcune tragedie narravano la storia dei due Dioscuri. Questi Dioscuri furono degli uomini mortali, se la testimonianza di Omero è attendibile quando dice: ormai li teneva la terra datrice di vita là in Lacedemone, nella patria terra diletta. Venga innanzi anche l'autore dei poemi Ciprii: Mortale Castore, e a lui è stato assegnato un destino di morte: immortale è invece, il rampollo d'Ares, Polluce. Questa è una menzogna poetica, ma Omero è più degno di fede di lui, quando parla di ambedue i Dioscuri, e, oltre a ciò, quando mostra che Eracle era un fantasma: " l'eroe" - dice infatti - " Eracle, di grandi opere esperto". Eracle dunque anche lo stesso Omero sa che fu uomo mortale. Il filosofo Ieronimo descrive anche la conformazione del suo corpo: piccolo, dai capelli ricci, forzuto. E Dicearco lo dice magro, muscoloso, nero, dal naso aquilino, dagli occhi cilestrini, dai capelli lunghi. Questo Eracle dunque, dopo essere vissuto cinquantadue anni, finì la vita, ed ebbe gli onori funebri per mezzo della pira dell'Eta. E le Muse, che Alcmane fa nascere da Zeus e da Mnemosyne, e gli altri poeti e prosatori divinizzano e venerano, e già anche intere città consacrano musei in loro onore, - queste non erano che delle servette Mysie, comprate da Megaclo, la figlia di Macar. Macar era re dei Lesbii, ed era sempre in lite con la moglie. Se n'affliggeva Megaclo per la madre; e che cosa non era disposta a fare? E così essa compra queste ancellette Myse, tante di numero (quante le Muse), e le chiama Moisai secondo il dialetto eolico. E insegnò loro a cantare le antiche imprese, e ad accompagnarsi con la cetra armoniosamente. Ed esse, citareggiando continuamente e bellamente affascinandolo coi loro canti, placavano l'animo di Macar e lo facevano cessare dall'ira. A ricordo di questo beneficio, Megaclo, come ringraziamento per conto della madre, innalzò statue di bronzo raffiguranti le fanciulle e ordinò che fossero onorate in tutti i templi. E tali sono le Muse; il racconto si trova presso Myrsilo di Lesbo. Udite ora gli amori dei vostri dei, le straordinarie storie della loro intemperanza e le loro ferite e le catene e le risa e le battaglie e le schiavitù e i simposi e gli amplessi e le lacrime e le passioni e le lascive voluttà. Chiamami Poseidone e lo stuolo delle fanciulle da lui corrotte, Amfitrite, Amymone, Alope, Melanippe, Alcyone, Ippothoe, Chione e le altre innumerevoli, nelle quali, pur essendo tante, non si saziavano ancora i desideri del vostro Poseidone. Chiamami anche Apollo: egli è Febo, tanto vate sacro che buon consigliere. Ma non dice così Sterope Nè Aethusa Nè Arsinoe Nè Zeuxippe, Nè Prothoe Nè Marpessa Nè Hypsipyle; giacchè Dafne riusc, solo lei, a sfuggire al vate e alla sua violenza. E venga infine lo stesso Zeus, "il padre " - secondo voi - " degli uomini e degli dei ". Tanto egli era dato ai piaceri venerei da desiderare tutte le donne e saziare in tutte il suo desiderio. Si saziava infatti di donne, non meno che di capre il becco dei Thmuiti. E io ammiro, o Omero, i tuoi versi: Disse, e col cenno delle c‹anee ciglia il Cronide assentì: le chiome divine ondeggiaron sul capo immortale del nume, e scrollò il grande Olimpo... Pieno di maestà, o Omero, tu rappresenti Zeus, e gli attribuisci un cenno del capo che è stato molto pregiato. Ma se per poco gli mostri, o uomo, il cinto (di Venere), Zeus si rivela per quello che è, e la sua chioma si copre di disonore. A qual punto di intemperanza si è spinto quello Zeus, che tante notti godette con Alcmena! Neppure, infatti, le nove notti furon lunghe per l'intemperante (ma l'intera vita, al contrario, era breve per la sua incontinenza) perchè ci procreasse il dio allontanatore di mali. Figlio di Zeus era Eracle, di Zeus veramente, egli che fu generato da una lunga notte e che compì pazientemente le dodici fatiche in lungo tempo, ma le cinquanta figlie di Thestio in una lunga notte violò, nello stesso tempo divenuto adultero e sposo di tante vergini. Non senza ragione dunque i poeti lo chiamano " infelice " e " scellerato ". Lungo sarebbe riferire i suoi adulterii d'ogni sorta e le sue corruzioni di fanciulli. Neppure, infatti, neppure dai fanciulli si astennero i vostri dei: uno amò Ila, un altro Iacintho, un altro Pelope, un altro Chrysippo, un altro Ganimede. Questi sono gli dei che le vostre donne debbono adorare, tali essi si augurino che siano i loro mariti, altrettanto temperanti, affinchè siano simili agli dei, col mostrarsi pieni di uno zelo uguale al loro. Questi dei i vostri figli si abituino a venerare, perchè diventino uomini, prendendo gli dei come un chiaro esempio di fornicazione. Ma forse, degli dei, soltanto i maschi sono infrenabili riguardo ai piaceri venerei; ma le dee, come donne, restarono in casa, ciascuna, per pudore - dice Omero, - vergognandosi, le dee, nella loro gravità, di vedere Afrodite sorpresa in adulterio. Ma esse sono più ardentemente licenziose, essendo legate in adulterio - Eos con Tithono, Selene con Endymione, Nereide con Eaco, Teti con Peleo, Demetra con Iasione, Persefone con Adoni. Afrodite, copertasi di vergogna con Ares, passò a Cinyra e sposò Anchise e insidiava Fetonte e amava Adoni, gareggiava con la boopide, e le dee, svestitesi, a causa del pomo, stavano nude, intente al pastore, per vedere quale di esse gli sembrasse bella. Su dunque, esaminiamo brevemente anche gli agoni e disperdiamo queste solenni adunanze sepolcrali, i giuochi istimici, nemei, pitici e soprattutto olimpici. A Pito dunque si venera il serpente pitico e l'adunanza tenuta in onore del serpente prende il nome di giuochi Pitici. Nell'istmo il mare sputò un miserevole rifiuto, e i giuochi Istmici piangono Melicerte. A Nemea giace sepolto un altro ragazzo, Archemoro, e la celebrazione fatta sulla tomba di questo ragazzo prende il nome di giuochi Nemei. La vostra Pisa, o Panelleni, è la tomba di un auriga frigio, e le libazioni che si fanno in onore di Pelope, cioè i giuochi Olimpici, lo Zeus di Fidia se le fa proprie. Misteri erano dunque, in origine, come sembra, gli agoni, Poichè si tenevano in onore di morti, come anche gli oracoli, e ambedue, dopo, sono divenuti pubblici. Ma i misteri che si tengono ad Agra e quelli che si tengono ad Alimunte dell'Attica sono stati limitati ad Atene; ma gli agoni e i falli che si consacrano a Dioniso, i quali hanno infestato la vita umana, sono, invece, una infamia mondiale. Bacchus enim descendendi ad Inferos desiderio flagrabat, sed viam ignorabat: hanc Prosymnus quidam promittit se monstraturum, verum non sine mercede. Merces ea in se quidem parum erat honesta, attamen honesta satis Baccho. Erat autem gratia Venerea, quam Bacchus postulabatur. Deo igitur non repugnanti petitio statim explicatur: isque iureiurando promittit, si redierit, se, quod vellet, facturum. Cum viam didicisset, abiit, rursusque rediit, nec offendit Prosymnum erat enim mortuus. Tum vero amatori ut debitum solveret, ad monumentum eius se confert, et muliebria patiendi desiderio flagrat. Cum ergo ficulneum excidisset ramum, instar virilis membri efformat; et ei insidens, promissum persolvit mortuo. Atque hoc facinus mystico ritu commemorant, qui Baccho Phallos fere per universas Graeciae urbes erigunt. " Giacchè, se non fosse in onore di Dioniso che fanno il corteo solenne e cantano l'inno alle vergogne, sarebbe vergognosissimo quello che compiono " - dice Eraclito -, " Ade è lo stesso che Dioniso, in onore del quale folleggiano e baccheggiano ", non tanto, come io credo, per l'ubbriachezza del corpo, quanto per la vergognosa rivelazione sacra della licenza. A ragione perciò questi vostri dei sono schiavi, perchè si sono resi schiavi delle passioni, chè anzi, anche prima dei così detti iloti presso i Lacedemoni, subiva il giogo servile Apollo sotto Admeto in Fere, Eracle in Sardi, sotto Omfale; Poseidone e Apollo erano servi di Laomedonte, quest'ultimo come un servo inutile, che evidentemente non aveva nemmeno potuto ottenere la libertà dal precedente padrone; in quel tempo essi anche edificarono le mura di Ilio al Frigio. Omero non si vergogna di dire che Atena faceva luce ad Ulisse, "tenendo un'aurea lucerna " nelle mani. E leggemmo di Afrodite, che, come una serviciattola impudica, portò ad Elena lo sgabello e lo pose di fronte al suo amante perche lo attirasse all'amplesso. Paniasi, inoltre, racconta che, oltre questi, moltissimi altri dei servirono ad uomini, così scrivendo: Soffrì Demetra, e il famoso dai piedi storpiati soffrì e soffrì Poseidone, soffrì Apollo dall'arco d'argento, di servir presso un uomo mortale per la durata di un anno: soffrì, costretto dal padre, anche Ares dall'animo ardente, e quello che segue. è naturale, per conseguenza, che qucsti vostri dei - dediti agli amori e soggetti alle passioni - ci siano presentati anche soggetti in tutto agli accidenti propri dell'umana natura. "Giacchè certamente ad essi mortale è la carne". Lo testimonia con molta precisione Omero, quando introduce Afrodite a lanciare alte e acute grida per la ferita, e narra che lo stesso bellicosissimo Ares fu ferito da Diomede nel fianco. Polemone poi dice che anche Atena fu ferita da Ornyto; e Omero dice inoltre che anche Aidoneo fu ferito di saetta da Eracle, e la stessa cosa narra Paniasi di Elios. Questo stesso Paniasi racconta che anche Era, la pronuba, fu ferita "in Pylo sabbiosa" dallo stesso Eracle. E Sosibio dice che anche Eracle fu ferito dagli Ippocoontidi nella mano. Se vi sono ferite, vi è anche sangue; il poetico icore infatti è anche più schifoso del sangue, giacchè per icore non si intende altro che la putrefazione del sangue. è necessario dunque offrir loro cure e cibi, di cui hanno bisogno. Per questo, banchetti e sbornie e risate e amplessi, mentre, se fossero immortali e bisognosi di niente ed esenti da vecchiaia, non godrebbero dei piaceri umani dell'amore Nè metterebbero al mondo figliuoli Nè si addormenterebbero. Lo Stesso Zeus partecipò ad una mensa umana presso gli Etiopi, e a una inumana e nefanda, invitato presso Lycaone l'arcade. Certo è che, senza volerlo, egli si riempiva di carni umane; giacchè il dio ignorava che Lycaone l'arcade, il suo ospite, aveva sgozzato il proprio figlio (si chiamava Nyctimo) e l'aveva imbandito, come piatto prelibato, a Zeus. Bello, questo Zeus, l'indovino, l'ospitale, il protettore dei supplici, il clemente, il panompheo, il vendicatore delle colpe: o, piuttosto, l'ingiusto, l'iniquo, il senza legge, l'empio, l'inumano, il violento, l'adultero, il lascivo. Ma allora egli esisteva, quando era tale, quando cioè era un uomo: ora, invece, mi pare che i anche vostri miti siano già invecchiati. Zeus non è più serpente, non cigno, non aquila, non uomo lascivo, non vola come dio, non è dato all'amore di fanciulli, non ama, non fa violenza: eppure vi sono ancora molte e belle donne, anche più belle di Leda e più floride di Semele, e giovanetti più freschi e più eleganti del frigio bifolco. Dov'èra quell'aquila? dove il cigno? dove lo stesso Zeus? Egli è invecchiato insieme con l'ala; non però si pente dei trascorsi amorosi Nè impara a essere temperante. Il mito vi è svelato nella sua nudità; morì Leda, morì il cigno, morì l'aquila. Cerchi il tuo Zeus? Non frugare il cielo, ma la terra. Te lo dirà il Cretese, nella cui terra è seppellito, come dice Callimaco nei suoi inni: ... chè il tuo sepolcro, o sovrano, l'hanno innalzato i Cretesi... è morto dunque Zeus (non dolertene, o Leda), come il cigno, come l'aquila, come l'uomo lascivo, come il serpente. Ma mi sembra che ormai anche gli stessi adoratori dei demoni, benchè a malincuore, comprendano tuttavia il loro errore riguardo agli dei: chè non son nati da antica quercia, e neppure da pietra, ma "sono della stirpe degli uomini", benchè fra poco si troverà che essi non sono che quercie e pietre. Stafilo, per esempio, racconta che a Sparta era venerato uno Zeus Agamennone. Fanocle nel libro intitolato " Gli amori o i belli" racconta che Agamennone, il re degli Elleni, è quegli che innalzò un tempio ad Argynno Afrodite, in memoria del suo amasio Argynno. Gli Arcadi, come dice Callimaco negli "Aitia", venerano una Artemide Apanchomene (strangolata). E un'altra Artemide, detta Condylitis, è onorata in Metimna. Vi è anche, nella Laconia, il tempio di un'altra Artemide, detta Podagra, come dice Sosibio. Polemone conosce una statua di Apollo "con la bocca aperta", e un'altra ancora, onorata nell'Elide, di Apollo "goloso". Qui, nell'Elide, gli Elei sacrificano a Zeus "scacciatore di mosche"; e i Romani sacrificano ad Eracle scacciatore di mosche e alla Febbre e allo Spavento, che essi mettono, anche questi, tra i compagni di Eracle. Lascio andare gli Argivi e i Laconi: gli Argivi rendono culto ad Afrodite Tymborychos (= scavatrice di sepolcri), e gli Spartani venerano Artemide Chelytis (= che tossisce), Poichè nel loro dialetto si dice chelyttein il tossire. Credi che le notizie che ti presentiamo siano desunte da noi da qualche fonte non autentica? Sembra che tu non riconosca neppure i tuoi scrittori - che io chiamo a testimoni contro la tua incredulità -, quali hanno riempito di empio ludibrio - poveri voi! tutta la vostra vita, che non merita, in realtà, di essere chiamata vita. Non sono invero onorati uno Zeus calvo, in Argo, e un altro, vendicatore, in Cipro? Non sacrificano ad Afrodite Peribaso (= divaricatrix) gli Argivi, e ad Afrodite etera gli Ateniesi, e ad Afrodite callipigia i Siracusani, quella che il poeta Nicandro ha in un punto chiamato " calliglutea"?. Taccio, infine, di Dioniso choiropsalas: adorano i Sicioni questo Dioniso, avendolo posto a presiedere agli organi femminili, venerando in questo modo, come ispettore della vergogna, il fondatore della licenza. Tali sono per gli stessi loro adoratori gli dei, e tali sono gli adoratori stessi che si fan giuoco degli dei o piuttosto beffeggiano ed oltraggiano se stessi. E quanto migliori dei Greci, che adorano tali dei, non sono gli Egiziani, che per villaggi e città venerano i bruti animali? Infatti queste divinità degli Egiziani, sebbene siano degli animali, non sono però adultere, non sono lascive e neppure una di esse va in caccia di piaceri che siano contro natura. Ma di quale natura siano invece le divinità dei Greci, che bisogno c’è ancora di dirlo, quando esse sono state già smascherate a sufficienza? Ordunque, gli Egiziani, dei quali poco fa ho fatto menzione, sono divisi secondo i loro culti. Di essi, i Syeniti venerano il pesce fagro, quelli che abitano Elefantina, il meote (altro pesce, questo), gli Oxyrynchiti, ugualmente, il pesce che prende il nome dalla loro regione; ancora, gli Eracleopolitani l'ichneumone, i Saiti e i Tebani la pecora, i Lycopolitani il lupo, i Cynopolitani il cane, il bue Api quelli di Memfi, i Mendesi il capro. Ma voi, che siete in tutto migliori degli Egiziani - esito a dirvi peggiori -, che non cessate di deridere ogni giorno gli Egiziani, come vi comportate nei riguardi degli animali irragionevoli? Tra voi, i Tessali onorano le cicogne a causa della costumanza, i Tebani le donnole a causa dalla nascita di Eracle. E che dire, per tornare ad essi, dei Tessali? Si racconta che essi venerano le formiche Poichè hanno appreso che Zeus, presa la forma di una formica, si mescolò con Eurymedusa, la figlia di Cletore, e generò Myrmidone. Polemone racconta che gli abitanti della Troade venerano i topi indigeni, che chiamano sminthi, perchè rosero le corde degli archi nemici, e da quei topi diedero ad Apollo il nome di Sminthio. Eraclide nelle sue " Fondazioni dei templi dell'Acarnania" dice che dove è il promontorio di Actio e il tempio di Apollo Actio si sacrifica prima un bue alle mosche. Nè mi dimenticherò dei Sami (i Sami, come dice Euforione, venerano la pecora) Nè dei Siri che abitano la Fenicia, dei quali alcuni venerano le colombe, altri i pesci, così esageratamente come gli Elei venerano Zeus. Ebbene dunque, dal momento che non sono dei quelli ai quali rendete culto, mi sembra opportuno esaminare quindi se essi siano in realtà demoni, iscritti, come voi dite, in questa seconda categoria. Giacchè, se essi sono realmente demoni, sono ingordi e impuri. è possibile trovare demoni indigeni, che raccolgono onore nelle varie città anche apertamente (come gli dei): presso i Cythni Menedemo, presso i Teni, Callistagora, presso i Delii, Anio, presso i Laconi, Astrabaco. è onorato anche un certo eroe a Falero " sulla poppa della nave", e la Pitia ordinò ai Plateesi di sacrificare ad Androcrate e a Democrate e a Cycleo e a Leucone nel tempo in cui le guerre mediche erano nel loro pieno. E chi è capace di fare anche un piccolo esame può abbracciare di un solo sguardo anche altri numerosissimi demoni: tre miriadi sono sulla terra nutrice di molti i demoni immortali, custodi di umani mortali. Chi siano questi custodi, o Beota, non rifiutarti di dirci. O è chiaro che essi sono questi, e quelli più onorati di essi, i grandi demoni, Apollo, Artemide, Leto, Demetra, Core, Plutone, Eracle, e lo stesso Zeus. Ma essi, o Ascreo, non ci custodiscono per impedirci di fuggire, ma forse per impedirci di peccare: essi, che certamente di peccati sono inesperti. Qui è il caso di dire il proverbio: " il padre che non si emenda, emenda il figlio". Se anche, dunque, essi sono custodi, lo fanno, non perchè si ispirino a sentimenti di benevolenza verso di voi, ma perchè, tutti intesi alla vostra rovina, a guisa di adulatori, si gettano sulla vita umana, adescati dal fumo dei sacrifizi. E i demoni stessi riconoscono in un certo punto la loro ghiottoneria quando dicono: La libazione e il fumo: è questo l'onor che sortimmo. Quali altre parole, se acquistassero la parola, direbbero gli dei degli Egiziani, quali i gatti e le donnole, se non queste parole omeriche e poetiche, e amiche dell'odore del grasso, e dell'arte della cucina? Tali sono dunque presso di voi gli dei e i demoni, e se vi sono anche altri chiamati semidei, alla stessa maniera dei semiasini. Nè infatti avete penuria di nomi per formare i composti necessari alla vostra empietà.

Capitolo 3


Orbene dunque, aggiungiamo anche questo, che i vostri dei sono demoni inumani e odiatori degli uomini, che non solo sono lieti della follia degli uomini, ma, oltre a ciò, anche godono delle umane uccisioni. Essi forniscono a se stessi occasioni di godimento, ora nelle lotte armate degli stadi, ora nelle innumerevoli contese delle guerre, per avere al massimo grado di che rimpinzarsi a sazietà di sangue umano; e già essi, piombando come flagelli per città e popoli, chiesero l'offerta di libagioni crudeli. Aristomene di Messene, per esempio, sgozzò trecento uomini a Zeus di Ithome, credendo di avere buoni auspici, sacrificando tante e, insieme, tali ecatombi tra gli altri era Teopompo, il re dei Lacedemoni, nobile vittima. I popoli Tauri, che abitano intorno alla penisola taurica, sacrificano senz'altro ad Artemide Taurica quelli degli stranieri che abbiano catturati nel loro territorio, di quelli cioè che hanno fatto naufragio. Questi tuoi sacrifizi li presenta sulla scena in una tragedia Euripide. Monimo nella sua " Raccolta delle cose mirabili " racconta di un uomo, di un Acheo, sacrificato a Peleo e a Chirone in Pelle, città della Tessaglia; Anticleide nei " Ritorni " ci fa sapere che i Lyctii (sono questi una tribù di Cretesi) immolano uomini a Zeus, e Dosida dice che i Lesbi offrono un simile sacrifizio a Dioniso. Quanto ai Focesi (non tralascerò infatti neppure questi), Pitocle nel terzo libro dell'opera " Sulla Concordia ", racconta che questi offrono l'olocausto di un uomo ad Artemide Taurica. L'attico Eretteo e il romano Mario sacrificarono le loro proprie figlie, l'uno a Persefone, come narra Demarato nel primo libro della sua opera " Argomenti di tragedie ", e l'altro, Mario, agli dei allontanatori di mali, come narra Doroteo nel quarto libro della sua " Storia italica ". Filantropici davvero appaiono da questi esempi i vostri demoni: e come non dovrebbero, analogamente, apparire pii i loro adoratori? Gli uni, che sono invocati come salvatori, gli altri, che chiedono la salvezza agli insidiatori della loro salvezza. Certamente, mentre suppongono di fare a quelli un sacrifizio favorevole, non s'accorgono di sgozzare, intanto, degli uomini. Infatti un'uccisione non diventa sacrifizio in ragione del luogo in cui essa è stata consumata, neppure se uno sgozzi un uomo ad Artemide e a Zeus in un luogo in apparenza - sacro, piuttosto che per ira e cupidigia, altri demoni dello stesso genere, sugli altari piuttosto che nelle strade, e lo consacri come vittima; ma uccisione e omicidio è un tale sacrificio. Perchè dunque, o uomini sapientissimi tra tutti gli esseri viventi, fuggiamo le fiere selvagge, e se ci imbattiamo in un orso o in un leone, ci volgiamo fuori della nostra strada come chi ha visto un serpente, s'arresta ed arretra di scatto nelle gole di un monte, e trema per tutte le membra, e si ritira indietro..., e quanto ai demoni invece, pur sentendo già prima e comprendendo che essi sono esiziali e nefasti insidiatori e odiatori degli uomini e sterminatori, non cambiate strada di fronte ad essi, e non tornate indietro? Che cosa di vero potrebbero dire i malvagi o a chi potrebhero giovare? Comunque, io posso dimostrarti che l'uomo è migliore di questi vostri dei - i quali, poi, non sono che demoni - e che Ciro e Solone sono migliori di Apollo, il dio della vaticinazione. Amante dei doni è il vostro Febo, ma non amante degli uomini. Trad il suo amico Creso, e dimenticatosi della mercede che aveva ricevuto (così era amante dell'ambiguità) trasse Creso attraverso l'Aly sulla pira. Amando in questo modo, i demoni guidano verso il fuoco. Ma tu, o uomo, più filantropico e più veritiero di Apollo, abbi compassione di colui che sta legato sulla pira. E tu, o Solone, vaticina la verità, e tu, o Ciro, fa' spegnere la pira. Impara finalmente, o Creso, a essere saggio, ora che la sventura ti ha insegnato la vera saggezza. Ingrato è quello che tu adori, prende la mercede, e, dopo aver preso l'oro, in cambio, mentisce. " Vedi la fine " non è il demone a dirtelo, ma l'uomo. Non ambiguamente vaticina Solone. Questo solo oracolo troverai veritiero, o barbaro; questo tu metterai alla prova sulla pira. Da ciò mi vien fatto di domandarmi maravigliato, da quali mai fantasie siano stati indotti coloro che per primi, essendo stati essi stessi


14 - Si spiegano le difficoltà e le infermità che san Giuseppe soffrì negli ultimi anni della sua vita.

La mistica Città di Dio - Libro quinto - Suor Maria d'Agreda

Leggilo nella Biblioteca

864. È comune inavvertenza di tutti noi, discepoli di Cristo nostro bene, chiamati alla luce ed alla professione della fede, cercarlo più come redentore delle colpe che come maestro delle afflizioni. Tutti vogliamo godere del frutto della riparazione, tutti bramiamo che egli ci apra le porte della grazia e della gloria, ma non ci curiamo di seguirlo nel cammino della croce per il quale egli entrò nella sua gloria e invitò noi ad imitarlo per raggiungere la nostra. Noi cattolici, per l'errore insano degli eretici, non ignoriamo questa verità; infatti, confessiamo che senza travaglio non vi è premio né corona e sappiamo che è bestemmia sacrilega valerci dei meriti di Cristo nostro Signore per peccare sfrenatamente e senza timore. Ma nella pratica delle opere corrispondenti alla fede alcuni di noi, figli della santa Chiesa, amano distinguersi poco da quelli che vivono nelle tenebre e schivano in tutti i modi le opere difficoltose e meritorie, perché ritengono che senza di esse possano seguire il loro Maestro e giungere ad essere partecipi della sua gloria.

865. Usciamo da questo inganno e cerchiamo di comprendere bene che la sofferenza non riguarda solo Cristo nostro Signore, ma interessa anche noi. Egli come redentore del mondo soffrì morte ed afflizioni, e come maestro ci insegnò ed invitò a portare la sua croce, comunicandola ai suoi amici in maniera che il più favorito avesse maggior parte nel patire. E così nessuno può entrare nel cielo - se lo merita - senza che lo guadagni con le proprie azioni. E incominciando dalla sua santissima Madre, dagli apostoli, dai martiri, dai confessori e dalle vergini, tutti camminarono per la via della sofferenza, e colui che si rese più disponibile a patire ha conseguito ora il premio e la corona. Noi sappiamo che il Signore in ciò fu l'esempio più vivo e mirabile, ma abbiamo l'audacia di dire che se egli patì come uomo ne fu capace perché era anche Dio, onnipotente e vero, e quindi oggetto per l'umana fragilità più d'ammirazione che d'imitazione. Di fronte a questa scusante ci viene incontro sua Maestà con la testimonianza di sua Madre, nostra regina, innocente e pura, con quella del santissimo Giuseppe e con l'esempio di tanti uomini e donne, fragili e deboli come noi e con meno colpe, che lo seguirono nel cammino della croce. Il Signore, infatti, non patì per nostra meraviglia, ma per offrirsi come straordinario modello da imitare. L'essere vero Dio oltre che vero uomo non gli impedì la sofferenza e la prova della fatica, ed anzi per lui, innocente e senza colpa, fu ancor più grande il dolore e più atroci furono le pene.

866. Sua Maestà, per questa via regale, fece incamminare Giuseppe, lo sposo della sua santissima Madre, che amava al di sopra di tutti i figli degli uomini. Il Signore per accrescere al santo vegliardo i meriti e la corona, prima che egli giungesse alla fine della vita per poterli guadagnare, gli diede negli ultimi anni della sua esistenza diverse infermità, con febbre, forti mal di testa e dolori particolarmente strazianti alle articolazioni del corpo, che lo afflissero ed estenuarono molto. Oltre a questi tormenti, Giuseppe ebbe una sofferenza più dolce, ma sempre molto dolorosa, suscitata dalla forza del suo ardentissimo amore. Questo era tanto veemente da rapirlo, diverse volte, in voli così forti e impetuosi che il suo spirito purissimo avrebbe rotto le catene del corpo se il Signore, che disponeva questo, non l'avesse assistito infondendogli virtù e forza. Tuttavia sua Maestà in questa dolce violenza non lo lasciava soccombere e questo esercizio, considerando la fragilità naturale di un corpo tanto estenuato e debilitato, portava il fortunato santo ad acquistare incomparabili meriti, non solo per i dolori che pativa, ma anche per l'amore da cui scaturivano.

867. La nostra gran Signora era testimone di tutti questi misteri e, come ho già detto in altri passi, conoscendo il cuore di san Giuseppe, godeva nell'avere uno sposo santo e tanto amato dal Signore. Ella ammirava e penetrava il candore e la purezza di quell'anima, i suoi ardenti affetti, i suoi sublimi e divini pensieri, la sua pazienza e la sua mansuetudine, il peso e la gravosità delle malattie, vedendo con stupore che né per queste né per altre tribolazioni si lamentava o sospirava o cercava sollievo: nella sua debolezza e nelle sue necessità, il gran patriarca tutto tollerava con incomparabile sofferenza e grandezza d'animo. La prudentissima sposa, ponendo attenzione a tutto ciò e considerandone degnamente il carico, giunse ad avere per san Giuseppe una così alta venerazione che non si può ben concepire né contenere entro misure. Ella faticava con incredibile trasporto per sostentarlo e ricrearlo, e il più grande regalo che gli faceva era quello di preparargli e somministrargli con le sue mani verginali cibi saporiti. Ma tutto questo sembrava poco alla divina Signora di fronte ai bisogni del suo sposo, e molto meno in confronto a quanto ella lo amava. Allora, era solita usare la sua autorità di Regina e signora di tutto il creato, ordinando alcune volte alle vivande che preparava di infondere al santo infermo speciali virtù e forze, e di essere gradite al suo gusto. Ciò serviva per mantenere in vita quest'uomo giusto e prediletto dall'Altissimo.

868. Tutte le creature obbedivano agli ordini di Maria santissima, perché ogni cosa fosse eseguita secondo i suoi comandi. Quando san Giuseppe mangiava il cibo condito con tale dolcezza ne avvertiva gli effetti, e diceva alla sua sposa: «Signora mia, che alimento di vita è questo, che mi vivifica, mi ricrea il gusto, mi ristora le forze e riempie di nuovo giubilo tutto il mio intimo e il mio spirito?». L'Imperatrice del cielo lo serviva a mensa in ginocchio, e quando lo vedeva impacciato ed affaticato gli toglieva i sandali e lo aiutava sostenendolo con il suo braccio. L'umile santo cercava con tutta la volontà di farsi forza per dispensare in parte la sua sposa da questi umili servizi, e tuttavia non gli era possibile disimpegnarla. La divina infermiera, per la sapienza che le era infusa, conosceva tutti i dolori e le fragilità di Giuseppe, i momenti e le occasioni opportune per soccorrerlo, e quindi accorreva subito e lo preveniva in tutto ciò di cui aveva bisogno. E come maestra di scienza e di virtù conversava con il suo sposo recandogli particolare sollievo e consolazione. Negli ultimi tre anni di vita del santo, quando si erano aggravate maggiormente le sue infermità, la Regina lo assisteva giorno e notte, assentandosi solo per il tempo in cui si dedicava al suo santissimo Figlio, benché egli stesso l'accompagnasse e l'aiutasse nel prendersi cura del santo sposo, salvo quando doveva attendere ad altre opere. Non vi fu né vi sarà mai altro infermo così teneramente servito ed accudito. Tanto favorevole fu la sorte e tali furono i pregi di Giuseppe, uomo di Dio, che egli solo meritò di avere per sposa la medesima sposa dello Spirito Santo!

869. La celeste Signora, pur servendolo in questo modo, non sentiva di appagare la sua compassione verso san Giuseppe, e quindi cercava di procurare altri mezzi per confortarlo. Alcune volte chiedeva al Signore con ardentissima carità che trasponesse in lei i dolori che pativa il suo sposo, per concedere a lui un po' di sollievo. Ella, come infima fra tutte le creature, si reputava degna e meritevole di ogni tribolazione. Come madre e maestra di santità presentava questa ragione dinanzi all'Altissimo, a cui dichiarava che il suo debito superava quello di tutti i mortali, ma poiché non gli dava degna corrispondenza apriva il suo cuore ad ogni sorta di dolore e di afflizione. Maria santissima rievocava davanti al Signore anche la santità di san Giuseppe, la purezza e i tesori custoditi in quel cuore che l'Onnipotente stesso aveva plasmato a somiglianza del suo; chiedeva a sua Maestà molte benedizioni per il suo sposo, e gli rendeva grazie per aver creato un uomo così degno dei favori divini e così pieno di santità e rettitudine. E riconoscendo in tutti questi prodigi la gloria e la sapienza dell'Altissimo invitava gli angeli a lodarlo, a magnificarlo e a benedirlo con nuovi cantici. La divina Regina, considerando le pene e i dolori del suo amato sposo, da una parte si affliggeva e ne aveva compassione, e dall'altra parte, conoscendo i suoi meriti ed il compiacimento che ne aveva il Signore, si rallegrava per la pazienza del santo e rendeva ancor più lode all'Onnipotente. In tutte queste opere ella esercitava le diverse virtù in modo così eminente da suscitare la meraviglia degli angeli. E uno stupore ancor più grande sarebbe potuto scaturire dall'insipienza stessa dei mortali se avessero visto una creatura umana operare con piena perfezione tante cose insieme, senza che la sollecitudine di Marta si opponesse alla contemplazione e alla quiete di Malia. In questo la divina Signora si rendeva simile agli angeli e agli spiriti sovrani, che ci assistono e ci custodiscono senza distogliere lo sguardo dall'Altissimos. Tuttavia Maria li superava per l'attenzione che rivolgeva a Dio e per il lavoro che eseguiva con i sensi corporei di cui essi sono privi. Difatti, come figlia di Adamo, ella era creatura terrena e spirito celeste, e pertanto con la parte superiore dell'anima era protesa verso le alte vette dell'amore divino, mentre con la parte inferiore esercitava la carità verso il suo santo sposo.

870. In altre occasioni la pietosa Signora presagiva l'acerbità dei dolori che Giuseppe pativa, e allora mossa da tenera compassione chiedeva umilmente al suo santissimo Figlio il permesso di esercitare la sua autorità di regina; ed ottenutolo ordinava alle sofferenze ed alle loro cause naturali di sospendere la propria attività e di non affliggere così tanto il giusto e l'amato del Signore. Il santo sposo, dopo aver ricevuto tale sollievo, poteva riposare per uno o più giorni, ritornando a patire di nuovo quando l'Altissimo lo disponeva. Altre volte Maria comandava ai santi angeli - non con autorità dispotica, ma pregandoli - che consolassero san Giuseppe e l'animassero nei dolori e nelle sue afflizioni, come richiede la fragile condizione della carne. A questo ordine, gli angeli si manifestavano al fortunato infermo in forma umana, visibile, pieni di splendore e bellezza, parlandogli della Divinità e delle sue infinite perfezioni. Talvolta con dolcissime ed armoniose voci gli eseguivano una celeste musica, elevando inni e cantici divini con i quali lo confortavano nel corpo ed infiammavano d'amore la sua purissima anima. Il pio Giuseppe, ricolmo di santità e di giubilo, aveva una speciale cognizione non solo di questi favori divini ma anche della santità della sua vergine sposa, dell'amore che ella gli portava, della carità con cui lo trattava e serviva, e delle altre eccelse virtù della Signora del mondo. Da tutto ciò Giuseppe ricevette una tale ricchezza che nessuna lingua può spiegare, né intelletto umano comprendere.

 

Insegnamento della Regina del cielo

871. Figlia mia, una delle opere virtuose più gradite al Signore e più fruttuose per le anime è l'esercizio della carità verso gli infermi; con esso si adempie gran parte della legge naturale di fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi stessi. Nel Vangelo l'osservanza di questa norma è posta tra le cause che consentono ai giusti di raggiungere l'eterno premio, così come la sua trasgressione tra quelle che comportano la condanna dei reprobi. Su questa legge saremo giudicati, perché essendo tutti gli uomini figli del medesimo Padre celeste, sua Maestà reputa benevolenza o offesa recata a se stesso quella che si reca ai suoi figli che lo rappresentano. Tu, oltre a questo vincolo di fratellanza, hai anche altri legami con le tue religiose, perché sei loro madre. Sono spose di Cristo, mio santissimo figlio e mio Signore, come lo sei tu, ma avendo esse ricevuto meno benefici, per i maggiori titoli di cui sei stata rivestita, sei obbligata a servirle e ad aver cura di loro nelle infermità. E perciò, come in un'altra parte ti ho comandato, reputati l'infermiera di tutte, e tra tutte la minima e la più obbligata. Desidero anche che tu mi sia riconoscente per questo precetto, perché con esso ti assegno un incarico tanto stimabile ed eccelso nella casa del Signore. Per adempierlo non affidare ad altre ciò che tu stessa puoi fare nel servizio alle inferme; quando però le varie occupazioni del tuo ufficio di abbadessa te lo impediranno, rivolgiti premurosamente alle sorelle che per obbedienza svolgono questa mansione. Oltre che per soddisfare il precetto della carità, un'altra ragione per cui si deve assistere le religiose nelle infermità, con ogni cura e con ogni possibile attenzione, è che esse, contristate e bisognose, non rivolgano gli occhi e il cuore al mondo ricordandosi della casa dei loro genitori. Credimi: per questa strada si insinuano gravi mali all'interno delle comunità, perché la nostra natura umana sopporta così poco le privazioni che quando le manca ciò che le spetta scivola in rovinosi precipizi.

872. Per mettere in pratica questo insegnamento, ti servirà da stimolo e da esempio l'amore che io mostrai verso il mio sposo Giuseppe nelle sue infermità. Molto pigra è quella carità la quale aspetta che il bisognoso esponga le sue necessità. Io non attendevo questo, ma accorrevo prima che il mio sposo mi chiedesse ciò che gli era necessario, ed il mio affetto e la mia conoscenza prevenivano le sue richieste. E così lo consolavo non solo servendolo, ma anche rivolgendogli le mie amorevoli attenzioni. Condividevo i suoi dolori ed il suo affanno con intima compassione, e nello stesso tempo lodavo l'Altissimo e gli rendevo grazie per il beneficio che dispensava al suo servo. Se qualche volta cercavo di alleviare le sue sofferenze, non era per togliergli l'occasione di patire, ma affinché con questo soccorso riacquistasse maggior vigore e glorificasse l'Autore di ogni cosa buona e santa: in tal modo lo esortavo alla pratica di queste virtù. Con simile finezza d'animo si devono prevedere, per quanto possibile, le necessità dell'infermo e del debole, animandoli con la compassione e con l'esortazione, e desiderando il loro bene senza che perdano il merito del patire. Quando si ammalano le tue sorelle, fossero anche quelle delle quali hai più bisogno o che più ami, non ti turbare, perché per questo motivo molte anime nel mondo e nella vita consacrata perdono il merito dell'afflizione. Difatti, quando esse vedono nell'infermità o nel pericolo amici e congiunti rimangono sconcertate e mascherano il dolore con il colore della compassione. In qualche modo tentano così di sovvertire la volontà del Signore, non conformandosi ad essa. Io di tutto ho dato loro esempio; e da te voglio che lo imiti perfettamente, seguendo sempre le mie orme.


35-7 Settembre 12, 1937 Le verità sono i più grandi doni che Dio ci dà. Parto divino. Delirio stremo di voler vederci posseditrici dei suoi doni. Sua parola è sfogo d’amore. Il gran bene d’un atto fatto nella Divina Volontà.

Luisa Piccarreta (Libro di Cielo)

(1) La mia povera mente è come assediata dalla Divina Volontà, ne vuol dire tanto delle verità che le appartengono che io non posso contenerle, perché la mia capacità è troppo piccola, e sono costretta a dire: “Basta, Gesù, per ora, Tu ne vuoi dire tanto ed io sono incapace di ritenerle, né saprò dirle tutte, molto meno scriverle come Tu vuoi”. Ed il mio dolce Gesù, compassionando la mia piccolezza, tutto tenerezza mi ha detto:

(2) “Mia piccola figlia del mio Volere, non temere, la tua piccolezza si sperde nella mia Volontà, e non sei tu chi deve manifestare le sue verità, ma Essa stessa prenderà l’impegno di farsi narratrice di quello che vuol far conoscere, perciò investirà la tua mente, si farà parola sulle tue labbra e si farà conoscere chi Essa sia. Certo che da te non lo puoi, ma purché ci dai la tua volontà nella nostra, Noi aggiusteremo a tutto e faremo conoscere quello che vogliamo dire. Tu devi sapere che quando vogliamo fare un bene alle creature, dire una verità, che è il più gran bene che possiamo darle, perché col dirla ne facciamo dono, prima lo maturiamo nel seno della nostra Divinità, e quando non possiamo più contenerlo, perché il nostro amore è tanto che vuol vedere quel dono posseduto dalle creature, che ci fa dare in smanie, in deliri, giunge a farci languire perché vuol vedere quel bene trasmesso a loro. Ci troviamo nelle dolorose condizioni d’una povera madre, che avendo formato il suo parto, se non lo mette alla luce si sente morire; Noi non possiamo morire, ma se il bene che vogliamo dare come parto nostro non lo usciamo alla luce, il nostro amore dà in tali eccessi, che se si potesse vedere dalle creature, comprenderebbero come sa amare un Dio ed in quali strettezze ci mettono quando non ricevono il bene che vogliamo darle, perciò quando troviamo chi lo riceve, confermiamo il dono, facciamo festa e ci sentiamo vittoriosi del bene che l’abbiamo dato, e questo, perché avendolo ricevuto una sola creatura, il nostro parto uscito con tanto amore, da per sé stesso si farà strada, girerà per tutte le creature e con la sua virtù generativa rigenererà tanti altri parti, riempirà tutto il mondo, e Noi avremo la grande gloria di vedere riempiti Cieli e terra del nostro dono, dei nostri beni, e posseditrice di chi lo vuol ricevere. Sentiremo dappertutto le voci amorose, le note del nostro amore parlante, che ci ricambiano il nostro amore represso, ché non potevamo uscire questo parto nostro se non trovavamo almeno una creatura che lo volesse ricevere. Per Noi, il fare del bene è passione, il donare è il delirio continuo del nostro amore, e trovare chi lo riceva, sentiamo nel dono la vita nostra ed il nostro riposo. Quindi, chi si presta la prima a ricevere il nostro parto, l’amiamo tanto, che ci fidiamo di lei, la facciamo segretaria nostra, ed essa, nel vedersi tanto amata da Noi, prende l’impegno di amarci per tutti, ed ho! la gara che si forma tra essa e Noi. Tu devi sapere che ogni nostra parola è uno sfogo d’amore che facciamo con la creatura, sicché ogni parola detta sulla nostra Volontà Divina è uno sfogo d’amore che abbiamo fatto, e ricevendo refrigerio da questo sfogo, abbiamo continuato a parlare, per formare la catena dei nostri sfoghi d’amore, perché era un amore represso che tenevamo in Noi, e se tu sapessi che significa questo nostro sfogo d’amore, i beni che fa; questo nostro sfogo d’amore riempie Cieli e terra, investe tutti, imbalsama le pene, si fa giorno nella notte della colpa, converte i peccatori, raddrizza chi zoppica nel bene, rafferma i buoni, insomma, non vi è bene che non può fare una nostra parola che contiene un nostro sfogo d’amore. Sicché il farci parlare è il più gran bene che si può fare alle creature, ed il nostro amore ricambiato ed il dar vita divina alle creature, è la più grande gloria che possiamo ricevere. Che cosa non può fare una nostra parola? Tutto, e chi è disposto ad ascoltarla, si può dire che dà vita alla nostra parola, perché mai Noi parliamo se non troviamo chi vuole ascoltarci. Perciò, chi ci ascolta ci ama tanto, che ci sentiamo come se ci volesse dar vita in mezzo alle creature, e Noi le diamo la nostra Vita a sua disposizione. Onde sii attenta ad ascoltarci, facci sfogare in amore, che molte volte, quando questi sfoghi d’amore non abbiamo con chi farli, questi sfoghi giustamente si convertono in giustizia”.

(3) Gesù ha fatto silenzio, ma chi può dire che cosa è restata nella mia mente? Non ho i vocaboli per ridirlo, perciò faccio punto e mi abbandono nelle braccia di Gesù per riposarmi insieme con Lui, che mi ama tanto e vuol essere riamato, che mi dà tutto Sé stesso, per essere riamato come Lui mi ama. Onde seguivo il mio giro nella Creazione per rintracciare gli atti fatti dal Voler Divino, farli miei per poterlo riamare come mi ha amato. E giunta nella volta azzurra pensavo tra me: “Questo cielo serve come volta agli abitatori della terra, come pavimento agli abitatori celesti, quindi, siccome serve a tutti, tutti sono obbligati di adorare Colui che con tanto amore ci ha creato questa volta celeste per darla a noi”. Quindi chiamavo tutti gli angeli, i santi e tutti gli abitatori della terra insieme con me, perché tutti uniti ricambiassimo in amore, in adorazione, gloria e ringraziamenti il nostro Creatore, perché ci ha amato tanto che ci ha dato questo cielo. Nel Voler Divino io chiamavo, abbracciavo tutti, e come se fossero uno solo, amavano insieme con me. Il dolce Gesù è restato riamato e ferito da tante voci, e con amore indicibile mi ha detto:

(4) “Figlia mia, un atto nel mio Volere è tanta la sua potenza, che dà dell’incredibile. Come tu chiamavi tutti mi sono sentito riamato da tutti, e avendo tu una volontà libera e meritoria, come tu hai emesso il tuo atto, la mia Volontà ha sprigionato da Sé un amore, una gloria, una felicità maggiore, di cui tutti si sono sentiti investiti, e gli angeli e santi sentono una gloria e felicità maggiore e si sentono più riamati da Dio, e la terra riceve più aiuti, più grazie, a secondo le loro disposizioni. Tutti gli atti fatti nel mio Volere ricevono questo gran bene, perché la mia Volontà è di tutti e tutti hanno diritto a quell’atto, e siccome è atto di viatrice, che corre il merito a tutto ciò che fa di bene, il merito diventa merito comune, quindi, gioia, amore e gloria comune, e se tu sapessi che significa essere più riamato da Dio, gioie e gloria che dà un Dio, oh! come saresti più attenta, gli angeli, i santi, che lo sanno, sospirano la tua chiamata per avere questo gran bene, e quando tu non li chiami, premurosi dicono: “Non ci chiama oggi? ” Sicché tu stai in terra ed il tuo merito corre in Cielo per dare nuovo amore e nuova felicità ai celesti abitatori. Oh! come vorrei che tutti conoscessero che significa operare nella mia Volontà, perché la conoscenza è come l’appetito, che fa desiderare e gustare il cibo che si mangia, invece, senza dell’appetito si sente avversione allo stesso cibo e non si gusta. Tale è la conoscenza, essa è la portatrice dei miei doni, del bene che voglio alle creature, è la conferma del possesso. Poi, la conoscenza genera la stima, l’apprezzamento alle mie verità, ed Io allora parlo quando so che le mie parole sono amate, ascoltate e apprezzate, anzi, quando vedo la stima, l’amore, mi sento tirato dal mio stesso amore a manifestare altre verità; se ciò non vedo, faccio silenzio, e sento il dolore del mio amore represso. Ciò non me lo farai tu, non è vero? ”