Liturgia delle Ore - Letture
Domenica della 2° settimana del Tempo di Pasqua
Vangelo secondo Luca 24
1Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato.2Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro;3ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù.4Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti.5Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: "Perché cercate tra i morti colui che è vivo?6Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea,7dicendo che bisognava che il Figlio dell'uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno".8Ed esse si ricordarono delle sue parole.
9E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri.10Erano Maria di Màgdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli.11Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse.
12Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l'accaduto.
13Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Èmmaus,14e conversavano di tutto quello che era accaduto.15Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro.16Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo.17Ed egli disse loro: "Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino?". Si fermarono, col volto triste;18uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: "Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?".19Domandò: "Che cosa?". Gli risposero: "Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo;20come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocifisso.21Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute.22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro23e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo.24Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l'hanno visto".
25Ed egli disse loro: "Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti!26Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?".27E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.28Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano.29Ma essi insistettero: "Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino". Egli entrò per rimanere con loro.30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro.31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista.32Ed essi si dissero l'un l'altro: "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?".33E partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro,34i quali dicevano: "Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone".35Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
36Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: "Pace a voi!".37Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma.38Ma egli disse: "Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?39Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho".40Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi.41Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: "Avete qui qualche cosa da mangiare?".42Gli offrirono una porzione di pesce arrostito;43egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
44Poi disse: "Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi".45Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse:46"Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno47e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.48Di questo voi siete testimoni.49E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto".
50Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse.51Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo.52Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia;53e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Primo libro delle Cronache 27
1Ecco i figli di Israele, secondo il loro numero, i capi dei casati, i capi di migliaia e di centinaia, i loro ufficiali al servizio del re, secondo le loro classi, delle quali una entrava e l'altra usciva, ogni mese, per tutti i mesi dell'anno. Ogni classe comprendeva ventiquattromila individui.
2Alla prima classe, in funzione nel primo mese, presiedeva Iasobeam figlio di Zabdiel; la sua classe era di ventiquattromila.3Egli era dei discendenti di Perez ed era il capo di tutti gli ufficiali dell'esercito, per il primo mese.
4Alla classe del secondo mese presiedeva Dodo di Acoch; la sua classe era di ventiquattromila.
5Al terzo gruppo, per il terzo mese, presiedeva Benaià figlio di Ioiadà, sommo sacerdote; la sua classe era di ventiquattromila.6Questo Benaià era un prode fra i Trenta e aveva il comando dei Trenta e della sua classe. Suo figlio era Ammizabàd.
7Quarto, per il quarto mese, era Asaèl fratello di Ioab e, dopo di lui, Zebadia suo figlio; la sua classe era di ventiquattromila.
8Quinto, per il quinto mese, era l'ufficiale Samehut di Zerach; la sua classe era di ventiquattromila.
9Sesto, per il sesto mese, Ira, figlio di Ikkes di Tekoà; la sua classe era di ventiquattromila.
10Settimo, per il settimo mese, era Chelez di Pelon, dei discendenti di Èfraim; la sua classe era di ventiquattromila.
11Ottavo, per l'ottavo mese, era Sibbecài di Cusa, della famiglia degli Zerachiti; la sua classe era di ventiquattromila.
12Nono, per il nono mese, era Abièzer, il Beniaminita; la sua classe era di ventiquattromila.
13Decimo, per il decimo mese, era Marai di Netofa, appartenente agli Zerachiti; la sua classe era di ventiquattromila.
14Undecimo, per l'undecimo mese, era Benaià di Piraton, dei discendenti di Èfraim; la sua classe era di ventiquattromila.
15Dodicesimo, per il dodicesimo mese, era Cheldai di Netofa, della stirpe di Otniel; la sua classe era di ventiquattromila.
16Riguardo alle tribù di Israele: sui Rubeniti presiedeva Elièzer figlio di Zikri; sulla tribù di Simeone, Sefatia figlio di Maaca;17su quella di Levi, Casabia figlio di Kemuel; sugli Aronnidi, Zadòk;18su quella di Giuda, Eliu, dei fratelli di Davide; su quella di Ìssacar, Omri figlio di Michele;19su quella di Zàbulon, Ismaia figlio di Abdia; su quella di Nèftali, Ierimòt figlio di Azrièl;20sugli Efraimiti, Osea figlio di Azazia; su metà della tribù di Manàsse, Gioele figlio di Pedaia;21su metà della tribù di Manàsse in Gàlaad, Iddo figlio di Zaccaria; su quella di Beniamino, Iaasiel figlio di Abner;22su quella di Dan, Azarel figlio di Ierocam. Questi furono i capi delle tribù di Israele.
23Davide non fece il censimento di quelli al di sotto dei vent'anni, perché il Signore aveva detto che avrebbe moltiplicato Israele come le stelle del cielo.24Ioab figlio di Zeruià aveva cominciato il censimento, ma non lo terminò; proprio per esso si scatenò l'ira su Israele. Questo censimento non fu registrato nel libro delle Cronache del re Davide.
25Sui tesori del re presiedeva Azmàvet figlio di Adiel; sui tesori che erano nella campagna, nelle città, nei villaggi e nelle torri presiedeva Giònata figlio di Uzzia.26Sugli operai agricoli, per la lavorazione del suolo, c'era Ezri figlio di Chelub.
27Alle vigne era addetto Simei di Rama; ai prodotti delle vigne depositati nelle cantine era addetto Zabdai di Sefàm.28Agli oliveti e ai sicomòri, che erano nella Sefela, era addetto Baal-Canan di Ghedera; ai depositi di olio Ioas.29Agli armenti che pascolavano nella pianura di Saron era addetto il Saronita Sitri; agli armenti che pascolavano in altre valli Safat figlio di Adlai.30Ai cammelli era addetto Obil, l'Ismaelita; alle asine Iecdaia di Meronot;31alle pecore Iaziu l'Agareno. Tutti costoro erano amministratori dei beni del re Davide.
32Giònata, zio di Davide, era consigliere; uomo intelligente e scriba, egli insieme con Iechiel figlio di Cakmonì, si occupava dei figli del re.33Achitofel era consigliere del re; Cusai l'Arkita era amico del re.34Ad Achitofel successero Ioiadà figlio di Benaià ed Ebiatàr; capo dell'esercito del re era Ioab.
Siracide 22
1Il pigro è simile a una pietra imbrattata,
ognuno fischia in suo disprezzo.
2Il pigro è simile a una palla di sterco,
chi la raccoglie scuote la mano.
3Vergogna per un padre avere un figlio maleducato,
se si tratta di una figlia, è la sua rovina.
4Una figlia prudente sarà un tesoro per il marito,
quella disonorevole un dolore per chi l'ha generata.
5La sfacciata disonora il padre e il marito,
e dall'uno e dall'altro sarà disprezzata.
6Come musica durante il lutto i discorsi fuori tempo,
ma frusta e correzione in ogni tempo sono saggezza.
7Incolla cocci chi ammaestra uno stolto,
sveglia un dormiglione dal sonno profondo.
8Ragiona con un insonnolito chi ragiona con lo stolto;
alla fine egli dirà: "Che cosa c'è?".
9Piangi per un morto, poiché ha perduto la luce;
piangi per uno stolto, poiché ha perduto il senno.
10Piangi meno tristemente per un morto, ché ora riposa,
ma la vita dello stolto è peggiore della morte.
11Il lutto per un morto, sette giorni;
per uno stolto ed empio tutti i giorni della sua vita.
12Con un insensato non prolungare il discorso,
non frequentare l'insipiente;
13guàrdati da lui, per non avere noie
e per non contaminarti al suo contatto.
Allontànati da lui e troverai pace,
non sarai seccato dalla sua insipienza.
14Che c'è di più pesante del piombo?
E qual è il suo nome, se non "lo stolto"?
15Sabbia, sale, palla di ferro
sono più facili a portare che un insensato.
16Una travatura di legno ben connessa in una casa
non si scompagina in un terremoto,
così un cuore deciso dopo matura riflessione
non verrà meno al momento del pericolo.
17Un cuore basato su sagge riflessioni
è come un intonaco su un muro rifinito.
18Una palizzata posta su un'altura
di fronte al vento non resiste,
così un cuore meschino, basato sulle sue fantasie,
di fronte a qualsiasi timore non resiste.
19Chi punge un occhio lo farà lacrimare;
chi punge un cuore ne scopre il sentimento.
20Chi scaglia pietre contro uccelli li mette in fuga,
chi offende un amico rompe l'amicizia.
21Se hai sguainato la spada contro un amico,
non disperare, può esserci un ritorno.
22Se hai aperto la bocca contro un amico,
non temere, può esserci riconciliazione,
tranne il caso di insulto e di arroganza,
di segreti svelati e di un colpo a tradimento;
in questi casi ogni amico scomparirà.
23Conquìstati la fiducia del prossimo nella sua
povertà
per godere con lui nella sua prosperità.
Nel tempo della tribolazione restagli vicino,
per aver parte alla sua eredità.
24Prima del fuoco vapore e fumo nel camino,
così prima dello spargimento del sangue le ingiurie.
25Non mi vergognerò di proteggere un amico,
non mi nasconderò davanti a lui.
26Se mi succederà il male a causa sua,
chiunque lo venga a sapere si guarderà da lui.
27Chi porrà una guardia sulla mia bocca,
sulle mie labbra un sigillo prudente,
perché io non cada per colpa loro
e la mia lingua non sia la mia rovina?
Salmi 46
1'Al maestro del coro. Dei figli di Core.'
'Su "Le vergini...". Canto.'
2Dio è per noi rifugio e forza,
aiuto sempre vicino nelle angosce.
3Perciò non temiamo se trema la terra,
se crollano i monti nel fondo del mare.
4Fremano, si gonfino le sue acque,
tremino i monti per i suoi flutti.
5Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio,
la santa dimora dell'Altissimo.
6Dio sta in essa: non potrà vacillare;
la soccorrerà Dio, prima del mattino.
7Fremettero le genti, i regni si scossero;
egli tuonò, si sgretolò la terra.
8Il Signore degli eserciti è con noi,
nostro rifugio è il Dio di Giacobbe.
9Venite, vedete le opere del Signore,
egli ha fatto portenti sulla terra.
10Farà cessare le guerre sino ai confini della terra,
romperà gli archi e spezzerà le lance,
brucerà con il fuoco gli scudi.
11Fermatevi e sappiate che io sono Dio,
eccelso tra le genti, eccelso sulla terra.
12Il Signore degli eserciti è con noi,
nostro rifugio è il Dio di Giacobbe.
Geremia 9
1Chi mi darà nel deserto un rifugio per viandanti?
Io lascerei il mio popolo e mi allontanerei da lui,
perché sono tutti adùlteri, una massa di traditori.
2Tendono la loro lingua come un arco;
la menzogna e non la verità
domina nel paese.
Passano da un delitto all'altro
e non conoscono il Signore.
3Ognuno si guardi dal suo amico,
non fidatevi neppure del fratello,
poiché ogni fratello inganna il fratello,
e ogni amico va spargendo calunnie.
4Ognuno si beffa del suo prossimo,
nessuno dice la verità.
Hanno abituato la lingua a dire menzogne,
operano l'iniquità, incapaci di convertirsi.
5Angheria sopra angheria, inganno su inganno;
rifiutano di conoscere il Signore.
6Perciò dice il Signore degli eserciti:
"Ecco li raffinerò al crogiuolo e li saggerò;
come dovrei comportarmi con il mio popolo?
7Una saetta micidiale è la loro lingua,
inganno le parole della loro bocca.
Ognuno parla di pace con il prossimo,
mentre nell'intimo gli ordisce un tranello
8Non dovrei forse punirli per tali cose?
Oracolo del Signore.
Di un popolo come questo non dovrei vendicarmi?".
9Sui monti alzerò gemiti e lamenti,
un pianto di lutto sui pascoli della steppa,
perché sono riarsi, nessuno più vi passa,
né più si ode il grido del bestiame.
Dagli uccelli dell'aria alle bestie
tutti sono fuggiti, scomparsi.
10"Ridurrò Gerusalemme un cumulo di rovine,
rifugio di sciacalli;
le città di Giuda ridurrò alla desolazione,
senza abitanti".
11Chi è tanto saggio da comprendere questo?
A chi la bocca del Signore ha parlato perché lo annunzi?
Perché il paese è devastato,
desolato come un deserto senza passanti?
12Ha detto il Signore: "È perché hanno abbandonato la legge che avevo loro posto innanzi e non hanno ascoltato la mia voce e non l'hanno seguita,13ma han seguito la caparbietà del loro cuore e i Baal, che i loro padri avevano fatto loro conoscere".14Pertanto così dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: "Ecco, darò loro in cibo assenzio, farò loro bere acque avvelenate;15li disperderò in mezzo a popoli che né loro né i loro padri hanno conosciuto e manderò dietro a loro la spada finché non li abbia sterminati".
Così dice il Signore degli eserciti:
16Attenti, chiamate le lamentatrici, che vengano!
Fate venire le più brave!
Accorrano
17e facciano presto, per intonare su di noi un lamento.
Sgorghino lacrime dai nostri occhi,
il pianto scorra dalle nostre ciglia,
18perché una voce di lamento si ode da Sion:
"Come siamo rovinati,
come profondamente confusi,
poiché dobbiamo abbandonare il paese,
lasciare le nostre abitazioni".
19Udite, dunque, o donne, la parola del Signore;
i vostri orecchi accolgano la parola della sua bocca.
Insegnate alle vostre figlie il lamento,
l'una all'altra un canto di lutto:
20"La morte è entrata per le nostre finestre,
si è introdotta nei nostri palazzi,
abbattendo i fanciulli nella via
e i giovani nelle piazze.
21I cadaveri degli uomini giacciono - dice il Signore -
come letame sui campi,
come covoni dietro il mietitore
e nessuno li raccoglie".
22Così dice il Signore:
"Non si vanti il saggio della sua saggezza
e non si vanti il forte della sua forza,
non si vanti il ricco delle sue ricchezze.
23Ma chi vuol gloriarsi si vanti di questo,
di avere senno e di conoscere me,
perché io sono il Signore che agisce con misericordia,
con diritto e con giustizia sulla terra;
di queste cose mi compiaccio".
Parola del Signore.
24"Ecco, giorni verranno - oracolo del Signore - nei quali punirò tutti i circoncisi che rimangono non circoncisi:25l'Egitto, Giuda, Edom, gli Ammoniti e i Moabiti e tutti coloro che si tagliano i capelli alle estremità delle tempie, i quali abitano nel deserto, perché tutte queste nazioni e tutta la casa di Israele sono incirconcisi nel cuore".
Atti degli Apostoli 25
1Festo dunque, raggiunta la provincia, tre giorni dopo salì da Cesarèa a Gerusalemme.2I sommi sacerdoti e i capi dei Giudei gli si presentarono per accusare Paolo e cercavano di persuaderlo,3chiedendo come un favore, in odio a Paolo, che lo facesse venire a Gerusalemme; e intanto disponevano un tranello per ucciderlo lungo il percorso.4Festo rispose che Paolo stava sotto custodia a Cesarèa e che egli stesso sarebbe partito fra breve.5"Quelli dunque che hanno autorità tra voi, disse, vengano con me e se vi è qualche colpa in quell'uomo, lo denuncino".
6Dopo essersi trattenuto fra loro non più di otto o dieci giorni, discese a Cesarèa e il giorno seguente, sedendo in tribunale, ordinò che gli si conducesse Paolo.7Appena giunse, lo attorniarono i Giudei discesi da Gerusalemme, imputandogli numerose e gravi colpe, senza però riuscire a provarle.8Paolo a sua difesa disse: "Non ho commesso alcuna colpa, né contro la legge dei Giudei, né contro il tempio, né contro Cesare".9Ma Festo volendo fare un favore ai Giudei, si volse a Paolo e disse: "Vuoi andare a Gerusalemme per essere là giudicato di queste cose, davanti a me?".10Paolo rispose: "Mi trovo davanti al tribunale di Cesare, qui mi si deve giudicare. Ai Giudei non ho fatto alcun torto, come anche tu sai perfettamente.11Se dunque sono in colpa e ho commesso qualche cosa che meriti la morte, non rifiuto di morire; ma se nelle accuse di costoro non c'è nulla di vero, nessuno ha il potere di consegnarmi a loro. Io mi appello a Cesare".12Allora Festo, dopo aver conferito con il consiglio, rispose: "Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai".
13Erano trascorsi alcuni giorni, quando arrivarono a Cesarèa il re Agrippa e Berenìce, per salutare Festo.14E poiché si trattennero parecchi giorni, Festo espose al re il caso di Paolo: "C'è un uomo, lasciato qui prigioniero da Felice, contro il quale,15durante la mia visita a Gerusalemme, si presentarono con accuse i sommi sacerdoti e gli anziani dei Giudei per reclamarne la condanna.16Risposi che i Romani non usano consegnare una persona, prima che l'accusato sia stato messo a confronto con i suoi accusatori e possa aver modo di difendersi dall'accusa.17Allora essi convennero qui e io senza indugi il giorno seguente sedetti in tribunale e ordinai che vi fosse condotto quell'uomo.18Gli accusatori gli si misero attorno, ma non addussero nessuna delle imputazioni criminose che io immaginavo;19avevano solo con lui alcune questioni relative la loro particolare religione e riguardanti un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere ancora in vita.20Perplesso di fronte a simili controversie, gli chiesi se voleva andare a Gerusalemme ed esser giudicato là di queste cose.21Ma Paolo si appellò perché la sua causa fosse riservata al giudizio dell'imperatore, e così ordinai che fosse tenuto sotto custodia fino a quando potrò inviarlo a Cesare".22E Agrippa a Festo: "Vorrei anch'io ascoltare quell'uomo!". "Domani, rispose, lo potrai ascoltare".
23Il giorno dopo, Agrippa e Berenìce vennero con gran pompa ed entrarono nella sala dell'udienza, accompagnati dai tribuni e dai cittadini più in vista; per ordine di Festo fu fatto entrare anche Paolo.24Allora Festo disse: "Re Agrippa e cittadini tutti qui presenti con noi, voi avete davanti agli occhi colui sul conto del quale tutto il popolo dei Giudei si è appellato a me, in Gerusalemme e qui, per chiedere a gran voce che non resti più in vita.25Io però mi sono convinto che egli non ha commesso alcuna cosa meritevole di morte ed essendosi appellato all'imperatore ho deciso di farlo partire.26Ma sul suo conto non ho nulla di preciso da scrivere al sovrano; per questo l'ho condotto davanti a voi e soprattutto davanti a te, o re Agrippa, per avere, dopo questa udienza, qualcosa da scrivere.27Mi sembra assurdo infatti mandare un prigioniero, senza indicare le accuse che si muovono contro di lui".
Capitolo XXXV: In questa vita, nessuna certezza di andar esenti da tentazioni
Leggilo nella Biblioteca1. O figlio, giammai, in questa vita, sarai libero dall'inquietudine: finché avrai vita, avrai bisogno d'essere spiritualmente armato. Ti trovi tra nemici e vieni assalito da destra e da sinistra. Perciò, se non farai uso, da una parte e dall'altra, dello scudo della fermezza, non tarderai ad essere ferito. Di più, se non terrai il tuo animo fisso in me, con l'unico proposito di tutto soffrire per amor mio, non potrai reggere l'ardore della lotta e arrivare al premio dei beati. Tu devi virilmente passare oltre ogni cosa, e avere braccio valido contro ogni ostacolo: "la manna viene concessa al vittorioso" (Ap 2,17), mentre una miseria grande è lasciata a chi manca di ardore.
2. Se vai cercando la tua pace in questa vita, come potrai giungere alla pace eterna? Non a una piena di tranquillità, ma a una grande sofferenza ti devi preparare. Giacché la pace vera non la devi cercare in terra, ma nei cieli; non negli uomini, o nelle altre creature, ma soltanto in Dio. Tutto devi lietamente sopportare, per amore di Dio: fatiche e dolori; tentazioni e tormenti; angustie, miserie e malanni; ingiurie, biasimi e rimproveri; umiliazioni e sbigottimenti; ammonizioni e critiche sprezzanti. Cose, queste, che aiutano nella via della virtù e costituiscono una prova per chi si è posto al servizio di Cristo; cose, infine, che preparano la corona del cielo. Ché una eterna ricompensa io darò un travaglio di breve durata; e una gloria senza fine, per una umiliazione destinata a passare.
3. Forse tu credi di poter sempre avere le consolazioni spirituali a tuo piacimento? Non ne ebbero sempre neppure i miei santi; i quali soffrirono, invece, tante difficoltà e tentazioni di ogni genere e grandi desolazioni. Sennonché, con la virtù della sopportazione, essi si tennero sempre ritti, confidando più in Dio che in se stessi; consci che "le sofferenze del momento presente non sono nulla a confronto della conquista della gloria futura" (Rm 8,18). O vuoi tu avere subito quello che molti ottennero a stento, dopo tante lacrime e tante fatiche? "Aspetta il Signore, comportati da uomo" (Sal 26,14), e fatti forza; non disperare, non disertare. Disponiti, invece, fermamente, anima e corpo, per la gloria di Dio. Strabocchevole sarà la mia ricompensa. Io sarò con te in ogni tribolazione.
LIBRO SECONDO PIEDI METRICI
La Musica - Sant'Agostino
Leggilo nella BibliotecaPiedi semplici e compositi (1, 1 - 8, 15)
Fra grammatica e musica...
1. 1. M. - Stai dunque bene attento e ascolta alfine, per così dire, una nuova introduzione della nostra discussione. E prima di tutto dimmi se hai bene appreso la distinzione che i grammatici fanno fra sillabe brevi e lunghe, ovvero se preferisci, che tu l'abbia appresa o no, continuare la nostra ricerca come se fossimo del tutto inesperti in materia. Ci sarà così di guida solo il ragionamento e non ci vincoleranno l'inveterata usanza e la tradizione non esaminata criticamente.
D. - Mi stimola a preferire il secondo procedimento non solo la ragione, ma anche l'ignoranza di codeste sillabe. Perché non dovrei confessarlo?
M. - Ebbene, dimmi almeno se tu hai mai rilevato da te che nella nostra lingua alcune sillabe sono pronunciate rapidamente e non lungamente, altre invece più lentamente e lungamente.
D. - Debbo affermare che non sono stato insensibile a queste cose.
M. - Ora devi sapere che tutta quella disciplina, la quale in greco è detta grammatica e in latino letteratura, ha la funzione di difesa della tradizione, o da sola, come insegna la più sottile dimostrazione, o principalmente, come ammettono anche le menti ottuse. Per esempio, se dici cano o se per caso impieghi questa parola in un verso, in modo da allungare nella pronuncia la prima sillaba, ovvero la collochi nel verso là dove occorrerebbe una lunga, il grammatico, come custode della tradizione, ti riprenderà adducendo come unica ragione la necessità di dover abbreviare la sillaba, soltanto perché quelli che ci hanno preceduto, i cui libri restano e sono esaminati dai grammatici, ne facevano una breve e non una lunga. Nel caso dunque ha valore soltanto la tradizione. Al contrario la funzione della musica, da cui dipendono tanto la stessa razionale misura delle parole quanto il loro ritmo, esige soltanto che sia lunga o breve la sillaba, la quale si trova in questa o in quella sede, secondo la regola delle loro misure. Se tu metti la parola cano là dove bisogna mettere due lunghe e nella pronuncia allunghi la prima che è breve, la musica non se ne sdegna, poiché i tempi delle parole son giunti all'udito, quali convengono a quel ritmo. Ma il grammatico ti ordina di correggere e di mettere una parola, la cui prima sillaba deve esser lunga secondo l'autorità degli antichi, di cui egli ha in consegna gli scritti.
...diverso criterio di misurare le sillabe.
2. 2. Noi tuttavia abbiamo cominciato ad esaminare le regole della musica. Dunque, anche se ignori quale sillaba debba esser breve e quale lunga, possiamo non essere ostacolati da questa tua ignoranza e ritenere sufficiente il fatto di avere avvertito, come hai detto, che alcune sillabe sono più brevi, altre più lunghe. Pertanto ora ti chiedo se il suono di versi ti ha causato mediante l'udito un qualche diletto.
D. - Sì, molto spesso, al punto che quasi sempre ascolto i versi con diletto.
M. - Se dunque in un verso, che hai ascoltato con diletto, si allungano o abbreviano le sillabe là dove la regola del verso medesimo non richiede, è possibile che provi il medesimo diletto?
D. - Anzi non potrei ascoltarlo senza fastidio.
M. - Non v'è alcun dubbio dunque che nel suono, da cui tu riconosci di esser dilettato, è la misura dei ritmi che ti diletta e se essa è alterata, quel diletto non può offrirsi all'udito.
D. - È chiaro.
M. - Dimmi allora, per quanto attiene al suono del verso, quale differenza c'è se io dico: Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris 1, oppure: Qui primis ab oris.
D. - Quanto attiene alla misura, per me hanno il medesimo suono.
M. - Ma è avvenuto per la mia pronuncia, cioè con quel difetto che i grammatici chiamano barbarismo; infatti primus ha una lunga e una breve, invece primis due lunghe, ma io ho abbreviato l'ultima, così che il tuo udito non è stato offeso. Pertanto si deve più volte provare se senti, mentre io parlo, cosa sia nelle sillabe il " lungamente " e il " non lungamente ", in maniera che la nostra discussione possa continuare col dialogo, come l'abbiamo cominciata. Ripeterò dunque quello stesso verso, nel quale avevo commesso un barbarismo e allungherò, come vogliono i grammatici, quella sillaba che avevo pronunciato breve per non offendere il tuo udito. Dimmi se la misura di questo verso invade il tuo senso col medesimo diletto. Io pronuncerei: Arma virumque cano Troiae qui primis ab oris.
D. - Ora non posso negare di essere infastidito per non so qual difetto del suono.
M. - E non a torto. Sebbene non ci sia stato barbarismo, è stato commesso l'errore che tanto la grammatica quanto la musica biasimano, la grammatica, perché la parola primis, di cui l'ultima sillaba si deve pronunciare lunga, è stata messa dove occorreva una breve, la musica, soltanto perché una lunga qualunque si trova dove occorreva una breve e il tempo richiesto dalla misura ritmica non è stato reso. Perciò se distingui abbastanza bene ciò che vuole l'udito e ciò che esige la tradizione, ci rimane da esaminare perché l'udito stesso è a volte appagato e a volte urtato da suoni lunghi e brevi. È ciò che attiene appunto al " lungamente " e " non lungamente ". Ricordi, credo, che abbiamo già iniziato a sviluppare questa parte.
D. - Ho già ravvisato l'argomento e lo ricordo e aspetto il seguito con vivo interesse.
Numeri e sillabe brevi e lunghe.
3. 3. M. - Quale seguito, secondo te, se non iniziare a confrontare le sillabe e vedere quali rapporti numerici hanno fra di sé, come con tanto lunga dimostrazione è stato fatto per i movimenti? Il suono è infatti nel movimento. Ora le sillabe sono suono. Puoi forse negare qualcuno di questi concetti?
D. - No, di certo.
M. - Quando dunque si rapportano fra di loro le sillabe, si rapportano determinati movimenti, nei quali è possibile mediante la misura della durata ravvisare determinati numeri di tempo.
D. - Sì.
M. - Si può dunque rapportare una sillaba a se stessa? Se non la pensi diversamente, l'esser solo non ammette alcun confronto.
D. - La penso proprio così.
M. - E potresti dire che non si può rapportare una sillaba ad un'altra, ovvero una o due a due o tre, e così di seguito per più sillabe?
D. - Chi direbbe il contrario?
M. - Osserva anche che una qualsiasi sillaba breve, pronunciata senza allungamento e che cessa appena proferita, occupa tuttavia un certo spazio nel tempo ed ha una sua pur piccola durata.
D. - Riconosco la necessità di ciò che dici.
M. - Dimmi allora da dove iniziamo il numero.
D. - Naturalmente dall'uno.
M. - Ragionevolmente dunque gli antichi hanno chiamato un solo tempo questo, per così dire, minimo di spazio che occupa una sillaba breve. Si passa infatti dalla breve alla lunga.
D. - È vero.
M. - Pertanto devi avvertire anche quanto segue. Nei numeri il primo sviluppo è dall'uno al due; allo stesso modo nelle sillabe, in quanto si passa dalla breve alla lunga, la lunga deve avere un tempo doppio. Perciò se logicamente si chiama un tempo lo spazio che occupa una breve, logicamente si chiamano due tempi lo spazio che occupa una lunga.
D. - Logicamente certo, riconosco infatti che lo richiede la dimostrazione.
Piedi e numeri eguali e moltiplicati.
4. 4. M. - Ed ora esaminiamo i rapporti in se stessi. Chiedo quale rapporto, secondo te, ha una sillaba breve ad un'altra breve e come si chiamano questi movimenti tra loro rapportati. Se non mi sbaglio, ricordi che nel precedente discorso abbiamo dato dei nomi a quei movimenti che hanno tra di loro un rapporto numerico.
D. - Ricordo che li abbiamo chiamati eguali. Infatti hanno fra di sé il medesimo rapporto di tempo.
M. - Ma pensi che si debbano lasciare senza nome queste correlazioni di sillabe, per cui esse si corrispondono in maniera da avere fra di sé un rapporto numerico?
D. - Non credo.
M. - Sappi dunque che gli antichi hanno chiamato piede questa correlazione di suoni. Ma dobbiamo attentamente esaminare fino a qual punto la ragione consenta l'estensione del piede. Dimmi dunque per quale ragione una sillaba breve e una lunga sono in rapporto.
D. - Ritengo che tale correlazione derivi da quel genere di numeri che abbiamo chiamato moltiplicati poiché noto che il singolo viene rapportato al doppio, cioè il tempo di una sillaba breve è rapportato ai due tempi di una sillaba lunga.
M. - E se si mettono in un ordine tale da pronunciare prima la sillaba lunga e dopo la breve, non rimane forse la regola dei numeri moltiplicati poiché l'ordine è mutato? Infatti in quel piede si va dal singolo al doppio, in questo dal doppio al singolo.
D. - Sì.
M. - E in un piede di due lunghe non si rapportano due tempi con due tempi?
D. - È chiaro.
M. - E da quale regola deriva questo rapporto?
D. - Ovviamente dal rapporto dei numeri detti eguali.
Quattro piedi di due sillabe.
4. 5. M. - Dimmi allora quanti rapporti di piedi abbiamo esaminato nella serie in cui siamo giunti da due sillabe brevi a due lunghe.
D. - Quattro; infatti prima si è parlato di due brevi, poi di una breve e una lunga, in seguito di una lunga e una breve e infine di due lunghe.
M. - Ed è possibile averne più di quattro, quando si rapportano fra di loro due sillabe?
D. - Certamente no; infatti le sillabe hanno avuto questa misura, che una breve abbia un tempo e una lunga due, inoltre ogni sillaba è breve o lunga. Dunque in qual modo due sillabe possono congiungersi in rapporto in modo da formare un piede, se non unendo breve e breve, breve e lunga, lunga e breve, lunga e lunga?
M. - Dimmi anche quanti tempi ha il piede più piccolo di due sillabe e così pure il più grande.
D. - Il più piccolo due, il più grande quattro.
M. - E vedi che l'estensione può andare soltanto fino al numero quattro, sia nei piedi che nei tempi?
D. - Lo vedo chiaramente e ricordo la regola dell'estensione dei numeri e con grande diletto spirituale noto che quella proprietà è presente anche in questo caso.
M. - I piedi dunque sono formati da sillabe, cioè di movimenti di suoni distinti e, per così dire, articolati, le sillabe invece si distendono nel tempo. Non è necessario perciò, secondo te, che l'estensione del piede arrivi fino a quattro sillabe, come noti che giunge fino al numero quattro quella degli stessi piedi e tempi?
D. - Penso come tu stai dicendo, riconosco che ciò sembra proprio di una logica esatta e attendo la soluzione.
Piedi di tre sillabe con due brevi...
5. 6. M. - Ma prima di tutto esaminiamo dunque, come l'ordine stesso richiede, quanti possono essere i piedi di tre sillabe, come abbiamo scoperto che son quattro quelli di due sillabe.
D. - Va bene.
M. - Certo ricordi che abbiamo cominciato l'esame da una sillaba breve, cioè di un tempo, e che abbiamo ben compreso che così si deve procedere.
D. - Ricordo che abbiamo stabilito di non allontanarci da quella legge del calcolare, per cui cominciamo dall'uno che è il principio dei numeri.
M. - Nei piedi di due sillabe il primo è quello che è formato di due brevi. La logica ci suggeriva appunto che bisogna riunire un tempo a un tempo, prima che a due. Quale pensi dunque che debba essere il primo nei piedi di tre sillabe?
D. - Quale, se non quello che è composto di tre brevi?
M. - E di quanti tempi è?
D. - Di tre, ovviamente.
M. - In quale rapporto sono fra di loro queste parti? È necessario infatti che ogni piede, a causa della correlazione tra i numeri, abbia due parti che si rapportino in qualche modo fra di loro. Di ciò, ricordo, abbiamo trattato prima. Ma è possibile dividere questo piede di tre sillabe in due parti eguali?
D. - Assolutamente no.
M. - Allora come si divide?
D. - Noto soltanto questi modi, che la prima parte abbia una sillaba e la seconda due, oppure la prima due e la seconda una.
M. - Dimmi anche di quale regola dei numeri si tratta.
D. - Riconosco che è del genere dei moltiplicati.
...e loro ordine.
5. 7. M. - Ed ora esamina quante volte si possono combinare tre sillabe, di cui una è lunga e le altre brevi, cioè quanti piedi formano. Se lo trovi, dimmelo.
D. - Noto che si può formare un solo piede, il quale sia composto da una lunga e due brevi. Non ne vedo altro.
M. - Secondo te dunque ha una sola sillaba lunga su tre soltanto quel piede, in cui la lunga è messa per prima?
D. - Non potrei pensarlo poiché le due brevi possono esser messe per primo e la lunga in ultimo.
M. - Rifletti se esiste un terzo caso.
D. - Sì, evidentemente; infatti la lunga può esser collocata fra le due brevi.
M. - Esamina se esiste un quarto caso.
D - Assolutamente impossibile.
M. - Potresti rispondere ora quante volte possono combinarsi tre sillabe che hanno una lunga e due brevi, cioè quanti piedi formano?
D. - Sì, certo; si sono combinate tre volte ed hanno formato tre piedi.
M. - Ebbene puoi ora concludere da solo come debbono esser disposti questi tre piedi o devi esservi condotto un po' alla volta?
D. - Ma non approvi la disposizione, con cui ho scoperto le varie combinazioni? Ho osservato per primo una lunga e due brevi, quindi due brevi e una lunga ed infine una breve, una lunga e una breve.
M. - E a te non dispiacerebbe se si disponesse così da andare dal primo al terzo e dal terzo al secondo, e non piuttosto dal primo al secondo e poi al terzo?
D. - Mi dispiace certamente, ma dimmi, scusa, se hai notato nel nostro caso un tale errore.
M. - In queste tre combinazioni tu hai posto per primo il piede che comincia con una lunga. Hai notato appunto che la unità stessa della sillaba lunga, dato che qui se ne ha una sola, le conferisce la precedenza e che pertanto dovesse iniziare la disposizione, di modo che sia primo quel piede, in cui essa viene per prima. Ma allora avresti dovuto notare che è secondo il piede, in cui essa è seconda e terzo quello, in cui essa è terza. Pensi dunque di dover rimanere nella medesima opinione?
D. - No, anzi la condanno senza esitazione. Chi non ammetterebbe che questa è la disposizione migliore, anzi la vera?.
M. - Dimmi ora con quale regola dei numeri vengono divisi anche questi piedi e le loro parti rapportate.
D. - Osservo che il primo e l'ultimo sono divisi con la regola dell'uguaglianza, poiché quello può esser diviso in una lunga e due brevi e questo in due brevi e una lunga, di modo che le singole parti hanno un tempo doppio e perciò sono eguali. Nel secondo piede invece, giacché la lunga si trova in mezzo, se viene attribuita alla prima parte, il piede è diviso in tre tempi e un tempo e se viene attribuita alla seconda parte, è diviso in un tempo e tre tempi. Perciò nella divisione di questo piede vale la regola dei numeri moltiplicati.
Piedi di quattro sillabe in generale.
5. 8. M. - Vorrei che ora tu mi dicessi, da solo, se puoi, quali piedi ritieni di dover mettere dopo quelli che sono stati esaminati. Sono stati esaminati dapprima quattro piedi di due sillabe. La loro disposizione è stata derivata dalla disposizione dei numeri. Si è cominciato così dalle sillabe brevi. Quindi abbiamo iniziato ad esaminare i piedi più lunghi, cioè di tre sillabe, e poiché le cose ci erano facilitate dall'esame precedente, abbiamo cominciato da tre brevi. Non poteva venire di seguito che esaminare quante figure produceva una lunga con due brevi. E lo abbiamo esaminato; dopo il primo piede tre altri, come era necessario, ne sono stati disposti. Non potresti ormai da solo esaminare quelli che seguono, allo scopo di non tirar fuori ogni concetto con minute domande?
D. - Dici giusto; infatti chi non vedrebbe che vengono di seguito quelli in cui sono una breve e le altre lunghe? Alla breve, per il fatto che è una sola, in base al ragionamento precedente, vien data la precedenza. Primo sarà quindi quel piede, in cui essa è prima, secondo quello in cui è seconda, terzo quello in cui essa è terza e anche ultima.
M. - Tu vedi, credo, anche con quali regole questi piedi si dividono, in modo che le loro parti possano essere rapportate.
D. - Certamente. Il piede che si compone di una breve e due lunghe può esser diviso soltanto in modo che la prima parte, che contiene la breve e la lunga, abbia tre tempi, e la seconda i due tempi che si trovano in una lunga. Il terzo piede è simile al precedente, in quanto ammette una sola divisione, ne differisce in quanto quello si divide in tre e due tempi e questo invece in due e tre tempi. Infatti la sillaba lunga che viene per prima ha una durata di due tempi, restano una lunga e una breve, ciò che forma una durata di tre tempi. Il piede di mezzo, che ha la breve in mezzo, può avere una doppia divisione, poiché la breve può essere attribuita all'una o all'altra parte, può, cioè, dividersi in due e tre tempi o in tre e due tempi. Pertanto è la regola dei sesquati che configura questi tre piedi.
M. - Abbiamo già esaminato tutti i piedi di tre sillabe, o ne rimane un altro?
D. - Noto che ne rimane uno, quello che si compone di tre lunghe.
M. - Esamina dunque anche la sua divisione.
D. - Là sua divisione è una e due sillabe, oppure due e una, cioè i tempi sono due e quattro, oppure quattro e due. Dunque le parti di questo piede si rapportano secondo la regola dei numeri moltiplicati.
Piedi di tre sillabe con due e tre lunghe.
6. 9. M. - Ora esaminiamo con procedimento logico i piedi di quattro sillabe. Dì tu stesso quale di essi debba essere il primo e aggiungi anche la regola della sua divisione.
D. - Evidentemente è il piede di quattro brevi che si divide in due parti di due sillabe, aventi due e due tempi secondo la regola dei numeri eguali.
M. - Ci sei. Continua da solo ed analizza i rimanenti. Credo che non sia più necessario interrogarti in particolare. È sempre il medesimo procedimento di eliminare successivamente una per una le brevi e a loro posto mettere le lunghe, sino a che si giunga ad avere tutte lunghe, e man mano che si eliminano le brevi e si sostituiscono le lunghe, considerare quali combinazioni abbiano e quanti piedi producano. Rimane il criterio che a determinare la precedenza nella disposizione è la sillaba, sia essa lunga o breve, che rimane sola fra le altre. Ti sei esercitato precedentemente in queste operazioni. Ma dove sono due brevi e due lunghe, poiché il caso non si è mai presentato, quali, secondo te, debbono avere la precedenza?
D. - È chiaro anche questo dai casi precedenti. Infatti la sillaba breve, che ha un tempo, ha maggiore unità della lunga che ne ha due. Per questo all'inizio di ogni disposizione poniamo il piede che è formato da brevi.
Piedi di quattro e tre brevi...
6. 10. M. - Niente ti impedisce dunque di esaminare tutti questi piedi, mentre io ti ascolto e giudico senza interrogarti.
D. - Lo farò, se mi riesce. Dapprima si deve togliere una delle quattro brevi del primo piede e al suo posto in prima posizione porre una lunga in base al valore dell'unità. Questo piede ammette due divisioni, o in una lunga e tre brevi; oppure in una lunga e una breve e in due brevi, cioè in due e tre oppure in tre e due tempi. La lunga posta in seconda posizione forma un altro piede che può logicamente esser diviso in un unico modo, cioè in tre e due tempi, sicché la prima parte contenga una breve e una lunga e la seconda due brevi. Inoltre, se, si mette la lunga al terzo posto, si forma un piede che, come il precedente, può logicamente esser diviso soltanto in un modo, ma in maniera che la prima parte abbia due tempi di due brevi e la seconda parte tre tempi dati da una lunga e, una breve. La lunga messa per ultimo forma un quarto piede che si divide in due modi, come quello in cui la lunga è in principio. Può esser diviso infatti in due brevi e in una breve e una lunga, oppure in tre brevi e in una lunga, cioè in due e tre, oppure in tre e due tempi. Tutti questi quattro piedi, dove una lunga cambia di posizione con le tre brevi, hanno rapportate fra di sé le parti secondo la regola dei sesquati.
...con due brevi congiunte...
6. 11. Viene di seguito che eliminando due delle quattro brevi, le sostituiamo con due lunghe. Esaminiamo quante combinazioni di piedi possono produrre giacché brevi e lunghe sono a due e due. Vedo dunque che dapprima si devono porre due brevi e due lunghe poiché è più regolare l'inizio dalle brevi. Ora questo piede consente una duplice divisione. Si divide appunto in due e quattro oppure in quattro e due tempi, in maniera che le due brevi formano la prima parte e le due lunghe la seconda, oppure le due brevi e la lunga la prima parte e la lunga che rimane la seconda. Si ha un altro piede, quando le due brevi che abbiamo posto all'inizio del piede, come la disposizione richiede, sono collocate nel mezzo. La divisione di questo piede è in tre e tre tempi; infatti una lunga e una breve formano la prima parte e una breve e una lunga la seconda. Quando le brevi sono poste in ultimo, giacché questa figura viene di seguito, formano un piede che ha due divisioni: la prima parte ha due tempi con una lunga, la seconda quattro tempi con una lunga e due brevi, oppure la prima parte quattro tempi con due lunghe e la seconda due con due brevi. Le parti di questi tre piedi, per quanto attiene al primo e al terzo, si rapportano secondo la regola dei numeri moltiplicati; il mediano ha le parti eguali.
...con due brevi separate e...
6. 12. Successivamente devono esser separate le due brevi che finora abbiamo tenuto unite. La separazione minore e da cui si deve cominciare è quella in cui vi sia tra loro una sillaba lunga, la più grande quella in cui ve ne siano due. Quando una sola lunga le separa, essa lo fa in duplice maniera, si producono, cioè, due piedi. La prima maniera è che vi sia all'inizio una breve, quindi una lunga, un'altra breve e la lunga che rimane. L'altra maniera è che le brevi sono in seconda ed ultima posizione, le lunghe nella prima e nella terza; si avranno così una lunga e una breve, una lunga e una breve. La più grande separazione si ha quando le due lunghe sono nel mezzo e delle due brevi una al primo posto, l'altra all'ultimo. Questi tre piedi, in cui le brevi sono separate, si dividono in tre e tre tempi, cioè il primo in breve e lunga, breve e lunga, il secondo in lunga e breve, lunga e breve, il terzo in breve e lunga, lunga e breve. Così disponendo variamente tra di loro, quanto è possibile, due sillabe brevi e due lunghe, si formano sei piedi.
...con una e nessuna breve.
6. 13. Rimane ora da togliere tre delle quattro brevi e sostituirle con tre lunghe. Resterà una sola breve e poiché una sola breve posta all'inizio e seguita da tre lunghe forma un piede, posta in seconda posizione ne forma un secondo, in terza un terzo, in quarta un quarto. Di questi quattro piedi i primi due si dividono in tre e quattro tempi, gli altri due in quattro e tre, ma tutti hanno le loro parti rapportate secondo la regola dei sesquati. Infatti la prima parte del primo piede è una breve e una lunga con durata di tre tempi, la seconda due lunghe con quattro tempi. La prima parte del secondo piede è una lunga e una breve, dunque tre tempi, la seconda due lunghe, per quattro tempi. Il terzo ha come prima parte due lunghe, per quattro tempi ed una breve e una lunga, cioè tre tempi, occupano la sua seconda parte. Due lunghe formano similmente la prima parte del quarto piede, di quattro tempi e una lunga e una breve la seconda, con tre tempi. Il piede che rimane è di quattro sillabe, da cui si eliminano tutte le brevi sicché viene ad esser formato di quattro lunghe. Esso si divide in due e due lunghe in base ai numeri eguali, cioè in quattro e quattro tempi. Ecco lo svolgimento che hai voluto da me. Ora continua tu la ricerca mediante il dialogo.
Il quattro limite nell'estensione del piede.
7. 14. M. - Sì. Hai osservato però quanto vale anche per i piedi lo sviluppo fino al quattro che è stato rilevato nei numeri stessi?.
D. - Sì, riconosco negli uni e negli altri la medesima legge di sviluppo.
M. - E se i piedi sono stati formati da un contesto di sillabe, non si deve ritenere anche che da un contesto di piedi possa esser formato un qualche cosa che non ha più né il nome di sillaba né quello di piede?
D. - Certamente, a mio avviso.
M. - E che cosa credi che sia?
D. - Il verso penso.
M. - Ma poniamo che si vogliano unire indefinitamente senza imporre loro una determinata misura, salvo che non intervenga o la mancanza della voce, ovvero l'interruzione dovuta ad un evento, o la decisione di passare ad altro. Sarà da te considerato verso un contesto che abbia venti, trenta o cento o anche più piedi, come volendo si potrebbe fare se si uniscono in una durata in qualsivoglia modo lunga?
D. - Certamente no. Non darò il nome di verso a piedi qualsiasi che noterò uniti ad altri piedi qualsiasi o a molti piedi riuniti insieme in una serie indefinita, ma potrò mediante una qualche disciplina comprendere il genere e il numero dei piedi, cioè quali e quanti piedi formano il verso e in base ad essa giudicare se un verso ha urtato il mio udito.
M. - Ma questa disciplina, qualunque essa sia, certamente non ha stabilito a capriccio la regola e la misura ai versi, ma in base a un qualche criterio.
D. - Se è disciplina, non doveva o poteva essere altrimenti.
M. - Allora, se vuoi esaminiamo e cerchiamo di comprendere questo criterio. Se infatti teniamo presente la sola autorità, sarà verso quello che un non so quale Asclepiade o Archiloco, cioè antichi poeti, han voluto che fosse chiamato verso, ovvero la poetessa Saffo e altri, da cui prendono il nome certi generi di versi, poiché essi per primi li hanno configurati e composti. Si dice appunto un verso asclepiadeo, archilocheo, saffico e i Greci hanno applicato mille altri nomi di autori a versi di diverso genere. Pertanto non irrazionalmente si può ritenere che se uno disporrà come vuole, quanti e quali piedi vuole, per il solo motivo che nessuno prima di lui ha fissato ai versi quella determinata misura, con ogni ragione potrà esser chiamato creatore e propagatore di un nuovo genere di versi. Se questa libertà gli viene rifiutata, c'è da chiedersi con legittimo rammarico quali meriti infine quei poeti avessero, se senza seguire un criterio, han fatto chiamare e considerare verso un contesto di piedi, composto da loro a capriccio. O sei d'altro avviso?
D. - È certamente come dici e sono d'accordo che il verso è generato da un criterio razionale e non dall'autorità. Studiamolo, ti prego senza indugio.
Elenco dei 28 piedi.
8. 15. M. - Esaminiamo dunque quali piedi debbono unirsi tra di loro quindi che cosa nasce da queste combinazioni giacché non si forma il verso soltanto e infine tratteremo tutto l'argomento del verso. Ma, secondo te, si potrebbe utilmente ottenere questi intenti, se non conosciamo i nomi dei piedi. In verità sono stati da noi distribuiti con tale disposizione che possono esser nominati in base alla loro stessa disposizione. Si potrebbe quindi dire: primo, secondo, terzo e così sia per i rimanenti. Ma poiché non si devono disprezzare le vecchie denominazioni e non ci si deve allontanare con leggerezza dalla consuetudine, salvo quella che vada contro ragione, si devono usare i nomi che i Greci hanno dato ai piedi e che i nostri usano già in luogo dei nomi latini. Usiamoli dunque senza perderci in una ricerca etimologica. Essa comporterebbe molte parole e scarsa utilità. Infatti adopri utilmente nella conversazione le parole pane, albero, pietra, anche se non sai perché sono stati chiamati così.
D. - La intendo proprio come tu dici.
M. - Il primo piede si chiama pirrichio con due brevi, di due tempi, come fuga.
Il secondo, giambo, con una breve e una lunga, come parens, di tre tempi.
Il terzo, trocheo o coreo, con una lunga e una breve, come meta, di tre tempi.
Il quarto, spondeo, con due lunghe, come aestas, di quattro tempi.
Il quinto, tribraco, con tre brevi, come macula, di tre tempi.
Il sesto, dattilo, con una lunga e due brevi, come Maenalus, di quattro tempi.
Il settimo, anfibraco, con una breve, una lunga e una breve, come carina, di quattro tempi.
L'ottavo, anapesto, con due brevi e una lunga, come Erato, di quattro tempi.
Il nono, bacchio, con una breve e due lunghe, come Achates, di cinque tempi.
Il decimo, cretico o anfimacro, con una lunga, una breve e una lunga, come insulae, di cinque tempi.
L'undicesimo, palimbacchio, con due lunghe e una breve, come natura, di cinque tempi.
Il dodicesimo, molosso, con tre lunghe, come Aeneas, di sei tempi.
Il tredicesimo, proceleusmatico, con quattro brevi, come avicula, di quattro tempi.
Il quattordicesimo, peone I, con la prima lunga e tre brevi, come legitimus, di cinque tempi.
Il quindicesimo, peone II, con la seconda lunga e tre brevi, come colonia, di cinque tempi.
Il sedicesimo, peone III, con la terza lunga e tre brevi, come Menedemus, di cinque tempi.
Il diciassettesimo, peone IV, con la quarta lunga e tre brevi, come celeritas, di cinque tempi.
Il diciottesimo, ionico minore, con due brevi e due lunghe, come Diomedes, di sei tempi.
Il diciannovesimo, coriambo, con una lunga due brevi e una lunga come armipotens, di sei tempi.
Il ventesimo, ionico maggiore, con due lunghe e due brevi, come iunonius, di sei tempi.
Il ventunesimo, digiambo, con una breve, una lunga, una breve e una lunga, come propinquitas, di sei tempi.
Il ventiduesimo, dicoreo o ditrocheo, con una lunga, una breve, una lunga e una breve, come cantilena, di sei tempi.
Il ventitreesimo, antispasto, con una breve, due lunghe e una breve, come saloninus, di sei tempi.
Il ventiquattresimo, epitrito I, con una breve e tre lunghe, come sacerdotes, di sette tempi.
Il venticinquesimo, epitrito II, con la seconda breve e tre lunghe, come conditores, di sette tempi.
Il ventiseiesimo, epitrito III, con la terza breve e tre lunghe, come Demosthenes, di sette tempi.
Il ventisettesimo, epitrito IV, con la quarta breve e tre lunghe, come Fescenninus, di sette tempi.
Il ventottesimo, dispondeo, con quattro lunghe, come oratores, di otto tempi.
Piedi misti (9, 16 - 14, 26)
Uguaglianza nella mistione dei piedi.
9. 16. D. - Posseggo queste nozioni. Ora spiega quali piedi si congiungono fra di loro.
M. - Lo potrai intendere con facilità se intendi che l'uguaglianza e la somiglianza prevalgono sulla disuguaglianza e la dissomiglianza.
D. - Ritengo che non vi sia alcuno che non la intenda così.
M. - Bisogna dunque seguire questa regola soprattutto nella combinazione dei piedi e non allontanarsene, se non v'è una validissima ragione.
D. - Son d'accordo.
M. - Non dovrai dunque avere incertezze nell'unire fra loro pirrichi con pirrichi, giambi e trochei, che son detti anche corei, e spondei e così senza esitazione potrai unire gli altri della medesima specie. V'è infatti somma eguaglianza, quando piedi del medesimo nome e genere si susseguono. Non ti sembra?
D. - Non mi può sembrar diversamente.
M. - E non ammetti che alcuni piedi debbano essere uniti ad altri di differente genere, rispettando la regola dell'uguaglianza? Niente infatti è più piacevole per l'udito che essere dilettato dalla varietà, senza esser privato dell'uguaglianza.
D. - Sono d'accordo.
M. - E pensi che possano ritenersi eguali piedi differenti che non siano della medesima misura?
D. - No, secondo me.
M. - E sono da ritenersi della medesima misura soltanto quelli che occupano il medesimo tempo?
D. - Certamente.
M. - Allora riunirai, senza urtare l'udito, quei piedi che riconoscerai di tempi eguali.
D. - Ne consegue, penso.
Singolarità dell'anfibraco.
10. 17. M. - Bene. Ma l'argomento implica ancora qualche difficoltà. Dunque, sebbene l'anfibraco sia un piede di quattro tempi, alcuni ritengono che non lo si possa unire né ai dattili, né agli anapesti, né agli spondei, né ai proceleusmatici, quantunque questi siano tutti piedi di quattro tempi. E non solo ritengono che esso non si possa unire agli altri, ma pensano che il ritmo non proceda normalmente e per così dire legittimamente, se solo anfibraci sono ripetuti e riuniti tra di loro. È opportuno che esaminiamo la loro opinione per accertare se abbia una parte di ragione che converrebbe seguire e approvare.
D. - Desidero vivamente udire gli argomenti che adducono. Mi sorprende non poco il fatto che essendovi ventotto piedi scoperti dalla ragione, questo solo sia escluso da una successione ritmica, benché abbia il medesimo tempo del dattilo e degli altri eguali, che tu hai enumerato e di cui nessuno vieta l'unione.
M. - È necessario, perché tu possa comprendere, considerare come gli altri piedi si rapportano nelle loro parti. Così noterai che si verifica, in questo piede soltanto, una caratteristica singolare sicché non a capriccio si è ritenuto che non si deve usare per i ritmi.
Arsi tesi e percussione...
10. 18. Ma per il nostro esame ci è opportuno ricordare questi due concetti, l'arsi e la tesi. Nel segnare la percussione infatti, dato che la mano si alza e si abbassa, l'arsi si aggiudica una parte del piede, la tesi l'altra. Chiamo parti dei piedi quelle di cui dianzi abbiamo sufficientemente parlato, quando li abbiamo enumerati per ordine. Se sei d'accordo, comincia ad esaminare brevemente le misure delle parti in tutti i piedi. Ti accorgerai così che cosa di singolare è accaduto al piede in esame.
D. - Osservo per primo che il pirrichio ha eguale lunghezza in levare e in battere. Anche lo spondeo, il dattilo, l'anapesto, il proceleusmatico, il coriambo, il digiambo, il dicoreo, l'antispasto, il dispondeo si dividono ugualmente perché la percussione in essi segna eguale durata al battere che al levare. In secondo luogo noto che il giambo ha il rapporto di uno a due, e ritrovo il medesimo rapporto nel coreo, nel tribraco, nel molosso e in entrambi gli ionici. Invece il levare e il battere dell'anfibraco, giacché essi, nel raffrontarli a piedi di egual misura, successivamente mi si presentano, si trovano nel rapporto di uno a tre. Ma andando avanti non trovo proprio un altro piede, le cui parti si rapportino con lunghezza così diversa. Infatti, quando considero i piedi composti di una breve e due lunghe, cioè il bacchio, il cretico, il palimbacchio, noto che l'arsi e la tesi avviene in essi secondo la regola dei sesquati di due terzi. Il medesimo rapporto esiste in quei quattro piedi che sono formati di una lunga e tre brevi che sono denominati i quattro peoni secondo il numero ordinale. Restano i quattro epitriti, così chiamati ugualmente secondo il numero ordinale, ma il loro levare e battere sono rapportati secondo il sesquato di tre quarti.
L'anfibraco è nel rapporto di uno a tre.
10. 19. M. - Non ti sembra dunque che si abbia un motivo ragionevole di escludere questo solo piede dalla serie ritmica dei suoni, dato che esso soltanto presenta una differenza notevole fra le sue parti, al punto che una parte è semplice e l'altra è tripla? Una certa somiglianza delle parti è tanto più da apprezzarsi quanto più è vicina alla eguaglianza. E dunque, quando si ha lo sviluppo dall'uno al quattro secondo la legge dei numeri, niente è più simile a sé che se stesso. Pertanto prima di tutto si deve apprezzare nei piedi che le parti abbiano la medesima misura fra di loro, poi ha la precedenza l'unione del semplice al doppio nell'uno e nel due, viene quindi l'unione sesquata di due terzi nel due e nel tre e infine la sesquata di tre quarti col tre e il quattro. Invece il rapporto dell'uno al tre rientra certamente nella regola dei numeri moltiplicati, ma non ha una propria conformità nella disposizione. Infatti nella numerazione non si va dall'uno al tre, ma si passa dall'uno al tre attraverso il due. Questa è la ragione, per cui si ritiene di dovere escludere l'anfibraco dalla combinazione in esame. Se tu la accetti, esaminiamo gli altri temi.
D. - Certo che l'accetto; ha piena evidenza e certezza.
Difficoltà per ogni ionici, il molosso e i peoni.
11. 20. M. - Dunque giacché l'accetti, in qualunque modo i piedi si rapportino nelle sillabe, purché abbiano la medesima durata nel tempo, possono essere mescolati senza nuocere alla uguaglianza, eccetto soltanto l'anfribraco. Pertanto ci si può chiedere giustamente se si possano convenientemente unire piedi che, pur avendo tempo eguale, non concordino nella percussione che rapporta fra di loro le parti del piede con l'arsi e la tesi. Infatti il dattilo, l'anapesto e lo spondeo non solo hanno tempi eguali ma anche eguali percussioni, giacché in tutti l'arsi e la tesi hanno il medesimo tempo. Dunque essi si uniscono fra di loro più regolarmente di quanto i due ionici con gli altri piedi di sei tempi. Ambedue gli ionici hanno appunto una percussione che va dal semplice al doppio, rapportando cioè due tempi a quattro. Per questo aspetto con essi concorda il molosso. Gli altri di sei tempi sono nel rapporto di altrettanto poiché in essi si dànno tre tempi all'arsi e tre alla tesi. Pertanto, quantunque tutti si dividano regolarmente, e cioè i primi tre secondo il rapporto di uno a due e gli altri quattro sono divisi in parti eguali, tuttavia, poiché questa mescolanza rende ineguale la percussione, non so se si debba rifiutare. Tu che ne pensi?
D. - Propendo per questa idea. Infatti non so come una percussione irregolare non possa non offendere l'udito e se l'offende può avvenire soltanto per difetto di questa mescolanza.
Mescolanza di ionici e dicorei e...
11. 21. M. - Or sappi che gli antichi hanno ritenuto di poter mescolare questi piedi e hanno composto versi mediante la loro mescolanza. Ma affinché non sembri che ti voglia convincere con l'autorità, ascolta qualcuno di questi versi e senti se offende il tuo udito. E se non solo non ti urterà, ma piuttosto ti diletterà, non vi
sarà alcuna ragione di rifiutare la loro mescolanza. Sono questi i versi che voglio farti ascoltare:
At consona/ quae sunt, nisi/ vocalibus/ aptes
Pars dimidi/ um vocis o/ pus proferet/ ex se
Pars muta so/ni comprimet/ ora moli/entum
Illis sonus/ obscurior/ impediti/orque
Utcumque ta/men promitur/ ore semi/cluso 2.
Penso che siano sufficienti perché tu possa intendere ciò che voglio. Dimmi, ti prego, se questo ritmo non ha dilettato il tuo udito.
D. - Mi pare anzi che suoni con un ritmo sommamente dilettevole.
M. - Considera dunque i piedi. Troverai nei cinque versi che i primi due sono formati di soli ionici e gli ultimi tre contengono anche un dicoreo, sebbene tutti dilettano interamente il nostro senso per la loro comune eguaglianza.
D. - L'avevo già notato e con più facilità data la tua pronuncia.
M. - Perché allora esitiamo ad accettare l'opinione degli antichi, convinti non dalla loro autorità ma dalla stessa ragione? Essi ritengono appunto che possano unirsi normalmente piedi che hanno egual durata, purché abbiano percussione regolare, anche se diversa.
D. - Mi rimetto interamente giacché quel ritmo non mi permette di contraddire.
...di ionici e digiambi.
12. 22. M. - Ascolta ancora questi versi:
Volo tandem/ tibi parcas / labor est in/ chartis
Et apertum i/re per auras/ animum per/mittas
Placet hoc nam/ sapienter / remittere in/terdum
Aciem re/ bus agendis/ decenter in/tentam.
D. - Anche questo basta.
M. - Soprattutto perché son versi rozzi che ho composto estemporaneamente per l'occorrenza. Comunque anche su questi quattro vorrei il giudizio del tuo udito.
D. - Che altro potrei dirti anche per essi, se non che sono stati pronunciati con ritmica proporzione?
M. - Senti che i primi due sono formati di ionici minori e gli ultimi due contengono anche un digiambo?
D. - L'ho notato perché l'hai fatto risaltare nel pronunciare.
M. - Non ti sorprende che nei versi di Terenziano il dicoreo sia unito allo ionico detto maggiore e che nei miei invece un digiambo si unisca allo ionico detto minore? Pensi che non abbia importanza?
D. - Secondo me, sì, e credo di vederne la ragione. Lo ionico maggiore, che comincia con due lunghe, esige di esser unito con un piede, cioè il dicoreo, che comincia con una lunga, il digiambo invece, che comincia con una breve, si mescola più proporzionatamente allo ionico minore che comincia con due brevi.
Mescolanza non aritmica di vari piedi di sei tempi.
12. 23. M. - Giusto. Bisogna anche sapere che tale proporzione, quando non si ha eguaglianza di tempi, deve significare qualche cosa nella mescolanza dei piedi, e non che significhi molto, ma pur sempre qualche cosa. Infatti puoi intendere, dopo avere interrogato il tuo udito, che in luogo di un piede di sei tempi, si può porre un altro qualsiasi piede di sei tempi. Dapprima prendiamo l'esempio del molosso virtutes, dello ionico minore moderatas, del coriambo percipies, dello ionico maggiore concedere, del digiambo benignitas, del dicoreo civitasque, dell'antispasto volet iusta.
D. - Li tengo presenti.
M. - Pronuncia in un contesto tutte queste parole o piuttosto ascoltale mentre le pronuncio io, affinché il tuo udito sia più disposto nel giudicare. Ed appunto per farti sentir bene, senza offendere il tuo udito, l'andatura eguale del ritmo, ripeterò per tre volte tutta la frase, e non dubito che basterà: Virtutes moderatas percipies, concedere benignitas civitasque volet iusta; virtutes moderatas percipies, concedere benignitas civitasque volet iusta; virtutes moderatas percipies, concedere benignitas civitasque volet iusta. Forse qualche cosa in questa serie di piedi ha offeso il tuo udito per mancanza di uguaglianza e armonia?
D. - No, certo.
M. - Ne hai avuto diletto? Ma inutile chiederlo perché in materia consegue che genera diletto tutto ciò che non urta.
D. - Non posso dire di avere altra impressione dalla tua.
M. - Ammetti dunque che tutti questi piedi di sei tempi possono normalmente mescolarsi in un contesto?
D. - Sì.
Altra mescolanza non aritmica dei medesimi.
13. 24. M. - Qualcuno potrebbe obiettare che questi piedi, i quali rapportati con questa disposizione hanno potuto esser pronunciati tanto ritmicamente, non potrebbero esserlo se la disposizione fosse variata. Non temi questo?
D. - La variazione comporta certamente qualche cosa, ma non è difficile farne l'esperimento.
M. - Fallo a tempo libero. Troverai che il tuo udito è dilettato da una multiforme varietà e da una unitaria eguaglianza.
D. - Lo farò, quantunque con tale esperimento non v'è alcuno, il quale non preveda che necessariamente si otterrà quell'effetto.
M. - Hai ragione. Ma poiché è utile al nostro scopo, ripeterò la frase con la percussione. Così potrai giudicare se v'è qualche aritmia e insieme fare l'esperimento sul cambiamento della disposizione che, come abbiamo previsto, non comporterà alcuna aritmia. Ora cambia la disposizione e dopo avere collocato, a tuo piacimento, i medesimi piedi diversamente da come sono stati collocati da me, permettimi di declamarli con la percussione.
D. - Voglio che primo sia lo ionico minore, secondo lo ionico maggiore, terzo il coriambo, quarto il digiambo, quinto l'antispasto, sesto il dicoreo, settimo il molosso.
M. - Volgi dunque l'udito al suono e la vista alla battuta della percussione perché bisogna non che sia udita ma veduta la mano che batte la percussione e avvertita attentamente la durata dell'arsi e della tesi.
D. - Sono interamente attento nei limiti della mia capacità.
M. - Ascolta dunque la tua disposizione con la percussione: Moderatas, concedere, percipies, benignitas, volet iusta, civitasque, virtutes.
D. - Mi accorgo che la percussione non è aritmica e che il levare ha la medesima durata del battere, ma sono strabiliato dal fatto che abbiano potuto avere tale percussione piedi che, come i due ionici e il molosso, sono divisi nel rapporto di uno a due.
M. - Cosa avviene dunque, secondo te, dato che in essi sono dati tre tempi al levare e tre al battere?
D. - Secondo me, non avviene altro se non che la sillaba lunga, la quale nello ionico maggiore e nel molosso è seconda e nello ionico minore terza, è divisa dalla percussione stessa. Poiché essa ha due tempi, ne dà uno alla prima parte, l'altro alla seconda e cosi l'arsi e la tesi hanno ciascuno tre tempi.
L'anfibraco è inconciliabile al ritmo.
13. 25. M. - Non si può dire o pensare altro. Ma perché l'anfibraco, che abbiamo del tutto escluso dalla ritmicità, non può a questa condizione esser mescolato allo spondeo, al dattilo e all'anapesto, oppure ripetuto non può da sé produrre una certa ritmicità? Infatti può alla stessa maniera esser divisa dalla percussione la sillaba lunga o mediana di questo piede, in modo che dando a ciascuno degli estremi una parte, il levare e il battere non si aggiudichino uno e tre tempi, ma due tempi ciascuno. Hai qualche cosa da opporre?
D. - Non ho altro da dire se non che anche l'anfibraco deve essere incluso.
M. - Pronunziamo dunque con la percussione una frase composta di piedi di quattro tempi in cui sia inserito anche un anfibraco ed in egual modo esaminiamo con l'udito se qualche aritmia infastidisce. Ascolta dunque questo ritmo ripetuto tre volte con la percussione per facilitare il giudizio: Sumas / optima, / facias / honesta; Sumas / optima, / facias honesta; / sumas / optima, / facias / honesta.
D. - Ti supplico, risparmia il mio udito perché, anche senza la percussione, la sequenza di questi piedi è violentemente aritmica nell'anfibraco.
M. - Quale ragione si deve supporre perché non avviene in esso quel che avviene nel molosso e negli ionici? Forse perché in essi le parti estreme sono eguali a quella di mezzo? Fra i numeri pari appunto, il primo che si presenta con la parte di mezzo eguale agli estremi è il sei. Dunque, poiché i piedi di sei tempi hanno due tempi nel mezzo e due per ogni lato, facilmente in certo modo quello di mezzo si estende verso gli estremi, cui è congiunto dall'eguaglianza. Ciò non accade invece nell'anfibraco, in cui le parti laterali differiscono dalla mediana poiché questa ha due tempi e quelle uno. Si aggiunge che negli ionici e nel molosso, dato che il medio è assorbito dagli estremi, si hanno tre tempi per ciascuno, nei quali a loro volta gli estremi sono eguali al medio anche esso eguale. E ciò manca all'anfibraco.
D. - È proprio come tu dici e non senza ragione l'anfibraco in quella serie offende l'udito, mentre gli altri lo dilettano.
Combinazione di piedi sesquati.
14. 26. M. - Ora tu stesso comincia dal pirrichio ed esponi quanto più brevemente ti è possibile, secondo le ragioni sopra dette, quali piedi bisogna mescolare con altri.
D. - Al pirrichio nessuno perché non se ne trova un altro del medesimo tempo. Il coreo potrebbe congiungersi col giambo, ma è da evitarsi per l'ineguaglianza della percussione giacché il giambo parte da un tempo, il coreo da due. Pertanto il tribraco può adattarsi ad ambedue. Noto che lo spondeo, il dattilo, l'anapesto e il proceleusmatico sono tra loro affini e possono esser combinati; concordano appunto fra di loro non soltanto per la durata, ma anche per la percussione. L'anfibraco, già escluso, per nessuna ragione può essere riammesso perché l'eguaglianza dei tempi non ha potuto aiutarlo a causa della discordanza tra la divisione e la percussione. Al bacchio possono essere uniti il cretico e il peone I, II e IV; al palimbacchio invece il medesimo cretico e il peone I, III e IV che concordano evidentemente nei tempi e nella percussione. Dunque al cretico e al peone I e IV, giacché la loro divisione può cominciare con due o tre tempi, possono essere uniti, senza alcuna aritmia, tutti gli altri piedi di cinque tempi. Abbiamo trattato abbastanza che si ha mirabile accordo dei piedi che sono formati di sei tempi. Difatti non entrano in disaccordo con gli altri nella cadenza neanche quelli che la condizione delle sillabe costringe a dividere in modo diverso, tanta forza ha l'eguaglianza degli estremi col medio. Per ciò che riguarda i quattro piedi di sette tempi che sono chiamati epitriti, trovo che il primo e il secondo possono unirsi tra loro poiché la divisione d'entrambi comincia da tre tempi e perciò non discordano né per durata né per percussione. A loro volta il terzo e il quarto si congiungono ritmicamente tra loro giacché tutti e due nella divisione cominciano da quattro tempi e perciò hanno la medesima misura e cadenza. Resta il piede di otto tempi, chiamato dispondeo che, come il pirrichio, non ha eguali. Hai ascoltato da me ciò che hai chiesto e son stato capace di fare. Il resto a te.
M. - Lo farò. Ma dopo un dialogo così lungo riposiamoci un po' e ricordiamo i versi estemporanei che la stanchezza dianzi mi ha suggerito:
Voglio alfine che ti risparmi; lo studio affatica,
e lascia che lo spirito voli libero nello spazio.
Piace, ed è da saggi, distendere l'attenzione
applicata alle attività liberali.
D. - Certo che piace ed io obbedisco volentieri.
1 - VIRGILIO, Aen. 1, 1.
2 - TERENZIANO MAURO, De litteris 89-93: G.L. 6, 328.
2 - Maria santissima assiste san Giacomo nel suo glorioso martirio e porta la sua anima in cielo.
La mistica Città di Dio - Libro ottavo - Suor Maria d'Agreda
Leggilo nella Biblioteca392. Il nostro grande apostolo san Giacomo arrivò a Gerusalemme quando tutti i suoi abitanti insorgevano contro i seguaci del Redentore. Il drago e i suoi ministri avevano occultamente suscitato tale protesta, infettando più violentemente con il loro velenoso fiato i cuori dei perfidi giudei e accendendo in essi lo zelo per la loro legge e la gelosia della lieta novella proclamata da san Paolo, il quale, pur non essendosi trattenuto più di quindici giorni, aveva convertito molti in forza della virtù divina che agiva in lui, lasciando tutti colmi di stupore e di meraviglia. Quegli increduli, che si erano risollevati alla notizia della sua partenza, ben presto tornarono ad alterarsi per il sopraggiungere del nuovo predicatore, ugualmente ripieno di sapienza e di ardore per il nome di Gesù; Lucifero, che non ignorava la sua venuta, aizzava ed aumentava lo sdegno dei sommi sacerdoti e degli scribi, facendo in modo che fosse la causa di un ulteriore veleno che li turbasse e irritasse. Egli entrò in città annunciando con profondo fervore il Signore crocifisso e la sua morte e risurrezione, e in breve tempo portò alla fede alcuni uomini, tra i quali uno chiamato Ermogene e un altro chiamato Fileto, entrambi stregoni che avevano stretto un patto con satana: il primo era più dotto nella magia, mentre il secondo era suo discepolo. Di ambedue vollero servirsi i suoi nemici per piegarlo con una disputa o, se avessero fallito, per togliergli la vita con qualcuno dei loro malefici.
393. I demoni architettarono questa efferatezza per mezzo dei giudei, strumenti della loro iniquità, poiché non potevano avvicinarsi di persona, schiacciati dalla grazia che sentivano in lui. Al momento della controversia, Fileto fu il primo ad affrontare l'Apostolo, perché, se non fosse riuscito a convincerlo, sarebbe subentrato in sua vece il più esperto Ermogene. Propose i suoi sofisticati e falsi argomenti, ma il suo rivale li dileguò come i raggi del sole dissipano le tenebre, parlando con tanta luce ed efficacia che dovette arrendersi e aderire al Vangelo, di cui divenne da allora difensore; temendo però il suo maestro, supplicò il santo di proteggerlo da lui e dalle arti diaboliche con le quali lo avrebbe perseguitato per distruggerlo. Egli gli diede un piccolo panno che aveva ricevuto dalle mani di Maria beatissima e con tale reliquia gli permise di resistere ai sortilegi per diversi giorni, finché Ermogene stesso non iniziò la disputa.
394. Questi non poté esimersene, benché ne avesse timore, perché si era impegnato a discutere con lui per sconfiggerlo. Si preoccupò così di rafforzare le proprie tesi errate con ragionamenti più sottili rispetto a quelli addotti dal suo allievo, ma i suoi sforzi risultarono vani contro il potere e la scienza del cielo, che nel suo avversario erano come un torrente impetuoso. Fu superato e obbligato a confessare Cristo e i suoi misteri, come era accaduto a Fileto, e a causa di ciò i diavoli si adirarono e lo maltrattarono per il dominio che avevano avuto su di lui. Per respingerli, avendo appreso che il suo compagno se ne era liberato con quanto gli era stato regalato, chiese il medesimo favore e san Giacomo gli donò il bastone che usava; con esso li mise in fuga perché non l'affliggessero e neppure gli si accostassero.
395. Il futuro martire, nell'operare queste e altre conversioni, fu sostenuto dalle preghiere, dai gemiti e dai sospiri che la Madre offriva dal suo oratorio in Efeso, dove, come si è già detto, conosceva per visione tutto quello che gli apostoli e i credenti compivano e aveva particolare cura di lui poiché era prossimo al supplizio. I due perseverarono per qualche tempo nella fede, ma poi l'abbandonarono fino a perderla completamente in Asia, come consta dalla seconda lettera a Timoteo, in cui san Paolo lo informa che Bigello o Fileto e Ermogene si sono allontanati dalla verità. Sebbene il seme della parola fosse giunto a spuntare nei loro cuori, non affondò radici per opporsi alle tentazioni del principe del male, che avevano servito a lungo e con il quale avevano grande familiarità. Restarono sempre in loro i segni malvagi e le radici perverse dei vizi, che tornarono a prevalere facendoli precipitare.
396. Quando i giudei videro frustrata la loro vana fiducia, concepirono rinnovato sdegno contro Giacomo e decisero di eliminarlo condannandolo a morte come bramavano. Con il denaro si accattivarono Democrito e Lisia, centurioni della milizia romana, e segretamente concertarono che costoro l'avrebbero catturato con le persone che avevano a disposizione e per dissimulare il tradimento avrebbero finto un tumulto o una rissa in uno dei giorni e dei luoghi in cui egli avrebbe predicato, consegnandolo nelle loro mani; l'attuazione di tale crudeltà fu a carico di Abiatar, che in quell'anno era il sommo sacerdote, e di Giosia, uno scriba con le sue stesse idee. Come pensarono, così eseguirono. Essi si accesero d'ira perché, mentre l'Apostolo proclamava al popolo gli arcani della redenzione umana dimostrandoli con mirabile sapienza e con la testimonianza delle Scritture, gli uditori si mossero a lacrime di compunzione. Dato il segnale ai soldati, Abiatar ordinò a Giosia di prenderlo e questi gli buttò una corda al collo con l'accusa di sobillatore e promotore di una nuova religione contro l'impero.
397. Si avvicinarono Democrito e Lisia con la loro gente, e lo condussero da Erode, figlio di Archelao, che era stato preparato interiormente dall'astuzia di Lucifero ed esternamente dalla malizia e dall'astio dei giudei. Il re, che incitato da questo aveva cominciato contro i discepoli, da lui aborriti, la persecuzione di cui parla san Luca nel capitolo dodicesimo degli Atti, inviando truppe per opprimerli e arrestarli, decretò che fosse decapitato subito, come era reclamato. Fu inesprimibile il gaudio del prigioniero quando fu legato a somiglianza del suo Maestro e comprese ormai arrivato il momento, tanto atteso, di passare da questa vita a quella imperitura attraverso il martirio, come la Regina gli aveva preannunciato. Per tale beneficio fece umili e fervorosi atti di riconoscenza, e pubblicamente confessò e dichiarò ancora di credere in Gesù; ricordandosi, poi, di quello che le aveva domandato in Efeso, cioè che lo assistesse nel suo trapasso, la chiamò dal profondo.
398. La Vergine , che era attenta a tutto ciò che gli accadeva e con intensa preghiera lo accompagnava e favoriva, l'ascoltò dal suo oratorio e, stando assorta, osservò scendere una moltitudine immensa di spiriti superni di tutte le gerarchie: alcuni si diressero verso Gerusalemme circondandolo mentre veniva condotto al supplizio e altri si recarono da lei. Uno di quelli di grado superiore le disse: «Imperatrice delle altezze, il Signore dell'universo vi comanda di andare in fretta alla città santa per consolare il suo ministro e stargli accanto nell'estremo combattimento, nonché di esaudire i suoi pii desideri». Ella accondiscese con enorme gioia e gratitudine, magnificando l'Onnipotente per l'aiuto che concede a chi confida nella sua sconfinata misericordia e si pone sotto la sua protezione. Frattanto, il condannato era portato all'esecuzione e durante il tragitto compiva molti miracoli, sanando tutti coloro che soffrivano di varie malattie e liberando anche diversi indemoniati; infatti, allorché si era diffusa la voce che stava per essere ammazzato, numerosi bisognosi erano accorsi per rimediare alla loro condizione prima che mancasse il comune mezzo del loro conforto.
399. Contemporaneamente gli angeli fecero sedere Maria su un trono risplendente e la sollevarono sino al posto in cui era sul punto di essere giustiziato. Giacomo si inginocchiò per terra offrendosi in sacrificio e, alzati gli occhi al cielo, scorse nell'aria colei che stava invocando, vestita di divini splendori e di eccezionale bellezza, scortata dai suoi custodi. Davanti a uno spettacolo tanto straordinario arse di giubilo e fervore, e si commosse tutto in se stesso. Voleva gridare acclamandola vera Madre di Dio e signora di tutto, ma uno degli esseri supremi lo trattenne e dichiarò: «Servo dell'Eterno, conserva dentro di te questi preziosi sentimenti e non manifestare ai giudei la vicinanza e la grazia della nostra sovrana, perché non ne sono degni né sono capaci di capire, e anziché venerarla la odierebbero». Alle sue parole egli si contenne e in segreto, muovendo le labbra, le si rivolse così:
400. «Voi che avete generato il mio Salvatore, mia difesa, consolatrice degli afflitti, rifugio dei miseri, datemi la vostra benedizione, da me oltremodo sospirata in quest'ora. Presentate per me a vostro Figlio l'olocausto della mia vita, già acceso dalla brama di morire per l'onore del suo nome sull'altare delle vostre pure e candide mani, affinché sia accetto a colui che per me si immolò sulla croce. Affido il mio spirito in esse e attraverso di esse in quelle del mio Creatore». Dopo che ebbe pronunciato questo, guardando la Regina che parlava al suo cuore, gli venne tagliato il capo dal carnefice. Ella - o ammirabile benignità! - pose la sua anima accanto a sé e la portò nell'empireo dinanzi al suo Unigenito, arrecando speciale gaudio e gloria a tutti i cittadini del paradiso, che si congratularono con lei intonando inni di lode. L'Altissimo accolse quell'anima e la collocò in un luogo eminente tra i principi del suo popolo, e la Vergine , prostrata davanti al suo seggio di maestà infinita, compose un cantico come rendimento di grazie per il trionfo del primo apostolo martire. In questa occasione non contemplò la beatissima Trinità con visione intuitiva, ma astrattiva, e fu colmata di ulteriori benedizioni e favori per sé e per la Chiesa , per la quale fece grandi richieste. La benedissero anche tutti i santi, e quindi gli angeli la ricondussero al suo oratorio in Efeso, in cui uno di essi era rimasto con le sue sembianze mentre era assente. Quando vi giunse si stese al suolo, come era suo costume, ringraziando di nuovo per tutto ciò che era accaduto.
401. Quella notte i discepoli di san Giacomo raccolsero il suo corpo e di nascosto lo trasportarono al porto di Ioppe, dal quale per disposizione superna salparono con esso per la Galizia. Maria inviò loro uno dei suoi ministri perché li guidasse e li indirizzasse là dove era volontà celeste che sbarcassero ed essi avvertirono il suo aiuto, benché non lo vedessero, poiché per tutto il viaggio intervenne in loro soccorso, e spesso miracolosamente; quindi, è anche grazie a lei che la Spagna possiede a sua protezione il tesoro di quelle sacre membra, nello stesso modo in cui ebbe l'Apostolo ancora in vita come maestro e primo testimone della fede, che ben si radicò nei suoi abitanti. Egli spirò nel quarantunesimo anno del Signore, il venticinque marzo, cinque anni e sette mesi dopo la sua partenza da Gerusalemme per recarsi lì a predicare, e sette anni dopo la crocifissione del Redentore.
402. Questo consta dal capitolo dodicesimo degli Atti, dove san Luca dice che, per la soddisfazione mostrata dai giudei per la sua uccisione, Erode fece imprigionare anche Pietro con l'intenzione di decapitarlo appena trascorsa la Pasqua dell'agnello e degli azzimi, che viene celebrata nei quattordici giorni della luna di marzo. Poiché nell'anno quarantunesimo quei giorni corrispondevano agli ultimi di quel mese secondo il calcolo solare del quale ci serviamo, da ciò si comprende che il suo supplizio precedette di poco tale cattura, che avvenne il venticinque marzo e che poi seguirono la carcerazione e la Pasqua. La Chiesa non ne fa memoria nella data precisa, perché coincide con l'incarnazione e di solito anche con i misteri della passione; la festa è stata dunque trasferita al venticinque luglio, quando il suo corpo fu trasportato in Spagna.
403. La sua morte e la rapidità con cui l'iniquo re gliel'aveva procurata accrebbero ulteriormente l'empia crudeltà dei giudei, convinti che tormentandolo avrebbero avuto pronto lo strumento della vendetta. Lucifero e i suoi giudicarono la cosa nella medesima maniera e, come costoro con richieste e adulazioni, lo persuadevano con suggestioni a comandare l'arresto del vicario di Cristo, come in effetti fece per mantenersi la loro benevolenza per i suoi fini temporali. I demoni lo temevano molto per la forza che sperimentavano a loro danno e perciò segretamente accelerarono i tempi. Egli fu tenuto legato alle catene per essere giustiziato appena dopo la Pasqua e, sebbene il suo cuore fosse ben saldo, senza preoccupazione alcuna e con la stessa tranquillità che se fosse stato libero, tutti i fedeli della città erano in profondo affanno. A causa di questa sofferenza moltiplicarono le suppliche all'Altissimo affinché lo salvasse, perché la sua scomparsa avrebbe rappresentato un'immane rovina, e invocarono pure l'ausilio e la potente intercessione della Regina, dalla quale tutti aspettavano un rimedio.
404. Tale angustia non le era nascosta benché fosse in Efeso, poiché i suoi clementissimi occhi osservavano quanto succedeva per mezzo della visione chiara che aveva di tutto, ed ella intensificava la preghiera con sospiri, prostrazioni e lacrime di sangue, implorando la sua scarcerazione e la difesa dei devoti. Le sue orazioni penetrarono i cieli e giunsero a ferire il suo Unigenito, che scese personalmente e la trovò stesa al suolo con il volto verginale attaccato alla polvere. Rialzandola, le parlò con tenerezza: «Madre mia, moderate il vostro dolore e manifestatemi ciò a cui anelate, perché io ve lo concederò e otterrete grazia presso di me per conseguirlo».
405. Con la presenza e le affettuose parole di Gesù ricevette coraggio, consolazione e gioia, giacché le pene dei credenti erano la ragione del suo martirio e il vedere san Pietro detenuto e in attesa dell'esecuzione l'affliggeva oltre ogni immaginazione, come anche l'apprensione per le possibili conseguenze nella comunità primitiva. Rinnovò le sue domande e dichiarò: «Mio diletto, voi conoscete bene le angosce della vostra Chiesa, le cui grida sono arrivate al vostro orecchio e invadono il mio intimo affranto. Si propongono di uccidere il suo pastore: se permettete che questo avvenga adesso, il vostro piccolo gregge sarà disperso e i lupi infernali trionferanno su di voi come bramano. Or dunque, affinché io viva ordinate con autorità al mare e alla tempesta che i venti e le onde che investono questa piccola nave si quietino. Proteggete il capo del collegio apostolico e i vostri nemici restino confusi e, se sarà vostra volontà e a vostra gloria, si volgano verso di me le tribolazioni, perché io patirò per i vostri figli e lotterò contro gli avversari invisibili con l'aiuto della vostra destra».
406. Egli rispose: «Carissima, con la virtù e il potere che avete avuto da me, desidero che vi regoliate secondo il vostro volere: costruite e abbattete quanto ritenete sia conveniente, ma vi sia noto che contro di voi si rivolterà tutto il furore dei diavoli». La prudentissima Signora lo ringraziò per questo beneficio e, offrendosi di combattere la guerra di sua Maestà, affermò: «Dio mio, mia speranza, la vostra ancella è pronta a faticare per le anime che costarono il vostro sangue. Benché io sia polvere inutile, voi siete infinita sapienza e potenza, e se mi assiste il vostro favore non temerò il drago. Dal momento che nel vostro nome disponete che io decida e compia quello che è opportuno, intimo a Lucifero e ai suoi ministri, che stanno sconvolgendo i cristiani, di precipitare tutti nei loro antri e di ammutolire fino a quando la vostra provvidenza non darà loro licenza di risalire sulla terra». Le sue parole furono tanto efficaci che, nell'istante in cui le pronunciò ad Efeso, i demoni che erano a Gerusalemme piombarono negli abissi senza riuscire a resistere alla forza superna che operava in lei.
407. Essi intesero che quella sciagura proveniva dalla nostra Maestra, che chiamavano nemica perché non osavano nominarla. Confusi e atterriti, rimasero nelle loro caverne finché non fu loro consentito di risollevarsi per affrontarla in battaglia, come poi riferirò, e in questo tempo esaminarono quali mezzi potessero scegliere a tale scopo. Conseguito il trionfo contro il principe del male, per ottenerlo anche contro Erode e i giudei, Maria disse al Redentore: «Adesso, mio sovrano, se è vostro beneplacito un angelo andrà a liberare il vostro vicario». La proposta fu subito approvata e, per volontà di entrambi, come di supremi monarchi, uno degli spiriti più eccelsi che erano presenti si recò alla prigione.
408. Appena vi giunse, nella notte precedente il giorno in cui Pietro doveva essere giustiziato, lo scorse legato tra i due soldati che lo custodivano insieme ad altri che sorvegliavano la porta, profondamente addormentato come loro perché privo di angustie. Per svegliarlo dovette scuoterlo e quello, assonnato, udì che gli era comandato: «Alzati in fretta, mettiti la cintura, allacciati i sandali, prendi il mantello e vieni con me». Gli caddero le catene e, senza capire che cosa gli stesse avvenendo e di che tipo di visione si trattasse, seguì il messaggero divino, il quale prima di sparire gli fece attraversare alcune vie e gli rivelò che l'Altissimo lo aveva sciolto dai ceppi per intercessione della Vergine. Quando tornando in sé comprese il misterioso beneficio, ne rese grazie.
409. Gli parve bene porsi al sicuro, informando innanzitutto i discepoli e Giacomo il Minore, per eseguire ciò con il consiglio di tutti. Si diresse velocemente alla casa di Maria, madre di Giovanni detto anche Marco, cioè al cenacolo dove erano riuniti, non senza afflizione, molti fedeli. Picchiò al portone e una serva, di nome Rode, scese per domandare chi fosse. Ella riconobbe la sua voce e, ricolma di gioia, lasciandolo fuori corse a dare la notizia agli altri, che pensarono ad una sua fantasia; la fanciulla insisteva, ma essi, lontani dal supporre che il loro capo avesse potuto riacquistare la libertà, immaginarono che fosse il suo angelo. Intanto, egli in strada continuava a bussare e dunque finalmente gli fu aperto e fu accolto con enorme giubilo. Raccontò quanto era successo, affinché avvisassero in segreto Giacomo e gli altri fratelli. Prevedendo che immediatamente Erode lo avrebbe cercato scrupolosamente, decisero di allontanarlo dalla città quella notte stessa, per evitare che fosse di nuovo catturato. Allorché il re scoprì l'accaduto e non fu in grado di ritrovarlo, fece castigare le guardie e s'infuriò contro i cristiani, anche se, per la sua superbia e la sua empia condotta, Dio gli sbarrò la strada e lo punì severamente.
Insegnamento della Regina del cielo
410. Carissima, a causa degli effetti provocati in te dal singolare favore che Giacomo ricevette alla sua morte dalla mia pietà, voglio rivelarti un dono che l'Eterno mi confermò quando gli portai la sua anima nell'empireo. Altre volte ti ho accennato qualcosa riguardo a questo segreto, ma adesso lo capirai meglio affinché ti preoccupi di essere veramente mia affezionatissima figlia. In quell'occasione, il Padre mi parlò davanti a tutti i beati: «Colomba mia, eletta per mio compiacimento fra tutte le creature, sappiano gli spiriti superni e i santi che a mia lode, a vostra esaltazione e a vantaggio degli uomini vi do la mia parola che, se essi al momento del trapasso vi invocheranno e si rivolgeranno sinceramente a voi sul suo modello, sollecitando il vostro intervento presso di me, io inclinerò verso di loro la mia clemenza, li guarderò con occhi benevoli, li difenderò dai pericoli dell'ultima ora e scaccerò i crudeli nemici che in quel passaggio si sforzano di farli perire. Attraverso di voi elargirò loro considerevoli aiuti perché resistano e si pongano in stato di grazia se collaboreranno; voi me li presenterete ed essi otterranno il premio dalla mia destra generosa».
411. Tutta la Chiesa trionfante ed io con essa ringraziammo e magnificammo sua Maestà. Benché spetti ai ministri celesti il compito di condurre le anime al tribunale del giusto giudice appena vengono liberate dall'esilio terreno, ciò fu concesso anche a me, in modo sublime ed eminente, e sovente faccio uso dei miei privilegi, così come accadde con alcuni degli apostoli. Poiché ti vedo ansiosa di apprendere come potrai avere da me questo beneficio tanto prezioso, ti esorto a non privartene per ingratitudine o disattenzione. Innanzitutto lo guadagnerai con la purezza, che è quello che più bramo da te e dagli altri, giacché il mio grande ardore per l'Onnipotente mi costringe a desiderare da tutti, con infinita carità e tenerezza, l'osservanza della sua legge, perché nessuno si allontani dalla sua amicizia; questo è quanto devi anteporre alla vita, morendo piuttosto che peccare contro il tuo sommo Bene.
412. Obbediscimi, segui il mio insegnamento, impegnati nell'imitare quello che di me scopri e scrivi, non frapporre intervalli nell'amare e non dimenticare mai, neppure per un istante, il profondo affetto al quale ti legò la sua immensa misericordia. Sii grata per ciò di cui sei debitrice a lui e a me, che è al di là delle tue possibilità di comprensione finché sei viatrice. Sii fedele nel corrispondere, fervorosa nella devozione, pronta per quanto è più perfetto. Dilata il cuore e non permettere che si restringa con la pusillanimità, come il demonio pretenderebbe da te. Stendi la mano a imprese forti e ardue, confidando sempre nel Signore; non ti avvilire e non ti abbattere nelle avversità, non impedire il disegno di Dio in te né gli altissimi fini della sua gloria, tieni accesa la fede e la speranza nelle maggiori angustie e tentazioni. Per compiere tutto questo, trova ausilio nell'esempio dei miei servi e nella conoscenza che ti ho dato della felicissima sicurezza di coloro che sono sotto la protezione divina: con la fiducia e la dedizione verso di me, Giacomo ebbe nel martirio il particolare favore che ho spiegato e superò innumerevoli travagli, conquistando la corona; nella stessa maniera, Pietro stava tranquillo e sereno in prigione, senza mai perdere la pace interiore, e meritò che il mio Unigenito ed io avessimo una simile sollecitudine per la sua salvezza. I mondani figli delle tenebre non sono degni di tale soccorso, poiché si appoggiano sulle realtà visibili e sulla loro astuzia diabolica. Sollevati e scuotiti da questi inganni, aspira a quello che è più eccelso, perché sarà con te il braccio vigoroso che operò in me tante meraviglie.
32-22 Settembre 2, 1933 Canali, commercio tra il Cielo e la terra, traffici dell’anima che vive nella Divina Volontà. Gara d’amore tra creatura e Creatore.
Luisa Piccarreta (Libro di Cielo)
(1) Sono sempre il piccolo atomo nel Voler Divino, neonata appena e sento l’estremo bisogno di essere alimentata e cresciuta nelle sue braccia paterne, altrimenti sorge in me il voler umano per formare la sua vita infelice. Mio Dio, abbi pietà di me e non permettere che io conosca né acquisti altra vita, se non quella della tua Divina Volontà, e sentendomi afflitta, oppressa per le quasi continue privazioni del mio dolce Gesù, che mi tengono sacrificata sul rogo d’un dolore che solo Dio è testimone d’un martirio sì duro, quindi avevo timore che il mio infelice volere umano me ne facesse qualche tiro, ed il mio amato Gesù per infondermi coraggio, sostenendomi nelle sue braccia ché non ne potevo più, mi ha detto:
(2) “Figlia mia benedetta, coraggio, sbandisci dal tuo cuore ogni timore, questa è l’arma che, o uccide, o ferisce l’amore e fa perdere la famigliarità col tuo Gesù, ed Io né so stare, né voglio stare per chi vuol vivere di mia Volontà, senza intimità, è come se non fosse una sol cosa con me, se ciò fosse non potrei dire che è una la Volontà che ci anima e forma la vita tua e mia, ma dovrei dire: “Tu tieni la tua volontà, ed Io tengo la mia”. Ed Io non lo voglio questo, perché il vivere nel mio Volere non esisterebbe più in te, anzi voglio che in ogni pena che soffri, sia pure la mia privazione, ogni cosa che fai di tutto l’essere tuo, chiami sempre la mia Volontà, affinché tutti gli atti tuoi formino il canale dove Essa possa trovare la via, il luogo dove racchiudere i suoi beni e farli scorrere in abbondanza, a secondo il canale che hai preparato, ogni atto che tu fai può essere un canale di grazie, di luce, di santità, che presti alla mia Volontà, la quale ti farà proprietaria dei beni che racchiude nei tuoi atti, e li farà scorrere a bene di tutti. Vedi dunque a che deve servirmi il tuo essere, le tue pene, gli atti tuoi, come tanti canaletti in cui possa sempre mettere del mio; il deporre il mio è per me felicità, è il darmi da fare, è il sentirmi amato e conosciuto. E perciò è tanto il mio desiderio di deporre negli atti della creatura le mie proprietà divine, per renderla padrona, che sto alla spia, la faccio da vigile sentinella, uso tutte le mie attenzioni amorose per vedere se gli atti suoi sono vuoti d’umano volere, e se fa la chiamata alla mia Divina Volontà, la quale trovando il vuoto negli atti umani, se ne serve come canali per deporre in essi le grazie più grandi, le conoscenze più sublimi, la santità che più le somiglia, e con ciò forma la dote divina alla sua amata creatura”.
(3) Dopo ciò ha fatto silenzio, e poi ha soggiunto con un accento più tenero:
(4) “Figlia mia, tu devi sapere che per chi vive nella mia Divina Volontà, non vi è tempo da perdere, né si può badare a certe minuzie, a timori, ad oppressioni, ad agitazioni, a dubbi, chi tiene da fare il più, il meno lo deve mettere da parte, chi deve prendere il sole e goderselo, è necessario che non bada alle piccole luci, e chi possiede il giorno non deve badare alla notte, perché il sole è più delle piccole luci ed il giorno tiene più valore della notte, e se si vuol badare all’uno ed all’altro, passa pericolo che non goda tutta la pienezza della luce del sole, né faccia tutto ciò che può fare il giorno, e può essere che per badare al meno, perda il più. Molto più, che la mia Divina Volontà per chi vive in Essa, vuol stare sempre in atto di dare, e la creatura deve stare sempre in atto di ricevere, e se si vuole badare ad altro, la mia Volontà è costretta a fare le sue soste nel dare, perché non la trova attenta nel ricevere ciò che vuol dare, e questo è spezzare la corrente divina, e se sapessi che significa, come staresti attenta.
(5) Oltre di ciò, tu devi sapere che come la creatura fa i suoi atti nella mia Divina Volontà, entra nei banchi divini, e vi fa i suoi traffici di valore infinito, essa siccome viene nel nostro Volere, sebbene è piccola, ma viene da padrona e si fa padrona di ciò che i nostri banchi divini posseggono e prende quanto più può prendere, e siccome ciò che prende non può tutto racchiudere dentro di sé, li lascia in deposito insieme coi nostri stessi tesori, e Noi la facciamo fare, godiamo dei suoi traffici ed è tanta la nostra bontà, che le diamo l’interesse agli acquisti che ha fatto. Sicché, ogni qualvolta fa i suoi atti nel nostro Volere, apre il commercio tra il Cielo e la terra e mette in traffico la nostra santità, potenza, bontà, amore, e Noi per non restare indietro alla nostra amata creatura, essa sale e Noi scendiamo nel basso dell’umano volere, ed aprendo il nostro commercio facciamo l’acquisto dell’umano volere, traffico tanto da Noi voluto e gradito, e così facciamo a gara e ci conquistiamo a vicenda. Figlia buona, vivere nel nostro Volere e non avere essa che fare con Noi e Noi con essa, né aver che dire, né farci sentire, ci riesce impossibile, se ciò fosse non sarebbe più Vita nostra che svolgiamo nella creatura, ma un modo di dire, non una realtà. La vita sente il bisogno assoluto di muoversi, di farsi sentire, di respirare, di palpitare, di parlare, di dar calore; come si può soffocare una vita, stare, vivere, e non farsi sentire? Ciò è impossibile a Dio ed alla creatura. Perciò non ti allarmare quando senti che tutto è silenzio in te, sono brevi incidenti, perché sono Io stesso che sento il bisogno di farmi sentire, che la mia Vita esiste in te. Stare e non farmi sentire sarebbe il mio più crudo martirio, lo posso fare per poco, ma non sempre, quindi non darti pensiero, vivi tutta abbandonata in Me, ed Io ci penserò a tutto”.