Liturgia delle Ore - Letture
Mercoledi della 6° settimana del Tempo di Pasqua
Vangelo secondo Giovanni 6
1Dopo questi fatti, Gesù andò all'altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade,2e una grande folla lo seguiva, vedendo i segni che faceva sugli infermi.3Gesù salì sulla montagna e là si pose a sedere con i suoi discepoli.4Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.5Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: "Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?".6Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare.7Gli rispose Filippo: "Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo".8Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro:9"C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?".10Rispose Gesù: "Fateli sedere". C'era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini.11Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero.12E quando furono saziati, disse ai discepoli: "Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto".13Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d'orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
14Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: "Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo!".15Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo.
16Venuta intanto la sera, i suoi discepoli scesero al mare17e, saliti in una barca, si avviarono verso l'altra riva in direzione di Cafàrnao. Era ormai buio, e Gesù non era ancora venuto da loro.18Il mare era agitato, perché soffiava un forte vento.19Dopo aver remato circa tre o quattro miglia, videro Gesù che camminava sul mare e si avvicinava alla barca, ed ebbero paura.20Ma egli disse loro: "Sono io, non temete".21Allora vollero prenderlo sulla barca e rapidamente la barca toccò la riva alla quale erano diretti.
22Il giorno dopo, la folla, rimasta dall'altra parte del mare, notò che c'era una barca sola e che Gesù non era salito con i suoi discepoli sulla barca, ma soltanto i suoi discepoli erano partiti.23Altre barche erano giunte nel frattempo da Tiberìade, presso il luogo dove avevano mangiato il pane dopo che il Signore aveva reso grazie.24Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù.25Trovatolo di là dal mare, gli dissero: "Rabbì, quando sei venuto qua?".
26Gesù rispose: "In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati.27Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo".28Gli dissero allora: "Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?".29Gesù rispose: "Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato".
30Allora gli dissero: "Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi?31I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: 'Diede loro da mangiare un pane dal cielo'".32Rispose loro Gesù: "In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero;33il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo".34Allora gli dissero: "Signore, dacci sempre questo pane".35Gesù rispose: "Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete.36Vi ho detto però che voi mi avete visto e non credete.37Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò,38perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.39E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno.40Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell'ultimo giorno".
41Intanto i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: "Io sono il pane disceso dal cielo".42E dicevano: "Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?".
43Gesù rispose: "Non mormorate tra di voi.44Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.45Sta scritto nei profeti: 'E tutti saranno ammaestrati da Dio'. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me.46Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre.47In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna.48Io sono il pane della vita.49I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti;50questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.51Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo".
52Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?".53Gesù disse: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita.54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno.55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.56Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me.58Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno".
59Queste cose disse Gesù, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao.60Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: "Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?".61Gesù, conoscendo dentro di sé che i suoi discepoli proprio di questo mormoravano, disse loro: "Questo vi scandalizza?62E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima?63È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che vi ho dette sono spirito e vita.64Ma vi sono alcuni tra voi che non credono". Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito.65E continuò: "Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio".
66Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
67Disse allora Gesù ai Dodici: "Forse anche voi volete andarvene?".68Gli rispose Simon Pietro: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna;69noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio".70Rispose Gesù: "Non ho forse scelto io voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!". Egli parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: questi infatti stava per tradirlo, uno dei Dodici.
Primo libro di Samuele 23
1Riferirono a Davide: "Ecco i Filistei assediano Keila e saccheggiano le aie".2Davide consultò il Signore chiedendo: "Devo andare? Riuscirò a battere questi Filistei?". Rispose il Signore: "Va' perché sconfiggerai i Filistei e libererai Keila".3Ma gli uomini di Davide gli dissero: "Ecco, noi abbiamo già da temere qui in Giuda, tanto più se andremo a Keila contro le forze dei Filistei".4Davide consultò di nuovo il Signore e il Signore gli rispose: "Muoviti e scendi a Keila, perché io metterò i Filistei nelle tue mani".5Davide con i suoi uomini scese a Keila, assalì i Filistei, portò via il loro bestiame e inflisse loro una grande sconfitta. Così Davide liberò gli abitanti di Keila.6Quando Ebiatar figlio di Achimelech si era rifugiato presso Davide, l''efod' era nelle sue mani e con quello era sceso a Keila.7Fu riferito a Saul che Davide era giunto a Keila e Saul disse: "Dio l'ha messo nelle mie mani, perché si è messo in una trappola venendo in una città con porte e sbarre".8Saul chiamò tutto il popolo alle armi per scendere a Keila e assediare Davide e i suoi uomini.9Quando Davide seppe che Saul veniva contro di lui macchinando disegni iniqui, disse al sacerdote Ebiatar: "Porta qui l''efod'".10Davide disse: "Signore, Dio d'Israele, il tuo servo ha sentito dire che Saul cerca di venire contro Keila e di distruggere la città per causa mia.11Mi metteranno nelle sue mani i cittadini di Keila? Scenderà Saul, come ha saputo il tuo servo? Signore, Dio d'Israele, fallo sapere al tuo servo". Il Signore rispose: "Scenderà".12Davide aggiunse: "I cittadini di Keila mi consegneranno nelle mani di Saul con i miei uomini?". Il Signore rispose: "Ti consegneranno".13Davide si alzò e uscì da Keila con la truppa, circa seicento uomini, e andò vagando senza mèta. Fu riferito a Saul che Davide era fuggito da Keila ed egli rinunziò all'azione.
14Davide andò a dimorare nel deserto in luoghi impervii, in zona montuosa, nel deserto di Zif e Saul lo ricercava sempre; ma Dio non lo mise mai nelle sue mani.
15Davide sapeva che Saul era uscito a cercare la sua vita. Intanto Davide stava nel deserto di Zif, a Corsa.16Allora Giònata figlio di Saul si alzò e andò da Davide a Corsa e ne rinvigorì il coraggio in Dio.17Poi gli disse: "Non temere: la mano di Saul mio padre non potrà raggiungerti e tu regnerai su Israele mentre io sarò a te secondo. Anche Saul mio padre lo sa bene".18Essi strinsero un patto davanti al Signore. Davide rimase a Corsa e Gionata tornò a casa.
19Ma alcuni uomini di Zif vennero a Gàbaa da Saul per dirgli: "Non sai che Davide è nascosto presso di noi fra i dirupi?20Ora, atteso il tuo desiderio di scendere, o re, scendi e sapremo metterlo nelle mani del re".21Rispose Saul: "Benedetti voi nel nome del Signore, perché vi siete presi a cuore la mia causa.22Andate dunque, informatevi ancora, accertatevi bene del luogo dove muove i suoi passi e chi lo ha visto là, perché mi hanno detto che egli è molto astuto.23Cercate di conoscere tutti i nascondigli nei quali si rifugia e tornate a me con la conferma. Allora verrò con voi e, se sarà nel paese, lo ricercherò in tutti i villaggi di Giuda".24Si alzarono e tornarono a Zif precedendo Saul. Davide e i suoi uomini erano nel deserto di Maon, nell'Araba a meridione della steppa.25Saul andò con i suoi uomini per ricercarlo. Ma la cosa fu riferita a Davide, il quale scese presso la rupe, rimanendo nel deserto di Maon. Lo seppe Saul e seguì le tracce di Davide nel deserto di Maon.26Saul procedeva sul fianco del monte da una parte e Davide e i suoi uomini sul fianco del monte dall'altra parte. Davide cercava in ogni modo di sfuggire a Saul e Saul e i suoi uomini accerchiavano Davide e i suoi uomini per prenderli.27Ma arrivò un messaggero a dire a Saul: "Vieni in fretta, perché i Filistei hanno invaso il paese".28Allora Saul cessò di inseguire Davide e andò contro i Filistei. Per questo chiamarono quel luogo: Rupe della separazione.
Giobbe 6
1Allora Giobbe rispose:
2Se ben si pesasse il mio cruccio
e sulla stessa bilancia si ponesse la mia sventura...
3certo sarebbe più pesante della sabbia del mare!
Per questo temerarie sono state le mie parole,
4perché le saette dell'Onnipotente mi stanno infitte,
sì che il mio spirito ne beve il veleno
e terrori immani mi si schierano contro!
5Raglia forse il somaro con l'erba davanti
o muggisce il bue sopra il suo foraggio?
6Si mangia forse un cibo insipido, senza sale?
O che gusto c'è nell'acqua di malva?
7Ciò che io ricusavo di toccare
questo è il ributtante mio cibo!
8Oh, mi accadesse quello che invoco,
e Dio mi concedesse quello che spero!
9Volesse Dio schiacciarmi,
stendere la mano e sopprimermi!
10Ciò sarebbe per me un qualche conforto
e gioirei, pur nell'angoscia senza pietà,
per non aver rinnegato i decreti del Santo.
11Qual la mia forza, perché io possa durare,
o qual la mia fine, perché prolunghi la vita?
12La mia forza è forza di macigni?
La mia carne è forse di bronzo?
13Non v'è proprio aiuto per me?
Ogni soccorso mi è precluso?
14A chi è sfinito è dovuta pietà dagli amici,
anche se ha abbandonato il timore di Dio.
15I miei fratelli mi hanno deluso come un torrente,
sono dileguati come i torrenti delle valli,
16i quali sono torbidi per lo sgelo,
si gonfiano allo sciogliersi della neve,
17ma al tempo della siccità svaniscono
e all'arsura scompaiono dai loro letti.
18Deviano dalle loro piste le carovane,
avanzano nel deserto e vi si perdono;
19le carovane di Tema guardano là,
i viandanti di Saba sperano in essi:
20ma rimangono delusi d'avere sperato,
giunti fin là, ne restano confusi.
21Così ora voi siete per me:
vedete che faccio orrore e vi prende paura.
22Vi ho detto forse: "Datemi qualcosa"
o "dei vostri beni fatemi un regalo"
23o "liberatemi dalle mani di un nemico"
o "dalle mani dei violenti riscattatemi"?
24Istruitemi e allora io tacerò,
fatemi conoscere in che cosa ho sbagliato.
25Che hanno di offensivo le giuste parole?
Ma che cosa dimostra la prova che viene da voi?
26Forse voi pensate a confutare parole,
e come sparsi al vento stimate i detti di un disperato!
27Anche sull'orfano gettereste la sorte
e a un vostro amico scavereste la fossa.
28Ma ora degnatevi di volgervi verso di me:
davanti a voi non mentirò.
29Su, ricredetevi: non siate ingiusti!
Ricredetevi; la mia giustizia è ancora qui!
30C'è forse iniquità sulla mia lingua
o il mio palato non distingue più le sventure?
Salmi 150
1Alleluia.
Lodate il Signore nel suo santuario,
lodatelo nel firmamento della sua potenza.
2Lodatelo per i suoi prodigi,
lodatelo per la sua immensa grandezza.
3Lodatelo con squilli di tromba,
lodatelo con arpa e cetra;
4lodatelo con timpani e danze,
lodatelo sulle corde e sui flauti.
5Lodatelo con cembali sonori,
lodatelo con cembali squillanti;
ogni vivente dia lode al Signore.
Alleluia.
Geremia 36
1Nel quarto anno di Ioiakìm figlio di Giosia, re di Giuda, questa parola fu rivolta a Geremia da parte del Signore:2"Prendi un rotolo da scrivere e scrivici tutte le cose che ti ho detto riguardo a Gerusalemme, a Giuda e a tutte le nazioni, da quando cominciai a parlarti dal tempo di Giosia fino ad oggi.3Forse quelli della casa di Giuda, sentendo tutto il male che mi propongo di fare loro, abbandoneranno ciascuno la sua condotta perversa e allora perdonerò le loro iniquità e i loro peccati".
4Geremia chiamò Baruc figlio di Neria e Baruc scrisse, sotto la dettatura di Geremia, tutte le cose che il Signore gli aveva detto su un rotolo per scrivere.5Quindi Geremia ordinò a Baruc: "Io ne sono impedito e non posso andare nel tempio del Signore.6Andrai dunque tu a leggere, nel rotolo che hai scritto sotto la mia dettatura, le parole del Signore, facendole udire al popolo nel tempio del Signore in un giorno di digiuno; le leggerai anche ad alta voce a tutti quelli di Giuda che vengono dalle loro città.7Forse si umilieranno con suppliche dinanzi al Signore e abbandoneranno ciascuno la sua condotta perversa, perché grande è l'ira e il furore che il Signore ha espresso verso questo popolo".
8Baruc figlio di Neria fece quanto gli aveva comandato il profeta Geremia, leggendo sul rotolo le parole del Signore nel tempio.
9Nel quinto anno di Ioiakìm figlio di Giosia, re di Giuda, nel nono mese, fu indetto un digiuno davanti al Signore per tutto il popolo di Gerusalemme e per tutto il popolo che era venuto dalle città di Giuda a Gerusalemme.10Baruc dunque lesse nel libro facendo udire a tutto il popolo le parole di Geremia, nel tempio del Signore, nella stanza di Ghemarià, figlio di Safàn lo scriba, nel cortile superiore presso l'ingresso della Porta Nuova del tempio del Signore.11Michea figlio di Ghemarià, figlio di Safàn, udite tutte le parole del Signore lette dal libro,12scese alla reggia nella stanza dello scriba; ed ecco là si trovavano in seduta tutti i capi dignitari: Elisamà lo scriba e Delaià figlio di Semaià, Elnatàn figlio di Acbòr, Ghemarià figlio di Safàn, e Sedecìa figlio di Anania, insieme con tutti i capi.13Michea riferì loro tutte le parole che aveva udite quando Baruc leggeva nel libro al popolo in ascolto.
14Allora tutti i capi inviarono da Baruc Iudi figlio di Natania, figlio di Selemia, figlio dell'Etiope, per dirgli: "Prendi nelle mani il rotolo che leggevi ad alta voce al popolo e vieni".
Baruc figlio di Neria prese il rotolo in mano e si recò da loro.15Ed essi gli dissero: "Siedi e leggi davanti a noi". Baruc lesse davanti a loro.
16Allora, quando udirono tutte quelle parole, ebbero paura e si dissero l'un l'altro: "Dobbiamo senz'altro riferire al re tutte queste parole".17Poi interrogarono Baruc: "Dicci come hai fatto a scrivere tutte queste parole".18Baruc rispose: "Di sua bocca Geremia mi dettava tutte queste parole e io le scrivevo nel libro con l'inchiostro".
19I capi dissero a Baruc: "Va' e nasconditi insieme con Geremia; nessuno sappia dove siete".20Essi poi si recarono dal re nell'appartamento interno, dopo aver riposto il rotolo nella stanza di Elisamà lo scriba, e riferirono al re tutte queste cose.
21Allora il re mandò Iudi a prendere il rotolo. Iudi lo prese dalla stanza di Elisamà lo scriba e lo lesse davanti al re e a tutti i capi che stavano presso il re.22Il re sedeva nel palazzo d'inverno - si era al nono mese - con un braciere acceso davanti.
23Ora, quando Iudi aveva letto tre o quattro colonne, il re le lacerava con il temperino da scriba e le gettava nel fuoco sul braciere, finché non fu distrutto l'intero rotolo nel fuoco che era sul braciere.24Il re e tutti i suoi ministri non tremarono né si strapparono le vesti all'udire tutte quelle cose.25Eppure Elnatàn, Delaià e Ghemarià avevano supplicato il re di non bruciare il rotolo, ma egli non diede loro ascolto.26Anzi ordinò a Ieracmeèl, un principe regale, a Seraià figlio di Azrièl e a Selemia figlio di Abdeèl, di arrestare Baruc lo scriba e il profeta Geremia, ma il Signore li aveva nascosti.
27Questa parola del Signore fu rivolta a Geremia dopo che il re ebbe bruciato il rotolo con le parole che Baruc aveva scritte sotto la dettatura di Geremia:28Prendi di nuovo un rotolo e scrivici tutte le parole di prima, che erano nel primo rotolo bruciato da Ioiakìm re di Giuda.29Contro Ioiakìm re di Giuda dichiarerai: "Dice il Signore: Hai bruciato quel rotolo, dicendo: Perché vi hai scritto queste parole: Certo verrà il re di Babilonia e devasterà questo paese e farà scomparire da esso uomini e bestie?30Per questo dice il Signore contro Ioiakìm re di Giuda: Egli non avrà un erede sul trono di Davide; il suo cadavere sarà esposto al calore del giorno e al freddo della notte.31Io punirò lui, la sua discendenza e i suoi ministri per le loro iniquità e manderò su di loro, sugli abitanti di Gerusalemme e sugli uomini di Giuda, tutto il male che ho minacciato, senza che mi abbiano dato ascolto".
32Geremia prese un altro rotolo e lo consegnò a Baruc figlio di Neria, lo scriba, il quale vi scrisse, sotto la dettatura di Geremia, tutte le parole del libro che Ioiakìm re di Giuda aveva bruciato nel fuoco; inoltre vi furono aggiunte molte parole simili a quelle.
Lettera ai Romani 2
1Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose.2Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose.3Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio?4O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione?5Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell'ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio,6il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere:7la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità;8sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all'ingiustizia.9Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco;10gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco,11perché presso Dio non c'è parzialità.
12Tutti quelli che hanno peccato senza la legge, periranno anche senza la legge; quanti invece hanno peccato sotto la legge, saranno giudicati con la legge.13Perché non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati.14Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi;15essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono.16Così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo, secondo il mio vangelo.
17Ora, se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di Dio,18del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che è meglio,19e sei convinto di esser guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre,20educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l'espressione della sapienza e della verità...21ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi?22Tu che proibisci l'adulterio, sei adùltero? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi?23Tu che ti glori della legge, offendi Dio trasgredendo la legge?24Infatti 'il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra i pagani', come sta scritto.
25La circoncisione è utile, sì, se osservi la legge; ma se trasgredisci la legge, con la tua circoncisione sei come uno non circonciso.26Se dunque chi non è circonciso osserva le prescrizioni della legge, la sua non circoncisione non gli verrà forse contata come circoncisione?27E così, chi non è circonciso fisicamente, ma osserva la legge, giudicherà te che, nonostante la lettera della legge e la circoncisione, sei un trasgressore della legge.28Infatti, Giudeo non è chi appare tale all'esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne;29ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene dagli uomini ma da Dio.
Capitolo VI: gli sregolati moti dell'anima
Leggilo nella BibliotecaOgni qual volta si desidera una cosa contro il volere di Dio, subito si diventa interiormente inquieti. Il superbo e l'avaro non hanno mai requie; invece il povero e l'umile di cuore godono della pienezza della pace. Colui che non è perfettamente morto a se stesso cade facilmente in tentazione ed è vinto in cose da nulla e disprezzabili. Colui che è debole nello spirito ed è, in qualche modo, ancora volto alla carne e ai sensi, difficilmente si può distogliere del tutto dalle brame terrene; e, quando pur riesce a sottrarsi a queste brame, ne riceve tristezza. Che se poi qualcuno gli pone ostacolo, facilmente si sdegna; se, infine, raggiunge quel che bramava, immediatamente sente in coscienza il peso della colpa, perché ha assecondato la sua passione, la quale non giova alla pace che cercava. Giacché la vera pace del cuore la si trova resistendo alle passioni, non soggiacendo ad esse. Non già nel cuore di colui che è attaccato alla carne, non già nell'uomo volto alle cose esteriori sta la pace; ma nel cuore di colui che è pieno di fervore spirituale.
La città di Dio - Libro Sesto: Il politeismo e il problema della salvezza
La città di Dio - Sant'Agostino d'Ippona
Leggilo nella Biblioteca
Politeismo, terrenità e salvezza (Prem. -1)
Premessa
- Mi pare di avere con i cinque libri precedenti disputato sufficientemente contro coloro che sostengono una moltitudine di falsi dèi. Mentre la verità cristiana dimostra con evidenza che gli dèi sono idoli inutili o spiriti immondi e demoni funesti e comunque creature e non il Creatore, essi ritengono che si devono onorare e adorare per i vantaggi di questa vita mortale e dei beni terreni col servizio rituale che in greco si dice e che si deve all'unico vero Dio. Ma chi non sa che per la stupidità e caparbietà ad oltranza non possono bastare né i cinque libri già scritti né altri in qualsiasi numero? Si ritiene appunto che gloria della menzogna sia non cedere alla forza della verità, a danno certamente di chi è dominato da un vizio così disumano. Infatti è una malattia inguaribile a dispetto dell'abilità di chi la cura e quindi non per difetto del medico ma del malato incurabile. Coloro invece che senza alcuna o almeno senza l'eccessiva ostinazione del vecchio errore soppesano le cose lette, dopo averle capite e meditate, giudicheranno facilmente che nella compilazione di questi cinque libri io ho sviluppato e svolto l'assunto di più che di meno di quanto l'argomento richiedesse. C'è poi tutto il malanimo che gli illetterati si sforzano di creare per la religione cristiana dalle sventure di questa vita e dal rivolgimento della vicenda terrena. I letterati, che sono invasati da una furiosa empietà, non solo fanno finta di non conoscerlo ma senz'altro, malgrado la propria consapevolezza, lo alimentano. Però i lettori non ostinati non potranno dubitare che esso è vuoto di qualsiasi ragionevole riflessione e pieno di frivola avventatezza e di pericoloso livore.Il politeismo, i filosofi e la salvezza.
1. 1. Ora poiché in seguito, come esige il procedimento promesso, sono da confutare e ammaestrare anche coloro i quali ritengono che gli dèi del paganesimo, rovesciati dalla religione cristiana, si devono adorare non per questa vita ma per quella che verrà dopo la morte, mi è gradito prendere lo spunto del mio discorso dalla parola veritiera di un salmo: Beato l'uomo la cui speranza è Dio Signore e non ha volto lo sguardo alle vanità e a menzognere follie 1. Comunque fra tante vanità e menzognere follie è di gran lunga più sopportabile ascoltare i filosofi che rifiutarono le false credenze popolari. I vari popoli infatti hanno formato idoli per le varie divinità, hanno inventato nei confronti di coloro che consideravano dèi immortali molti fatti falsi e indegni oppure li hanno creduti, se già inventati, e una volta creduti li hanno inseriti nel loro culto e riti misterici. Dunque con uomini i quali, quantunque non insegnando liberamente ma comunque borbottando nelle proprie congreghe, hanno affermato di riprovare simili ubbie, non è affatto inconveniente trattare la seguente questione: se per la vita che si avrà dopo la morte è necessario adorare non un solo Dio, che ha prodotto ogni creatura spirituale e materiale, ma molti dèi che, secondo il pensiero di alcuni loro filosofi più alti e rinomati 2, da lui sono stati creati e posti in un grado più alto.Particolari mansioni degli dèi e la salvezza.
1. 2. D'altronde è impossibile sostenere l'affermazione che quegli dèi, di cui alcuni ne ho nominati nel quarto libro 3, ai quali singolarmente sono affidate particolari mansioni su cose minute, possano conferire ad alcuno la vita eterna. Uomini veramente colti e intelligenti si vantano, come se avessero reso un gran servizio, di avere informato su tali mansioni mediante un'opera, affinché si sapesse la ragione per cui si deve supplicare ciascun dio e che cosa a ciascuno si deve chiedere; altrimenti con una sconveniente irragionevolezza, quale si ha di solito nell'istrione, si chiederebbe l'acqua a Libero e il vino alle Linfe 4. Ma questi autori non vorranno certamente suggerire all'individuo che supplica gli dèi che quando chiederà il vino alle Linfe e quelle gli risponderanno: "Noi abbiamo l'acqua, il vino chiedilo a Libero", egli possa ragionevolmente ribattere: "Se non avete il vino, datemi almeno la vita eterna". Sarebbe il colmo dell'assurdità. Certamente esse sghignazzando, giacché abitualmente sono facili al riso 5, a meno che come demoni non vogliano ingannare, risponderanno all'orante: "O uomo, pensi proprio che sia in nostro potere avere la vita, quando sai bene che non abbiamo in potere neanche la vite?". È dunque segno di spudorata stupidità chiedere o attendere la vita eterna da simili dèi. Di loro si afferma appunto che proteggono particolari settori di questa vita travagliata nella sua brevità, posto che si diano cose competenti a darle sostegno e sicurezza. Ne consegue che se si chiede a un dio un bene che è sotto la specifica tutela di un altro, s'incorre in una sconvenienza e assurdità tali da sembrare molto simili alla buffonata di un istrione. E quando questo si fa da istrioni consapevoli, meritatamente sono accolti dal riso in teatro, ma quando si fa da sciocchi inconsapevoli, meritatamente sono accolti da scherno nel mondo. Dunque dai dotti è stato con diligenza scoperto e consegnato alla tradizione il bene per cui si deve invocare l'uno o l'altro dio o dea, per quanto attiene agli dèi introdotti dai vari stati, ad esempio, che cosa si deve chiedere a Libero, alle Linfe, a Vulcano e agli altri che in parte ho ricordato nel quarto libro e in parte ho ritenuto di tralasciare. Quindi se è un errore chiedere il vino a Cerere e il pane a Libero, l'acqua a Vulcano e il fuoco alle Linfe, ha il significato di un'enorme follia il chiedere a qualcuno di loro la vita eterna.Gli dèi il potere politico e la vita eterna.
1. 3. Quando parlando del dominio terreno ho esaminato quali dèi o dee potrebbero conferirlo agli uomini, in seguito a un'analisi completa si dimostrò che è ben lungi dalla verità ritenere che anche i regni terreni possano essere assegnati da qualcuna delle molte false divinità 6. È dunque segno di una folle irreligiosità il credere che la vita eterna, la quale senza alcun dubbio o raffronto è da considerarsi superiore a tutti i domini terreni, possa esser data all'uomo da qualcuno di costoro. E non si ritenne certamente che simili dèi non possano dare il dominio terreno perché essi sono grandi e sublimi ed esso piccolo e spregevole che in così grande altezza non si degnerebbero di curare. Al contrario, quantunque in considerazione della caducità umana si debba giustamente disprezzare l'effimera grandezza del dominio terreno, quegli dèi si sono manifestati tali da sembrare del tutto incapaci che si affidassero alla loro elargizione e difesa perfino i beni terreni. E per questo se, come hanno dimostrato gli argomenti trattati nei due ultimi libri, nessun dio di quella schiera di dèi quasi plebei o quasi aristocratici è capace di dare regni mortali a mortali, tanto meno da mortali può rendere immortali.Gli dèi inefficenti nei singoli ruoli..
1. 4. Ma poiché stiamo trattando con coloro i quali ritengono che gli dèi non si devono adorare per questa vita ma per quella che si avrà dopo la morte, ne consegue che essi non si devono adorare neppure per quei beni che, in base a un'assurda credenza e non a un vero ragionamento, vengono assegnati come specifici e propri al potere dei vari dèi. Lo credono coloro che ritengono il loro culto indispensabile ai vantaggi di questa vita mortale. Contro di essi ho discusso sufficientemente, nei miei limiti, con i cinque libri precedenti. Stando così le cose, supponiamo che l'età giovanile degli adoratori della dea Giovinezza sia straordinariamente vigorosa e che al contrario i suoi denigratori muoiano entro gli anni della giovinezza oppure che in essa languiscano per senile torpidezza; poniamo anche che Fortuna barbata copra le gote dei suoi adoratori con garbo e finezza e che si vedano coloro che la disprezzano glabri o mal barbati 7. Anche in questa ipotesi si direbbe molto giustamente che le due dee possono fino a quel punto, ciascuna nel proprio ruolo, che sono strettamente limitate alle proprie mansioni e che pertanto non si può chiedere la vita eterna a Giovinezza che non sa dare neanche la barba e che non si può attendere da Fortuna barbata il bene dopo questa vita, perché in questa vita non ha neanche il potere di concedere per lo meno l'età in cui cresce la barba. Quindi la loro adorazione non è necessaria neppure per questi beni che, a sentire i pagani, sono loro affidati, perché molti adoratori della dea Giovinezza in quell'età non ne ebbero affatto il vigore e molti che non l'adorano godono di una gagliarda giovinezza; allo stesso modo molti adoratori di Fortuna barbata non sono potuti arrivare all'età della barba oppure sono giunti a una barba insignificante e se alcuni la venerano per avere la barba sono scherniti dai barbuti che la disprezzano. Ma possibile che il cuore umano sia tanto sciocco? Sa per esperienza infatti che il culto di questi dèi ai fini dei beni temporali ed effimeri, ai quali, secondo loro, sovraintendono personalmente i vari dèi, è inutile e ridicolo e poi vorrebbe credere che sia vantaggioso per la vita eterna. Non osarono affermare che la possano dare neanche i pagani che per farli adorare dalle masse incolte, attribuirono loro, divise a pezzetti, le varie mansioni temporali. Ma di dèi ne avevano inventati un po' troppi e nessuno di loro doveva rimanere a sedere nell'inerzia.Il pensiero di Varrone e la religione ufficiale (2-9)
Il dottissimo Varrone e la religione ufficiale.
2. Chi ha ricercato queste tradizioni con maggiore interesse di Marco Varrone? Chi le ha rintracciate con maggiore erudizione? Chi le ha esaminate con maggiore attenzione? Chi le ha classificate con maggiore capacità critica? Chi le ha tramandate più diligentemente ed esaurientemente? E sebbene egli sia meno elegante nella forma, è tuttavia così ricco di contenuti d'erudizione che nell'universale cultura, che noi chiamiamo profana ed essi liberale, egli informa lo studioso di storia nella medesima misura che Cicerone diletta lo studioso di lingua. Inoltre lo stesso Cicerone gli tributa un tale attestato di lode da dire nei libri Sugli Accademici che ha tenuto la discussione in essi contenuta con Marco Varrone, l'uomo senz'altro più intelligente e indubbiamente più colto 8. Non ha detto eloquente o buon parlatore, perché in realtà in questa attitudine è molto inferiore ma senz'altro il più intelligente di tutti; e nei libri citati, cioè Sugli Accademici, dove sostiene il dubbio universale aggiunge: E indubbiamente il più dotto. Era così certo di questo fatto da eliminare il dubbio che abitualmente applica a tutte le affermazioni come se soltanto per questo caso si fosse dimenticato di essere accademico nell'atto stesso che si accingeva a dissertare a favore del dubbio accademico. Nel primo libro nell'encomiare le opere letterarie di Varrone, dice: Giacché eravamo esuli stranieri nella nostra stessa città, i tuoi libri ci hanno ricondotto a casa nostra come ospiti, affinché potessimo conoscere chi e dove siamo. Tu ci hai svelato l'età della patria, le vicende del passato, la legge del culto, il regolamento della casta sacerdotale, della casa e dello Stato, l'ubicazione dei rioni e degli edifici e i nomi, le classificazioni, i compiti e la ragione della religione e cultura in generale 9. Quest'uomo fu dunque di cultura tanto insigne e superiore che di lui anche Terenziano con un elegantissimo verso ha detto scultoreamente: Varrone l'uomo più dotto per ogni riguardo 10. Lesse tanto da farci meravigliare che abbia avuto tempo di scrivere, ha scritto tanto quanto appena si crederebbe che sia possibile leggere. Ma se costui, dico io, uomo di tanto ingegno e di tanta cultura, avesse attaccato fino a distruggere i supposti valori religiosi, di cui ha scritto, e avesse detto che non appartengono alla religione ma alla superstizione, non so se avrebbe passato in rassegna tanti aspetti che in essi sono degni di scherno, di disprezzo e di esecrazione. Egli poi ha onorato gli dèi e ha reputato che si dovessero onorare fino a confessare, in quella stessa opera letteraria, il proprio timore che essi andassero in rovina non per un assalto nemico ma per indifferenza dei cittadini. E afferma che per suo mezzo sono liberati da quella che egli crede una perdita e che mediante i suoi libri saranno accuratamente conservati nella memoria dei buoni attraverso un interesse con esito più felice di quello con cui, come è stato tramandato, Metello salvò la statua di Vesta dal fuoco ed Enea i penati dall'incendio di Troia 11. Egli comunque presenta alla conoscenza dei secoli tradizioni che colti e ignoranti dovrebbero rifiutare e che sono giudicate assolutamente contrarie ai valori religiosi. Che cosa altro dobbiamo pensare dunque se non che egli, uomo di grande intelligenza e cultura, ma non libero per grazia dello Spirito Santo, fu condizionato dal costume e dalle leggi della sua patria e che tuttavia, col pretesto d'inculcare la religione, non volle tacere quelle pratiche da cui egli era turbato?.Il contenuto delle (cors.)Antichità(cors.)Varrone
3. Ha scritto quarantuno libri di Antichità e li ha distribuiti in cultura e religione. Ne ha assegnati venticinque alla cultura e sedici alla religione, usando nella partizione il seguente criterio. Ha scritto sei libri per ognuna delle quattro parti della cultura, descrivendo coloro che compiono un'attività, dove e quando la compiono e l'attività stessa. Ha scritto quindi i primi sei libri per trattare delle persone, i sei successivi dei luoghi, gli altri sei dei tempi, gli ultimi sei delle attività. Quindi sei per quattro fanno ventiquattro. In principio tuttavia ne ha posto uno che trattasse, come introduzione generale, tutti gli argomenti. Nella religione egualmente usò la medesima tecnica di partizione, per quanto attiene al culto che si offre agli dèi. Infatti dagli uomini, negli edifici, in tempi determinati si offrono riti sacri. Ha raccolto le quattro componenti in tre libri per ciascuna. Ha scritto infatti i primi tre per trattare degli uomini, i tre successivi degli edifici, in terzo luogo dei tempi e in quarto luogo dei riti sacri. Anche in essi attraverso un'acuta classificazione ricorda coloro che offrono, dove, quando e che cosa offrono. Ma poiché, e questo soprattutto ci si attendeva, era opportuno parlare degli esseri ai quali gli uomini offrono i riti, ha scritto gli ultimi tre libri anche sugli dèi. Quindi tre per cinque fanno quindici. Ma in tutto, come ho detto, sono sedici perché ne aggiunse uno in principio che come loro introduzione trattasse tutti gli argomenti. Scritto questo, in base alla distribuzione in cinque parti suddivise i primi tre libri riguardanti gli uomini nella seguente maniera: il primo tratta dei pontefici, il secondo degli àuguri, il terzo della commissione di quindici uomini per i riti; gli altri tre riguardanti gli edifici, così: in uno parla dei tempietti, in un altro dei templi, nel terzo dei luoghi di culto; inoltre i tre seguenti riguardanti i tempi, cioè i giorni festivi, così: uno lo ha dedicato ai giorni di riposo, il secondo agli spettacoli del circo, il terzo agli spettacoli teatrali; dei tre della quarta parte riguardanti i riti sacri ha assegnato al primo i sacrifici, al secondo il culto privato, all'ultimo il culto pubblico. Gli dèi seguono per ultimi in questo quasi corteo di omaggi nei tre libri che rimangono perché ad essi è dedicato il culto nel suo complesso; nel primo libro vengono gli dèi certi, nel secondo gli incerti, nell'ultimo gli dèi superiori ed eminenti per rango.Falso il politeismo.
4. 1. Dalle cose già dette e da dirsi in seguito appare facilmente a qualsiasi uomo, il quale non sia nemico di se stesso per l'ostinazione del cuore, che in tutta la serie della classificazione e distinzione, per quanto attraente nella sua accuratezza, si cerca invano la vita eterna e sarebbe pazzesco aspettarsela o desiderarla. Queste istituzioni sono quindi degli uomini o dei demoni, non di quelli che i pagani considerano demoni buoni ma, per parlare schiettamente, degli spiriti immondi e indiscutibilmente malvagi. Essi con una malevolenza che desta meraviglia inculcano nascostamente nelle coscienze degli infedeli e talora fanno apparire apertamente ai sensi e con false apparizioni, se possono, ribadiscono false opinioni con le quali l'anima umana si svuota sempre di più e si rende incapace di volgersi adeguatamente all'immutabile eterna verità. Lo stesso Varrone conferma che prima ha trattato della cultura e poi della religione, perché prima furono istituite le città e poi da esse furono istituiti i culti. La vera religione al contrario non fu istituita da una qualche città terrena ma fu essa a istituire la città celeste. La vivifica e istruisce il vero Dio che dà la vita eterna ai suoi veri adoratori.Varrone stesso fa capire che è invenzione umana.
4. 2. La giustificazione di Varrone nel confessare di aver parlato prima dei valori culturali e poi di quelli religiosi, per il fatto che questi sono stati istituiti dagli uomini, è la seguente: Come, egli dice, il pittore è prima del quadro e il muratore prima dell'edificio, così le città sono prima delle cose istituite dalle città 12. Afferma inoltre che prima avrebbe scritto degli dèi e poi degli uomini se avesse scritto dell'universale natura degli dèi, quasi che nell'opera parli di una particolare e non universale natura, ovvero come se anche la particolare natura degli dèi, quantunque non universale, non debba essere anteriore a quella degli uomini. Per quale motivo dunque negli ultimi tre libri, trattando esaurientemente degli dèi certi, incerti e scelti non omette, come è evidente, nessuna natura divina? Ci chiediamo dunque quale significato abbia questa sua frase: Se scrivessi sulla universale natura degli dèi e degli uomini, prima di accennare all'umanità, avrei trattato a fondo della divinità. Infatti o tratta dell'universale o particolare natura degli dèi o non ne tratta affatto. Se tratta dell'universale natura, essa deve essere trattata prima della cultura; se al contrario della particolare, per quale motivo anche essa non dovrebbe esser prima della cultura?. Forseché una qualche caratteristica degli dèi è immeritevole di essere considerata prima dell'universale natura umana? E se è eccessivo onore che una qualche caratteristica divina si tratti prima dell'universale cultura umana, forse quella caratteristica è meritevole dell'onore almeno per i Romani. Varrone scrisse infatti i libri della cultura non in riferimento al mondo ma alla sola Roma. Ha affermato tuttavia di averli giustamente anteposti alla compilazione dei libri sulla religione, come il pittore al quadro e il muratore all'edificio. Così veniva ad ammettere apertamente che anche certi valori religiosi, sull'esempio della pittura e della costruzione, sono stati istituiti dagli uomini. Rimane che non ha inteso affatto parlare di una qualche natura divina ma che non l'ha voluto dichiarare apertamente e l'ha lasciato capire a chi poteva. Il significato comune del termine "non ogni" è "qualche" ma può essere anche "nessuna", perché una cosa che è "nessuna" è tanto "non ogni" che "non qualche". Infatti se, come Varrone stesso dice, la natura degli dèi di cui parla fosse l'universale, ne avrebbe dovuto trattare prima della cultura; ed anche se, come la verità stessa afferma malgrado il silenzio di Varrone, non fosse universale ma particolare, dovrebbe certamente venir prima della cultura romana; al contrario viene giustamente dopo; dunque non c'è affatto. Pertanto non intese anteporre la cultura alla religione ma non anteporre la leggenda ai fatti storici. Nel trattare infatti della cultura si conformò alla storia, mentre nel trattare di quella che definisce religione si conformò soltanto alle invenzioni della leggenda. Questo è indubbiamente quanto con sottile intenzione ha voluto mostrare non soltanto nel trattare della religione dopo della cultura ma anche nell'addurre la ragione per cui lo ha fatto. Se l'avesse taciuta, questo suo modo di procedere da qualcuno sarebbe stato forse interpretato in altro senso. Ma nella giustificazione che ne ha dato, non ha permesso ad alcuno di interpretare arbitrariamente e ha mostrato assai chiaramente che gli uomini hanno posto se stessi prima dei propri istituti e non l'umanità prima della divinità. Ha confessato così di avere scritto i libri della religione non sulla base della verità che compete alla natura ma della finzione che compete all'errore. Altrove ha dichiarato più apertamente, come ho ricordato nel quarto libro, che avrebbe scritto secondo la norma della natura se avesse fondato egli stesso una nuova città, ma poiché si era trovato in una vecchia città era stato costretto a seguirne l'usanza.La teologia mitica o poetica secondo Varrone.
5. 1. Inoltre quale significato ha la sua affermazione che vi sono tre generi di teologia, cioè del discorso relativo agli dèi, che si definiscono mitico, fisico e civile?. Se in latino l'uso lo ammettesse, dovremmo chiamare fabulare il genere che Varrone ha collocato al primo posto, chiamiamolo fabuloso ma perché mitico deriva etimologicamente da fabulazione; il greco si traduce appunto favola. Ormai l'usuale modo di dire consente che il secondo genere si dica naturale. Varrone stesso ha espresso in latino il terzo col termine di civile. Poi soggiunge: Chiamano mitico il genere creato prevalentemente dai poeti, fisico dai filosofi, civile dagli Stati. Nel primo che ho detto, egli continua, si hanno molti fatti leggendari contro la dignità e la natura degli dèi. Vi si trova infatti che un dio è nato dalla testa, un altro dal femore e un altro da gocce di sangue; vi si trova anche che gli dèi sono stati ladri, adulteri e a servizio di un uomo; inoltre vi si attribuiscono agli dèi tutti quei fatti che possono verificarsi non solo in un uomo qualsiasi ma anche nel più abietto 13. In questo caso, giacché ebbe possibilità e ardire e ritenne che non fosse colpa, manifestò senza alcun sottinteso l'oltraggio che si recava alla divinità con favole menzognere. Parlava appunto non della teologia naturale o civile ma della fabulosa e ritenne di poter liberamente accusarla.La teologia naturale o dei filosofi...
5. 2. Vediamo che cosa pensa della seconda. Il secondo genere di cui ho parlato, egli dice, è quello sul quale i filosofi hanno molti scritti. Vi si ricercano l'essere degli dèi, la sede, la nozione e la proprietà; se gli dèi hanno cominciato ad esistere nel tempo o nell'eternità; se derivano dal fuoco, come pensa Eraclito, o dai numeri, come sostiene Pitagora, o dagli atomi come dice Epicuro. Allo stesso modo vi si espongono altri concetti che è più facile udire fra le pareti di una scuola che in pubblico nel foro 14. Non rimproverò nulla a questo genere, perché lo chiamano fisico ed è di competenza dei filosofi; si limitò a ricordare le loro polemiche, perché si ebbe una molteplicità di sètte dissidenti. Considerò tuttavia questo genere disadatto alla piazza, cioè alle masse, e lo volle ristretto alle pareti di una scuola. E invece non considerò disadatto ai cittadini l'altro per quanto sconcio nella sua falsità. O religiosi orecchi delle masse e fra di essi anche quelli romani! Non riescono ad accogliere ciò che i filosofi discutono sugli dèi immortali, però non solo accolgono ma ascoltano anche volentieri ciò che i poeti cantano e gli istrioni rappresentano, e sono leggende contrarie alla sublime natura degli immortali, perché possono verificarsi non solo in un uomo qualsiasi ma anche nel più abietto. Non basta ma giudicano che siano gradite agli dèi e che mediante esse si debbano propiziare....quella politica o degli stati.
5. 3. Si dirà: "I due generi mitico e fisico, cioè il fabuloso e il naturale, si dovrebbero separare dal civile, di cui ora si viene a trattare, perché anche Varrone li ha separati da esso e vediamo in qual senso propone il civile". Riconosco il motivo per cui si debba separare il fabuloso, perché è falso, sconcio e sconveniente. Ma voler separare il genere naturale dal civile significa soltanto ammettere che anche il civile è scorretto. Perché se esso è naturale, non ha mende per essere escluso. Se poi il genere detto civile non è naturale, non ha meriti per essere accettato. Questo è appunto il motivo per cui ha trattato prima la cultura e poi la religione, cioè perché nella religione non si è conformato alla natura ma agli istituti umani. Ma esaminiamo la teologia civile. Il terzo genere, egli dice, è quello di cui i cittadini e soprattutto i sacerdoti devono conoscere la funzione. Gli spetta stabilire quali dèi si devono adorare pubblicamente, i riti e i sacrifici che si devono compiere secondo le rispettive competenze. Consideriamo la frase seguente: La prima teologia, egli dice, è soprattutto adatta al teatro, la seconda al mondo, la terza alla città. Chi non vede a quale ha accordato la preferenza? Certo alla seconda che, come precedentemente ha detto, è dei filosofi. Egli dichiara infatti che essa appartiene al mondo che, secondo il pensiero dei pagani, è l'aspetto più nobile della realtà. Ha poi unito oppure separato la teologia prima e terza, cioè quella del teatro e quella della città? Infatti non necessariamente ciò che è proprio della città può appartenere anche al mondo, sebbene le città, come è evidente, sono nel mondo. Può avvenire appunto che nella città, secondo determinati pregiudizi, si adorino e si ammettano esseri, la cui natura non esiste in alcun luogo né nel mondo né fuori del mondo. Il teatro al contrario si trova soltanto nella città ed è stata la città ad istituirlo e lo ha istituito per gli spettacoli teatrali. E gli spettacoli teatrali appartengono alla religione sulla quale con tanta diligenza sono scritti i libri citati.La contraddizione di Varrone.
6. 1. O Marco Varrone, sei l'uomo più intelligente e indubbiamente il più colto, ma sei comunque un uomo e non Dio e non sei stato elevato dallo Spirito di Dio nella verità che ci libera per contemplare e diffondere valori religiosi. Scorgi però che i significati religiosi si devono distinguere dalle vuote fandonie umane, ma temi di offendere le depravate ubbie popolari e le usanze del superstizioso culto pubblico. Eppure, nell'analizzarle a fondo, senti, e ti fa eco tutta la vostra letteratura, che esse ripugnano alla natura degli dèi, perfino di quelli che la debolezza dell'animo umano suppone di scorgere negli elementi di questo mondo. Che cosa fa a questo punto un ingegno umano per quanto altissimo? In che cosa ti aiuta la cultura umana, per quanto multiforme e straordinaria? Desideri onorare gli dèi di una religione naturale e sei costretto a onorare quelli dello Stato. Ne hai trovati altri leggendari, contro cui sfogare il tuo risentimento ma, volere o no, coinvolgi anche quelli dello Stato. Affermi che gli dèi della teologia mitologica sono commisurati al teatro, quelli della naturale al mondo e quelli della civile alla città. Eppure il mondo è creazione divina mentre le città e i teatri sono degli uomini; inoltre non sono altri gli dèi ridicolizzati nei teatri da quelli che sono adorati nei templi e voi offrite spettacoli ai medesimi dèi ai quali immolate vittime. Avresti distinto con maggiore indipendenza e senso critico se avessi detto che si danno dèi naturali e dèi inventati dagli uomini e che di quest'ultimi parlano diversamente la tradizione dei poeti e quella dei sacerdoti e che entrambe tuttavia sono così amiche fra di loro per comunanza col falso, da essere egualmente gradite ai demoni cui è propria la dottrina nemica del vero.Sconvenienza della teologia mitica e civile nei teatri...
6. 2. Accantonando dunque un po' la teologia chiamata naturale di cui si dovrà parlare in seguito, si può insegnare forse alla fin fine che si chiede o si attende la vita eterna dagli dèi della poesia, del teatro, dello spettacolo e del dramma? Certamente no, anzi il vero Dio ci scampi da una così enorme ed empia follia. E che? Si dovrebbe chiedere la vita eterna a dèi che sono rallegrati e placati da spettacoli, in cui sono rappresentati i loro crimini? Nessuno, come penso, è impazzito fino all'abisso di una così frenetica empietà. Dunque non si conquista la vita eterna con la teologia fabulosa né con quella civile. La fabulosa infatti semina sconcezze sugli dèi con l'invenzione, la civile le miete col plauso; quella dissemina menzogne, questa le raccoglie; quella offende la religione inventando dei delitti, questa include nella religione le rappresentazioni di quei delitti; quella diffonde con l'umana poesia leggende infami sugli dèi, questa le dedica alle feste degli dèi stessi; quella canta la delinquenza e la dissolutezza degli dèi, questa le ama; quella le divulga o le inventa, questa o le riconosce come vere o se ne compiace anche se false. Entrambe sconce, entrambe biasimevoli, ma la teologia fabulosa, che è del teatro, propone la pubblica immoralità, mentre la civile che è della città si fa bella della sua immoralità. Non si può dunque attendere da esse la vita eterna, perché proprio da esse viene contaminata la breve vita nel tempo. La compagnia di dissoluti contamina la vita se essi si insinuano nei nostri sentimenti e convinzioni. A più forte ragione macchia la vita il trattare con demoni che per i loro delitti sono adorati, sebbene tanto malvagi se questi delitti sono veri, con tanta malvagità se sono falsi....e nei templi.
6. 3. Quando parliamo così, può sembrare a qualcuno ignaro dei fatti che siano sconvenienti alla maestà divina, ridicole e oscene soltanto le favole dei canti poetici e le rappresentazioni teatrali celebrate in onore degli dèi e che i riti compiuti non dai mimi ma dai sacerdoti siano purgati e immuni da immoralità. Se così fosse, nessuno mai penserebbe di dover celebrare le sconcezze dello spettacolo in onore degli dèi e mai essi comanderebbero che fossero loro presentate. Al contrario non si ha alcun pudore nel compierle in ossequio degli dèi nei teatri perché se ne compiono eguali nei templi. Inoltre sebbene l'autore citato tentasse di distinguere dalla teologia fabulosa e naturale quella civile come terza con un ruolo specifico, volle tuttavia far capire che essa deriva piuttosto da una commistione che da una distinzione dell'una e dell'altra. Ha affermato appunto che le composizioni poetiche sono inefficienti a determinare il modo di pensare dei cittadini, al contrario le dottrine filosofiche sono superiori alle possibilità di capire della massa. Non le capiscono, egli dice, tuttavia dell'uno e dell'altro genere sono stati presi non pochi elementi come principi della teologia civile. Pertanto tratteremo assieme ai principi propri della teologia civile quelli che sono in comune con le altre, ma dobbiamo trovare un maggiore accordo con i filosofi che con i poeti 15. Dunque c'è un accordo anche con i poeti. E tuttavia in un altro testo afferma 16 in merito alla teogonia che i popoli si sono rivolti più ai poeti che ai naturalisti. Quindi in questo passo ha detto ciò che dovrebbe essere, nell'altro ciò che di fatto è. Ha affermato anche che i naturalisti hanno scritto con intento pratico e i poeti con intento estetico. E per questo i delitti degli dèi sono fantasticherie dei poeti che i cittadini non debbono accettare; ma soddisfano esteticamente i cittadini e gli dèi. I poeti, come egli dice, scrivono con intento estetico e non pratico, ma scrivono cose che gli dèi richiedono e i cittadini offrono.Miti e idoli nella poesia e nel culto.
7. 1. Dunque la teologia della favola, del teatro e dello spettacolo, farcita di indecenza e oscenità, è ricondotta alla teologia civile. L'intera teologia fabulosa quindi, che giustamente è giudicata meritevole di censura e disapprovazione, è parte della civile che si ritiene meritevole di elogio e di approvazione e non è, come ho iniziato a dimostrare, una parte impropria e che diversa dal resto del corpo le è stata forzatamente applicata a sproposito, ma parte del tutto corrispondente e conveniente, unita come membro al corpo stesso. E che altro significano l'immagine, l'aspetto, l'età, il sesso e l'atteggiamento degli dèi?. Forseché i poeti presentano un Giove con la barba e un Mercurio senza barba e i sacerdoti non li presentano così? Forseché gli istrioni hanno eseguito e i sacerdoti non hanno eseguito dei riti veramente osceni per Priapo? Oppure costui come statua immobile da adorarsi nei luoghi sacri è diverso da quando nei teatri si muove attraverso l'azione di un buffone? Forseché il vecchio Saturno e l'efebo Apollo sono tanto maschere degli istrioni da non essere anche statue dei templi? Perché Forcolo che protegge la porta di fuori e Limentino che protegge il limitare sono maschi e fra di essi Cardea che protegge il cardine è una femmina? E queste credenze non si hanno forse nei libri della religione, sebbene i poeti autorevoli nei loro carmi le hanno considerate sconvenienti? Forseché la Diana del dramma porta le armi, mentre quella che si vede per la città è figurata soltanto come una bella ragazza? Forseché l'Apollo nelle scene è suonatore di cetra, mentre quello di Delfo non attende a quell'arte? Ma queste cose sono abbastanza oneste in confronto con le oscene. Che cosa pensarono di Giove coloro che posero la sua nutrice in Campidoglio? Non diedero forse atto ad Evemero che ha dimostrato non con la ciancia della favola ma con serietà storica che tutti gli dèi furono uomini e mortali? E coloro che hanno fatto sedere alla mensa di Giove gli dèi conviviali, suoi scrocconi, che fecero altro se non fare la farsa delle cose sacre? Se un mimo infatti avesse parlato degli scrocconi di Giove seduti a un suo banchetto, avrebbe cercato, come è evidente, di far ridere. Ma l'ha detto Varrone e non l'ha detto per far ridere su di loro ma per onorarli; e che egli ha trattato questo argomento, lo documentano i libri della religione e non quelli dell'umana cultura, e non dove esponeva gli spettacoli teatrali ma dove rendeva noti i diritti del Campidoglio. Infine Varrone si sente abbattuto da tali considerazioni e confessa che i Romani, come hanno raffigurato gli dèi con aspetto umano, così hanno creduto che godessero dei piaceri umani 17.Il mito di Ercole e Laurentina.
7. 2. Infatti anche gli spiriti maligni non sono venuti meno alla propria opera nel confermare queste nefaste credenze ingannando le coscienze umane. A proposito si ha un episodio. Un custode del tempio di Ercole nel suo giorno di riposo giocò da solo con i dadi. Usando l'una e l'altra mano, ad una di esse assegnò Ercole, all'altra se stesso, a questa condizione che se avesse vinto lui, coi proventi del tempio si sarebbe pagata una cena e avrebbe condotto l'amante; se invece si fosse avuta la vittoria di Ercole, col proprio denaro avrebbe offerto la medesima cosa allo spasso di Ercole. Essendosi vinto da sé, ma secondo il patto da Ercole, offrì al dio la cena dovuta e la bellissima cortigiana Larentina. Lei dormì nel tempio e sognò che Ercole le si era unito e le aveva detto anche che, uscendo di lì, avrebbe avuto la paga dal giovane che per primo avesse incontrato. Lei doveva credere che le fosse stata sborsata da Ercole. Mentre si allontanava le si fece incontro Taruzio, un giovane ricchissimo, che la tenne con sé come amante per lungo tempo. Alla sua morte divenne erede. Ed ella, conseguita l'ingente ricchezza, per non sembrare ingrata alla paga del dio e pensando di fare una cosa gradita alla divinità, costituì erede il popolo romano. Scomparve e si trovò il suo testamento. Narrano che per questa benemerenza meritò anche gli onori divini.Oscenità dei riti misterici.
7. 3. Se i poeti inventassero questi fatti e se i mimi li rappresentassero, si direbbe che indubbiamente appartengono alla teologia della favola e si giudicherebbe che essi si devono considerare disgiunti dalla teologia civile. Ora queste oscenità non dei poeti ma dei cittadini, non dei mimi ma dei sacerdoti, non dei teatri ma dei templi, cioè non della teologia della favola ma della civile, sono rese note da un maestro così insigne. Ma allora non sono gli istrioni a rappresentare senza ragione con le arti dello spettacolo la sconcezza degli dèi che è tanta, ma sono i sacerdoti che senza ragione tentano di rappresentare con riti creduti sacri l'onestà degli dèi che non esiste affatto. Ci sono i misteri di Giunone che si celebravano nella sua diletta isola di Samo perché in essa era stata maritata a Giove. Ci sono i misteri di Cerere, durante i quali si va in cerca di Proserpina rapita da Plutone. Ci sono i misteri di Venere, nei quali si fa lamento sul suo amante Adone, giovane bellissimo, ucciso dalle zanne di un cinghiale. Ci sono i misteri della Madre degli dèi, durante i quali Attis, bel giovane da lei amato ed indotto ad evirarsi dalla femminile gelosia, è oggetto di lamento da parte di individui anche essi evirati che chiamano Galli. Questi misteri sono più indecenti di qualsiasi oscenità del teatro. Perché si sforzano allora di segregare le favolose invenzioni dei poeti sugli dèi, che sono di competenza del teatro, dalla teologia civile che, a sentir loro, spetta alla città, come si segregano cose indecenti e oscene dalle convenienti e oneste? Si dovrebbe piuttosto essere grati agli attori che hanno avuto riguardo per gli spettatori e negli spettacoli non hanno messo a nudo il complesso dei riti misterici che si compiono fra le pareti dei luoghi sacri. Che cosa si deve pensare di bene dei loro riti compiuti nel buio, quando sono tanto detestabili quelli che si offrono alla luce? D'altronde se la vedano loro che cosa fare di nascosto mediante gli evirati e gli effeminati ma non hanno potuto tenere nascosti questi individui così miseramente mutilati e così sconciamente dissoluti. Convincano, se ci riescono, che mediante tali individui compiono un rito santo, poiché non possono negare che si trovano nel numero delle loro cose sante. Non conosciamo quale rito compiano ma sappiamo per mezzo di quali individui lo compiono. Conosciamo le rappresentazioni che si compiono sulla scena ma in essa non è mai entrato un evirato o un effeminato, sia pure nel coro delle cortigiane. Eppure persone dissolute e infami compiono quelle rappresentazioni, poiché non si dovevano compiere da persone onorate. Di che razza sono dunque quei misteri alla cui esecuzione la sacralità ha scelto individui che perfino il lascivo costume delle attrici non ha ammesso?Interpretazione naturalistica della madre degli dèi e Saturno.
8. 1. Ma questi riti hanno determinate interpretazioni fisiologiche, come essi dicono, cioè di concetti naturali. Però noi in questa disputa non indaghiamo sulla fisiologia ma sulla teologia e cioè non sul concetto di natura ma di Dio. E sebbene il vero Dio non è Dio in base a un modo di pensare ma per natura, tuttavia non ogni natura è un dio, poiché v'è una natura dell'uomo, della bestia, della pianta, della pietra, ma nessuna di esse è un dio. Se poi il vero senso di questa interpretazione, quando si tratta dei misteri della Madre degli dèi, è indubbiamente che madre degli dèi è la terra, non si dà motivo ad ulteriore ricerca e discussione 18. È infatti il discorso più evidente a sostegno di coloro i quali affermano che tutti gli dèi furono uomini. Gli uomini nascono appunto dalla terra, quindi la terra è loro madre. Ma nella vera teologia la terra è opera di Dio e non madre. Tuttavia comunque interpretino e rapportino alla natura i misteri della Madre degli dèi, è certo che non è secondo natura ma contro natura che i maschi siano considerati di sesso femminile. Questo male, questo crimine, questo obbrobrio hanno in quei misteri un proprio compito, mentre nell'umana delinquenza vengono confessati soltanto fra i tormenti. Se poi questi misteri che, come è dimostrato, sono più sconci delle oscenità del teatro, sono discolpati con la giustificazione che hanno una loro interpretazione con cui si spiega che significano la natura, perché anche i canti poetici non sono discolpati con la medesima giustificazione? Molti infatti li hanno interpretati in base al medesimo criterio e perfino il mito veramente disumano e mostruoso di Saturno che avrebbe divorato i propri figli. Alcuni lo interpretano nel senso che la lunghezza di tempo 19, che è significato dal concetto di Saturno, distrugge tutto ciò che produce; oppure interpretano, come anche Varrone, nel senso che Saturno si riferisce ai semi che ricadono sulla terra da cui nascono 20. Alcuni interpretano diversamente e così pure gli altri miti.Eguaglianza della teologia mitica e politica.
8. 2. Tuttavia è considerata teologia fabulosa e nonostante tutte queste interpretazioni viene biasimata, respinta, condannata. Inoltre affinché sia giustamente rifiutata in base al fatto che ha inventato cose indegne degli dèi, viene distinta non solo dalla teologia naturale che è dei filosofi ma anche dalla civile, di cui stiamo trattando e che appartiene, come essi affermano, alle città e agli Stati. Ma indubbiamente si ebbe il seguente criterio. Gli individui veramente intelligenti e colti, da cui furono esposte queste teorie, intendevano che entrambe fossero riprovate, cioè tanto la teologia fabulosa che la civile, però avevano il coraggio di rifiutare la prima ma non la seconda. Allora esposero la fabulosa in modo che fosse biasimata e le posero in confronto la civile che le somiglia, e non allo scopo che la civile fosse accettata nel riscontro con l'altra ma affinché si intendesse che anch'essa era da rifiutare. Così senza rischio di coloro che temevano di riprovare la teologia civile, col respingere l'una e l'altra si otteneva che trovasse accoglienza negli spiriti più onesti quella teologia che chiamano naturale. Infatti tanto la civile che la fabulosa sono entrambe fabulose, entrambe civili. Si scoprirà che sono entrambe fabulose, se si considereranno con saggezza le frivolezze e le oscenità di entrambe, e che sono ambedue civili, se si osserveranno gli spettacoli teatrali caratteristici della teologia fabulosa nelle feste degli dèi dello Stato e nella religione delle città. Non si può dunque assolutamente attribuire il potere di dare la vita eterna ad uno qualsiasi degli dèi dello Stato, perché i loro idoli e misteri provano infallibilmente che per aspetto, età, sesso, atteggiamento, matrimonio, discendenza e riti sono del tutto simili a quelli della favola, dichiaratamente rifiutati. Dall'insieme infatti si capisce che furono uomini, che con attenzione alla vita e alla morte di ognuno furono istituiti per loro misteri e feste e che questo errore si è diffuso allo scopo d'ingannare le coscienze umane mediante ripetute suggestioni demoniache, quanto dire mediante qualsiasi occasione presentatasi allo spirito più immondo.Assurdità del culto a Libero...
9. 1. Anche le competenze degli dèi, sminuzzate in incarichi così vili e frammentari per il fatto che, come essi credono, bisogna propiziarle secondo la particolare incombenza, su cui ho detto parecchio ma non tutto 21, sono più convenienti alla buffoneria istrionesca che alla dignità divina. Se un tizio impiegasse per un bimbo due nutrici, di cui una gli offrisse soltanto da mangiare e l'altra soltanto da bere, come i Romani allo scopo hanno impiegato due dee, Educa e Potina, sembrerebbe che sia uscito di senno e che a casa sua si comporta come un istrione. Affermano che Libero derivi etimologicamente da liberazione, perché i maschi nell'atto sessuale col suo favore si liberano effondendo il seme. Dicono che la medesima cosa fa con le femmine Libera, che sarebbe anche Venere, perché, a sentir loro, anche essa fa uscire il seme. E per questo motivo, dicono, è posta nei templi la parte virile del corpo per Libero e la femminile per Libera. Oltre queste cose assegnano a Libero le baccanti e il vino per stimolare la libidine. Per questo motivo i baccanali sono celebrati con indescrivibile frenesia. Varrone stesso confessa che soltanto in stato di follia in essi possono esser commesse dalle baccanti azioni così vergognose 22. Ma in seguito essi non furono graditi a un senato più ragionevole, il quale ordinò che fossero soppressi 23. Almeno in questo caso finalmente capirono forse il potere che sulla coscienza umana hanno gli spiriti immondi, quando sono ritenuti dèi. Questi fatti non avverrebbero in teatro perché lì giocano, non delirano, sebbene somiglia al delirio avere dèi che prendono gusto a tali giochi....dei riti contro Silvano...
9. 2. Che significa poi la notizia che ci fornisce Varrone? Egli distingue l'uomo religioso dal superstizioso in base al criterio che dal superstizioso gli dèi sono temuti, mentre dal religioso sono soltanto rispettati come i genitori e non temuti come nemici. Aggiunge che essi sono tutti così buoni da perdonare più facilmente i colpevoli che punire un innocente 24. Tuttavia ricorda che sono impiegati a protezione della donna sgravata tre dèi affinché il dio Silvano non entri durante la notte per farle violenza. Afferma che per indicare i tre dèi protettori, tre uomini di notte girano attorno al limitare della casa, e che dapprima percuotono il limitare con la scure, poi col pestello, e infine la spazzano con la scopa. Così mediante tre segni della coltura si proibirebbe al dio Silvano di entrare, perché gli alberi non si tagliano o potano senza la scure, la farina non si ottiene senza il pestello, le biade non si ammucchiano senza la scopa. Da questi tre oggetti sarebbero stati denominati i tre dèi, Intercidona dal taglio della scure, Pilunno dal pestello e Deverra dalla scopa. Con la loro protezione si difenderebbero i neonati dalla violenza del dio Silvano 25. Quindi non basterebbe la protezione degli dèi buoni contro la crudeltà di un dio che fa del male, se non fossero in più contro di uno solo e non resistessero a lui aspro, fiero e incolto, in quanto abitante nella selva, con i segni della coltura che gli sono contrari. E questa sarebbe la bontà degli dèi, questa la loro concordia? Queste sarebbero le divinità tutelari delle città, oggetto più di scherno che di spettacolo nei teatri?...degli dèi della prima notte di nozze.
9. 3. Quando un maschio e una femmina si uniscono, viene interessato il dio Giogatino, e vada. Ma occorre portare la sposa nell'ambiente domestico e s'impiega il dio Domiduco; perché vi si trattenga, il dio Domizio; perché rimanga col marito, la dea Manturna. Che si vuole di più? Si abbia riguardo al ritegno umano; compia il resto la concupiscenza della carne e del sangue nel nascondimento creato dal pudore. A che scopo si riempie la camera da letto di una folla di divinità se perfino i paraninfi se ne allontanano? E si riempie non allo scopo che col pensiero della loro presenza sia maggiore l'attenzione alla castità, ma affinché mediante la loro collaborazione senza difficoltà sia tolta la verginità della donna debole per il sesso e tremante per la novità. Sono presenti nientemeno che la dea Verginiese, il dio padre Subigo, la dea madre Prema, la dea Pertunda e Venere e Priapo. Ma che faccenda è questa? Se al limite era necessario che l'uomo trovandosi in difficoltà in quell'atto fosse aiutato dagli dèi, non ne bastava uno o una? E se ci fosse stata soltanto Venere, sarebbe forse stata, da poco, anche perché si sostiene che deriva il nome dal fatto che senza la violenza una donna non cesserebbe d'esser vergine 26? Se negli uomini c'è il ritegno che non esiste nelle divinità, quando i coniugati pensano che sono presenti e assistono alla faccenda tanti dèi dell'uno e dell'altro sesso, non sono forse trattenuti dal pudore al punto che egli si senta meno acceso e lei opponga maggiore resistenza? E se è presente la dea Verginiese perché sia sciolta la cintura di castità alla vergine, se è presente il dio Subigo perché si assoggetti al marito, se è presente la dea Prema perché una volta assoggettata non resista e si lasci comprimere, la dea Pertunda che cosa ci sta a fare? Si vergogni, vada via, lasci fare qualche cosa anche al marito. È molto disonesto che l'atto che la denomina lo compia un altro che non sia lui. Ma forse è sopportata perché è una dea e non un dio. Se fosse creduta un maschio e si chiamasse Pertundo, il marito chiederebbe contro di lui per il pudore della moglie un aiuto più valido di quello che i neonati chiedono contro Silvano. Ma perché dico questo, quando vi è presente anche Priapo, che è maschio di troppo, tanto che sul suo enorme e sconcio membro virile doveva sedere la sposa novella secondo l'onestissima e religiosissima usanza delle matrone?.I pagani saggi rigettano teologia mitica e politica...
9. 4. Ma gli scrittori andrebbero avanti e si sforzerebbero quasi, con la sottigliezza di cui sono capaci, di segregare la teologia civile dalla fabulosa, le città dai teatri, i templi dalla scena, i riti dei pontefici dai carmi dei poeti, come si segregano le cose oneste dalle turpi, le vere dalle false, le nobili dalle futili, le serie dalle frivole, le cose che si devono volere da quelle che si devono evitare. Capisco ciò che intendono. Sanno che la teologia del teatro e della favola tragica dipende dalla civile e che le viene restituita dai carmi dei poeti come da uno specchio. Quindi dopo la trattazione della teologia civile che non osano condannare direttamente, disapprovano e riprendono più liberamente questa sua immagine affinché coloro che li sanno capire rifiutino anche il sembiante di cui la fabulosa è l'immagine riflessa. Però gli dèi guardandosi nel medesimo specchio prediligono la fabulosa affinché appaia meglio nell'una e nell'altra chi e che cosa essi sono. Perciò hanno costretto con duri comandi i suoi cultori a dedicare loro l'oscenità della teologia fabulosa, a includerla nelle loro feste, a conservarla nella religione. Così hanno mostrato più evidentemente di essere spiriti immondi e hanno reso la teologia del teatro, per quanto riprovata nella sua abiettezza, una suddivisione e parte della teologia delle città, considerata nobile e apprezzata. In questo modo, sebbene nel suo complesso disonesta ed erronea ed abbia come contenuto falsi dèi, una sua parte consiste nelle tradizioni dei sacerdoti e l'altra nelle composizioni dei poeti. Se abbia altre parti ancora è un'altra questione. Per adesso, stando alla partizione di Varrone, ho dimostrato esaurientemente, a mio parere, che la teologia della città e quella del teatro fanno parte della sola teologia civile. Quindi poiché sono entrambe di eguale bruttura, irragionevolezza, sconvenienza e falsità, le persone veramente religiose non devono attendere la vita eterna né dall'una né dall'altra....così pure Varrone.
9. 5. Infine lo stesso Varrone comincia a catalogare ed enumerare gli dèi dal concepimento dell'uomo. Ha iniziato la loro numerazione da Giano e ha condotto la serie fino alla morte dell'uomo decrepito. Chiude l'elenco degli dèi protettori dell'uomo con la dea Nenia che si canta nei funerali dei vecchi. Poi comincia a enumerare altri dèi che non apparterrebbero agli uomini ma alle cose spettanti all'uomo, come sono il vitto e vestiario e tutte le altre cose indispensabili alla vita fisica, esponendo di tutti il ruolo specifico e il motivo per cui debbano essere resi propizi 27. Ma nonostante tutta questa sua accuratezza non ha mostrato o nominato dèi dai quali si dovesse chiedere la vita eterna. Invece noi soltanto per essa siamo cristiani. Dunque questo uomo espone e chiarisce tanto accuratamente la teologia civile, dimostra che è simile alla fabulosa, che è sconveniente e disonesta, e insegna con sufficiente evidenza che la stessa teologia fabulosa ne è una parte. Chi dunque è tardo al punto di non capire che egli ha preparato nelle coscienze degli uomini il luogo soltanto a quella naturale che, come egli dice, è di competenza dei filosofi? E l'ha fatto con tanto acume che condanna la teologia mitologica, non ardisce condannare la civile ma attraverso l'esposizione fa capire che la esclude così che, condannata l'una e l'altra secondo il giudizio di coloro che sanno ben capire, rimanga da accettare soltanto la teologia naturale. Di essa a suo luogo si dovrà trattare più diligentemente con l'aiuto di Dio 28.Il pensiero di Seneca sul politeismo (10-12)
Seneca condanna l'evirazione sacrale...
10. 1. La libertà che mancò a Varrone, nel rifiutare a pari merito la teologia della città e quella molto simile del teatro, non mancò ad Anneo Seneca che, come sappiamo da certe indicazioni, si distinse al tempo dei nostri Apostoli. L'ebbe se non del tutto almeno parzialmente. L'ebbe appunto come scrittore, ne difettò come uomo. Infatti nel libro scritto contro le superstizioni egli attaccò la teologia dello Stato e della città in modo più esauriente e violento di quello con cui Varrone aveva attaccato la teologia della favola e del teatro 29. Trattando degli idoli, dice: Raffigurano gli esseri augusti immortali e inviolabili in materia molto vile e immobile, danno loro figura di uomini, di bestie e di pesci ed alcuni li rappresentano perfino ermafroditi nella diversa struttura fisica. Li chiamano numi ma se essi vivificandosi si muovessero all'improvviso, sarebbero presi per mostri. Poco dopo, nel trattare la teologia naturale, esposte le teorie di alcuni filosofi, si pose una domanda con le seguenti parole: A questo punto qualcuno può dire: E io dovrei credere che il cielo e la terra sono dèi e che ve ne sono alcuni sopra la luna e alcuni sotto? E io dovrei ascoltare o Platone o il peripatetico Stratone, di cui il primo ha insegnato che il dio è senza corpo e l'altro che è senza spirito? E, rispondendo alla domanda, soggiunge: Ma perché alla fin fine ti sembrano più veri i sogni di Tito Tazio o di Romolo o di Tullo Ostilio? Tazio dedicò un tempio alla dea Cloacina, Romolo a Pico e Tiberino, Ostilio a Pavore e a Pallore, che sono banali condizionamenti umani di cui il primo è il movimento psicologico della paura, l'altro neanche un male fisico ma soltanto un colorito naturale. Preferiresti credere che gli dèi sono questi e penseresti che siano in cielo? Dei misteri stessi, abominevoli per crudeltà, ha scritto con molta libertà: Uno si evira, l'altro si incide le braccia. In che senso temono gli dèi coloro che se li propiziano in questa maniera? Se gli dèi esigono questa forma di culto, non si devono adorare affatto. È così grande la frenesia della coscienza sconvolta e fuori di sé da far propiziare gli dèi con atti con cui non infieriscono neanche gli individui più disumani, neppure quelli di una crudeltà consegnata alle favole. I tiranni hanno straziato il corpo di alcuni ma non hanno comandato ad alcuno di straziare il proprio corpo. Alcuni sono stati evirati per soddisfare la libidine di un re ma nessuno per comando di un padrone ha compiuto l'atto con cui togliersi la virilità. Si dilaniano da sé nei templi, supplicano con le proprie ferite sanguinanti. Se qualcuno ha tempo di andare a vedere quel che fanno e quel che patiscono, osserverà azioni veramente disgustose per le persone oneste, indegne di persone libere, sconvenienti a persone assennate da non far dubitare nessuno che sono pazzi furiosi se lo fossero in pochi. Ma oggi garanzia di assennatezza è la folla dei dissennati....le pratiche superstiziose.
10. 2. Nessuno crederebbe ai fatti che, come Seneca narra, si verificavano abitualmente in Campidoglio e che egli con vero coraggio stimmatizza, se non fossero stati compiuti da buffoni e da pazzi. Egli derideva che nei misteri egiziani si piangesse lo smarrimento di Osiride e che all'improvviso si manifestasse una grande gioia nel ritrovarlo, poiché il suo smarrimento e ritrovamento erano nell'immaginazione, invece venivano manifestati di fatto il dolore e la gioia da individui che non avevano smarrito e ritrovato nulla. Ma per questa follia, egli dice, è stabilito un tempo ed è tollerabile uscir di senno una volta all'anno. Ma va' in Campidoglio, ti farà vergognare della frenesia esposta al pubblico ciò che una stravagante mania si è attribuita come dovere. Un tale fa vedere alcuni nomi a un dio, un altro notifica le ore a Giove, qualcuno fa il gesto del littore, un altro unge, giacché un inutile movimento delle braccia imita chi spalma l'unguento. Vi sono delle donne che pettinano i capelli a Giunone e a Minerva; in piedi lontano dal tempio e non soltanto dalla statua muovono le dita col gesto delle acconciatrici. Altre sostengono lo specchio. Vi sono alcuni che invitano gli dèi ad andare con loro per ottenere la cauzione, altri fanno vedere loro lo scritto di ricorso e fanno loro conoscere il processo che li riguarda. Un colto primo attore, ormai vecchio decrepito, eseguiva ogni giorno in Campidoglio una sua rappresentazione, convinto che gli dèi lo seguissero di buon grado, perché gli uomini avevano cessato di farlo. Ogni categoria di artigiani se ne sta lì con le mani in cintola a lavorare per gli dèi immortali. E poco dopo aggiunge: Ma costoro non offrono al dio un'attività abominevole o infame, anche se inutile. Però alcune donne si soffermano in Campidoglio perché sono convinte di essere amate da Giove; non si spaventano neanche col pensiero di Giunone che, se si vuol credere ai poeti, era furiosamente gelosa.Sua incoerenza.
10. 3. Varrone non ebbe questa libertà, osò attaccare soltanto la teologia dei poeti e non quella dello Stato che invece Seneca infamò. Ma se abbiamo riguardo al vero, sono peggiori i templi in cui si compiono azioni abominevoli che i teatri in cui si rappresentano. E per questo in merito ai misteri della teologia dello Stato Seneca ha preferito assegnare al saggio il dovere di non accettarli nella religione interiore ma di simularli mediante atti esterni. Dice infatti: Il saggio osserverà tutte le prescrizioni perché comandate dalle leggi e non perché gradite agli dèi. E poco dopo osserva: Che dire che combiniamo matrimoni fra gli dèi e, contro ogni diritto, fra fratelli e sorelle? Uniamo in matrimonio Bellona a Marte, Venere a Vulcano, Nettuno a Salacia. Però ne lasciamo alcuni scapoli, come se non si fosse presentata l'occasione, tanto più che vi sono alcune vedove, come Populonia, Fulgora e la ninfa Rumina, ma non mi meraviglio che costoro non abbiano avuto un pretendente. Noi dunque adoreremo questa popolana folla di dèi, che una lunga superstizione durata molto tempo ha ammucchiata, ma ricordiamoci che il culto relativo riguarda la consuetudine e non la religione. Dunque né le leggi né la consuetudine istituirono nella teologia dello Stato un rito che fosse accetto agli dèi o che riguardasse la religione. Ma questo uomo che i filosofi riuscirono quasi a render libero, tuttavia, poiché era un illustre senatore del popolo romano, onorava ciò che biasimava, compiva atti che satireggiava, adorava ciò che accusava. La filosofia, cioè, gli aveva insegnato una grande verità, di non essere superstizioso di fronte al mondo ma, in vista delle leggi civili e dell'umana consuetudine, di non fare, certamente, l'attore drammatico ma di imitarlo nel tempio. Tanto più riprovevole era la sua condotta in quanto il popolo riteneva che compisse per convinzione quegli atti che al contrario compiva in quel modo soltanto per falso conformismo, mentre l'attore, anziché trarre in errore con l'inganno, dilettava con lo spettacolo.Giudizio di Seneca sul culto giudaico.
11. Tra le altre superstizioni della teologia dello Stato Seneca riprende anche i riti degli Ebrei e soprattutto il sabato. Pensa che si comportino senza senso pratico, perché con quei giorni ricorrenti ogni settimo perderebbero nel riposo circa una settima parte della vita e in questo modo sarebbero lesi molti interessi che incalzano nel tempo. Non ha voluto nominare né in un senso né nell'altro i cristiani che già da allora erano profondamente odiati dai Giudei, tanto per non lodarli contro l'antica usanza della sua patria, quanto per non biasimarli forse contro la propria intenzione. Parlando dei Giudei, ha detto: Essendo frattanto invalsa l'usanza di un popolo di mascalzoni al punto che è stata accolta in tutti i paesi, i vinti hanno dettato leggi ai vincitori. Si meravigliava nel dire queste parole e non sapendo ciò che avveniva per divina disposizione ha aggiunto una frase con cui svelò la propria opinione sul significato di quei riti. Dice infatti: Quelli sanno tuttavia le ragioni del proprio culto, invece la maggior parte del nostro popolo compie dei riti e non conosce il motivo per cui li compie. Ma ho parlato altrove, soprattutto nella polemica contro i manichei 30, sull'argomento del culto giudaico, cioè sulla ragione e sul limite con cui è stato istituito dall'autorità divina e per cui a tempo opportuno dalla medesima autorità è stato loro sottratto dal popolo di Dio, al quale è stato rivelato il mistero della vita eterna. Comunque anche in questa opera se ne dovrà parlare a suo luogo .Vanità del politeismo nel problema della salvezza.
12. Ora sull'argomento delle tre teologie, che i Greci chiamano mitica, fisica e politica e che in latino si possono tradurre in fabulosa, naturale e civile, è stato dimostrato che la vita eterna non si deve attendere né da quella della favola, perché con grande libertà l'hanno attaccata perfino gli adoratori degli dèi del politeismo, né da quella dello Stato, perché si è dimostrato che la prima è una sua parte e che questa le è molto simile o anche peggiore. Ma se a qualcuno non basta la dimostrazione esposta in questo volume, vi aggiunga anche la tesi, sostenuta con un lungo discorso nei libri precedenti e soprattutto nel quarto, su Dio datore della felicità 32. Infatti se la felicità è una dea, soltanto a lei gli uomini dovrebbero consacrarsi per conseguire la vita eterna. Ma poiché non è una dea ma un dono di Dio, soltanto a quel Dio che dà la felicità ci dobbiamo consacrare noi che con religiosa carità amiamo la vita eterna in cui si ha vera e piena felicità. Da quanto è stato detto non si può assolutamente dubitare, come io penso, che dia la felicità qualcuno degli dèi che sono adorati tanto oscenamente e che più oscenamente ancora si sdegnano se non sono adorati in quel modo e che per tal motivo mostrano di essere spiriti immondi. Ora chi non dà la felicità non può dare neanche la vita eterna. Si considera appunto vita eterna quella in cui si ha una felicità senza fine. Se infatti l'anima vive nelle pene eterne, con le quali saranno puniti anche gli spiriti immondi, quella è piuttosto una morte eterna che vita. Non si ha infatti una morte maggiore e peggiore che là dove la morte non muore. Ma poiché l'essere dell'anima, per il fatto che è stata creata eterna, non si può concepire senza una qualunque vita, la sua morte più vera è l'alienazione dalla vita di Dio nell'eternità della pena. Quindi soltanto colui che dà la vera felicità dà la vita eterna, cioè felice senza fine. Ora è stato dimostrato che gli dèi adorati dalla teologia civile non possono dare la felicità, e non solo ai sensi dei beni temporali e terreni, come ho dimostrato nei primi cinque libri, ma a più forte ragione ai sensi della vita eterna che si avrà dopo la morte, come ho trattato in questo unico libro anche con la collaborazione dei loro scrittori. Quindi gli dèi non si devono adorare. Ma la forza di una vecchia usanza ha radici molto profonde. Perciò, se a qualcuno sembra che ho trattato poco della necessità di respingere decisamente la teologia civile, volga l'attenzione all'altro volume che con l'aiuto di Dio segue immediatamente a questo.10 - La virtù della giustizia che ebbe Maria santissima.
La mistica Città di Dio - Libro secondo - Suor Maria d'Agreda
Leggilo nella Biblioteca550. La grande virtù della giustizia è quella che più serve alla carità verso Dio e il prossimo e per questo è la più necessaria per le relazioni umane, perché è una facoltà che inclina la volontà a dare a ciascuno quello che gli spetta e ha per materia ed oggetto l'uguaglianza, parità o diritto, che si deve osservare col prossimo e con Dio stesso. Ma poiché sono tante le cose nelle quali l'uomo può rispettare questa uguaglianza o violarla col prossimo, e questo in tanti modi diversi, la materia della giustizia è molto estesa e diffusa e molte sono le specie di questa virtù. In quanto si ordina al bene pubblico e comune, si chiama giustizia legale e, poiché essa può avviare tutte le altre virtù a tal fine, si chiama virtù generale, benché non partecipi della natura delle altre. Ma quando la materia della giustizia è cosa determinata e riguarda solo persone particolari, tra le quali si mantiene intatto a ciascuna il suo diritto, allora si chiama giustizia particolare e speciale.
551. L'Imperatrice del mondo osservò tutta questa virtù, con le sue parti e i generi o specie che contiene, verso tutte le creature in modo senza confronto più perfetto di qualunque altra di esse. Infatti, ella sola conobbe con maggiore altezza e comprese perfettamente ciò che a ciascuna era dovuto. E, sebbene questa virtù della giustizia non riguardi immediatamente le passioni naturali, come nel caso della fortezza e della temperanza, tuttavia molte volte succede che, per il fatto che le stesse passioni non sono moderate e corrette, si perde la giustizia col prossimo, come vediamo in quelli che per sregolata avidità o per piacere sensibile fanno torto agli altri. Ora, siccome in Maria santissima non vi erano passioni disordinate né ignoranza per cui non conoscesse nelle cose il giusto mezzo in cui consiste la giustizia, ella adempiva con tutti questa virtù, operando secondo diritto e giustizia con ciascuno ed insegnando a tutti a fare altrettanto, quando meritavano di ascoltare le sue parole e il suo insegnamento di vita. Quanto poi alla giustizia legale, non solo la osservò soddisfacendo alle leggi comuni, come nella purificazione ed in altri precetti della legge, benché ne fosse esente come regina e senza colpa; ma per di più nessuno, eccetto il suo Figlio santissimo, attese, come questa Madre di misericordia, al bene pubblico e comune dei mortali, indirizzando a questo fine tutte le virtù e le opere con le quali poté meritare loro la divina misericordia e giovare al suo prossimo con altri benefici.
552. Le due specie di giustizia, distributiva e commutativa, rifulsero parimenti in Maria santissima in grado eroico. La giustizia distributiva governa gli atti, con i qua-li si distribuiscono le cose comuni alle persone particolari. Sua Altezza dimostrò questa equità in molte cose che per sua volontà e disposizione si fecero tra i fedeli della Chiesa primitiva, come la divisione dei beni comuni per il sostentamento ed altre necessità delle persone particolari. E anche se di sua mano non elargì mai denaro, perché mai ne maneggiò, tuttavia alle volte si distribuiva per suo ordine ed altre per suo consiglio. In queste cose e in altre simili dimostrò sempre somma equità e giustizia, secondo la necessità e la condizione di ciascuno. Lo stesso faceva nell'assegnazione degli uffici e delle dignità o ministeri che venivano ripartiti tra i discepoli e i primi figli del Vangelo nelle riunioni che si tenevano a tale scopo. Questa sapientissima Maestra ordinava e disponeva tutto con perfetta equità, perché tutto faceva con speciale orazione ed illuminazione divina, oltre che con la scienza e la cognizione ordinaria che aveva di tutti i soggetti. Quindi, per siffatte azioni, gli Apostoli ricorrevano a lei e con lei si consigliavano altre persone preposte al governo. Di conseguenza, tutto ciò che veniva amministrato col suo consiglio era fatto e disposto con perfetta giustizia e senza preferenze di persone.
553. La giustizia commutativa insegna la reciproca uguaglianza tra il dare e il ricevere, come dare due per due o assegnare il giusto prezzo a una cosa, secondo il suo valore. La Regina del cielo esercitò questa specie di giustizia meno delle altre virtù, perché non comprava né vendeva cosa alcuna per se stessa: se era necessario comprarne o scambiarne qualcuna, lo faceva il santo patriarca Giuseppe quando era vivo e, dopo, il santo evangelista Giovanni o un altro degli Apostoli. Questo perché il Maestro della santità, venuto a distruggere e a sradicare l'avarizia, radice di tutti i mali, volle allontanare da se stesso e dalla sua Madre santissima le azioni con cui di solito si accende e si alimenta questo fuoco dell'avidità umana. Per tale ragione la sua Provvidenza divina ordinò che né per sua mano né per quella della sua purissima Madre si esercitassero le azioni di compravendita proprie del commercio umano, fosse anche per cose necessarie a conservare la vita naturale. Perciò la grande Regina non tralasciava d'insegnare tutto ciò che era appartenente a questa virtù della giustizia commutativa, affinché la esercitassero con perfezione quelli che nell'apostolato e nella Chiesa primitiva era necessario che ne usassero.
554. Appartengono a questa virtù altre azioni che si esercitano col prossimo, come il giudicare gli uni e gli altri con giudizio pubblico e civile o con giudizio particolare e privato. Del vizio contrario parlò il Signore attraverso san Matteo quando disse: «Non giudicate, per non essere giudicati». In queste azioni di giudizio si dà a ciascuno ciò che gli si deve, secondo la stima di colui che giudica. Per questo sono azioni giuste se si conformano alla ragione e, se si allontanano da essa, sono ingiuste. La nostra augusta Regina non esercitò il giudizio pubblico e civile, benché avesse una tale autorità da essere giudice di tutto l'universo, ma con i suoi rettissimi consigli, nel tempo della sua vita e dopo con la sua intercessione e i suoi meriti, adempì ciò che sta scritto nei Proverbi: Io cammino sulla via della giustizia e per mezzo mio i grandi governano con giustizia.
555. Quanto ai giudizi particolari mai poté trovarsi ingiustizia nel cuore purissimo di Maria, perché mai poté essere avventata nei sospetti, né temeraria nei giudizi; mai ebbe dubbi, né, qualora li avesse avuti, avrebbe considerato ingiustamente l'interpretazione peggiore. Questi vizi ingiustissimi sono propri e naturali tra i figli di Adamo, nei quali dominano le passioni disordinate di odio, invidia ed emulazione nella malizia, nonché altri vizi che li signoreggiano come vili schiavi. Da queste radici così infette nascono le ingiustizie del sospetto maligno sulla base di indizi di poco conto, di giudizi temerari e dell'interpretazione peggiore di ciò che è dubbio, perché ciascuno presume facilmente che il suo fratello abbia quel difetto che ha egli stesso. E se per odio o invidia si rammarica del bene del suo prossimo e si rallegra del suo male, facilmente e indebitamente crede di lui ciò che non dovrebbe perché glielo augura, e il giudizio segue la sua inclinazione. Da tutti questi mali del peccato fu libera la nostra Regina, come colei che non aveva nulla a che fare con esso. Ciò che nel suo cuore entrava e usciva era tutto carità, purezza, santità e amore perfetto e in lei risiedeva la grazia di tutta la verità e il cammino della vita. Per la pienezza della sua scienza e santità, di niente dubitava né sospettava, perché conosceva e guardava nella luce della verità e con misericordia il cuore di tutti, senza sospettare male di alcuno, senza attribuire colpa a chi non l'avesse, anzi riparando quelle di molti e dando a tutti e a ciascuno con diritto e giustizia ciò che spettava loro. Insomma, sempre era disposta con cuore benigno a riempire tutti gli uomini delle grazie e della dolcezza della virtù.
556. Nei due generi di giustizia commutativa e distributiva si racchiudono molte specie e differenze di virtù, che non mi soffermo a riferire, poiché tutte quelle che convenivano a Maria santissima erano presenti nelle sue facoltà e nei suoi atti supremi ed eccellentissimi. Vi sono tuttavia altre virtù che si riducono alla giustizia perché si esercitano con altri e partecipano alquanto delle qualità della giustizia, benché non in tutto, o perché non possiamo pagare adeguatamente tutto quello che dobbiamo o perché, se possiamo pagarlo, né il debito né l'obbligazione sono così rigidi come vorrebbe il rigore della perfetta giustizia commutativa o distributiva. Di queste virtù - infatti sono molte e varie - non dirò tutto ciò che contengono; ma, per non tacerne del tutto, dirò qualcosa molto brevemente, affinché s'intenda come la nostra eccelsa Principessa le possedesse tutte.
557. È debito di giustizia rendere culto e riverenza a coloro che ci sono superiori, e, secondo il grado della loro eccellenza e dignità, nonché i beni che da essi riceviamo, sarà più o meno grande la nostra obbligazione e il culto che dobbiamo loro, sebbene nessuna nconoscenza giunga ad uguagliare il beneficio ricevuto o la dignità di chi lo concesse. A tale scopo giovano tre virtù, secondo i tre gradi di superiorità che riconosciamo in coloro ai quali dobbiamo riverenza. La prima è la virtù della religione. Con questa diamo a Dio il culto e la riverenza a lui dovuti, quantunque la sua grandezza ne meriti infinitamente di più e i suoi doni non si possano ricambiare con gratitudine né con lodi proporzionate. Questa virtù è nobilissima fra tutte le altre virtù morali, sia per il suo oggetto, che è il culto di Dio, sia per la sua materia, che è tanto estesa, essendo tanti i modi e tante le materie in cui Dio può essere immediatamente onorato e riverito. Sono compresi in questa virtù della religione gli atti interiori dell'orazione, della contemplazione e della devozione con tutte le loro parti e qualità, nonché le cause, gli effetti, gli oggetti e il fine loro. Quanto agli atti esteriori vi è compresa l'adorazione di latria, che è la suprema e dovuta solo a Dio, con le sue specie o parti ad essa connesse, quali il sacrificio, le oblazioni, le decime, i voti, i giuramenti e le lodi esterne e vocali, poiché con tutti questi atti, se si fanno nel debito modo, Dio viene onorato e riverito dalle creature, come al contrario, con i vizi opposti, viene grandemente offeso.
558. In secondo luogo segue la pietà, che è una virtù con cui onoriamo i genitori, ai quali dopo Dio dobbiamo l'esistenza e l'educazione, e riveriamo altresì quelli che contribuiscono a questa causa, come i parenti e la patria, che ci tutela e governa. Questa virtù della pietà è così grande che, quando essa obbliga, si deve anteporre agli atti volontari della virtù della religione: così insegna Cristo Signore nostro in san Matteo, dove è scritto che egli riprese i farisei perché, sotto pretesto del culto di Dio, insegnavano a negare la pietà ai genitori. In terzo luogo viene l'osservanza, virtù con cui tributiamo onore e riverenza a coloro che sono rivestiti di qualche dignità o qualità superiore, differente da quella dei genitori o della patria. In questa virtù i teologi comprendono la dulia e l'obbedienza quali sue specie. La dulia è quella con cui veneriamo coloro che partecipano dell'eccellenza o del dominio del Signore supremo, che è Dio, al quale solo è dovuto il culto di latria. Quindi, con la dulia noi onoriamo i santi ed anche le dignità superiori di cui ci riconosciamo servi. L'obbedienza, poi, è quella con cui uniformiamo la nostra volontà a quella dei superiori, intendendo adempiere la loro e non la nostra. E siccome la libertà propria è tanto preziosa, fra tutte le virtù morali questa virtù è d'una speciale eccellenza e grandemente ammirabile. Di fatto, per mezzo di essa, noi lasciamo per amore di Dio assai più che con qualsiasi altra virtù.
559. Queste virtù della religione, della pietà e dell'osservanza furono presenti in Maria santissima con tale pienezza e perfezione, che nulla mancò loro di quanto si potesse trovare in una semplice creatura. Quale intelletto potrà giungere a comprendere l'onore, la venerazione e il culto, con cui questa Signora serviva il suo Figlio dilettissimo, nconoscendolo e adorandolo come vero Dio e uomo, creatore, redentore, glorificatore, sommo, infinito, immenso nell'essere, nella bontà e in tutti i suoi attributi? Fu lei che a questo riguardo conobbe più di ciascuna e di tutte insieme le altre semplici creature, per cui, in ragione di tale cognizione, diede a Dio la dovuta riverenza, servendo, in ciò, d'insegnamento agli stessi serafini. In questa virtù fu talmente maestra che il solo vederla risvegliava, muoveva e provocava tutti, con una forza misteriosa, a riverire il supremo Signore e autore del cielo e della terra; né aveva bisogno di altra sollecitudine per incitare ognuno, come di fatto faceva, a lodare Dio. La sua orazione, la sua contemplazione e devozione, l'efficacia che ebbero e che sempre hanno le sue preghiere, sono cose la cui conoscenza fa stupire gli angeli e i beati comprensori medesimi, senza che riescano a spiegarlo. Tutte le creature intellettuali sono debitrici a lei non solo di aver compensato ciò che esse hanno commesso in fatto di offesa, ma di avere altresì supplito a ciò che esse non hanno potuto ottenere, né operare, né meritare. Questa Signora affrettò il rimedio del mondo, né il Verbo sarebbe uscito dal seno del suo eterno Padre se ella non fosse stata nel mondo. Fin dal primo istante nel contemplare, pregare, chiedere e tenersi devotamente pronta a qualunque cosa per l'ossequio divino, ella superò i serafini. Offrì un sacrificio quale si conveniva, decime ed oblazioni, ma tutto talmente gradito a Dio, che nessun altro offerente gli fu più accetto di lei, eccetto il suo Figlio santissimo. Nelle sue divine lodi, negli inni, nei cantici e nelle orazioni vocali che fece, superò tutti i Patriarchi e i Profeti, e, se fossero rimaste scritte nella Chiesa militante, come si conosceranno in quella trionfante, formerebbero l'ammirazione del mondo.
560. Non altrimenti, possedette le virtù della pietà e dell'osservanza, conoscendo ella più di ogni altro quanto si deve ai propri genitori e quanto eroica fosse la santità dei suoi. Lo stesso fece coi suoi consanguinei, favorendoli di grazie specialissime, come avvenne al Battista, a santa Elisabetta sua madre e agli altri del collegio apostolico. Avrebbe reso felicissima la sua patria, se l'ingratitudine e la durezza dei Giudei avesse meritato ciò; tuttavia le fece benefici assai grandi e favori spirituali e visibili, per quanto permise la divina equità. Fu ammirabile nella riverenza verso i sacerdoti, essendo la sola che seppe e poté dare il dovuto valore alla dignità degli unti del Signore. Questo insegnò a tutti, come anche a riverire dopo di loro i Patriarchi, i Profeti e gli altri santi, e infine i signori temporali e supremi nella potestà. Ella non omise nessun atto di siffatte virtù, ma in diversi tempi e in diverse occasioni li esercitò tutti e li insegnò agli altri, specialmente ai fedeli della Chiesa primitiva. In essa, ubbidendo non solo al suo Figlio santissimo e al suo sposo quando erano presenti, ma anche ai ministri della Chiesa stessa, fu per il mondo un esempio di rara obbedienza, mentre per speciali ragioni avrebbero dovuto piuttosto ubbidire a lei tutte le creature, essendo rimasta sulla terra come Signora e regina al fine di governarle.
561. Rimangono altre virtù che ugualmente si riducono alla giustizia, perché per mezzo di esse diamo agli altri ciò che dobbiamo loro per un certo debito morale, che è un titolo consono ed onesto. Queste sono la gratitudine, che si chiama anche grazia, la verità ossia veracità, la vendetta intesa come punizione della giustizia, la liberalità, l'amicizia o affabilità. Con la gratitudine veniamo a porre qualche eguaglianza tra noi e quelli dai quali riceviamo qualche beneficio, rendendone loro grazie secondo la qualità del beneficio e l'affetto con cui ce lo fecero - affetto che è la parte principale di tale beneficio - ed anche secondo lo stato e la qualità del benefattore, perché a tutto questo si deve proporzionare la gratitudine, e ciò si può fare con diverse azioni. La veracità ci inclina a dire la verità con tutti, come è giusto che si faccia nella vita umana e nelle necessarie relazioni umane, escludendo ogni menzogna, che in nessun caso è lecita, ogni ingannevole simulazione, ipocrisia, iattanza ed ironia. Tutti questi vizi si oppongono alla verità. E se si può, ed anzi è conveniente, declinare nel meno quando parliamo della nostra eccellenza o virtù, per non renderci molesti con eccesso di iattanza, non è però giusto il fingere meno con menzogna, imputandoci un vizio che non abbiamo. La vendetta, nel senso che si è detto, è una virtù che insegna a compensare o soddisfare con qualche pena il danno proprio, o quello del prossimo, ricevuto da un terzo. Questa virtù è difficile a praticarsi come si deve dai mortali, che di solito si lasciano trascinare da ira smodata e da odio contro i fratelli, mancando così alla carità e alla giustizia. Tuttavia, quando non si mira al danno altrui ma solo al bene privato o pubblico, questa virtù non è piccola. Ad essa infatti ricorse Cristo nostro Signore quando scacciò dal tempio quelli che lo profanavano. Così pure Elia ed Eliseo chiamarono il fuoco dal cielo per castigare certi peccati, e nei Proverbi si dice: Chi risparmia il bastone odia suo figlio. La liberalità serve per distribuire, secondo ragione, il denaro o cose affini, senza cedere ai vizi dell'avarizia e della prodigalità. L'amicizia o affabilità consiste nel modo di conversare e trattare con tutti adeguatamente e convenientemente, senza adulazione né litigi, che sono vizi contrari a questa virtù.
562. Nessuna di tali cose - né alcun'altra, se ve ne sia che si possa attribuire alla giustizia - mancò alla Regina del cielo. Tutte le possedette e tutte le esercitò con atti perfettissimi, secondo le occasioni. Inoltre, come maestra e signora di ogni santità, a molte anime insegnò e diede luce perché vi si esercitassero e le praticassero con perfezione. Con gli atti di religione e di culto, di cui abbiamo già detto, esercitò la virtù della gratitudine verso Dio, perché questo è il più eccellente modo di mostrarsi grati. E come la dignità di Maria purissima e la sua santità proporzionata a tale dignità si elevarono al di sopra di ogni intelligenza creata, così questa eccelsa Signora si mostrò riconoscente proporzionatamente al beneficio, per quanto possibile ad una semplice creatura; lo stesso fece riguardo alla pietà verso i genitori e la patria, come sopra si è detto. Verso gli altri l'umilissima Imperatrice si mostrava riconoscente per qualunque beneficio, come se niente le fosse dovuto, e, sebbene le si dovesse tutto per giustizia, tutto gradiva con somma grazia e favore. Per di più, ella sola seppe spingersi sino al punto di rendere grazie per gli aggravi e le offese che riceveva, quasi fossero grandi benefici, dato che la sua incomparabile umiltà non riconosceva mai ingiurie, anzi per esse si considerava obbligata, né mai cessava di manifestare gratitudine, dimostrandosi sempre memore dei benefici.
563. Quanto alla verità con cui Maria signora nostra trattava, non si potrebbe dire abbastanza, perché, essendo ella tanto superiore al demonio, padre della menzogna e dell'inganno, certamente non poté trovarsi in lei un così abominevole vizio. La regola con cui si vuole misurare questa virtù della veracità è la sua carità e trasparenza, virtù che escludono ogni maniera di doppiezza e di fallacia nel trattare con le creature. Ma come si sarebbe mai potuto trovare colpa o inganno nella bocca di quella Signora, che con una parola di vera umiltà attirò nel suo seno colui che è la verità e la santità per essenza? Maria santissima si esercitò con molti atti perfettissimi anche nella virtù che si chiama vendetta, non solo insegnandola da maestra nella Chiesa primitiva ogniqualvolta fu necessario, ma zelando da sé l'onore dell'Altissimo. Infatti cercò di ricondurre sulla via della salvezza per mezzo della correzione molti peccatori, come fece più volte con Giuda; altre volte, invece, comandava alle creature, tutte a lei ubbidienti, che castigassero certi peccati per il bene di coloro che, commettendoli, si meritavano l'eterno castigo. E quantunque in queste opere fosse dolcissima e soavissima, tuttavia non tralasciava per questo di castigare, quando ciò era mezzo efficace per purificare dal peccato. Peraltro fu contro il demonio che esercitò maggiormente la vendetta, e ciò per liberare dalla sua schiavitù il genere umano.
564. Atti eccellentissimi esercitò ugualmente in rapporto alle virtù della liberalità e dell'affabilità. La sua liberalità nel dare era quale si conveniva alla suprema Imperatrice di tutto il creato, nonché a colei che sapeva stimare degnamente ogni cosa visibile e invisibile. Di quelle cose che si possono distribuire per atto di liberalità, mai ella ne tenne alcuna come sua propria piuttosto che del suo prossimo, né mai la negò ad alcuno, né aspettò che gliela chiedessero quando poteva darla prima. Le necessità e le miserie dei poveri a cui rimediò, i favori che fece loro, le misericordie che sparse, anche in cose temporali, sono tante e tali che per raccontarle occorrerebbe un immenso volume. Inoltre, la sua graziosa affabilità con tutti fu così ammirabile e rara che, se non l'avesse regolata con grande prudenza, tutti sarebbero corsi dietro a lei allettati dal suo tratto dolcissimo. E davvero quella sua mansuetudine e soavità, temperate da una certa severità e sapienza che avevano del divino, lasciavano trasparire, trattando con lei, un non so che di più che umana creatura. L'Altissimo però dispose questa grazia in modo che, sebbene alcune volte a quelli con cui ella trattava trasparissero indizi del mistero del Re, che in se stessa racchiudeva, tuttavia subito vi stendeva sopra come un velo e lo celava, per lasciare spazio ai patimenti, impedendo il plauso degli uomini. Tale plauso, d'altronde, sarebbe sempre stato meno del dovuto, non giungendo i mortali a conoscere quanto meritasse, o piuttosto, essendovi il pericolo che non sapessero venerare come una semplice creatura colei che era Madre del Creatore senza eccedere o scarseggiare, finché non fosse giunto il tempo in cui la luce della fede avrebbe illuminato le menti dei figli della Chiesa.
565. Per un uso più adeguato e perfetto di questa grande virtù della giustizia, i dottori le annettono un'altra parte o strumento, che chiamano epicheja. Con questa si regolano alcune opere che escono dalle norme e leggi comuni, poiché queste non prevengono tutti i casi che possono occorrere, né tutte le loro circostanze, per cui in certe occasioni è necessario operare con ragione superiore e straordinaria. La celeste Regina fu esperta ed usò di tale virtù in molti eventi della sua vita, sia prima che dopo l'ascensione del suo Unigenito al cielo, ma in modo ancor più speciale dopo, per stabilire le cose della Chiesa primitiva, come dirò a suo tempo, se piacerà all'Altissimo.
Insegnamento della Regina del cielo
566. Figlia mia, sebbene di questa estesa virtù della giustizia tu abbia conosciuto molto, tuttavia ne ignori ancora la maggior parte; tanta è la stima che merita! La carne mortale di cui sei rivestita ne ritarda la comprensione e non puoi esprimere a parole tutto quello che arrivi ad intendere. In ciò che ne hai appreso troverai comunque una norma più che sufficiente del modo con cui devi comportarti con le creature e dedicarti al culto dell'Altissimo. A tale riguardo ti avverto, o carissima, che la maestà suprema dell'Onnipotente s'indigna giustamente per l'offesa che le fanno i mortali dimenticandosi della venerazione, adorazione e riverenza a lui dovute. Inoltre è talmente grossolana, distratta e scortese quella che talora gli rendono, che merita castigo piuttosto che premio. Verso i principi e i magnati del mondo sanno benissimo mostrare profonda riverenza e quasi adorazione; sanno chiedere loro aiuto e sollecitare favori con tutti i mezzi e le attenzioni più squisite; sanno ringraziarli abbondantemente quando ottengono quel che desiderano e, anzi, dichiarano di voler essere loro grati tutta la vita. Ma quando si tratta del supremo Signore che dà loro l'essere, la vita e il movimento, che li conserva e nutre, che li redense e li sollevò alla dignità di figli volendo dare loro la sua stessa gloria che è un bene infinito e sommo, allora si dimenticano di questa Maestà che non vedono con gli occhi del corpo, come se dalla sua mano non venissero loro tutti i beni, si contentano di serbare di lui una tiepida memoria e di rivolgergli un qualche frettoloso ringraziamento, quasi che ciò fosse una gran cosa! Taccio poi l'enorme offesa che fanno al giustissimo reggitore dell'universo coloro che iniquamente rompono e pervertono tutto l'ordine della giustizia col loro prossimo, soffocando la ragione naturale e pretendendo di fare ai loro fratelli quello che non vorrebbero fosse fatto a loro stessi.
567. Aborrisci, figlia mia, vizi tanto esecrabili e, per quanto puoi con le tue forze, indirizza le tue opere in modo che suppliscano al servizio che altri negano all'Altissimo con questa loro cattiva corrispondenza ai suoi benefici. Tanto più, essendo tu consacrata, nel tuo stato, al culto divino, devi far di ciò la tua principale occupazione con grande affetto, rendendoti così in tutto simile agli spiriti angelici, che con venerazione si occupano incessantemente del suo culto. Porta poi rispetto a tutte le cose divine e consacrate, perfino agli ornamenti e ai vasi che servono al sacro ministero. Durante l'ufficio divino, l'orazione e il santo sacrificio, procura di stare sempre in ginocchio; domanda con fede e ricevi con umile riconoscenza, e questa devi mostrare verso tutte le creature, anche quando ti offendessero. Con tutti dimostrati pietosa, affabile, mite, sincera e veritiera, senza finzione né doppiezza, senza detrazione né mormorazione, senza giudicare alla leggera il tuo prossimo. E per adempiere bene quest'obbligo di giustizia, tieni sempre fisso nella memoria e nel cuore il proposito di fare al tuo prossimo ciò che vuoi si faccia a te, e molto più fa' in modo di rammentarti quanto il mio Figlio santissimo ed io abbiamo fatto per tutti gli uomini.
7-19 Giugno 13, 1906 L’anima farebbe anche degli spropositi, per ottenere l’intento d’essere più amata dal suo sommo ed unico Bene.
Luisa Piccarreta (Libro di Cielo)
(1) Me la passo sempre in continue privazioni, al più si fa vedere alla sfuggita, o nel mio interno che si riposa e dorme, senza dirmi una parola, e se faccio per lamentarmi, or se ne esce col dirmi:
(2) “A torto ti lamenti, è a Me che vuoi? Ebbene mi tieni nell’intimo del tuo interno, che vuoi di più? Oppure, se mi tieni tutto in te perché t’affliggi? E perché non ti parlo, col solo vedermi già c’intendiamo”. Oppure, se ne esce con un bacio, con un’abbraccio, con una carezza; e se vede che non m’acquieto, mi rimprovera severamente col dirmi:
(3) “Mi dispiace solo il tuo dispiacere, e se non t’acquieti, ti farò dispiacere davvero col nascondermi del tutto”.
(4) Chi può dire l’amarezza dell’anima mia? Mi sento stupidita e non so manifestare quello che sento; e poi in certi stati d’animo è meglio tacere e passare innanzi. Onde questa mattina, quando appena l’ho visto, mi sono sentita trasportare fuori di me; e non so dire bene se fosse paradiso, stavano molti santi, tutti incendiati d’amore, e la meraviglia era che tutti amavano, ma l’amore d’uno era distinto dall’amore dell’altro; io però, trovandomi con questi, cercavo di distinguermi e sorpassarli tutti nell’amore, volendo essere la prima di tutti ad amarlo, non soffrendo il mio cuore, troppo superbo, che gli altri mi uguagliassero, perché mi pareva di vedere che chi più ama è più vicina a Gesù, ed è più amata da Lui. Oh! l’anima darebbe a tutti gli eccessi, non curerebbe né vita, né morte, né pensa se le conviene o no, insomma farebbe anche degli spropositi per ottenere questo intento, d’essere a Lui più vicina e d’essere amata un tantino di più dal suo sommo ed unico Bene. Ma con mio sommo cordoglio, dopo breve tempo, una forza irresistibile mi ha ricondotto in me stessa.