Sotto il Tuo Manto

Martedi, 9 settembre 2025 - San Pietro Claver Sacerdote (Letture di oggi)

Una carmelitana che non fosse apostolo s'allontanerebbe dallo scopo della sua vocazione e cesserebbe di essere figlia della serafica santa Teresa che desiderava dare mille vite per salvare un'anima sola. (Santa Teresina di Lisieux)

Liturgia delle Ore - Letture

Domenica della 5° settimana del tempo ordinario

Questa sezione contiene delle letture scelte a caso, provenienti dalle varie sezioni del sito (Sacra Bibbia e la sezione Biblioteca Cristiana), mentre l'ultimo tab Apparizioni, contiene messaggi di apparizioni a mistici o loro scritti. Sono presenti testi della Valtorta, Luisa Piccarreta, don Stefano Gobbi e testimonianze di apparizioni mariane riconosciute.

Vangelo secondo Marco 5

1Intanto giunsero all'altra riva del mare, nella regione dei Gerasèni.2Come scese dalla barca, gli venne incontro dai sepolcri un uomo posseduto da uno spirito immondo.3Egli aveva la sua dimora nei sepolcri e nessuno più riusciva a tenerlo legato neanche con catene,4perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva sempre spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo.5Continuamente, notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre.6Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi,7e urlando a gran voce disse: "Che hai tu in comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!".8Gli diceva infatti: "Esci, spirito immondo, da quest'uomo!".9E gli domandò: "Come ti chiami?". "Mi chiamo Legione, gli rispose, perché siamo in molti".10E prese a scongiurarlo con insistenza perché non lo cacciasse fuori da quella regione.
11Ora c'era là, sul monte, un numeroso branco di porci al pascolo.12E gli spiriti lo scongiurarono: "Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi".13Glielo permise. E gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il branco si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila e affogarono uno dopo l'altro nel mare.14I mandriani allora fuggirono, portarono la notizia in città e nella campagna e la gente si mosse a vedere che cosa fosse accaduto.
15Giunti che furono da Gesù, videro l'indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura.16Quelli che avevano visto tutto, spiegarono loro che cosa era accaduto all'indemoniato e il fatto dei porci.17Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio.18Mentre risaliva nella barca, colui che era stato indemoniato lo pregava di permettergli di stare con lui.19Non glielo permise, ma gli disse: "Va' nella tua casa, dai tuoi, annunzia loro ciò che il Signore ti ha fatto e la misericordia che ti ha usato".20Egli se ne andò e si mise a proclamare per la Decàpoli ciò che Gesù gli aveva fatto, e tutti ne erano meravigliati.

21Essendo passato di nuovo Gesù all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare.22Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi23e lo pregava con insistenza: "La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva".24Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
25Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia26e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando,27udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti:28"Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita".29E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male.
30Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: "Chi mi ha toccato il mantello?".31I discepoli gli dissero: "Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?".32Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo.33E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità.34Gesù rispose: "Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male".
35Mentre ancora parlava, dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: "Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?".36Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: "Non temere, continua solo ad aver fede!".37E non permise a nessuno di seguirlo fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.38Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava.39Entrato, disse loro: "Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme".40Ed essi lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina.41Presa la mano della bambina, le disse: "Talità kum", che significa: "Fanciulla, io ti dico, alzati!".42Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore.43Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare.


Esodo 7

1Il Signore disse a Mosè: "Vedi, io ti ho posto a far le veci di Dio per il faraone: Aronne, tuo fratello, sarà il tuo profeta.2Tu gli dirai quanto io ti ordinerò: Aronne, tuo fratello, parlerà al faraone perché lasci partire gli Israeliti dal suo paese.3Ma io indurirò il cuore del faraone e moltiplicherò i miei segni e i miei prodigi nel paese d'Egitto.4Il faraone non vi ascolterà e io porrò la mano contro l'Egitto e farò così uscire dal paese d'Egitto le mie schiere, il mio popolo degli Israeliti, con l'intervento di grandi castighi.5Allora gli Egiziani sapranno che io sono il Signore, quando stenderò la mano contro l'Egitto e farò uscire di mezzo a loro gli Israeliti!".
6Mosè e Aronne eseguirono quanto il Signore aveva loro comandato; operarono esattamente così.7Mosè aveva ottant'anni e Aronne ottantatré, quando parlarono al faraone.
8Il Signore disse a Mosè e ad Aronne:9"Quando il faraone vi chiederà: Fate un prodigio a vostro sostegno! tu dirai ad Aronne: Prendi il bastone e gettalo davanti al faraone e diventerà un serpente!".10Mosè e Aronne vennero dunque dal faraone ed eseguirono quanto il Signore aveva loro comandato: Aronne gettò il bastone davanti al faraone e davanti ai suoi servi ed esso divenne un serpente.11Allora il faraone convocò i sapienti e gli incantatori, e anche i maghi dell'Egitto, con le loro magie, operarono la stessa cosa.12Gettarono ciascuno il suo bastone e i bastoni divennero serpenti. Ma il bastone di Aronne inghiottì i loro bastoni.13Però il cuore del faraone si ostinò e non diede loro ascolto, secondo quanto aveva predetto il Signore.
14Poi il Signore disse a Mosè: "Il cuore del faraone è irremovibile: si è rifiutato di lasciar partire il popolo.15Va' dal faraone al mattino quando uscirà verso le acque. Tu starai davanti a lui sulla riva del Nilo, tenendo in mano il bastone che si è cambiato in serpente.16Gli riferirai: Il Signore, il Dio degli Ebrei, mi ha inviato a dirti: Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto; ma tu finora non hai obbedito.17Dice il Signore: Da questo fatto saprai che io sono il Signore; ecco, con il bastone che ho in mano io batto un colpo sulle acque che sono nel Nilo: esse si muteranno in sangue.18I pesci che sono nel Nilo moriranno e il Nilo ne diventerà fetido, così che gli Egiziani non potranno più bere le acque del Nilo!".19Il Signore disse a Mosè: "Comanda ad Aronne: Prendi il tuo bastone e stendi la mano sulle acque degli Egiziani, sui loro fiumi, canali, stagni, e su tutte le loro raccolte di acqua; diventino sangue, e ci sia sangue in tutto il paese d'Egitto, perfino nei recipienti di legno e di pietra!".
20Mosè e Aronne eseguirono quanto aveva ordinato il Signore: Aronne alzò il bastone e percosse le acque che erano nel Nilo sotto gli occhi del faraone e dei suoi servi. Tutte le acque che erano nel Nilo si mutarono in sangue.21I pesci che erano nel Nilo morirono e il Nilo ne divenne fetido, così che gli Egiziani non poterono più berne le acque. Vi fu sangue in tutto il paese d'Egitto.22Ma i maghi dell'Egitto, con le loro magie, operarono la stessa cosa. Il cuore del faraone si ostinò e non diede loro ascolto, secondo quanto aveva predetto il Signore.23Il faraone voltò le spalle e rientrò nella sua casa e non tenne conto neppure di questo fatto.24Tutti gli Egiziani scavarono allora nei dintorni del Nilo per attingervi acqua da bere, perché non potevano bere le acque del Nilo.25Sette giorni trascorsero dopo che il Signore aveva colpito il Nilo.
26Poi il Signore disse a Mosè: "Va' a riferire al faraone: Dice il Signore: Lascia andare il mio popolo perché mi possa servire!27Se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io colpirò tutto il tuo territorio con le rane:28il Nilo comincerà a pullulare di rane; esse usciranno, ti entreranno in casa, nella camera dove dormi e sul tuo letto, nella casa dei tuoi ministri e tra il tuo popolo, nei tuoi forni e nelle tue madie.29Contro di te e contro tutti i tuoi ministri usciranno le rane".


Proverbi 15

1Una risposta gentile calma la collera,
una parola pungente eccita l'ira.
2La lingua dei saggi fa gustare la scienza,
la bocca degli stolti esprime sciocchezze.
3In ogni luogo sono gli occhi del Signore,
scrutano i malvagi e i buoni.
4Una lingua dolce è un albero di vita,
quella malevola è una ferita al cuore.
5Lo stolto disprezza la correzione paterna;
chi tiene conto dell'ammonizione diventa prudente.
6Nella casa del giusto c'è abbondanza di beni,
sulla rendita dell'empio incombe il dissesto.
7Le labbra dei saggi diffondono la scienza,
non così il cuore degli stolti.
8Il sacrificio degli empi è in abominio al Signore,
la supplica degli uomini retti gli è gradita.
9La condotta perversa è in abominio al Signore;
egli ama chi pratica la giustizia.
10Punizione severa per chi abbandona il retto sentiero,
chi odia la correzione morirà.
11Gl'inferi e l'abisso sono davanti al Signore,
tanto più i cuori dei figli dell'uomo.
12Lo spavaldo non vuol essere corretto,
egli non si accompagna con i saggi.
13Un cuore lieto rende ilare il volto,
ma, quando il cuore è triste, lo spirito è depresso.
14Una mente retta ricerca il sapere,
la bocca degli stolti si pasce di stoltezza.
15Tutti i giorni son brutti per l'afflitto,
per un cuore felice è sempre festa.
16Poco con il timore di Dio
è meglio di un gran tesoro con l'inquietudine.
17Un piatto di verdura con l'amore
è meglio di un bue grasso con l'odio.
18L'uomo collerico suscita litigi,
il lento all'ira seda le contese.
19La via del pigro è come una siepe di spine,
la strada degli uomini retti è una strada appianata.
20Il figlio saggio allieta il padre,
l'uomo stolto disprezza la madre.
21La stoltezza è una gioia per chi è privo di senno;
l'uomo prudente cammina diritto.
22Falliscono le decisioni prese senza consultazione,
riescono quelle prese da molti consiglieri.
23È una gioia per l'uomo saper dare una risposta;
quanto è gradita una parola detta a suo tempo!
24Per l'uomo assennato la strada della vita è verso l'alto,
per salvarlo dagli inferni che sono in basso.
25Il Signore abbatte la casa dei superbi
e rende saldi i confini della vedova.
26Sono in abominio al Signore i pensieri malvagi,
ma gli sono gradite le parole benevole.
27Sconvolge la sua casa chi è avido di guadagni disonesti;
ma chi detesta i regali vivrà.
28La mente del giusto medita prima di rispondere,
la bocca degli empi esprime malvagità.
29Il Signore è lontano dagli empi,
ma egli ascolta la preghiera dei giusti.
30Uno sguardo luminoso allieta il cuore;
una notizia lieta rianima le ossa.
31L'orecchio che ascolta un rimprovero salutare
avrà la dimora in mezzo ai saggi.
32Chi rifiuta la correzione disprezza se stesso,
chi ascolta il rimprovero acquista senno.
33Il timore di Dio è una scuola di sapienza,
prima della gloria c'è l'umiltà.


Salmi 138

1'Di Davide.'

Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
A te voglio cantare davanti agli angeli,
2mi prostro verso il tuo tempio santo.
Rendo grazie al tuo nome
per la tua fedeltà e la tua misericordia:
hai reso la tua promessa più grande di ogni fama.
3Nel giorno in cui t'ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.
4Ti loderanno, Signore, tutti i re della terra
quando udranno le parole della tua bocca.
5Canteranno le vie del Signore,
perché grande è la gloria del Signore;
6eccelso è il Signore e guarda verso l'umile
ma al superbo volge lo sguardo da lontano.

7Se cammino in mezzo alla sventura
tu mi ridoni vita;
contro l'ira dei miei nemici stendi la mano
e la tua destra mi salva.
8Il Signore completerà per me l'opera sua.
Signore, la tua bontà dura per sempre:
non abbandonare l'opera delle tue mani.


Giona 1

1Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore:2"Alzati, va' a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me".3Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto, s'imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore.
4Ma il Signore scatenò sul mare un forte vento e ne venne in mare una tempesta tale che la nave stava per sfasciarsi.5I marinai impauriti invocavano ciascuno il proprio dio e gettarono a mare quanto avevano sulla nave per alleggerirla. Intanto Giona, sceso nel luogo più riposto della nave, si era coricato e dormiva profondamente.6Gli si avvicinò il capo dell'equipaggio e gli disse: "Che cos'hai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo".7Quindi dissero fra di loro: "Venite, gettiamo le sorti per sapere per colpa di chi ci è capitata questa sciagura". Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona.

8Gli domandarono: "Spiegaci dunque per causa di chi abbiamo questa sciagura. Qual è il tuo mestiere? Da dove vieni? Qual è il tuo paese? A quale popolo appartieni?".9Egli rispose: "Sono Ebreo e venero il Signore Dio del cielo, il quale ha fatto il mare e la terra".10Quegli uomini furono presi da grande timore e gli domandarono: "Che cosa hai fatto?". Quegli uomini infatti erano venuti a sapere che egli fuggiva il Signore, perché lo aveva loro raccontato.11Essi gli dissero: "Che cosa dobbiamo fare di te perché si calmi il mare, che è contro di noi?". Infatti il mare infuriava sempre più.12Egli disse loro: "Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia".13Quegli uomini cercavano a forza di remi di raggiungere la spiaggia, ma non ci riuscivano perché il mare andava sempre più crescendo contro di loro.14Allora implorarono il Signore e dissero: "Signore, fa' che noi non periamo a causa della vita di questo uomo e non imputarci il sangue innocente poiché tu, Signore, agisci secondo il tuo volere".15Presero Giona e lo gettarono in mare e il mare placò la sua furia.16Quegli uomini ebbero un grande timore del Signore, offrirono sacrifici al Signore e fecero voti.


Lettera di Giacomo 1

1Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù disperse nel mondo, salute.

2Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove,3sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza.4E la pazienza completi l'opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla.

5Se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data.6La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all'onda del mare mossa e agitata dal vento;7e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore8un uomo che ha l'animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni.

9Il fratello di umili condizioni si rallegri della sua elevazione10e il ricco della sua umiliazione, perché passerà come fiore d'erba.11Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l'erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco appassirà nelle sue imprese.

12Beato l'uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano.
13Nessuno, quando è tentato, dica: "Sono tentato da Dio"; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male.14Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce;15poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand'è consumato, produce la morte.

16Non andate fuori strada, fratelli miei carissimi;17ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall'alto e discende dal Padre della luce, nel quale non c'è variazione né ombra di cambiamento.18Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo come una primizia delle sue creature.
19Lo sapete, fratelli miei carissimi: sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all'ira.20Perché l'ira dell'uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio.21Perciò, deposta ogni impurità e ogni resto di malizia, accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime.22Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi.23Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio:24appena s'è osservato, se ne va, e subito dimentica com'era.25Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla.
26Se qualcuno pensa di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana.27Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo.


Capitolo XX: Riconoscere la propria debolezza e la miseria di questa nostra vita

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1. "Confesserò contro di me il mio peccato" (Sal 31,5); a te, o Signore, confesserò la mia debolezza. Spesso basta una cosa da nulla per abbattermi e rattristarmi: mi propongo di comportarmi da uomo forte, ma, al sopraggiungere di una piccola tentazione, mi trovo in grande difficoltà. Basta una cosa assolutamente da nulla perché me ne venga una grave tentazione: mentre, fino a che non l'avverto, mi sento abbastanza sicuro, poi, a un lieve spirare di vento, mi trovo quasi sopraffatto. "Guarda dunque, Signore, alla mia miseria" (Sal 14,18) e alla mia fragilità, che tu ben conosci per ogni suo aspetto; abbi pietà di me; "tirami fuori dal fango, così che io non vi rimanga confitto" (Sal 68,15), giacendo a terra per sempre. Quello che mi risospinge indietro e mi fa arrossire dinanzi a te, è appunto questa mia instabilità e questa mia debolezza nel resistere alle tentazioni. Che, pur quando ad esse non si acconsenta del tutto, già molto mi disturba la persecuzione loro; e assai mi affligge vivere continuamente così, in lotta. La mia debolezza mi appare in modo chiaro dal fatto che proprio i pensieri che dovrei avere sempre in orrore sono molto più facili a piombare su di me che ad andarsene. Voglia il Cielo, o potentissimo Dio di Israele, che, nel tuo grande amore per le anime di coloro che hanno fede in te, tu abbia a guardare alla fatica e alla sofferenza del tuo servo; che tu l'assista in ogni cosa a cui si accinge. Fammi forte della divina fortezza, affinché non abbia a prevalere in me l'uomo vecchio: questa misera carne non ancora pienamente sottomessa allo spirito, contro la quale bisogna combattere, finché si vive in questa miserabile vita.  

2. Ahimé!, quale è questa vita, dove non mancano tribolazioni e miserie; dove tutto è pieno di agguati e di nemici! Ché, se scompare un'afflizione o una tentazione, una altra ne viene; anzi, mentre ancora dura una lotta, ne sopraggiungono molte altre, e insospettate. Ora, come si può amare una vita così soggetta a disgrazie e a miserie? Di più, come si può chiamare vita questa, se da essa procedono tante morti e calamità? E invece la si ama e molta gente va cercando in essa la propria gioia. Il mondo viene sovente accusato di essere ingannevole e vano; ma non per questo viene facilmente abbandonato, perché troppo prevalgono le brame terrene. Altro è ciò che induce ad amare il mondo; altro è ciò che induce a condannarlo. Inducono ad amarlo il desiderio dell'uomo carnale, "il desiderio degli occhi e la superbia della vita" (1 Gv 2,16); inducono invece ad odiarlo e ad esserne disgustato le pene e le sofferenze che giustamente conseguono a quei desideri perversi. E tuttavia - tristissima cosa - i piaceri malvagi hanno il sopravvento in coloro che hanno l'animo rivolto al mondo, e "considerano gioia lo stare tra le spine" (Gb 30,7); incapaci, come sono, di vedere e di gustare la soavità di Dio e l'intima bellezza della virtù. Quelli invece che disprezzano totalmente il mondo, e si sforzano di vivere per Dio in santa disciplina, conoscono la divina dolcezza, che è stata promessa a chi sa davvero rinunciare; essi comprendono appieno quanto siano gravi gli errori e gli inganni del mondo.


De Sacerdotio

San Giovanni Crisostomo - San Giovanni Crisostomo

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Libro primo



Prologo


Amicizia di Giovanni e Basilio

I. Io avevo molti amici veraci e sinceri, i quali perfettamente conoscevano e osservavano le leggi dell’amicizia; ma uno fra gli altri molti vi era, il, quale tutti superandoli in intimità, studiava di lasciarne indietro di tanto, quanto essi distavano dalle persone semplicemente mie conoscenti. Questi era stato sempre in mia compagnia; avevamo intrapreso gli stessi studi sotto gli stessi maestri; eguale era fra noi la bramosia e diligenza per le esercitazioni retoriche a cui ci dedicavamo; eguale l’aspirazione e generata dallo stesso obbietto. Né solo al tempo in cui frequentavamo i nostri maestri, ma allorquando, toltone commiato, bisognava consigliarsi circa la miglior carriera da scegliere, anche in questo caso ci trovammo d’accordo. Esistevano inoltre fra noi altri rapporti indissolubilmente costanti. Poiché né l’uno poteva menare maggior vanto dell’altro circa l’importanza del luogo natio; né la sorte aveva dato a me ricchezza soverchia e a lui estrema povertà; ma anche la proporzione dei beni di fortuna eguagliava l’identità delle nostre intenzioni; egualmente distinto era il casato di ciascuno, ed eravamo unanimi in ogni pensiero. Se non che, quando fu deciso di dedicarci alla santa vita dei monaci e alla verace filosofia, non fu eguale per noi questo giogo; mentre dalla sua parte la bilancia alleggerita si elevava, io tuttora inceppato nei desideri mondani, trascinavo in basso la parte mia, e la impedivo di sollevarsi, opprimendola di vaneggiamenti giovanili. Qui pertanto durava bensì costante fra noi tutto il resto, come per l’innanzi, l’amicizia, ma la comunanza di vita venne spezzata, non essendo possibile intrattenere conversazioni fra persone che non condividevano le medesime cure. Quando poi anch’io un poco cominciai a emergere dal flutto della vita mondana, quegli mi accolse a braccia aperte, ma non riuscivo ancora a mantenermi di fronte a lui nell’eguaglianza in che ero stato sempre per l’innanzi. Poiché egli, superandomi d’età e dimostrando gran zelo, saliva più in su di me ed era tratto ad altezze grandi. Tuttavia essendo egli buono e facendo molto caso della mia amicizia, segregandosi da tutti gli altri s’intratteneva continuamente con me; e anche prima egli avrebbe voluto farlo, ma, come dissi, glielo impediva la mia indolenza. E per certo, uno che soleva sedere a giudice nel dicastero e che andava pazzo per gli spettacoli del teatro, non si sarebbe adattato a trovarsi sovente insieme con chi se ne stava di continuo inchiodato sui libri senza mai dare neanche una capatina in piazza. Per tal motivo egli stava separato da me; e poi che una buona volta mi ebbe guadagnato allo stesso regime di vita, d’un tratto soddisfece il desiderio concepito da lungo tempo, né tollerava d’abbandonarmi per ben che piccola parte della giornata, e finì per esortarmi affinché, lasciando ciascuno di noi la propria casa, avessimo ad abitare in comune; e a ciò m’aveva egli persuaso, e già si stava per attuare il disegno.

La madre si oppone al ritiro di Giovanni con l’amico Basilio

II. Ma i continui lamenti di mia madre mi impedirono di dare a lui questa consolazione, o piuttosto, di ricevere da lui questo dono. Poiché, inteso ch’essa ebbe questo mio disegno, prendendomi per mano mi condusse nelle sue stanze; indi fattomi sedere vicino, sul letto nel quale ella mi aveva dato alla luce, cominciò a versare copiose lacrime, e, più pietose delle lacrime, aggiunse poi le parole, in simile modo meco lagnandosi: "Io, diceva, o figliolo, non potei godere a lungo delle virtù di tuo padre ciò essendo piaciuto a Dio; poiché la morte di lui che tenne dietro alla tua nascita, fece te orfano c piombò me in una precoce vedovanza e nei malanni a quella connessi, tali che solo chi li ha sofferti può adeguatamente comprenderli. Non si può immaginare a quale bufera e a quale tempesta soggiace una fanciulla che, appena uscita dalla dimora paterna e inesperta di affari, venga d’improvviso gettata in un cordoglio intollerabile e costretta a sobbarcarsi a cure superiori all’età sua e alla sua stessa natura. Deve infatti, io credo, sorvegliare la negligenza dei servi e porsi in guardia dalle loro malizie; sventare le insidie dei parenti, tollerare fortemente i soprusi degli esattori e la loro esosità nell’esigere il pagamento delle imposte. Se poi il defunto si dipartì lasciando prole in tenera età, se è una bambina, anche in tal caso ciò arreca molte preoccupazioni alle madri, sebbene non incomba la necessità di grandi spese, né il timore dell’indigenza. Ma se si tratta di un figlio maschio, la riempirà ogni giorno di mille timori e di innumerevoli cure; lascio da parte i sacrifici di denaro che è costretta a sostenete, volendogli procurate una distinta educazione. Ciò nonostante, nessuna di queste difficoltà mi poté indurre a legarmi in seconde nozze e introdurre un secondo marito nella dimora di tuo padre: ma mi rimasi sola nella tempesta e nel turbine, né mi sottrassi al ferreo crogiolo della vedovanza, e ciò anzitutto in forza dell’aiuto venutomi dall’alto, poi perché non piccola consolazione mi recava in mezzo a quelle distrette, il vederti sempre a me vicino e il serbarmisi in te vivamente riprodotto il gentile riflesso delle sembianze del defunto; per questo e per essere tu ancora bambino né capace di articolare parola, in quell’età nella quale maggiormente i figli sono di diletto a’ parenti, mi fosti causa di grande consolazione. Né potresti incolparmi d’aver io bensì sopportato fortemente la vedovanza, ma assottigliati d’altra parte a te i beni paterni per sopperire alle necessita vedovili; cosa che io vidi toccare a molti figli travagliati da orfanezza. Io tutte le tue sostanze serbai intatte, mentre nulla risparmiai di ciò che occorreva spendere per la tua educazione, sopperendovi con i miei beni e con la dote che recai dalla mia casa. Né devi credere che io dica questo per fartene debito; ma in compenso di ogni cosa ti chiedo un solo favore, di non infliggermi una seconda vedovanza, né ridestare in me l’ambascia ornai sopita; aspetta sino a che io muoia: forse fra poco me ne andrò. I giovani possono nutrire speranza di giungere fino ad una tarda età, ma noi vecchi null’altro omai aspettiamo se non la morte. Quando adunque m’avrai consegnata alla terra e riunita con le ossa del padre tuo, allora intraprendi pure lunghi viaggi e naviga quel mare che ti piacerà; niuno te ne farà ostacolo; ma fin che io respiro stattene a me vicino. Né voler offendere senza ragione Iddio col procurare un tanto cordoglio a me che niuna ingiuria t’ho arrecata. Poiché se tu puoi muovermi rimprovero che io ti distragga fra cure materiali e ti costringa ad assumere la tutela della tua sorte, in tal caso senza badare alle leggi di natura, né all’educazione da me ricevuta, né all’intimità, né ad altra cosa qualsiasi, fuggimi pure quale insidiatrice e nemica; ma se invece io faccio di tutto per renderti massimamente agevole il cammino di questa vita, se altro non fosse, almeno questo vincolo ti trattenga al mio fianco. Ché se pure innumerevoli altri tu dica che ti sono amici, niuno ti permetterà di godere tanta libertà, poiché nessuno v’è a cui tanto stia a cuore la tua onoratezza, come a me".

Basilio insiste nel suo proposito. Improvvisa designazione all’episcopato. Giovanni si sottrae a insaputa dell’amico

III. Queste ed altre cose ancor più toccanti disse la madre a me ed io riferii all’amico. Egli però, non solo non se ne turbava, ma vie più insisteva nella proposta che prima mi aveva fatta.

Mentre noi discutevamo intorno a ciò, pregandomi egli continuamente e non avendo io per anco dato il mio assenso, d’un tratto una certa novella che giunse al nostro orecchio ci gettò ambedue nello sgomento: la novella era che noi avevamo da essere elevati alla dignità dell’episcopato. Io all’udire ciò fui preso da timore e ansietà: da timore di essere forzato anche contro mio volere; da ansietà perché non potevo raccapezzarmi, per quanto cercassi, donde mai fosse venuta a quelle persone una simile idea a mio riguardo; ché scrutando me stesso non trovavo nulla che fosse meritevole di quella dignità. Frattanto quell’impareggiabile amico recatosi da me in privato e confidandomi la cosa come se io nulla ne avessi per anco udito, mi pregava che anche in questa circostanza noi dovessimo dimostrarci di pieno accordo nell’agire e nel deliberare, come prima sempre avevamo fatto; soggiungeva che egli m’avrebbe accompagnato in qualunque parte avessi voluto condurlo, sia che fuggissimo, sia che dovessimo essere eletti. Vedendo io pertanto il suo zelo, e stimando di recare danno a tutta la comunità ecclesiastica qualora, a cagione della mia inettitudine privassi il gregge di Cristo d’un giovane così buono e così adattato per esercitare il governo degli uomini, non gli svelai il mio disegno riguardo a quella faccenda, sebbene per lo innanzi non avessi mai sopportato che rimanesse a lui nascosta qualsiasi parte delle mie intenzioni; ma dicendo che bisognava rimandare ad altro tempo la decisione, poiché per allora la cosa non era urgente, lo ebbi tosto persuaso di non pensare a ciò e di starsi tranquillo sul conto mio, che certo sarei stato d’accordo con lui qualora ci trovassimo in simile circostanza. Trascorso non molto tempo, giunto colui che doveva consacrarci ed essendomi io nascosto, egli non sapendo nulla di ciò, venne condotto via con una ragione plausibile; ricevette pertanto il giogo, confidando, da quanto gli avevo promesso, che io l’avrei senz’altro seguito, anzi credendo di venirmi addietro. E intanto alcuni fra i presenti, vedendolo triste per esser stato preso, lo ingannarono dicendo essere cosa strana che colui il quale sembrava a tutti più impetuoso, e alludevano a me, cedesse con molta calma al giudizio dei padri, e al contrario colui che era più assennato e modesto s’incaponisse e riluttasse, agitandosi, ricalcitrando e contraddicendo. Avendo poi egli ceduto a queste parole, appena seppe che io ero fuggito, venne presso di me, e dopo essersi rimasto a lungo costernato, alfine si sedette vicino e voleva pur dire qualcosa, ma trattenutone dall’ansietà, né potendo adeguare colla parola l’agitazione da cui era preso, tosto che apriva la bocca per parlare, n’era impedito, essendo la parola troncata dalla confusione prima di uscire fuori dai denti. Vedendolo io pertanto lacrimoso e tutto ripieno di turbamento e sapendone la cagione, mi posi a ridere per il gran piacere che provavo, e tenendogli la destra mi sforzavo di baciarlo, lodando Iddio che avesse fatto riuscire bene il tranello e secondo il mio desiderio. Ma egli come mi vide raggiante di gioia, e come prima intese d’essere stato da me ingannato, più fortemente si rodeva e si adontava.

Lagnanze di Basilio per l’inganno dell’amico

IV. Alfine riavutosi alquanto da quel turbamento di spirito: "Se anche, disse, hai posto in non cale i fatti miei e ormai non fai più nessun conto di me, per qual motivo non so, dovevi pur darti pensiero almeno della tua riputazione. Ora hai aperto le bocche di tutti, e ognuno va dicendo che tu hai rifiutato questo ministero per mondano attaccamento, né v’è alcuno che pensi a scolparti da simile accusa. A me poi non dà l’animo neanche di mostrarmi sulla piazza, tanti sono quelli che mi vengono incontro e ogni giorno mi fanno rimproveri. Se poi mi vedono apparire in qualche parte della città, prendendomi a quattr’occhi quanti sono con noi in rapporti di familiarità, versano su di me la maggior parte delle accuse. Poiché, dicono, conoscendo tu la sua intenzione né a te era mai nascosto nulla de’ suoi disegni non dovevi celarla a noi, ma rendercene informati; chè non ci sarebbe affatto mancato il mezzo di prenderlo. Onde io, che proprio ignoravo che tu da lungo tempo andassi maturando tale progetto, mi vergogno e arrossisco di rispondere a coloro, per timore che non abbiano a stimare la nostra una finta amicizia. E se anche è così, come non v’ha ormai dubbio, né potresti negarlo dopo quello che mi hai fatto, è pur cosa prudente il celare le nostre magagne agli altri, che hanno buona opinione di noi. Io rifuggo adunque dallo spiattellare loro in faccia la verità, dicendo come stanno fra noi le cose; sono quindi costretto a tacere e chinare gli occhi a terra, cercando di evitare e fuggire gli incontri, Ma se io pure sfuggirò alla prima accusa, sarò poi tacciato di menzogna, perché certo non vorranno credere mai che tu abbia collocato Basilio al livello di coloro ai quali non è lecito confidare i tuoi secreti. Or non voglio far troppe parole su ciò, poiché a te è così piaciuto; ma riguardo al resto, come potremo noi sopportare la vergogna? chi ti accusa di arroganza, chi di vanagloria; quelli poi fra i nostri accusatori che si mostrano più accaniti, ti addossano l’una e l’altra colpa, e aggiungono che tu hai fatto ingiuria a quelli che ti avevano proposto alla dignità. Aggiungono ancora esser ben giusto che quelli soffrano tale affronto da noi e che ne meriterebbero di maggiori; perché lasciati da parte tanti e tali altri candidati, prendono fanciulli ancor ieri e ieri l’altro ingolfati nelle affezioni mondane, e se appena abbiano per qualche tempo portato in giro gli occhi bassi, vestito panni bruni e ostentato compunzione, d’improvviso li elevano a una si augusta dignità, a cui neppure avrebbero sognato di giungere mai; mentre uomini che hanno durato in penitenza dalla prima età fino all’estrema vecchiezza, rimangono fra i sudditi, e comandano a loro gli imberbi che potrebbero esser loro figli, ignari delle leggi secondo le quali si deve questo governo esercitare. Queste ed altrettali dicerie ripetendo, mi stanno continuamente ai panni. Io non ho che rispondere in difesa a queste imputazioni, e però ti prego di suggerirmelo. Poiché io non credo già che tu abbia perpetrata questa tua fuga ingenuamente e senza un piano premeditato, affrontando l’inimicizia di sì alti personaggi, ma che ciò tu abbia fatto con qualche calcolo riflesso e con qualche idea preconcetta; onde io mi penso che avrai pronti gli argomenti per la tua difesa. Di’ adunque, se v’è qualche giusto pretesto che possiamo addurre ai nostri accusatori. Dell’ingiuria da te arrecatami non cerco alcuna ragione, né per avermi ingannato, né per avermi tradito, né di quanto nel passato ho fatto per te. Io veramente avevo preso, per così dire, l’anima mia e postala nelle tue mani; tu invece hai usato meco in guisa tanto subdola, come se avessi dovuto porti in guardia da un nemico. Per certo, se riputavi vantaggiosa questa nostra elezione, non dovevi privare te di tale vantaggio; se poi la credevi dannosa, dovevi allontanare il danno anche da me, che pur dicevi di apprezzare più d’ogni altro. Invece facesti il possibile per farmici cascare, e ti fu mestieri dell’inganno e della finzione verso chi soleva sempre fare e dire ogni cosa con te senza sotterfugi e con piena sincerità. Ma, come ho detto, non voglio rampognarti di questo ora, né rimpiango la solitudine in cui mi hai posto, troncando quelle conversazioni comuni, da cui sì gran piacere e non piccolo vantaggio tante volte ritraemmo. Lascio da parte ogni cosa, sopportando in silenzio e mitemente: già non facesti mitemente tu, ponendomi in non cale; ma da quel giorno in cui ricambiai d’affetto la tua amicizia, mi ero imposto questa legge, di non chiederti ragione di qualunque offesa piacesse a te di recarmi. Che poi non lieve danno tu m’abbia inflitto, lo sai tu stesso, seppure ti sovviene delle parole che gli estranei dicevano di noi e di quello che noi stessi dicevamo: cioè che grande vantaggio era per noi l’essere concordi e il farci riparo della reciproca affezione. E gli altri tutti asseveravano che pur a molti non poco frutto avrebbe portato la nostra unanimità. Io per vero non mi pensavo, per quanto dipendeva da me, di portar frutto ad alcuno; ma ben ritenevo che assai ci avrebbe giovato per non essere agevolmente sopraffatti da coloro che avessero voluto muoverci guerra. E non cessavo mai di ricordarti che l’età nostra è perversa; molti ci tendono insidie; l’amore sincero è sparito e vi è sottentrata la peste della gelosia; procediamo in mezzo ai tranelli e siamo esposti come coloro che combattono sugli spalti della città. Numerosi e da molte parti sopraggiungono quelli che sono pronti a rallegrarsi dei nostri mali, qualora alcuno ce ne accada, e niuno v’è che alle nostre sciagure vorrebbe partecipare, o pochissimi per certo. Guardati pertanto che, essendo noi discordi, non ci tocchi gran derisione, o peggio ancora, qualche malanno. "Il fratello sorretto dal fratello è come città forte e come un regno sbarrato"(Prv. 23,19); non voler dissolvere questa fraternità sincera, né infrangere la barra. Queste e molte altre cose io ti venivo sempre dicendo, nulla sospettando mai di simile, ma stimando i tuoi sentimenti verso di me saldi e intatti, e volendo suggerire rimedi non necessari a uno spirito sano; non mi pensavo certo, come sembra, che porgevo medicine a chi in realtà era malato. Ma, misero me, che neppure così trassi giovamento, né m’ebbi miglior sorte per questa mia gran previdenza! Gettando via in un fascio tutti quegli ammaestramenti, anzi neppur accogliendoli nel cuore, spingesti me inesperto in mezzo al pelago, come una nave priva di zavorra, senza pensare alle fiere tempeste che dovrò sostenere. Ché se mi occorrerà talora d’aver a sopportare calunnia o scherno o altra insolenza ed oltraggio ed è forza che. ciò m’accada, presso chi potrò cercare rifugio? a chi confidare i miei timori? chi vorrà assumere la mia tutela e, reprimendo gli oltraggiatori e impedendo loro di più oltre farmi ingiuria, mi conforterà e mi aggiungerà lena per tollerare l’ignoranza altrui? Nessuno v’è ormai, poi che tu ti rimani lontano da questo fiero o conflitto, né ti dà l’animo di udirne pur anco il frastuono. Or comprendi qual male hai commesso? riconosci ora, dopo aver inflitto il colpo, qual mortale ferita mi recasti? Ma questo lasciamolo, ché non si può disfare quel che oramai è fatto, né è dato trovare l’adito quand’è chiusa ogni via. Dimmi piuttosto: che cosa ho da dire agli estranei? come rispondere alle loro accuse?".

Fine del prologo. Prima parte della difesa di Giovanni. L’inganno può essere opportuno e lecito

V. Fa’ cuore, dissi, non solo sono pronto a dar ragione di tutto, ma mi studierò di giustificarmi, come saprò meglio, anche di quello onde mi accusi senz’ammettere giustificazione. Anzi, se ti piace, da questo appunto prenderò la mia difesa, perché sarebbe cosa sconveniente e molto irragionevole se, preoccupandomi dell’opinione degli estranei e adoperandomi in ogni modo per distruggere le imputazioni che ci muovono, non riuscissi a tranquillizzare il mio più diletto amico (colui che pur dicendosi da me ingiuriato, usò meco tanta moderazione da non voler neppure chiedermene conto, ma dimenticando le sue querele si preoccupa solo de’ fatti miei), dimostrandogli che non gli ho fatto alcuna ingiustizia; e sembrassi per tal modo più trascurato a suo riguardo di quanto egli si mostrò sollecito verso di me. In che dunque ti ho fatto ingiuria? Poiché da questo punto ho deciso di muovere nel pelago della mia difesa; gli è dunque perché t’ho ingannato e t’ho celato la mia intenzione? Ma io ti dico che ciò fu per tuo vantaggio e per vantaggio di coloro ai quali io ti ho consegnato mediante l’inganno. Infatti, se in ogni caso la frode è un male e in nessuno modo mai è da farne uso, allora io sono pronto a subire la pena che a te piacerà di richiedere; o meglio, poiché tu non sosterresti di infliggermela, io stesso pronuncerei contro di me quella condanna che i giudici recano contro i colpevoli quando questi vengono presi da’ loro accusatori. Se invece la frode non è sempre dannosa, ma diviene buona o cattiva a norma dell’intenzione di chi l’adopera, cessando di imputarmi l’inganno, tu devi dimostrare che questo io feci per tuo svantaggio; che se ciò non è, lungi dal muovere. biasimi e querele, le persone assennate dovrebbero per giustizia saper grado all’ingannatore. Ora l’inganno ben adoperato e applicato con retta intenzione è talmente vantaggioso, che molti dovettero spesso sottostare a pena per non averlo messo in opera.

Esempio tolto dall’arte militare

VI. Se ti piace di cercare fra i capitani da lunga pezza celebrati, troverai che la maggior parte di loro vittorie fu effetto di stratagemmi e vedrai pure che sono più lodati costoro di quelli altri i quali vinsero pugnando in campo aperto. Questi infatti pagando la vittoria con molto dispendio di denaro e di uomini, diedero vantaggio al nemico, di guisa che nulla giovò loro l’aver vinto, ma i vincitori furono in non minore angustia dei vinti, per via dei soldati da loro perduti e dell’erario esaurito. Inoltre non è dato loro di godersi la gloria delle armi, perché non piccola parte di essa tocca ai caduti nella battaglia i quali, pur vinti nei corpi, rimangono tuttavia vincitori nelle anime, e se era dato loro di serbarsi incolumi fra i colpi dei nemici e sfuggire così alla morte, non avrebbero certamente rallentato di coraggio. Ma il duce che riuscì a vincere mediante l’inganno, infligge ai nemici, oltre lo scacco, la derisione; perocché la lode di sagacia non tocca questa volta ad ambedue le parti come la lode della forza nel primo caso, ma qui il premio è tutto intero dei vincitori, e, ciò che non vale meno, essi serbano intera alla città la gioia della vittoria. Sono infatti cose diverse la ricchezza e il numero dall’accortezza della mente: quelle, col continuo usarne durante la guerra, si dissipano e lasciano all’asciutto i loro possessori; questa invece quanto più uno l’adopera, tanto più aumenta. Né solo durante la guerra, ma anche in tempo di pace può esservi grande e urgente bisogno d’usare l’inganno, non solo nei pubblici affari, ma anche in casa la moglie verso il marito e viceversa, il padre verso i figli, l’amico con l’amico e pur verso il padre i figlioli. La figlia di Saul non riuscì a trarre suo marito dalle mani del padre suo, se non usando verso di lui l’inganno. Il fratello di lei poi, volendo a sua volta salvare dal pericolo estremo quegli che già da lei era stato salvato, nuovamente pose in opera le stesse armi a cui la donna aveva ricorso.

Esempio tolto dall’arte medica

VII. Qui Basilio: Ma ciò non mi riguarda punto, disse; poiché io non sono per te nemico né avversario, né del numero di coloro che perpetrano l’ingiustizia, ma tutto all’opposto: perché essendomi io rimesso sempre al tuo consiglio, ti seguii là dove tu avevi indicato.

Ottimo e impareggiabile uomo, soggiunsi, appunto per questo io dissi prima che non solo in guerra ne solo contro i nemici, ma anche in pace e coi più intimi è buona cosa usare la frode. Per persuaderti poi che questa giova non solo a chi l’adopera, ma pure a chi la subisce, va’ e domanda a qualche medico con quali mezzi essi liberano gl’infermi dai loro malanni, e udrai che non solo con l’arte allontanano i morbi, ma che vi sono casi nei quali appigliandosi allo stratagemma e venendo con esso in soccorso all’arte, possono talora ricondurre l’infermo a sanità. E infatti, quando l’irritabilità dei malati e la perversità del male stesso non s’adattano ai consigli dei medici, allora é mestieri vestire la maschera dell’inganno per celare la vera natura delle cose, come accade sulle scene. Ti narrerò, se ti piace, uno stratagemma fra i molti che udii essere stati usati dai cultori dell’arte medica. Era sopraggiunta a un tale d’improvviso una gran febbre e l’ardore andava crescendo; il malato rifiutava i calmanti che gli si davano per sedarla e pregava con molta insistenza chi si recava a fargli visita, affinché gli porgesse vino in copia e gli desse di poter saziare quella brama mortale. Or chi gli avesse soddisfatto questo desiderio, non solo gli avrebbe vie più accesa là febbre, ma avrebbe gettato quell’infelice in preda al delirio. Allora, vacillando l’arte né avendo alcun rimedio ed essendo posta al tutto da un canto, vi sottentrò l’inganno, facendo prova di sua benefica efficacia, come tosto udrai. Il medico, preso un vaso di terra cotta uscito di fresco dalla fornace, lo immerse in grande quantità di vino; indi trattolo fuori vuoto e riempitolo d’acqua, ordina di oscurare con molte tende la stanza ove giaceva l’infermo, affinché la luce non palesasse l’inganno, e gli porge quindi il vaso da bere, come se fosse pieno di vino puro. Quegli, prima ancora di averlo tra mano, subito ingannato dal profumo che se ne spandeva, non sofferse neppure d’investigare su ciò che gli era porto, ma fidandosi all’odore e illuso dall’oscurità, spinto dalla brama tracannò con grande avidità il liquido e saziatosi spense tosto l’ardore che lo soffocava, scampando così dal pericolo imminente. Vedi il vantaggio dell’inganno? Ché se si volesse addurre tutti gli stratagemmi dei medici, non la si finirebbe più. Né solo coloro che curano i corpi, ma anche fra coloro che danno opera a curare le infermità spirituali, si può trovarne di quelli che spesso usarono tale rimedio. Con questo infatti il beato Paolo acquietò quella moltitudine di Giudei; con tale intenzione pure circoncise Timoteo colui il quale aveva mandato a dire ai Galati che Cristo non avrebbe giovato per nulla ai circoncisi; onde si sottopose alla Legge colui stesso che stimava un danno la giustificazione della legge dopo la fede in Cristo. Grande è invero l’efficacia dell’inganno, purché non venga adoperato con intenzione maligna; anzi non inganno si deve dire questo modo di agire, ma piuttosto una certa economia e saggezza, un’arte capace di trovare molte vie d’uscita nei luoghi impervi, e di correggere anche le negligenze dell’anima. Poiché io non chiamerei omicida Finees, sebbene d’un sol colpo uccidesse due persone; e neppure Elia in seguito ai cento soldati e a’ loro duci, e al torrente di sangue che fece scorrere con la strage dei sacerdoti idolatri. Che se ciò ammettiamo e se le azioni di coloro che quelle cose compirono, si considerano per se stesse, separatamente dall’intenzione, taluno potrà, se gli talenta, chiamare Abramo uccisore di suo figlio, ed il nipote ed il discendente di lui parimenti incolperà di misfatto e d’ingiustizia: perocché in tal guisa l’uno conquistò la precedenza naturale e l’altro trasferì le ricchezze degli Egizi nell’esercito degli Israeliti. Ma no, non é certo così: lungi tale empietà! Ché non solo li riteniamo incolpevoli, ma anzi, per queste stesse loro azioni li ammiriamo, poiché Dio stesso ne li lodò. Ed invero si deve chiamare giustamente ingannatore colui che usa il ripiego con fine ingiusto, non chi vi ricorre con retto consiglio. Ma d’altra parte spesso torna utile l’ingannare, per ritrarre da tale artificio i maggiori vantaggi: onde colui che vi s’induce con retto fine, cagionerebbe gravi mali a chi non venisse ingannato.

Libro secondo



L’inganno diede occasione a Basilio di manifestare il suo amore a Gesù Cristo

I. Avrei potuto dire molto di più per dimostrare che si può usare l’efficacia dell’inganno anche in bene, e che questa non dovrebbe chiamarsi frode, ma piuttosto una certa mirabile economia. Ma poiché le cose dette sono ormai sufficienti per darne la prova, sarebbe importuno e noioso il protrarre più a lungo il discorso. Toccherebbe ora a te il dimostrare che io ho usato un tal mezzo contro al tuo vantaggio.

E Basilio: Ma quale vantaggio, disse, mi recò questa tua economia o saggezza o come meglio ti piaccia di chiamarla, perché io debba credere che in realtà non fui da te ingannato?

E qual maggior guadagno, soggiunsi, che l’essere veduti a compiere quelle opere che Cristo stesso disse essere segni dell’amore a Cristo, E per vero, rivolgendosi al corifeo degli Apostoli: Pietro, dice, mi ami tu? e affermandolo questi, soggiunge Cristo: Se mi ami, pascola le mie pecore. Il maestro interroga il discepolo se lo ama, non già per esserne informato, come ne avrebbe avuto bisogno colui che penetra i cuori di tutti? ma per insegnare a noi quanto gli stesse a cuore il governo di questo gregge. Ora, essendo ciò palese, sarà pur palese la conseguenza, cioè che grande e incomparabile mercede sarà serbata a chi si dedica a quest’impresa, che tanto è apprezzata da Cristo. Che se noi, qualora vediamo alcuno prendersi cura dei nostri armenti, consideriamo come segno di affezione verso di noi la cura usata verso di quelli, sebbene si tratti di cose acquistate con denaro; colui che ha riscattato questo gregge non con ricchezza od altro valore, ma con la sua propria morte e ne diede in prezzo il suo stesso sangue, con qual mercede ricambierà quelli che si occupano nel pascolare questo gregge stesso? Per ciò appunto, avendo il discepolo risposto: Tu sai, o Signore, che io ti amo, chiamando l’amato stesso in testimonio del suo amore, il Salvatore non si accontentò solo di questo, ma aggiunse la dimostrazione dell’amore. Non voleva già Egli allora che Pietro gli significasse la proporzione dell’amor suo, ciò è a noi noto per molti indizi, ma Voleva dimostrare piuttosto quanto Egli ami la sua Chiesa; e volle che Pietro e tutti noi lo apprendessimo, affinché ancor noi le dedicassimo tutte le nostre cure. Per qual ragione infatti Dio non risparmiò il suo unigenito figliolo, ma quel solo che aveva lo donò? certo per riconciliare a sé coloro che gli s’erano inimicati e formare un popolo scelto. Per qual motivo poi Cristo versò il suo sangue? certo per riacquistare quelle pecore che ha affidate a Pietro e a’ suoi successori. A buon diritto e giustamente pertanto disse Cristo: "Chi é mai quel servo fedele e prudente, che il suo padrone preporrà alla sua casa?". Di nuovo le parole sono come di chi dubita; però Colui che le pronunziava non dubitava punto, ma siccome quando chiese a Pietro se lo amava, non lo fece per bisogno che avesse di scrutare i sentimenti del discepolo, ma perché voleva dimostrare la grandezza del suo proprio amore, così pur ora dicendo: Chi é mai il servo fedele e prudente? Non lo dice perché ignori in realtà chi sia il fedele e saggio servitore, ma volendo far rilevare quanto scarso ne sia il numero e quanto grande sia questo ministero. Vedi ora quanto ne sia il premio: "Lo preporrà a tutte le sue sostanze" (Mt. 24, 47).

Il ministero pastorale é la miglior prova d’amore a Cristo, Esso non é impresa da tutti, ma solo di pochi eletti

II. Dunque dubiterai ancora che io non t’abbia felicemente ingannato, mentre stai per esser posto a capo di tutti gli interessi di Dio e compiere quelle opere, compiendo le quali Pietro, a detta di Cristo, avrebbe sorpassato gli altri Apostoli? Dice infatti: "Pietro, mi ami tu più di costoro? pascola le mie pecore". Poteva per altro dirgli: "Se mi ami, pratica il digiuno, il sonno su nuda terra, le vigilie ininterrotte, assumi la difesa degli oppressi, sii come padre agli orfani e come marito alle madri loro"; invece, lasciando da parte tutte queste cose, che dice? Pascola le mie pecore. E per vero le altre opere che sopra ho dette, possono compierle agevolmente anche molti fra i sudditi, non solo uomini, ma donne ancora; trattandosi invece di soprastare alla comunità dei fedeli e d’essere incaricati della guida di tante anime, ceda il posto tutto i; sesso femminile e anche la maggior parte degli uomini, di fronte alla grandezza dell’impresa; si traggano innanzi quelli che di gran lunga superano tutti gli altri e sono tanto più eccelsi per virtù dell’anima, quanto Saul superava nella statura tutto il popolo Ebreo, anzi, assai più. Ché non si deve in tal caso cercare solamente se alcuno emerga dagli omeri in su, ma quale è la distanza che corre fra i bruti e gli esseri ragionevoli, tale è la proporzione fra il pastore e la greggia; per non dir di più, ché il rischio versa intorno a cose ben maggiori. Poiché colui che perde le pecore per rapina di lupi o per sopraggiungere di ladri, o in causa di qualche morbo o per altro qualsiasi accidente, riceverebbe pur qualche perdono dal padrone della greggia; e qualora fosse richiesto di ammenda, il danno si limita alle sostanze. Ma quegli a cui vennero affidati gli uomini, il gregge razionale di Cristo, in pena per la rovina delle pecore deve anzitutto sottostare non a danno di sostanze, ma della sua propria anima. Inoltre deve durare una lotta assai maggiore e più fiera. Non deve egli infatti combattere contro lupi, né ha a temere di predoni, né a darsi pensiero d’allontanare dal gregge qualche morbo; ma contro chi è la sua guerra? con chi la sua battaglia? ascolta ciò che dice il beato Paolo: "Non abbiamo da lottare con la carne e col sangue, ma con i prìncipi e colle potestà, con i dominanti di questo mondo tenebroso, con gli spiriti maligni dell’aria" (Ef. 6,12). Vedi la moltitudine terribile dei nemici e le feroci falangi, non corazzate di ferro, ma tali a cui è sufficiente la propria natura invece d’ogni arma? Vuoi tu vedere un altro esercito orribile e feroce che assedia questo gregge? lo scorgerai dalla stessa vedetta; colui che ha parlato di quei nemici, colui stesso ci svela questi altri, così dicendo, in altro luogo, che sono palesi le opere della carne quali siano: prostituzione, adulterio, impurità, sfrontatezza, idolatria, sortilegio, inimicizie, contese, invidie, iracondia, sedizioni, oltraggi, maldicenze, orgoglio, sommosse e altre più ancora, poiché non le nominò tutte, ma da queste lasciò intravedere le rimanenti.

Non si possono trattare gli uomini come le pecore

E quanto al pastore di bestie, quelli che mirano alla strage del gregge, qualora vedano fuggire il custode, smessa la lotta contro di lui, si accontentano della rapina degli animali; qui invece, se pur abbiano presa tutta la greggia, neanche allora risparmiano il pastore, ma vie più gli sono sopra e vie più imperversano, né cessano prima d’averlo vinto o d’esserne stati vinti. Aggiungi a tutto questo, che le malattie degli animali sono palesi, sian essi offesi da morbo o da fame o da ferita o da checché altro; né ciò conferisce poco a togliere di mezzo la cagione del male. Un’altra circostanza poi v’è, che agevola la rapida liberazione da quelle infermità; quale? i pastori costringono con molta padronanza le pecore ad accogliere la medicazione, qualora quelle non vi sottostessero di buon grado; onde torna facile il legarle quando sia d’uopo cauterizzare o tagliare; facile parimenti il farle stare a lungo rinchiuse, quando ciò sia di giovamento; il porgere un cibo invece d’un altro, il trattenerle da certi paschi, e tutte le altre cure che giudicassero conferire alla loro guarigione, viene loro fatto di applicarle con grande facilità.

III. Invece le infermità degli uomini, non è anzitutto agevole ad uomo lo scorgerle, poiché "nessuno conosce le cose dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui" (1Cor. 11,11). Or come potrebbe uno applicare la medicina a un male di cui non conosce la natura, e mentre spesso non gli è dato neppur di sapere se altri sia o no ammalato? E quando pure ciò sia divenuto palese, allora appunto gli offre le massime difficoltà; poiché non è possibile curare tutti gli individui con la stessa libertà con la quale il pastore cura una pecora: v’è bene anche qui la facoltà di legare, d’interdire l’alimento, di bruciare e tagliare; ma la facoltà di accogliere il rimedio risiede non in chi porge la medicina, sebbene nell’infermo stesso. Ciò ben sapendo quel mirabile uomo disse ai Corinzi: "Non perché noi facciamo da padroni sopra la vostra fede, ma cooperiamo alla vostra consolazione"(2Cor. 1,24). Soprattutto poi ai Cristiani non è permesso di correggere a forza gli errori dei colpevoli. I magistrati civili, quando sottopongono i malfattori alla norma delle leggi, fanno mostra di grande potestà e sforzano i riluttanti a mutare i loro costumi; qui invece tali individui debbono essere corretti con la persuasione anziché con la violenza. Perocché non ci è conferita dalle leggi questa facoltà per ritrar dal male i colpevoli, e quand’anche ce l’avessero conferita non avremmo dove usare la forza, dando Dio la corona non a chi lascia il male per necessità, ma a chi lo lascia per sua libera scelta. Onde v’è bisogno di grande abilità per far sì che gl’infermi si persuadano a sottoporsi volentieri alle cure dei sacerdoti, né questo solo, ma ancora perché vedano il vantaggio che la cura loro arreca. Ché se alcuno legato ricalcitra, ed è in suo potere il farlo ne viene un male peggiore; e se non farà conto di certe parole taglienti come ferro, con lo spregio viene ad aggiungere un’altra piaga, onde il pretesto della cura diviene occasione di più grave malattia. Poiché non vi è chi lo possa costringere e curarlo contro sua voglia.

Il rimedio deve essere proporzionato al male

IV. Che dunque s’avrà da fare? Poiché se usi troppa delicatezza con chi ha bisogno di molti tagli, e non fai un’incisione profonda a chi n’ha d’uopo, avrai asportato solo una parte della ferita lasciandovi l’altra parte. Se poi senza esitazione applichi il taglio necessario, spesso l’ammalato disperando del suo male, gettata via in un fascio ogni cosa, e medicina e fasciature, finì per gettarsi a capofitto, spezzando il giogo e rompendo i legami. Potrei narrare di molti che dettero in mali estremi per essere stati sottomessi alla pena dovuta alle loro colpe. Poiché non si deve applicare il castigo soltanto in ragione della grandezza dei falli, ma si deve pur tenere conto dell’intenzione dei colpevoli, affinché non t’accada, volendo rattoppare uno squarcio, di produrne uno più grande e che, tentando di rialzare ciò che è caduto, tu produca una caduta peggiore. 1 deboli, divagati e per lo più schiavi della mollezza mondana, e che inoltre hanno di che inorgoglire per nascita e potenza, corretti dei loro mancamenti dolcemente e poco per volta, potrebbero pure, se non in tutto almeno in parte, purgarsi dei vizi da cui sono dominati; se invece uno applica loro d’un tratto l’ammonizione, li avrà privati anche di quel minore miglioramento. Ché l’anima, spinta una volta all’impudenza, diventa insensibile, né più si lascia muovere dalle parole dolci, né piegare dalle minacce, né eccitare dai benefici, ma diviene assai peggiore di quella città a cui il profeta, riprovandola, dice: "Hai assunto aspetto di meretrice, né alcuno più tifa arrossire" (Ger. 3,3). Per ciò il pastore ha bisogno di molta prudenza e di infiniti occhi onde scrutare in ogni parte le condizioni di un’anima. Perocché come molti salgono in arroganza e cadono in disperazione della propria salvezza, non potendo adattarsi a medicine amare; così vi sono di quelli che per non aver subìto un castigo proporzionato ai loro mancamenti, cadono nell’indifferenza, diventano molto peggiori di prima e sono incitati a commettere colpe più gravi. Bisogna pertanto che il sacerdote non trascuri di esaminare ognuna di queste circostanze, ma tutto diligentemente scrutando, faccia quanto è in suo potere secondo l’opportunità affinché la sua cura non gli divenga inutile.

Come ricondurre all’ovile le pecorelle smarrite

Né soltanto in questo, ma anche nel riunire i membri separati dalla Chiesa uno si troverà ad aver molto da fare. Il pastore di pecore ha il gregge seguace dovunque esso venga condotto: che se qualche capo si svia dal retto cammino, e lasciato il buon pascolo, va a cibarsi in luoghi infecondi e ripidi, gli basta dar un grido più forte, per raccogliere di nuovo e riunire al gregge la parte che se n’era divisa; se invece un uomo viene trascinato lungi dalla retta fede, fa d’uopo al pastore di molto lavorio, di fortezza, di tolleranza. Non deve trascinarlo a forza né costringerlo con timore, ma per via di persuasione egli dev’essere ricondotto a quella verità dalla quale prima s’era allontanato. V’è bisogno quindi di un’anima generosa, onde non si smarrisca né disperi della salvezza degli erranti, onde consideri e ripeta continuamente quel detto: "...nella speranza che Dio conceda loro la vera conoscenza e si liberino dalla rete del diavolo" (2Tim. 2,25). Per questo il Signore parlando ai discepoli disse: "Chi è dunque il servitore fedele e prudente?" (Mt. 24,45). Poiché colui il quale attende a sé solo, converte a sé tutto il vantaggio, mentre invece l’utilità del ministero pastorale si estende a tutto il popolo. Colui poi che largisce denaro a’ bisognosi, o in altra guisa assume la tutela degli oppressi, costui per certo reca qualche utilità al prossimo, ma tanto minore del sacerdote, quanta è la distanza che corre fra il corpo e l’anima. A ragione dunque il Signore disse la cura prodigata al gregge essere segno dell’amore verso di Lui.

Intermezzo I

Perché Giovanni fuggì la dignità e vi spinse invece l’amico.

Virtù di Basilio proclamate da Giovanni

V.: "Ma tu, disse, non ami Cristo?".

"L’amo (risposi) né mai cesserò di amarlo; ma temo di muovere a sdegno il mio Diletto".

"E quale enigma, soggiunse, potrebbe darsi più oscuro di questo? Ché mentre Cristo a chi lo ama impose di pascolare le sue pecore, tu dici di non volerle pascolare, appunto perché ami Colui che ciò ha comandato".

"Non è un enigma, ripresi io, il mio discorso, ma anzi è al tutto chiaro e semplice. Ché se io avessi fuggito questa dignità pur avendo le qualità necessarie per esercitarla come vuole Cristo, allora potrebbe nascere dubbio su quanto io ho detto; ma poiché la debolezza dell’anima mi rende inetto a questo ministero, come possono le mie parole suscitare discussione? E per vero io temo che ricevendo il gregge di Cristo prosperoso e ben nutrito, e facendolo deperire con la mia inettitudine, non ecciti contro di me quel Dio che tanto l’amò, fino a dare se stesso per la sua salvezza e per il suo riscatto".

"Tu scherzi dicendo tali cose, mi disse, ché se fai sul serio non so come avresti potuto in altro modo dimostrare la giustezza delle mie ansietà, meglio che con queste parole, con le quali tentavi di rimuovere la mia trepidazione. Già prima convinto che tu m’avevi ingannato e tradito, ora che t’accingesti a scagionarti dalle accuse, io comprendo ancor meglio in quale abisso di sciagure m’hai gettato. Ché se tu ti sottraesti da questo ministero perché conoscevi l’insufficienza delle tue forze a sopportarne il peso, io per il primo dovevo esserne allontanato, anche se per caso me ne avesse preso gran desiderio; oltre di che io avevo pur rimesso a te ogni divisamento riguardo a queste cose. Ora invece, solo curandoti de’ fatti tuoi trascurasti la mia sorte; e almeno l’avessi proprio trascurata, ché mi sarebbe stato caro: ma invece sei ricorso all’insidia per rendermi facile preda di coloro che m’avevano appostato. Né puoi ricorrere al pretesto che la fama circolante fra i più ti trasse in inganno e ti fece concepire una grande e mirabile opinione di me; io non sono del numero di quelli che destano meraviglia e attirano l’attenzione; né, se anche ciò fosse, è da preporre l’opinione del volgo alla realtà delle cose. Se io non t’avessi fornito mai l’esperienza della mia compagnia, pare che un ragionevole pretesto l’avresti avuto per giudicare a norma dell’opinione comune; ma dal momento che nessun altro conosce siffattamente le cose mie, ma a te è nota l’anima mia più ancora che a quelli che mi hanno generato e allevato, quale ragione tanto persuasiva potresti addurre per convincere chi t’ascolta, che contro tua intenzione mi hai spinto a questo cimento? Ma lasciamo ora da parte ciò; non voglio per questi fatti sottoporti a rigoroso giudizio. Dimmi ormai: che cosa risponderemo ai nostri accusatori?".

"Per certo, risposi io, non verrò a quest’argomento, fino a che non avrò terminato quanto riguarda te, anche se mille e mille volte mi richiedessi di purgarmi dalle altre accuse. Tu dicesti che l’ignoranza mi otterrebbe perdono e mi assolverebbe da ogni accusa, se non conoscendo i fatti tuoi t’avessi spinto nella tua presente condizione, e che ogni giusto pretesto e ogni legittima difesa mi è interdetta, avendoti tradito, non già perché fossi al buio delle cose tue, ma essendone pienamente edotto. Io dico invece affatto il contrario: e perché? perché simili faccende richiedono lunga ricerca, e chi intende proporre un candidato degno del sacerdozio, non deve appagarsi unicamente dell’opinione del volgo, ma insieme deve egli stesso, più di tutto e prima di tutto, investigare la vita di quello. E per vero, il beato Paolo dicendo: "Fa d’uopo ancora che egli sia in buona riputazione presso gli estranei" (1Tim. 3,7), non esclude l’indagine diligente e minuziosa né propone il criterio della buona fama come indizio capitale nel giudicare dell’idoneità di tali candidati. Infatti dopo aver discorso di molte cose, alla fine aggiunge questa norma, per mostrare che non di essa sola conviene appagarsi in tali scelte, ma questa si deve adottare insieme alle altre. Non raramente avviene che la comune opinione s’inganni; ma con la scorta d’una diligente indagine, non v’è più a temere da quella alcun pericolo. Perciò dopo gli altri indizi pone anche quello della altrui opinione; non dice infatti semplicemente: "Fa d’uopo che egli sia in buona riputazione", ma aggiunge quell’anche presso gli estranei, volendo mostrare che prima d’affidarsi all’opinione di quei di fuori, bisogna diligentemente esaminarlo. Poiché dunque io conoscevo i fatti tuoi meglio dei tuoi parenti, come tu stesso ammettesti, sarebbe giusto che io fossi sciolto da ogni accusa.

Giovanni fa l’elogio della virtù di Basilio

VI. "Ma appunto per questo, disse, non puoi difenderti, se alcuno voglia accusarti; o non ricordi la pochezza della mia anima, della quale io tante volte ebbi a parlarti e che potesti apprendere dalle mie opere? e non mi schernivi tu sempre, tacciandomi di pusillanimità, perché io mi smarrisco anche nelle incombenze comuni?".

"Ricordo, risposi, d’aver ciò udito sovente volte da te, né potrei negarlo; ma se io ti schernivo, lo facevo per gioco, non sul serio".

Ma tuttavia non starò ora a discutere di questo; ti prego invece di accordarmi eguale benevolenza quando io venga rammentando alcuna delle doti che tu possiedi. Ché se anche tenterai d’accusarmi di menzogna, non cederò, ma dimostrerò che tu lo dici per modestia e non per la verità; né mi varrò d’altro testimonio, se non delle tue stesse parole e delle opere tue per confermare la verità delle mie asserzioni. E anzitutto questo ti voglio dire: Sai tu qual sia la potenza dell’amore? Cristo, lasciando da parte tutti gli altri portenti che dovevano esser compiuti dagli Apostoli: "Da questo, dice, conosceranno gli uomini che siete miei discepoli, se vi amerete reciprocamente" (Gv. 23,35). Paolo poi dice che esso è la pienezza della legge e che a nulla giovano i carismi dov’esso faccia difetto. Or questo bene ch’è il più eccellente, la tessera dei discepoli di Cristo, quello che sta sopra i carismi, io scorsi profondamente radicato nell’anima tua e fecondo di molti frutti.

"Che io ponga in ciò molto studio, disse, e molta sollecitudine dedichi a questo precetto, lo confesso io pure; che poi non lo abbia soddisfatto neppure per metà, potrai tu stesso farmene fede, qualora lasciando da parte le parole cortesi, voglia tenere conto solo della verità".

"Orbene, risposi, verrò alle prove; e come minacciai ora farò, dimostrando che tu parli per modestia anziché per dire il vero. Narrerò un fatto testé accaduto, onde non nasca sospetto che, narrando cose vecchie, cerchi di adombrare la verità, facendo si che l’oblio non permetta di protestare contro le cose da me narrate per cortesia. Dunque, quando uno dei nostri amici, calunniato con accusa di oltraggio e insubordinazione, stava per incorrere nelle pene estreme, allora tu senza che alcuno ti chiamasse, neanche quegli a cui la condanna soprastava, ti gettasti da te nel mezzo del pericolo. Questo sarebbe il fatto. Per convincerti poi anche dalle tue parole, quando gli uni non approvavano questo tuo zelo, gli altri invece assai lo lodavano e ammiravano: "E che? (dicesti ai tuoi biasimatori) io non mi so altro modo d’amare, se non col dare anche la mia vita, quando si tratti di salvare un amico che versa in pericolo"; dicendo in altri termini, ma con eguale sentimento, le parole che Cristo rivolse ai discepoli quando determinò la misura del perfetto amore: "Non si può dare, dice, amore più grande di questo, che uno dia la propria vita per i suoi diletti" (Gv. 15,13). Se adunque non è dato trovare amore più grande, tu hai raggiunto la perfezione di esso e ne hai asceso il culmine, sia con le opere, sia con le parole. Per questo ti ho tradito; per questo t’ho ordito quell’inganno; ti persuado ora che t’ho spinto in questa carriera non per mala intenzione, né col proposito di esporti a un pericolo, ma perché sapevo che ciò era cosa utile?

"Ma tu credi, disse, che la forza dell’amore sia sufficiente per la correzione del prossimo?".

"Senza dubbio, risposi, essa può contribuire a ciò in massima parte. Ma se vuoi ch’io rechi esempi anche della tua assennatezza, verrò anche a questo, e dimostrerò che sei ancor più prudente che caritatevole".

A queste parole arrossendo e facendosi colore della porpora: "Orsù, dice, si lascino ormai da parte le cose mie; non t’ho chiesto simili parlate io in principio. Piuttosto, se hai qualche opportuna ragione da poter addurre a quei di fuori, questo discorso ascolterò volentieri. Poni dunque fine a simile vaniloquio e dimmi che cosa addurremo agli altri in nostra difesa, sia a chi ci prescelse all’onore sia a chi si rammarica tenendosi offeso per quelle faccende".

a) Seconda parte della difesa di Giovanni. Risposta alle accuse di oltraggio agli elettori, disprezzo del sacerdozio, vanagloria

VII. Ora io proseguendo soggiunsi: A ciò appunto mi affretto. Poi che ho dato fine a quanto riguarda te, di buon grado mi rivolgerò ora a quest’altra parte della mia difesa. Qual è dunque l’accusa di costoro, e quali le loro querele? Essi si chiamano oltraggiati da noi, e dicono d’aver sofferto uno smacco, perché noi non accettammo l’onore che vollero conferirci. Ebbene, io dico anzitutto che non si deve far alcun caso dell’oltraggio che si possa recare agli uomini, quando per far onore a questi siamo costretti a far offesa a Dio. Onde neppure per quelli che se ne adontano è senza pericolo il menare tanto scalpore su ciò, ma anzi, torna loro molto dannoso; io mi penso infatti che le persone consacrate a Dio e che solo a Lui riguardano, debbano comportarsi tanto cautamente da non ritenere ciò come un oltraggio, quando anche mille e mille volte ne uscissero privi d’onore. Ma che io non abbia fatto nulla di simile neppur col pensiero, si fa palese da questo: se io, come hai tante volte ripetuto che taluni vanno calunniando, venni al punto di votare per i miei accusatori, per arroganza e vanagloria, sarei pur da annoverare fra i peggiori malfattori, avendo dispregiato personaggi ammirandi e augusti e per di più benefattori. Ché se il far ingiuria a chi non te n’ha arrecato nessuna è degno di condanna; a quelli che spontaneamente si proponevano di onorarti (ché nessuno potrebbe dire che essi, avendo prima ricevuto qualche favore o piccolo o grande da me, volessero pagarmi la ricompensa di quelle mie grazie), come non sarebbe degno d’ogni castigo il corrispondere col rendere loro l’opposto? Ma se questo non mi passò neppure per la mente e con ben altra intenzione mi sottrassi al grave peso, quand’anche non volessero approvarmi, perché in luogo di darmi perdono, m’accusano per aver io provveduto alla salvezza dell’anima mia? Di fatto io ero tanto lontano dal voler fare ingiuria a quei personaggi, che anzi, direi, col mio rifiutare, di averli onorati; né ti meravigliare se ciò ha del paradosso, ché presto te ne darò la soluzione. S’io avessi accettato, non tutti, ma quelli che trovano gusto nelle maldicenze, avrebbero messo in campo molti sospetti e calunnie, sia a carico di me consacrato, sia a carico di quelli che mi scelsero; come: che essi guardano solo alla ricchezza e s’inchinano solo allo splendore de’ natali; che mi condussero a quest’onore perché furono da me lisciati. Non saprei dire se alcuno non li avesse pure sospettati corrotti con denaro. Ed ancora: Cristo chiamò a questa potestà i pescatori, i manovali e i gabellieri; costoro invece schifano quelli che vivono del lavoro quotidiano, ma se alcuno è infarinato di dottrine profane e vive tra gli agi, questo solo approvano, a questo fanno la corte. Per qual motivo trascurano coloro che hanno durato innumerevoli sudori a vantaggio della Chiesa, mentre uno che non ha mai pur anco libato il peso di simili fatiche e ha perduto sempre il suo tempo nei vaniloqui dei profani, d’un tratto te l’innalzano senz’altro a tanta dignità? Queste ed altre più cose sarebbero andati blaterando, se io avessi accolto la potestà; ora invece non possono. Ogni pretesto di maldicenza è loro troncato, e non hanno motivo d’incolparmi, né d’adulazione né di servilità verso di quelli, tranne se taluni volessero proprio far pazzie. Come mai infatti, uno che per raggiungere quest’onore avesse adulato e sborsato quattrini, l’avrebbe lasciato ad altri proprio mentre era sul punto d’ottenerlo? Sarebbe come se uno, dopo aver durato grandi fatiche nel coltivare un campo, affinché la messe gli si aumentasse di copioso frutto e i tini traboccassero di vino, dopo gli infiniti travagli e le molte spese, giunto il tempo di mietere e vendemmiare, si astenesse dal cogliere i frutti, in favore di altri. Tu vedi adunque che in tal caso, benché le loro dicerie fossero lungi dalla verità, tuttavia quelli che avessero voluto calunniarli avrebbero ben trovato pretesti, per insinuare che avevano fatta la scelta senza averne rettamente vagliate le ragioni. Io invece non ho dato loro il modo di spalancare la bocca, e neppure di aprirla.

Questo e più altro avrebbero detto sul principio; ma poi, dato mano al ministero, non sarei bastato a difendermi ogni giorno dagli accusatori, anche se ogni cosa mi fosse riuscita senza difetti. Se non che per la mia età e inesperienza avrei necessariamente commesso molti mancamenti; e mentre ora ho potuto impedire loro di rivolgermi quest’accusa, allora avrei offerto loro innumerevoli motivi di rimprovero. Che non avrebbero essi detto? (Hanno affidato un ministero si grande e ammirando a fanciulli insensati; hanno dato alla rovina il gregge di Dio; le istituzioni dei Cristiani sono divenute giocattoli e oggetti di riso). Ora invece "ogni ingiustizia chiuderà la sua bocca" (Sl. 107,42). Che se poi dicessero tali cose di te, ben presto tu insegnerai loro con le opere, che non si deve giudicare la prudenza dall’età e non si deve approvare il vecchio per la canizie, né escludere senz’altro il giovine da questo ministero; ma s’ha da interdirlo solo al neofita: e fra i due v’è gran differenza.

Libro terzo



Giovanni dimostra di non essere stato indotto da arroganza a fuggire la vanità

I. Questo dunque che ho detto è quanto io avrei da rispondere riguardo all’ingiuria verso quelli che mi avevano onorato, per dimostrare che non ho rifiutato questo onore con l’intenzione di svergognarli. Ora poi mi sforzerò, per quanto m’è dato, di spiegarti come ciò non abbia fatto neppure perché fossi gonfio di arroganza alcuna.

Se invero mi si fosse voluto eleggere alla dignità di stratego o di re, e io avessi preso tale decisione, a ragione potrebbe taluno pensare ciò; o meglio, in tal caso, nessuno m’avrebbe accusato d’arroganza, ma tutti di stoltezza. Trattandosi invece del sacerdozio, che tanto supera la dignità regale, quanto la carne dista dallo spirito, oserà alcuno incolparmi di disprezzo? Non sarebbe strano tacciare di pazzia quelli che rifiutano piccoli onori, e quelli invece che fanno ciò per dignità assai maggiori, assolverli dall’accusa di pazzia e nondimeno incolparli di superbia? Come se un tale, incolpando non già di orgoglio ma bensì di demenza chi disprezzasse l’armento dei buoi, nè volesse far il bifolco, accusasse poi non di pazzia ma di gonfiezza, chi ricusasse l’impero di tutto il mondo e il comando di tutti gli eserciti. Ma no, le cose non stanno così; coloro che ciò vanno dicendo, non calunniano tanto me, quanto piuttosto se stessi. Ché il solo pensare che l’umana natura possa concepire disprezzo per quella dignità, è una prova del concetto che ne hanno quelli stessi che ciò esprimono: se non lo stimassero cosa ordinaria e di poco conto, non sarebbe loro occorso di concepire tale sospetto. Per qual motivo infatti nessuno osò mai immaginare né dire alcunché di simile riguardo alla dignità degli angeli, che cioè vi sia un’anima umana la quale non avrebbe acconsentito per arroganza di salire al grado di quella natura? Noi invero ci figuriamo grandi cose di quelle Potenze, e ciò non ci permette di credere che un uomo possa concepire un onore più grande di quello. Pertanto si dovrebbero piuttosto tacciare d’orgoglio quelli che tale accusa fanno a me; che mai non avrebbero concepito tale sospetto sul conto di altri, se loro stessi non nutrivano disprezzo di tale dignità, come di cosa da nulla.

Che se poi dicono ch’io feci questo avendo di mira la gloria, saranno palesemente convinti di contraddizione e che si tirano da se stessi la zappa sui piedi. Non so proprio qual altra ragione avrebbero potuto cercare, qualora avessero voluto assolvermi dall’accusa di vanagloria. Se mai tal brama mi prese, dovevo io pur accettare piuttosto che ricusare. Perché? perché ciò m’avrebbe acquistato grande rinomanza: alla mia età e da poco toltomi alla vita mondana, essere d’un tratto stimato fra tutti tanto eccellente, da venire anteposto a coloro che tutto il tempo consumarono fra tante e tali fatiche, e raccogliere maggior numero di suffragi che tutti loro, ciò avrebbe fatto nascere in tutti grandi e meravigliose opinioni a mio riguardo e m’avrebbe reso un personaggio augusto e celebrato. Ora invece, tranne pochi, la gran parte della comunità ecclesiastica non mi conosce neppure di nome; e credo che neppur tutti sapranno del mio rifiuto, ma solo pochi, e che, anche questi pochi, non siano al chiaro d’ogni cosa; ed è probabile che molti di questi o crederebbero senz’altro ch’io non fossi stato eletto, o che dopo l’elezione non fossi già fuggito spontaneamente, ma venissi rimosso, per non essere parso idoneo all’uopo.

"Ma ben si meraviglierà chi conosce il vero".

"Per l’appunto, dicevi che questi mi calunniano come vanaglorioso e arrogante. Or da qual parte s’ha da sperare lode? dai molti? ma non conoscono il fatto come sta; o forse dai pochi? ma allora la cosa si presenta per noi tutto al contrario; poiché non sei qui venuto per altro scopo che per sapere da me come ci si debba difendere presso di questi. Ed a che tanto sottilizzare ora per ciò? Attendi un poco, e vedrai chiaramente che se anche tutti sapessero la verità, non c’era motivo per tacciarmi di arroganza e vanagloria; e oltre a ciò ancora vedrai come non solo chi mostrasse tanta audacia, seppure alcuno ve n’ha, poiché io non lo credo, ma anche coloro che la suppongono negli altri, rasentano non lieve pericolo".



b) Grandezza del sacerdozio e del rito eucaristico. Gli angeli stanno in adorazione intorno al sacerdote celebrante. L’epiclési o invocazione dello Spirito Santo. Confronto coi riti sacrificali dell’antica Legge

II. Però che il sacerdozio si compie sulla terra, ma è nell’ordine delle cose celesti; e con ogni ragione; poiché non un uomo, non un angelo, non un arcangelo, né altra forza creata, ma lo stesso Paracleto ordinò quest’ufficio, ispirando quelli che tuttora si stanno nella carne a ideare una funzione propria degli angeli; deve pertanto il sacerdote essere così puro, come se abitasse negli stessi cieli fra quelle Potenze. Terrificanti cose per certo e paurose erano quelle che precedettero la Grazia, come i campanelli, i melograni, le pietre del petto e dell’omero, la mitra, la cidari, la tunica talare, la lamina d’oro, il Santo dei Santi, la profonda quiete degl’interni recessi; ma se alcuno considera le istituzioni della Grazia troverà piccole quelle tremende e terribili cose, e che anche qui è vero ciò che è scritto intorno alla legge: "Non fu glorificato quello che fu glorificato, in comparazione e rispetto a questa gloria trascendente" (2Cor. 3,10). Poiché quando tu vedi il Signore sacrificato e giacente, e il vescovo preposto al sacrificio e pregante, e tutti imporporati di quel sangue augusto, credi tu d’essere ancor fra i mortali e di starti sopra la terra, o non piuttosto sei d’un tratto trasportato nei cieli, e sgombro dallo spirito ogni pensiero della carne, contempli con l’anima ignuda e con la mente pura le cose celestiali? o meraviglia! o filantropia di Dio: colui che siede in alto insieme col Padre, in quell’istante viene tenuto dalle mani di tutti, e dona se stesso a chi vuole abbracciarlo e stringerlo a sé, e tutti fanno poi ciò allora con gli occhi della fede. Or dunque ti paiono cose queste da poter essere disprezzate, o tali che uno possa esaltarsi al di sopra di esse? Vuoi ora scorgere da altra meraviglia la superiorità di questo sacrificio? Rappresentati innanzi agli occhi Elia, e intorno a lui moltitudine immensa, e il sacrificio disposto su le pietre, e tutti gli altri in gran quiete e silenzio profondo, e il profeta solo supplicante; indi d’un tratto la fiamma lanciata dai cieli sopra la vittima: è uno spettacolo meraviglioso che riempie di stupore. Rivolgiti or quindi a quello che adesso si compie e vedrai non solo cose meravigliose, ma tali da superare ogni meraviglia. Sta il sacerdote, per attirare giù non il fuoco, ma lo Spirito Santo; e a lungo si fa la supplica, non affinché una fiamma accesa dall’alto consumi le offerte, ma affinché la grazia discesa sopra il sacrificio, per mezzo di questo accenda le anime di tutti e le renda più fulgide che argento incandescente. Chi oserà nutrire sprezzo, se non sia al tutto pazzo o fuor di sé, di questa così tremenda azione? o non sai che l’anima umana non varrebbe a sopportare quel fuoco del sacrificio, e tutti d’un tratto ne sarebbero annientati, se non fosse grande il soccorso della grazia di Dio?

Il sacerdote assolve dai peccati con la potestà da Cristo a lui trasmessa

III. Se alcuno ben consideri che gran cosa è poter avvicinarsi a quella beata e intatta natura, pur essendo uomo e ancora plasmato di carne e sangue, vedrà allora bene di quanto onore la grazia dello Spirito abbia degnato i sacerdoti. Per loro mezzo infatti queste cose si compiono, ed altre ancora per nulla inferiori a queste, sia per dignità, sia in rapporto con la nostra salvezza; quelli che dimorano in terra e sono posti in questa condizione, vengono ordinati ad amministrare le cose celesti e hanno ricevuto una potestà che Dio non ha conferito né agli angeli né agli arcangeli; poiché non fu detto a questi: "Ogni cosa che legherete sulla terra sarà legata anche nel cielo; e ogni cosa che scioglierete, sarà sciolta" (Mt. 18,18). Anche i dominatori sulla terra hanno il potere di legare, ma soltanto i corpi; invece questo legame si applica all’anima stessa e trascende i cieli; onde, checché i sacerdoti compiano quaggiù, questo conferma Dio in alto, e la deliberazione dei servi viene sancita dal padrone. E che vuol dire ciò, se non che ha loro conferito ogni potestà celeste? Dice infatti: "I peccati di coloro ai quali li rimetterete, saranno rimessi; quelli di coloro a cui li riterrete, saranno ritenuti" (Gv. 2,23). Qual potere maggiore di questo? Il Padre ha dato al Figlio ogni giudizio; or io vedo che essi ne furono fatti dal Figlio pienamente depositari. Come se già fossero assunti nei cieli, trascesa l’umana natura e sciolti dalle nostre miserie, così furono elevati a questa dignità. Inoltre, se un re partecipasse a qualcuno dei suoi sudditi quest’onore di poter gettare in prigione chiunque gli piacesse e nuovamente liberarlo, sarebbe costui invidiato e celebrato da tutti; colui poi che da Dio ha ricevuto una potestà tanto più grande quanto il cielo è più augusto della terra, e le anime dei corpi, parrà mai ad alcuno aver egli ricevuto sì piccolo onore, da poter anche solo pensare che altri abbia a mostrare disprezzo verso i depositari di sì eccelse cose? Lungi tale insania! È per vero insania palese, il guardar dall’alto in basso una dignità senza la quale non è dato di ottenere né la salvezza né i beni che ci furono annunziati. Ché se "nessuno può entrare nel regno de’ cieli, se non venga rigenerato per acqua e Spirito, e colui che non mangia la carne del Signore e non beve il suo sangue, viene escluso dalla vita eterna" (Gv. 3,5), e tutte queste cose si compiono da nessun altro fuorché da quelle sacre mani, dico del sacerdote, come potrà alcuno indipendentemente da loro, sia fuggire il fuoco della geenna, sia ottenere le corone riservate? A loro infatti, a loro fu affidata la generazione spirituale, e il partorire per mezzo del battesimo; per mezzo loro rivestiamo il Cristo, siamo consepolti col Figlio di Dio, e fatti membri di quel beato capo. Pertanto dovrebbero essere per noi giustamente più temibili che dominatori e re, non solo, ma anche più venerandi che padri; questi invero ci hanno generati "dal sangue e dalla volontà della carne" (Gv. 1,13), quelli invece ci sono strumento della generazione di Dio, di quella beata rigenerazione, della verace libertà e dell’adozione secondo la grazia.

Confronto col sacerdozio levitico

IV. I sacerdoti degli Ebrei avevano il potere di liberare dalla lebbra del corpo, anzi, niente affatto liberare, ma soltanto di approvare coloro che ne erano liberati, e ben sai come il potere sacerdotale era oggetto di invidia allora; ma questi hanno ricevuto il potere non di liberare dalla lebbra del corpo, sebbene di togliere affatto, non solo approvare quando sia tolta, l’impurità dell’anima. Onde, quelli che li disprezzassero sarebbero più empi dei seguaci di Datan, e degni di maggior pena. Poiché questi sebbene si arrogassero una dignità non dovuta, avevano tuttavia un gran concetto di essa, e lo dimostrarono aspirandovi con grande ardore: quelli invece quando la dignità venne ordinata a maggior ministero e fu di tanto elevata, allora dimostrano in senso contrario, molto maggior audacia degli altri. Poiché non è eguale, quanto al grado del disprezzo, l’arrogarsi un potere indebito e lo schifarlo: ma questo è tanto maggiore di quello, quanto il rigettare con sdegno differisce dall’ammirare. Quale anima pertanto sarebbe così miserabile da sprezzare simili beni? non direi che ciò potesse darsi, tranne che alcuno fosse invaso da qualche estro diabolico.

Confronto fra i sacerdoti e i parenti carnali.

Ma torno là donde sono partito. Dio ha dato ai sacerdoti potenza maggiore che ai parenti carnali, non solo quanto al punire, ma anche quanto al beneficare: e tanta è la differenza fra gli uni e gli altri, quanta ven’ha fra la vita presente e quella futura. Poiché gli uni generano a questa vita, gli altri a quell’altra: quelli non varrebbero neppure a stornare dai loro figli la morte corporale, né allontanare un’infermità sopravvenuta; questi hanno spesso salvato l’anima inferma e prossima alla rovina, agli uni rendendo più lieve la punizione, agli altri impedendo fin da principio dal cadervi, non solo coll’insegnare e coll’ammonire, ma anche soccorrendo con le preghiere. Né solo quando ci rigenerano, ma possono rimetterci anche i peccati commessi in seguito. Dice infatti: "Chi è malato chiami a sé i presbiteri della chiesa e preghino per lui, ungendolo di olio nel nome del Signore; e la preghiera della fede salverà l’infermo, e il Signore lo solleverà e se ha commesso peccati gli saranno rimessi" (Gc. 5,14-15). Inoltre i genitori naturali, qualora i figli abbiano recato offesa a qualche potente, non possono giovargli in alcun modo; mentre i sacerdoti riconciliarono non i potenti né i re, ma lo stesso Dio più volte con loro adirato. Dopo ciò oserà ancora taluno accusarmi di arroganza? Da quanto ho detto io penso d’aver infuso nell’animo degli uditori tale cautela, che abbiano ormai a tacciare d’arroganza e audacia non quelli che fuggono, ma quelli che da se stessi si fanno avanti e s’arrabattano per acquistarsi questa dignità.

Infatti, se coloro a’ quali sono affidate le magistrature civili, qualora per caso non siano prudenti e assai accorti, mandano le città a catafascio e se stessi alla rovina; colui che é destinato a fregiare la sposa di Cristo, di qual forza non ti par debba essere fornito, sia di quella sua propria, sia di quella che viene dall’alto, per non cadere in colpa?

c) Virtù richieste dal sacerdozio. Il candidato al sacerdozio deve temere la dignità

V. Nessuno amò Cristo più di Paolo, nessuno mostrò maggior zelo, nessuno fu donato di maggior grazia; ma pur con tutto questo, teme ancora e trema per questa potestà e per coloro sui quali la esercita. "Io temo, dice, che come il serpente con la sua malizia ingannò Eva, così i vostri pensieri degenerino dalla semplicità che é in Cristo" (2Cor.11,3). Ed ancora: "Fui in gran timore e trepidazione per voi" (1Cor. 2,3): un uomo che fu rapito al terzo cielo e messo a parte degli arcani di Dio, e che sopportò tante e tali fatiche quanti furono i giorni di sua vita dopo la conversione; un uomo che non volle neppur fare uso del potere conferitogli da Cristo, affinché non fosse scandalizzato qualcuno dei fedeli. Se adunque colui che superò i comandamenti di Dio, né minimamente cercò il suo interesse, ma quello dei sudditi, era sempre in tanto timore riguardando la grandezza della dignità, quale sicurezza avremo noi, che sovente cerchiamo la comodità nostra, che non solo non superiamo i precetti di Cristo, ma in gran parte li trasgrediamo? "Chi cade infermo, dice, e io non cado infermo? chi si scandalizza e io non ne ardo?" (2Cor. 11,29). Tale dev’essere il sacerdote; o piuttosto, non solo tale; queste cose sono piccole e da nulla rispetto a quanto sono per dire; che è ciò? "Ho supplicato, dice, d’essere riprovato da Cristo, per i miei fratelli, miei congiunti secondo la carne" (Rom. 9,3). Se alcuno pub lanciare questo grido; se alcuno ha l’anima che arriva fino a questa preghiera, quegli si dovrebbe rampognare se fuggisse; ma chi è lungi da quella virtù quanto lo sono io, sarebbe degno di detestazione non quando fuggisse, ma quando accettasse. Che se si trattasse d’eleggere ad una dignità militare, e quelli cui spetta conferirla, tirato in mezzo un fabbro od un ciabattino o altro simile artefice, gli affidassero l’esercito, io non loderei per certo quel miserabile, qualora non ricusasse e non facesse di tutto per evitare di gettarsi in un male palese. Ché se bastasse l’esser chiamato pastore e disimpegnare l’ufficio in qualunque modo, né pericolo alcuno vi fosse, mi accusi pur chi vuole di vanagloria; ma se colui che si sobbarca a questa cura abbisogna di grande prudenza, e prima della prudenza, di copiosa grazia di Dio, rettitudine di costumi, purezza di vita e una virtù più grande dell’umana, non mi negherai venia, se non ho voluto vanamente e senza motivo darmi a rovina. Se uno, tratta innanzi una nave da trasporto piena di remiganti e di preziosi carichi, fattomi sedere al timone mi ordinasse di traghettare il mar Egeo o il Tirreno, mi ritrarrei alla prima voce: e se alcuno chiedesse: "Perché?" risponderei: "Per non mandare a fondo la nave".

Or poi, se là dove il danno è nelle sostanze ed il pericolo riguarda la morte corporale, niuno farà rimprovero a chi adoperi grande previdenza; dove invece i naufraghi sono in procinto di cadere non in questo pelago, ma nell’abisso del fuoco, e li aspetta non la morte che divide l’anima dal corpo, ma quella che l’anima insieme col corpo dà in preda alla punizione eterna, mi detesterete e vi adirerete perché io non mi gettai a precipizio in un tanto male? no, ve ne prego e vi scongiuro. Conosco l’anima mia, inferma com’è e piccina; conosco la grandezza di quel ministero e la gran difficoltà dell’ufficio; poiché le onde che sbattono l’anima del sacerdote sono più impetuose dei venti che sconvolgono il mare.

Fuggire la bramosia di onore e la servilità verso i potenti e l’eccessivo ossequio verso le donne.

VI. E anzitutto v’è il terribile scoglio della vanagloria, più funesto di quello di cui narrano portenti i mitologi; questo infatti molti riuscirono a sfuggirlo incolumi tragittando; per me invece quello è tanto minaccioso, che non posso guardarmi dal suo malo influsso, nemmeno ora che nessuna necessità mi spinge verso quel baratro; se poi alcuno mi affidasse questa dignità, sarebbe come legarmi le mani all’indietro e espormi alle fiere che dimorano su quello scoglio, per esserne quotidianamente dilaniato. Quali sono queste fiere? violenza, ignavia, invidia, contese, calunnie, accuse, menzogne, ipocrisia, insidie, istanze a danno d’innocenti, compiacenza per le sconvenienze dei propri colleghi, rammarico per i loro successi, brame di lode, avidità d’onore (ciò che più di tutto tira alla. rovina l’anima dell’uomo); discorsi tenuti per pavoneggiarsi, adulazioni servili, corteggiamenti indegni, disprezzo dei poveri, ossequiosità poi ricchi, onori affatto irragionevoli e favori biasimevoli, che recano pericolo a chi li dà e a chi li riceve; timore servile, degno soltanto dei peggiori schiavi, scatti d’audacia, gran modestia all’esterno e nessuna in realtà, accuse di assenti e punizioni inflitte specialmente ai deboli e fuor di misura, mentre con quelli che sono circondati di potenza non s’osa nemmeno aprire bocca. Tutte queste fiere e altre più ancora, nutre quello scoglio, nelle quali chi incappa una volta, è per forza ridotto a tale schiavitù, da compiere in grazia delle donne, azioni che non è bello neanche nominare. La legge divina le ha escluse da questo ministero, ma esse si sforzano di invaderlo; e poiché nulla possono da se stesse, fanno ogni cosa per mezzo di altri; e si arrogano tanta potenza, da approvare o eliminare i sacerdoti come a loro piace. E rovesciato l’ordine, questo che è proverbiale si può qui vedere avverato: i sudditi guidano i magistrati; e fossero uomini almeno, ma sono proprio quelle a cui non è nemmeno dato l’incarico d’insegnare: che dico insegnare? il beato Paolo non permise loro neppur di parlare nella comunità ecclesiastica. E io ho udito uno raccontare, che tale baldanza hanno acquistata, da muovere rimproveri ai capi delle Chiese e imperversare contro di quelli, più fieramente che non facciano i padroni coi propri servi. Ma non creda alcuno che io voglia sottoporre tutti a queste accuse; vi sono invero, vi sono molti che sfuggono a queste reti e sono in maggior numero di quelli che vi si perdono.

Disordini provenienti da elezioni ispirate a favoritismo e dominate da spirito partigiano. Chi si sente impari all’ufficio, anche a elezione fatta dovrebbe ritirarsi.

VII. Ma io non vorrei attribuire al sacerdozio la cagione di questi mali, a meno che fossi pazzo; ché non s’incolpa il ferro degli omicidi, né il vino dell’ubriachezza, né la forza dell’oltraggio, né il coraggio s’incolpa della stolta audacia; ma ognuno che ha senno dice esserne cagione quelli che dei doni impartiti da Dio non fanno il debito uso, e quelli castiga. E ben a ragione il sacerdozio potrebbe accusare noi, quando non l’esercitiamo rettamente; ché non esso è a noi cagione dei mali sopraddetti, ma siamo noi che, per quanto da noi dipende, l’inquiniamo di tante e tali immondezze, affidandolo a uomini volgari. Questi poi, non avendo prima conosciute le loro anime né considerato il peso dell’istituzione, accettano bensì bramosamente la dignità conferita, ma quando vengono all’azione, ottenebrati dall’inettitudine loro, riempiono di infiniti mali i popoli che a loro furono affidati. Questo, sì, questo per poco non accadeva anche a me, se Dio non m’avesse presto sottratto a quei pericoli, risparmiando la Chiesa e l’anima mia.

O dimmi, donde credi tu che nascano nelle chiese tanti scompigli? da nessun’altra parte, io credo, che dall’eseguirsi senza cura e a casaccio la scelta e l’elezione dei dirigenti; la testa che dovrebbe essere la parte più salda, per frenare e mantenere in equilibrio gli spiriti perversi esalati da basso dal resto del corpo, se ella stessa è inferma e inetta a reprimere quelle morbose esalazioni, s’infermerà ancor più di quello che non sia, e rovinerà insieme con se stessa il rimanente del corpo. A evitare ciò nel presente caso, Iddio mi trattenne al livello dei piedi, dove la sorte prima m’aveva collocato.

Ma ben molte altre, o Basilio, oltre quanto fin qui fu detto, sono le virtù che il sacerdote deve possedere, e che io non possiedo; e prima di tutto questa, di purificare affatto l’anima propria dalla brama di questa dignità. Che se egli per avventura sentirà vivo desiderio per questa carica, raggiunta che l’abbia accende una fiamma più veemente, e volendosi deporlo a forza, commette innumerevoli perversità pur di serbarsela, sia che occorra adulare o tollerare cosa vile e indegna, o sacrificare grandi somme: tralascio ora che alcuni hanno riempito le chiese di uccisioni e messo sossopra le città disputandosi questa dignità; parrebbe infatti ad alcuno che io narri cose incredibili. Ma bisogna, a mio avviso, nutrire un tal timore di questo incarico, da volersene sottrarre fin da principio, né, raggiunto che uno l’abbia, attendere i giudizi altrui, se mai gli accada di commettere un fallo degno della deposizione, ma prevenendoli, uscire di carica egli stesso; così è anche probabile che attiri sopra di sé la misericordia di Dio. Ma il persistere in carica oltre il convenevole, equivale a privarsi d’ogni perdono e vie più accendere l’ira di Dio, aggiungendo al primo un secondo e più grave fallo. Ma nessuno mai sopporterà tal cosa, perché l’agognare quest’onore è vizio funesto. Né dico ciò per contraddire al beato Paolo, ma anzi in piena armonia con le parole sue; che dice egli infatti? "Se alcuno brama l’episcopato, brama una cosa buona" (1Tim.3,1); e io ho detto che è vizio funesto non già il bramare la cosa, ma la dignità e il potere.

VIII. Credo pertanto doversi tal brama cacciare con ogni cura dall’anima, né soffrire che questa cominci ad esserne dominata, anche affine di poter compiere ogni cosa con libertà. Colui che non brama d’esser designato a quella potestà, non teme neppur d’esserne deposto; non temendolo potrà agire in tutto a norma della libertà che s’addice ai Cristiani; mentre coloro che temono e tremano d’esserne deposti, sopportano una schiavitù amara e piena di miserie, e sovente sono nella necessità di offendere gli uomini e Dio. Tale non ha da essere la disposizione dell’anima, ma come vediamo nelle battaglie i soldati valorosi combattere con ardore e cadere con fortezza, così anche quelli che giungono a questo ufficio, debbono saperlo esercitare e all’uopo deporre, come si addice a uomini cristiani, certi che una tale deposizione non diminuisce la corona del ministero. Che se poi taluno soffrisse una tale vicenda senz’aver nulla commesso di sconveniente e indegno del posto che occupa, procurerebbe la punizione per quelli che ingiustamente lo deposero e a se stesso maggior ricompensa: "Beati siete voi quando gli uomini vi malediranno e vi perseguiteranno e diranno di voi falsamente ogni male per causa mia; rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli" (Mt. 5,11-12). Ciò qualora alcuna sia tolto di seggio dai propri colleghi, o per invidia, o per far piacere ad altri, o per inimicizia o per altra ingiusta ragione. Quando poi gli occorra di sopportare ciò anche per opera degli avversari, credo inutile aggiungere parole, per dimostrare quanto guadagno quelli gli procurino con la loro perversità. Conviene adunque ricercare da ogni parte e diligentemente investigare, che non si celi ardendo qualche scintilla di quel desiderio. Invero c’è da esser contenti se anche coloro che si mantengono da principio liberi da tal brama, riescano a sfuggirvi qualora siano cascati nella dignità; che se poi alcuno nutre in se stesso questa fiera terribile e selvaggia prima ancora di toccare in sorte l’onore, non si può dire in qual fornace immerga se stesso dopo averlo raggiunto. Io per certo (né credi che voglia mentire con te per modestia) ero molto preso da questa bramosia, il che insieme con tutto il resto mi infuse non minore, sgomento, e mi decise a questa fuga. Come gli amanti dei corpi sentono più fiero il tormento della passione fin che è loro concesso di starsi vicino agli amati; e quando si siano spinti il più lontano possibile dall’oggetto di loro brame, pongono fine anche alle loro smanie; così anche i bramosi di questa potestà, quando si ‘trovano vicini a essa il loro male diviene insopportabile; ma qualora ne abbiano perduta la speranza, spengono in se stessi in un con l’aspettativa, anche il desiderio. Ciò non era piccolo pretesto: e se anche non ve ne fosse stato altro, bastava per escludermi da questa dignità.

Prudenza e fortezza sono virtù più necessarie al sacerdote che le austerità e i digiuni.

IX. Ora s’aggiunge un’altra virtù non minore di questa. Qual è? Deve il sacerdote essere sobrio e perspicace, e munirsi da ogni parte d’infiniti occhi, dovendo vivere non solo a:e stesso, ma a vantaggio d’una tanta moltitudine. Ora, che io sia pigro e debole e appena sufficiente alla mia salvezza, tu stesso l’ammetteresti, sebbene per l’amicizia sia più di tutti sollecito nel nascondere i miei difetti. Non parlarmi ora di digiuni né di vigilie né di sonni su nuda terra né d’altre austerità corporali; sai del resto quanto io sia lontano anche da queste; ma se pure mi vi fossi dedicato con ardore, non avrebbero potuto per nulla giovarmi in questo ministero. Potrebbero bensì quelle austerità recare grande giovamento a un uomo che se ne stia rinchiuso nella sua cella unicamente occupandosi di se stesso; ma a chi è diviso fra tanta moltitudine e sollecitato da cure diverse per ciascuno dei suoi sudditi, come potrebbero recare un considerevole incremento al progresso di quelli, se egli non possederà un’anima pieghevole ad un tempo e fortissima?

Non meravigliarti se insieme a quelle austerità io richiedo un’altra prova della virtù dell’anima. Noi vediamo essere per nulla difficile lo sprezzare i cibi, le bevande e i soffici letti, specialmente a coloro che menano vita rustica e furono allevati così fin dalla più tenera età, come anche a molti altri, quando la disposizione fisica e la consuetudine rende meno sensibile l’asprezza di quei travagli; ma il sopportare l’ingiuria, l’insolenza, il parlar grossolano, i dileggi da parte degl’inferiori, sian profferiti a caso o con giusta causa, e i biasimi mossi senza motivo e infondatamente dai superiori e dai propri sudditi, non è virtù di molti, ma a stento d’uno o due (); onde si potrebbe vedere talora persone che in quelle austerità erano forti, dare ora siffattamente nelle vertigini, da imperversare peggio delle fiere più selvagge; or questi tali dobbiamo massimamente escludere dai recinti del sacerdozio. Che il vescovo non languisca d’astinenza né vada a piedi nudi, non recherà alcun detrimento alla comunità ecclesiastica; mentre invece l’asprezza d’animo produce grandi malanni, sia in chi ne è agitato, sia nei suoi vicini; né alcuna minaccia di Dio sovrasta a coloro che non si danno a quelle pratiche, mentre a coloro che montano in furia senza ragione, è minacciata la geenna e il fuoco di essa. Come colui che è preso da vanagloria, quando abbia afferrato il dominio sopra il popolo offre al fuoco maggior materia; così chi è incapace di frenare lo sdegno quando è solo o nella conversazione di pochi, ma facilmente perde le staffe; qualora gli sia affidata la supremazia di tutta una moltitudine, simile a una fiera punzecchiata da ogni parte e da moltissimi, egli non potrà mai starsi in pace, e procurerà a’ suoi sudditi innumerevoli mali. Nulla intorbida più la purezza della mente e la trasparenza dei pensieri, che un animo sfrenato e che si lascia trascinare da grande impeto: "Questo (dice la Scrittura) rovina anche i saggi" (Prv 5,1). E come in un combattimento notturno, l’occhio dell’anima ottenebrato non trova modo di discernere gli amici dai nemici, né le persone volgari da quelle distinte, ma con tutti egualmente usa le stesse maniere, rassegnandosi a sopportare il male che gliene possa venire, pur di soddisfare la voluttà dello spirito; poiché l’ardore della collera è una specie di voluttà, anzi più duramente della voluttà esso tiranneggia l’anima sconvolgendone interamente la sana costituzione; onde spinge facilmente all’arroganza, a inimicizie intempestive, all’odio infondato, e continuamente dispone a eccitare malcontenti inutilmente e senza motivo, e tante altre cose simili costringe a fare e dire, sentendosi l’anima trascinata da gran tumulto di passione, né avendo dove appoggiare il suo sforzo per resistere a tale impeto.

X. "Ma ormai non sopporterò più a lungo, quel tuo fare ironico, disse; poiché chi non conosce quanto tu sii lontano da questo difetto?"

"E che, soggiunsi, o fortunato, vuoi tu dunque spingermi vicino al rogo, e istigare la fiera accovacciata? o non sai che in ciò mi sono moderato non per virtù mia propria, ma per amore della quiete, e che chi ha tale disposizione è cosa desiderabile che, standosene solo o colla compagnia di uno o due amici soltanto, possa sottrarsi a quell’incendio, non che dal cadere nell’abisso di tante sollecitudini? Poiché in questo caso, non solo se stesso, ma molti altri insieme con lui trascinerebbe nel precipizio della rovina, rendendoli meno solleciti per mantenersi nella giusta misura; infatti il più delle volte la moltitudine dei sudditi è disposta naturalmente a guardare i costumi dei capi come un modello archetipo e foggiare se stessa a norma di quelli. Or come potrebbe uno sedare i loro gonfiori quando egli stesso è gonfio? chi fra la plebe desidererebbe diventare moderato, mentre vede il capo che facilmente cede alla collera? Non è possibile affatto che le mancanze dei sacerdoti restino celate, ma anche le minime ben presto diventano palesi.

Il sacerdote deve risplendere col buon esempio

Un atleta fino a che se ne rimarrà in casa senza venire alle mani con alcuno, potrà bensì celarsi anche se debolissimo; ma tosto che deponga la veste per affrontare la lotta, ben presto diverrà oggetto di disprezzo; così anche quelli fra gli uomini che vivono questa vita privata e tranquilla, hanno per velario delle proprie colpe la solitudine; ma qualora siano tirati in mezzo, allora sono costretti a deporre la solitudine come un vestito, e per mezzo dei movimenti esterni mostrare ignude a tutti le anime loro. Pertanto, come le loro virtù giovano a molti ridestandone l’emulazione, così pure le loro mancanze rendono altri più schivi del travaglio che la virtù richiede e li dispone all’indolenza dinanzi alle fatiche di serie intraprese. Deve dunque la bellezza dell’anima di lui risplendere da ogni parte per poter rallegrare e insieme illuminare le anime dei suoi spettatori. Le colpe dei volgari, commesse per così dire al buio, sono di rovina soltanto per chi le commette; ma la trascuratezza d’un personaggio distinto e noto a molti, reca danno comune a tutti, rendendo i caduti sempre più restii ai sudori per le opere buone, e d’altra parte provocando all’arroganza quelli che vogliono attendere a se stessi. Inoltre, i falli della gente comune, anche se divengono palesi, non infliggono nessuna piaga considerevole; ma quelli che siedono su questo culmine di dignità, primariamente sono visibili a tutti; poi anche se cadono in difetti minimi, le cose piccole appiano grandi agli altri, perché tutti misurano la colpa non in ragione della sua propria entità, ma in ragione del grado di chi l’ha commessa. Onde il sacerdote ha da essere circondato, come d’armi d’acciaio, da attenzione continua e da costante moderazione, e guardarsi da ogni lato che alcuno vedendo qualche parte scoperta e negletta, non infligga una ferita mortale. Tutti stanno all’intorno pronti a colpire e abbattere, non solo nemici e avversari, ma molti anche di quelli che simulano amicizia. Bisogna rendere le anime disposte come Dio un tempo mostrò essere i corpi di quei santi nella fornace di Babilonia; l’alimento poi di questo fuoco non è sarmento né pece né stoppa, ma altre cose ben peggiori; né si tratta di quel fuoco sensibile, ma li avvolge la voracissima fiamma della gelosia, elevandosi da ogni parte, investendoli e scrutandone la vita, con più lena che quel fuoco i corpi di quei giovinetti; se pertanto troverà una piccola traccia di paglia, subito l’avvolge e arde quella parte corrotta, mentre il resto della fabbrica, anche se risplenda più che i raggi del sole, resta fra quel fumo tutto bruciacchiato e annerito.

Anche i piccoli difetti tornano a disdoro del sacerdote.

XI. Fino a che la vita del sacerdote sarà ben regolata in tutto, egli non soccomberà all’insidia, ma se trascura anche solo un punto, come è facile essendo uomo e navigando attraverso il pelago mal fido di questa vita, nulla gli gioveranno tutte le altre virtù per sfuggire alle lingue degli accusatori; ma quella piccola deficienza adombra tutto il resto; tutti vogliono giudicare il sacerdote non come rivestito di carne e partecipe della natura umana, ma quasi fosse un angelo e libero dalla miseria comune. E come tutti temono e adulano un tiranno finché serba il potere, perché non possono toglierlo di mezzo, ma quando vedano decadere la sua potenza, deposto il rispetto fin allora simulato, quelli che poco prima gli erano amici, d’un tratto si fanno nemici e avversari, e esaminando tutte le sue malvagità gliele imputano a colpa e lo spogliano del dominio; così anche riguardo ai sacerdoti, quelli che poco prima, mentre era in potenza, lo onoravano e gli s’inchinavano, quando scorgono una piccola occasione, s’apprestano energicamente a travolgerlo non solo quale tiranno, ma come qualcosa di peggio. E come quello teme le guardie della sua persona, così questo ha da paventare soprattutto i vicini e i suoi compagni di ufficio; ché nessuno agogna maggiormente la sua dignità e nessuno conosce i fatti suoi più addentro di loro, perché essendogli vicini, se alcunché di simile gli accada, lo conoscono prima degli altri; e qualora ricorrano alla calunnia, facilmente possono trovare fede e togliere di mezzo il calunniato ingrandendo le cose piccole, (ché la parola dell’Apostolo viene qui invertita, e "se un membro soffre, godono tutte le altre membra, e se viene esaltato un membro, tutte le altre membra ne soffrono" 1Cor. 12,26) tranne che uno sappia con grande circospezione far fronte a tutto. Or dunque tu mi mandi a tale guerra? e credesti che l’anima mia fosse da tanto da affrontare una lotta si varia e multiforme? ma donde e da chi l’apprendesti? che se Dio ti ha parlato, metti fuori il responso, e mi persuaderò; se poi non l’hai, e rechi il suffragio a norma degli uomini, cessa di più oltre ingannarti. Ché trattandosi di fatti miei è più giusto credere a me che ad altri, poiché "nessuno conosce le cose dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è dentro di lui" (1Cor. 2,11). Ma se anche prima non lo credevi, penso che ora, da quanto ti ho detto ti sarai convinto che se avessi accettato questa dignità avrei esposto alla derisione me stesso e i miei elettori, e con grande iattura me ne sarei dovuto tornare a questo tenore di vita in cui ora mi trovo. Non solo la gelosia, ma assai più forte di essa, la brama di questa carica sembra armare la moltitudine contro chi ne è investito; a quel modo che i figli bramosi di denaro sopportano con pena la vecchiezza dei padri, così taluni di costoro quando vedono protrarsi lungamente la durata dell’episcopato, non essendo loro lecito di toglierlo di mezzo, si studiano di congedarlo, tutti desiderando di sostituirlo e aspettando ognuno che la dignità venga a cadere nelle sue mani.

Disordini che talora accadevano nella elezione al sacerdozio. La professione monastica e l’età avanzata non sono titoli sufficienti di idoneità al sacerdozio

XII. Vuoi che ti mostri un altro aspetto di questa lotta, ripieno, di innumerevoli pericoli? Va’ a spiare nelle feste pubbliche, dove è costume di far le elezioni dei capi ecclesiastici, e vedrai il sacerdote fatto segno a tante accuse quanta è la moltitudine dei sudditi. Allora quelli a cui spetta il conferire l’onore si scindono in molti partiti, e si potrebbe vedere il collegio dei presbiteri non concorde né nei suoi membri né con quegli che ottiene l’episcopato; ognuno fa parte da se stesso, scegliendosi chi questo chi quel candidato. E ne è cagione il considerare tutti non ciò che unicamente si dovrebbe considerare, cioè la virtù dell’anima, ma il tenere conto d’altri pretesti come di titoli valevoli all’assecuzione di questa dignità; onde: "Questi, dice taluno, sia approvato perché è di alto ceto; quest’altro perché possiede molta ricchezza né avrà bisogno di vivere a carico dell’entrate ecclesiastiche; quest’altro perché proviene da parte avversaria". E così, cercano di far prevalere sopra gli altri chi un proprio amico, chi un congiunto, chi un adulatore; nessuno vuol prendere in considerazione la persona idonea, né si cura di fare alcun assaggio dell’anima. Io invece sono tanto lontano dal menare buone queste ragioni per l’approvazione dei candidati al sacerdozio, che anche se uno mostrasse grande pietà, cosa che contribuisce per me non poco per l’esercizio di quella carica, non ardirei di ammetterlo subito in grazia di quella, se non possedesse insieme con la pietà anche molta saggezza. Poiché io ho veduto molti che erano stati rinchiusi tutta la vita e consumatisi nei digiuni, i quali finché poterono starsi soli e curarsi soltanto de’ fatti propri, ebbero merito dinanzi a Dio, e ogni giorno aggiungevano progresso non piccolo in quella filosofia; quando poi s’introdussero fra la moltitudine e furono posti nella necessità di correggere l’ignoranza del volgo, gli uni si mostrarono fin da principio incapaci di questa missione, gli altri, forzati a durarvi, deposta la primitiva osservanza recarono i massimi danni a se stessi, né procurarono agli altri il minimo vantaggio. Ma neppure se taluno abbia passato tutto il suo tempo rimanendosi nell’ultimo gradino del ministero e sia giunto a estrema vecchiaia, dovremo elevarlo a più alta carica semplicemente per riguardo alla sua età; e che farci, se anche dopo raggiunto quel termine l’individuo sia rimasto inadatto all’uopo? Né io dico tali cose per disprezzo alla vecchiezza, né con intento di escludere per legge da questa soprintendenza coloro che vengono dalla schiera dei monaci è avvenuto infatti che molti provenienti da quel ceto risplendettero in quest’ufficio ma nell’intento di dimostrare questo principio: che se né la sobrietà per sé sola, né la tarda vecchiaia potrebbero bastare a garantire l’idoneità di chi ottiene il sacerdozio, tanto meno possono valere a tale scopo i pretesti prima enumerati. Ma v’è chi ne propone altri ancor più assurdi; ché taluni sono collocati nelle file del Clero affinché non si gettino dalla parte degli avversari; altri per le loro perversità, ad evitare che trascurati non abbiano a perpetrare gravi mali; ma si può dar cosa più illegale di questa, che uomini perversi e pieni di colpe fino ai capelli, vengano lisciati per quel motivo stesso per il quale dovrebbero esser puniti, e che in grazia di quello per cui non dovrebbero nemmeno varcare le soglie della chiesa, abbiano a salire alla dignità sacerdotale? Cercheremo noi ancora, dimmi, la causa dello sdegno di Dio, mentre esponiamo ministeri così santi e tremendi a essere profanati da uomini o malvagi e affatto indegni di riguardo alcuno? quando vengono incaricati gli uni di presiedere a uffici che loro non convengono affatto, gli altri d’uffici affatto superiori alle loro capacità, faranno sì che la Chiesa non dissomigli per nulla dall’Euripo.

Il male che proviene alla Chiesa dalla abusiva intromissione delle persone estranee nella elezione o nella deposizione dei membri del sacerdozio

XIII. Io, più indietro, deridevo i magistrati civili perché eseguiscono le distribuzioni delle cariche non a norma della virtù che è nelle anime, ma a norma delle ricchezze o dell’età o della dignità umana; ma quando intesi che tale stoltezza aveva invaso anche le nostre istituzioni, non giudicai questo un male equivalente dell’altro. Qual meraviglia infatti, che uomini mondani e bramosi della gloria che deriva dal volgo, e che ogni cosa fanno per acquistare denaro, commettano simili errori, quando coloro che professano il distacco da tutte queste cose, non si comportano meglio di quelli, ma mentre hanno impegnata la lotta per i beni celesti, come se avessero a decidere di un pezzo di terra o d’altra cosa simile, prendono senz’alcun criterio uomini volgari e li pongono a capo di interessi tali per cui il Figlio unigenito di Dio non si peritò di deporre la sua gloria e farsi uomo, d’assumere la forma di schiavo, d’essere sputacchiato e flagellato, e di morire della morte più ignominiosa? Né si arrestano qui, ma aggiungono altre irregolarità più assurde; poiché non solo ammettono gl’indegni, ma ne discacciano gli idonei: come se fosse necessario che dall’una e dall’altra parte venga rovinata la sicurezza della Chiesa, o come se non bastasse il primo motivo per accendere lo sdegno di Dio, così ne aggiungono un secondo non meno tristo; ché mi parve cosa egualmente funesta tanto l’escludere gli idonei, quanto lo spingere dentro gli inetti: e ciò avviene affinché il gregge di Cristo non possa trovare sollievo da alcuna parte, né possa in alcun modo respirare. Tali cose non sono degne di mille fulmini? o non sono meritevoli d’una geenna più violenta, e non solo di quella a noi minacciata? Ma ciò non ostante si trattiene e sopporta tali iniquità "Colui che non vuole la morte del colpevole, bensì che si converta e viva" (Ez. 23,23). Chi può adeguatamente ammirare la di lui mitezza? come degnamente esaltarne la misericordia? T seguaci di Cristo corrompono le istituzioni di Cristo più dei nemici e degli avversari suoi, ed egli buono, si mostra ancora benigno e chiama i colpevoli a ravvedimento; gloria a te, o Signore, gloria a te quale abisso di benignità in te? quale copia di longanimità? quelli che per il tuo nome da volgari e ignobili sono divenuti nobili e cinti d’onore, usano dell’onore contro chi ne li ha rivestiti e osano audacie inaudite, e imperversano contro le cose sante, allontanando e scacciando i degni, affinché i malvagi possano con tutta calma e con piena impunità mettere sottosopra ogni cosa che loro aggrada. E se vuoi apprendere le cause di questo male, le troverai simili a quelle prima addotte, ché hanno tutte una sola radice, e come taluno direbbe, madre, la gelosia; esse poi non sono d’una stessa specie, ma differiscono fra loro. Questo, dice uno, sia scacciato perché è giovane; quest’altro perché non sa adulare; quell’altro perché cadde in disgrazia del tale; quell’altro, per non far dispiacere al tale, qualora vedesse rifiutato il suo protetto e approvato costui; quest’altro poi perché è affabile e moderato, quest’altro ancora perché è temuto dai colpevoli; quest’altro per altro motivo, ché non esitano a trovare pretesti quanti ne vogliano, e qualora non n’abbiano altro, adducono quello del gran numero dei sacerdoti, asserendo non doversi in massa elevare a questa dignità, ma con calma e a poco a poco; e possono trovare quante altre cagioni vogliono. Or mi piace chiederti a questo punto: Che deve fare il vescovo contrariato da tali venti opposti? come starà fermo fra tanto ondeggiare? come respingerà tutti questi assalti? Ché se disporrà la bisogna con retta riflessione, tutti si dichiarano nemici e avversari a lui ed agli eletti, e ogni cosa faranno per animosità contro di lui, suscitando rivolte ogni giorno e infliggendo mille insulti agli eletti, finché o gli abbiano deposti o abbiano fatto luogo ai loro raccomandati. Accade come quando un pilota avesse nella nave che varca Tacque, dei pirati insieme naviganti e insidianti senza posa e in ogni istante a lui, ai marinai e agli altri viaggiatori: e se anteporrà il riguardo verso di quelli alla sua propria salvezza, accogliendo chi non dovrebbe, avrà Dio nemico invece ch’essi, del che qual cosa v’è più tremenda? e d’altra parte i rapporti con loro gli si faranno più difficili di prima, prestandosi tutti reciprocamente soccorso e rendendosi per tal guisa più forti. E come quando, per venti impetuosi scatenatisi da parti opposte, il mare fin allora tranquillo, d’improvviso infuria, si solleva e travolge i naviganti; così la pace della Chiesa quando accolga nel suo seno uomini corruttori, si riempie di procella e di molti naufragi.

XIV. Pensa pertanto quale deve essere colui che ha da andar incontro a sì gran tempesta e cavarsela bene da sì forti ostacoli, opposti a ciò che sarebbe di vantaggio comune: deve essere insieme serio e non altezzoso, temuto e accondiscendente, imperativo e popolare, imparziale e cortese, umile e non servile, forte e dolce, affine di poter combattere con buon esito contro tutte queste difficoltà. Si deve far avanzare con molta fermezza, anche se tutti s’opponessero, il candidato idoneo, e quegli che non è tale, con la stessa fermezza e anche se tutti cospirino contro, non promuoverlo, ma aver di mira una cosa sola, cioè l’edificazione della comunità ecclesiastica, né alcuna cosa compiere per simpatia o per animosità. Ti par dunque che io mi sia ritirato con buona ragione da questo ufficio e da questo ministero? ma tuttavia non t’ho ancora esposto tutto; ho altro da dirti: però ti prego, non stancarti di tollerare che un tuo amico e familiare voglia farti persuaso intorno a ciò di cui lo accusi. Ché tali cose non sono soltanto utili per la difesa che tu avrai a far di me, ma anche per il disimpegno dell’ufficio stesso ben presto ti saranno di non lieve giovamento. È necessario che chi s’incammina per questa carriera di vita, quando abbia prima ben indagato ogni cosa, allora solo s’accinga al ministero; e per qual motivo mai? perché se non altro non gli toccheranno amare sorprese quando si trovi a tali incontri, se già di tutto avrà chiara nozione.

Governo delle vedove e difficoltà che presenta. Cura degli ospiti e degli infermi. Responsabilità del vescovo come amministratore

Vuoi dunque ora che io tratti prima del governo delle vedove, o della sollecitudine per le vergini, o della difficoltà che presenta la parte giudiziaria? Ché in ognuna di queste bisogne diversa é la preoccupazione, e più grande che la preoccupazione é il timore. E per principiare da quella parte che si crede essere più facile delle altre, la cura delle vedove sembra non arrecare altre brighe a chi se ne occupa, se non quelle riguardanti le spese necessarie; ma non é così; anche qui c’è bisogno di lungo esame, quando si tratta di accoglierle, perché l’ascriverle senza criterio e a casaccio, ha prodotto innumerevoli mali. Talora infatti esse hanno mandato in malora le case, violato i matrimoni; spesso si sono infamate con furti, con frodi e col perpetrare altre simili iniquità; ora il mantenere tali soggetti a spese della Chiesa, provoca punizione da parte di Dio e i peggiori biasimi da parte degli uomini, mentre poi rende più restii quelli che sarebbero disposti a beneficare. Chi sopporterebbe infatti che i beni che egli aveva deciso di dare a Cristo, siano dissipati in pro di quelli che disonorano il nome di Cristo? Bisogna quindi fare lunga e diligente indagine, affinché non danneggino la mensa delle indigenti non solo quelle dette di sopra, ma né anche quelle che sono in grado di provvedere al proprio sostentamento. Dopo questa ricerca, sopravviene altra briga non piccola, per far sì che il loro nutrimento scorra abbondante come da sorgenti, né si esaurisca mai: l’indigenza forzata è una miseria in certa guisa insaziabile, querula e sconoscente; si richiede grande sagacia e grande diligenza per chiudere loro la bocca, togliendo qualsiasi pretesto di accusa. Ora molti, appena vedono un tale che sia superiore all’avidità di ricchezza, subito lo designano come idoneo a quest’amministrazione; ma io non credo che gli possa bastare tale magnanimità; questa si richiede bensì prima d’ogni altra dote (ché senza di ciò egli sarebbe un flagello anziché un protettore, e un lupo anziché un pastore), ma insieme con questa conviene cercare se ne possieda un’altra; quest’altra, che è causa d’ogni bene per gli uomini, è la longanimità, che guida l’anima ormeggiandola in porto tranquillo. Il ceto delle vedove, per la indigenza, per l’età e per la sua stessa natura, dimostra una certa smodata indiscrezione, è meglio dir così, onde gridano fuor di luogo, menano querele invano, si rammaricano per cose di cui dovrebbero saper grado, accusano di cose alle quali era invece da far buon viso: e il reggitore deve tollerare tutto con fortezza, senza perdere le staffe né per le noie intempestive, né per gli irragionevoli biasimi; è giusto commiserare quel ceto per i disagi propri della sua sorte, anziché rampognarlo, ché l’accrescere il peso delle loro sventure e aggiungere all’ambascia dell’indigenza anche quella del maltrattamento, sarebbe estrema crudeltà. Onde un tale sapientissimo uomo, guardando l’avidità e l’alterigia propria della natura umana e avendo appreso che l’indole della povertà é così terribile da abbattere anche l’anima più generosa e indurla spesso a mostrarsi sfacciata nel richiedere le stesse cose, affinché taluno non monti in ira per esser da altri supplicato né per le continue richieste infastidito, diventi avversario quegli che doveva recare loro soccorso, lo dispone a mostrarsi accessibile al bisogno, dicendo: "Piega il tuo orecchio al povero senza infastidirti e rispondi a lui con pacata mansuetudine" (Eccl. 4,8). Lasciando da parte il cercatore importuno e che potrebbe dire a chi giace nella miseria? parla a chi é in grado di sopportare la debolezza di quello, esortandolo a sollevare il povero con la dolcezza dello sguardo e l’affabilità della parola, prima di porgergli la limosina.

Larghezza e buone maniere nel beneficare

XV. Che se poi alcuno si astenga bensì dall’appropriarsi i beni destinati a quelle, ma le copra di innumerevoli contumelie, le insulti e monti in furia contro di esse, non solo non avrà alleviato la confusione che loro ispira la povertà, col largire soccorsi, ma avrà cagionato loro un maggior affanno con i maltrattamenti. Ché sebbene, spinte dalla necessità del ventre, esse diventano assai impudenti, non ostante ciò soffrono a queste maniere violente; quando adunque per l’urgenza della fame sono necessitate a chiedere, e col chiedere s’inducono a comportarsi sfrontatamente, indi per la loro sfrontatezza vengono coperte di rimproveri, allora un molteplice peso di abbattimento apportatore di densa tenebra, si stende su l’anima loro. Chi si occupa di loro dovrà quindi essere tanto longanime, non solo da non accrescere la loro confusione con modi irritati, ma anche da attutire la maggior parte di quella che hanno già, con parole di conforto. Poiché, come chi godendo di grande abbondanza, se riceve insulto non sente la comodità che arreca il possesso delle sostanze per il colpo dell’offesa ricevuta; così quegli che ascolta parole affabili e che accetta l’offerta accompagnata da una voce confortatrice, si rallegra maggiormente e gioisce, e il soccorso a lui largito gli si duplica per le buone maniere onde è porto. E queste cose non dico da me stesso, ma secondo colui che ha fatta la prima esortazione: "Figlio, dice, nel beneficare non recare vituperio, e in ogni dono non recare dolore con le tue parole; non forse la rugiada lenirà l’arsura? così é migliore la parola che il dono. Ecco che la parola é al di sopra della buona largizione e l’una e l’altra sono presso l’uomo che gode fama di giusto" (Eccl. 18,15-17). Né solo giusto e longanime dev’essere chi soprintende alle vedove, ma non deve esser da meno come amministratore; il che se manchi in lui, trarrà a non minor rovina le sostanze dei poveri. Già taluno cui fu affidato questo ministero e che aveva radunato molto oro, non se lo divorò lui, ma neppur lo spese a vantaggio dei bisognosi, tranne di pochi; la maggior parte ripose e conservò fino a che sopraggiunto il tempo perverso, lo abbandonò nelle mani dei nemici. C’è bisogno dunque di molta previdenza, si da non prodigare né lesinare le provvigioni della Chiesa, ma distribuire subito ai poveri le somme offerte e radunare i tesori della Chiesa a norma delle intenzioni dei sudditi. Inoltre l’accoglienza degli ospiti e la cura degli infermi, qual dispendio di denaro non credi tu che richiedano, quale sollecitudine e prudenza da parte di chi ne é incaricato? le spese che tali bisogne richiedono non sono affatto minori di quelle di cui ho detto poc’anzi; spesse volte di necessità sono anche maggiori: onde chi vi soprintende dev’essere sagace nel procurare con circospezione e assennatezza, in guisa da disporre i proprietari a largire i loro beni con zelo e senza rammarico, per non danneggiare le anime dei donatori mentre provvede al sollievo degli infermi. Più ancora conviene qui far prova di longanimità e serietà; perché i malati sono una classe di difficile contentatura e d’animo debole; onde se non si circondano da ogni parte di premura e di sollecitudine, basta anche quella piccola trascuratezza per cagionare all’infermo grande tristezza.

Governo e cura delle vergini. Sollecitudini e ansie che ne derivano al vescovo e al sacerdote che ne é incaricato

XVI. Riguardo poi alla cura delle vergini é tanto più grande il timore quanto più eccellente é l’oggetto e quanto più regale é questo atto in confronto degli altri; invero anche nella schiera di queste sante persone si sono già introdotti numerosissimi soggetti ripieni di innumerevoli mali; onde é maggiore in questo caso l’affanno. Or come non é eguale cosa se cada in fallo una fanciulla libera o la sua ancella, così anche v’è differenza fra la vergine e la vedova. Per queste ultime infatti é cosa indifferente il far leggerezze, l’ingiuriarsi a vicenda, l’adulare, il mostrarsi sfrontate, l’apparire dappertutto e gironzolare per la piazza; ma la vergine si é disposta a più alto certame ed é emula d’una più alta filosofia; professa di mostrare sulla terra la condizione degli angeli e si propone di effettuare, pur circondata di questa carne, le virtù proprie delle potenze incorporee; onde a lei non s’addice il far lungi e escursioni, né le si permette di affastellare parole inutili e vane; di contumelie poi e di adulazioni non deve conoscere neppure il nome; per queste ragioni essa ha bisogno di più accurata custodia e di maggior soccorso, ché il nemico della santità sempre più fiero le fronteggia e assedia, pronto, se taluna vacilli e cada, a ingoiarsela; molti poi sono gli uomini insidiatori, e a tutto ciò s’aggiunge l’imperversare della natura; onde debbono schierarsi contro doppio ordine di nemici: quelli che assalgono all’esterno e quelli che agitano nell’interno. Grande pertanto é il timore di chi vi presiede, maggiore ancora il pericolo e l’affanno se talvolta (ciò che non accada mai) gli venisse commesso qualche fallo involontario. Ché se "la figlia rinchiusa toglie il sonno al padre" (Eccl. 42,9) e l’ansia a riguardo di lei lo tiene sveglio, sì grande essendo il timore ch’essa non rimanga sterile, o che trapassi l’età buona, o che sia disamata dal suo fidanzato; quale fiducia avrà colui che ha da affannarsi non per questi motivi, ma per altri di questi assai maggiori? Qui non l’uomo viene tradito, ma lo stesso Cristo; né la sterilità genera solo infamia ma il danno di essa finisce con la rovina dell’anima. "Ogni albero, dice, che non fa buon frutto, viene tagliato e gettato sul fuoco" (Mt. 3,10); e quando sia odiata dallo sposo non basterà prendere il libello di ripudio, e andarsene, ma s’avrà in pena dell’odio la punizione eterna. Inoltre il padre carnale ha molti mezzi che gli rendono agevole la custodia della figlia: v’è la madre, la nutrice, lo stuolo delle ancelle; la sicurezza della casa poi viene in aiuto al genitore per la custodia della vergine. Non le si permette di uscire continuamente in piazza, né qualora vi si rechi é necessitata a mostrarsi ad alcuno di quelli che s’incontrano con lei, giovando l’oscurità della sera non meno delle mura domestiche, per velare colei che non vuol farsi vedere; s’aggiunga a tutto ciò ch’essa é libera da ogni causa che la potrebbe forzare a mostrarsi in presenza d’uomini, perché né la sollecitudine delle cose necessarie né le macchinazioni degl’iniqui, né altro simile motivo la costringe a questi incontri, avendo essa il padre che s’occupa in vece sua di tutte queste faccende. Perciò ella non ha che una sola preoccupazione, di non fare né dire alcuna cosa indegna del decoro proprio del suo stato. Qui invece molte cause rendono al padre difficile, anzi persino impossibile la custodia; egli non potrebbe tenerla rinchiusa insieme con lui, ché tale coabitazione non é né conveniente, né priva di pericoli; se anche essi non ne soffrono danno e perdurano nel serbare intatta la santità loro, tuttavia per le anime che hanno scandalizzate, avranno a rendere non minor conto che se avessero peccato insieme. Or non essendo ciò possibile, non torna facile né anche l’intuire i moti dell’anima, né reprimere quelli che si agitano sregolatamente e coltivare sempre più quelli composti e ordinati e guidarli al meglio; né torna agevole il sistemare le uscite. La povertà e la mancanza di protezione non gli permettono d’essere diligente indagatore della decenza che loro si conviene; infatti quando la vergine é costretta a provvedere da se stessa a ogni sua necessità, ha molti pretesti per uscirsene in giro, qualora voglia far disordini; ci vuole pertanto qualcuno che imponga loro di rimanere sempre e in casa e tolga di mezzo simili occasioni, procurando loro sia la sufficienza del necessario sia una persona la quale presti loro servizio per questi bisogni; é d’uopo anche impedirle di recarsi ai funerali e alle vigilie; perché quell’astuto serpente sa spargere il suo veleno anche fra le opere buone, onde bisogna che la vergine se ne stia trincerata e poche volte in tutto l’anno esca fuori di casa, quando motivi imprescindibili e urgenti ne la costringano.

Che se taluno dicesse non esservi affatto bisogno che il vescovo compia direttamente alcuno di questi uffici, sappi bene che le preoccupazioni e i biasimi riguardo a ciascuno d’essi si rivolgono sempre a lui. E’ molto meglio ch’egli disimpegnando da se stesso ogni faccenda eviti le accuse che è giocoforza sopportare in grazia de’ falli altrui, piuttosto che scaricandosi del ministero, paventare le punizioni dovute a ciò che altri ha commesso. Inoltre colui che esercita da se stesso queste cariche, compierà ogni cosa con molta agevolezza, mentre invece chi ha da far ciò dopo d’aver persuaso la volontà di tutti, non riceve dall’aver rinunziato a far da sé un sollievo corrispondente alle noie e agitazioni cagionategli dai contraddittori e da quelli che si opporranno alle sue decisioni. Ma non potrei enumerare tutte le preoccupazioni relative alle vergini; già quando si tratti di iscriverle esse arrecano brighe non ordinarie a chi é incaricato di questa amministrazione.

Difficile compito dell’amministrare la giustizia con imparzialità. Pericoli che possono presentarsi al vescovo per la suscettibilità delle varie classi di persone a cui deve usare cortesia.

XVII. La parte poi che riguarda i giudizi arreca infiniti pesi, grande fatica e tali difficoltà, quali non incontrano neppure i giudici dei tribunali civili. Ché difficile é trovare il giusto, e che colui che lo trova non lo corrompa. Né solamente fatica e difficoltà, ma vi si incontra pure non lieve pericolo; già taluni dei più deboli essendo stati coinvolti in processi, né trovando protezione, finirono per naufragare nella fede. Poiché molti offesi non meno degli offensori detestano chi non li soccorre, e non vogliono considerare né l’intricatezza delle questioni, né la tristezza delle circostanze, né la dignità ecclesiastica: sono giudici inesorabili che conoscono una sola difesa, cioè la liberazione dai malanni da cui sono oppressi; chi non é in grado di loro fornirla, anche se adduca mille ragioni non sfuggirà in alcun modo alla loro condanna. E poiché ho parlato di protezione, ti svelerò un altro motivo di biasimi: se colui che occupa la carica episcopale non va ogni giorno in giro per le case come un vagabondo, ne vengono indicibili malcontenti. Non solo gli ammalati, ma anche i sani vogliono esser visitati, indotti a ciò non da riverenza, ma piuttosto per pretesa d’onore e di considerazione. Che se per l’urgenza di qualche bisogno e a vantaggio della comunità ecclesiastica gli accada di visitare più assiduamente alcuno dei più ricchi e potenti, subito gliene verrà taccia di servilismo e di adulazione. Ma che parlo io di protezione e di visite? anche solo dal modo di salutare sopportano tal peso di accuse da esserne sovente oppressi e abbattuti per lo scoraggiamento; persino degli sguardi hanno da rendere ragione; molti poi sottopongono a rigoroso esame ciò che quelli fanno ingenuamente, indagano sul tono della voce, sull’espressione degli occhi, sulla misura del sorriso: "al tale, dicono, ha rivolto il discorso con sorriso marcato, con aspetto giulivo e voce sonora; a me invece guardò poco e trascuratamente"; e se quando parla e molti stanno seduti insieme con lui, non porta l’occhio in giro da ogni lato, una parte di loro se ne adonterà come d’un insulto.

Chi dunque se non assai forte, potrà resistere a tali accusatori sia per sfuggire a ogni loro imputazione, sia per purgarsene dopo che gli fu inflitta? per vero bisognerebbe non aver affatto accusatori; ma se ciò é impossibile, almeno bisognerebbe poter liberarsi dalle loro accuse; che se anche ciò torna difficile e taluni si dilettano nel muovere querele, allora bisogna resistere fortemente all’abbattimento che ne deriva. Più facilmente sopporterebbe l’accusatore chi fosse incolpato per giusto motivo; ché non essendovi giudice più fiero della coscienza, quando siamo sopraffatti da questo che é più terribile, sopportiamo più facilmente quelli esterni che sono più benigni. Ma colui che non ha a rimproverarsi alcuna colpa, qualora venga accusato senza cagione si eccita tosto a sdegno e si abbatte facilmente nello scoraggiamento, se prima non si sia esercitato a sopportare le noie del volgo; ché non é possibile che uno falsamente accusato e condannato non si conturbi e non soffra qualche cosa per tanta iniquità.

Ma chi direbbe poi le afflizioni che debbono soffrire quando sia necessario espellere qualcuno dalla comunità ecclesiastica? e fosse pure che il male consistesse solo nell’afflizione l ma v’è anche non poca rovina; poiché v’è timore che punito oltre i giusti limiti quegli patisca ciò che fu detto dal beato Paolo, e venga assorbito da eccessivo dolore. Onde anche qui occorre gran diligenza affinché un mezzo di giovamento non diventi per lui occasione di un danno maggiore. Come un medico che non avesse inciso convenientemente la ferita, egli subirà in comune l’ira di Dio, eccitata da ciascuna delle colpe che quegli commetterà dopo una simile cura. Or quali punizioni dovrà attendersi, quando uno non deve solo rendere ragione delle mancanze da lui commesse, ma trovasi esposto a estremo pericolo anche per i falli altrui? Che se dovendo dar conto delle nostre proprie mancanze noi paventiamo di non poter sfuggire a quel fuoco, che cosa dovrà aspettarsi di soffrire chi avrà a difendersi da tante colpe? Che poi ciò sia vero, odi il beato Paolo che lo dice, o piuttosto non lui ma Cristo che in lui parla: Ubbidite ai vostri capi e assoggettatevi a loro perché essi vegliano sulle anime vostre come quelli che hanno da renderne conto. È questo dunque un lieve timore? non è possibile affermarlo. Ma tutte queste cose bastano per convincere anche i più increduli c ‘restii, che io ho deciso quella fuga non perché accecato da arroganza e vanagloria, ma solo perché temevo di me stesso e per riguardo alla maestà dell’ufficio.

Libro quarto



Intermezzo II. Alla osservazione di Basilio, che Giovanni non ha sollecitato la dignità, questi risponde, con esempi e similitudini, che anche chi non ha brigato per essere eletto é responsabile di ogni deficienza ed errore in cui avesse a cadere

I. Udite queste cose Basilio stette alquanto sopra pensiero, indi: "Ma questo tuo timore, disse, avrebbe ragion d’essere se tu ti fossi adoperato per ottenere questa dignità; colui infatti che col brigare per ottenerla dichiara d’essere idoneo al disimpegno dell’ufficio, se commette errori dopo che gli fu affidata, non potrà ricorrere al pretesto della sua inesperienza, poiché egli già prima si privò di questa difesa, col correre avanti e coll’afferrare il ministero; né chi spontaneamente e di propria volontà vi si sobbarcò, potrà poi dire: "Ho fatto questo sbaglio senza volerlo; contro mia volontà ho pervertito quel tale". Ché colui che avrà da giudicare questa causa, gli dirà: "E come mai, conoscendo quella tua inesperienza, e non avendo tu senno sufficiente per dar mano a quest’arte senza far sbagli, ti adoperasti per sobbarcarti e osasti intraprendere opere superiori alle tue forze? chi vi ti obbligava? chi vi ti trascinò a forza mentre tu resistevi e fuggivi?". Ma tu non ti sentiresti certamente dire alcunché di simile; né tu avresti da fare a te stesso qualche rimprovero di tal genere; é a tutti palese infatti che non hai sollecitato né molto né poco quell’onore, ma altri ti procurava la promozione; onde appunto ciò che toglie a quelli il perdono delle eventuali colpe, fornisce a te un saldo fondamento di difesa.

A queste parole io scuotendo il capo e un poco sorridendo, mi stupii della sua semplicità, indi soggiunsi: "Ben vorrei io pure che le cose stessero così come tu dici, o incomparabile uomo fra tutti, e non già per poter assumere quello a cui sono sfuggito. Ma quand’anche niuna pena mi fosse riservata per aver governato il gregge di Cristo a casaccio e senz’esserne capace, mi sarebbe tuttavia peggiore d’ogni castigo il dover io, incaricato di uffici tanto grandi, apparire così miserabile al cospetto di Colui che me li aveva affidati. E per qual motivo bramerei io che questa tua opinione non fosse priva di fondamento? certamente perché fosse dato a quei miseri (ché così hanno da chiamarsi quelli che non riescono a disimpegnare lodevolmente quest’incarico, anche se mille volte tu vada dicendo che vi furono trascinati per forza e che peccano involontariamente) perché fosse dato a costoro di sfuggire a quel "fuoco inestinguibile, alla tenebra esteriore, al verme imperituro, all’essere separato e perire insieme con gli ipocriti" (Mt. 24,51); ma che? non é così, non é così! e ti proverò se ti piace, la verità di ciò che dico, con l’esempio del principato, la cui eccellenza presso Dio non é sì grande quanto quella del sacerdozio.

Esempi di Saul, Eli, Mosè

II. Quel Saul figlio di Cis, non diventò re per esservisi adoperato, ma muovendo in cerca delle asine, si recò dal profeta per chiederne novelle e quegli allora gli fece parola del regno; e nemmeno così egli si spinse avanti, pur avendone udito parlare da un profeta, ma se ne ritraeva e vi s’opponeva dicendo: "Chi sono io, e quale é la casa di mio padre?" (1Re 9,21). Ma che? avendo egli malamente usato dell’onore accordatogli da Dio, valsero forse quelle sue parole a sottrarlo allo sdegno di colui che gli aveva conferito la regia potestà? E ben poteva egli dire a Samuele quando lo rimproverava: "Forse accorsi io spontaneamente alla dignità regia? o forse da me stesso mi vi spinsi sopra? io volevo pur vivere la vita inerte e quieta dei privati, tu invece mi trascinasti a questo onore; ma Se io mi fossi rimasto in quell’umile stato, avrei agevolmente evitate queste colpe, ché essendo io uno del volgo e oscuro, non sarei stato mandato a quest’impresa, né Dio m’avrebbe affidata la guerra contro gli Amaleciti; non essendone incaricato, non sarei mai caduto in questa colpa". Ma tutto ciò é insufficiente alla difesa, né solo è insufficiente, ma anche pericoloso, e tale da sempre più accendere lo sdegno di Dio. Colui che fu onorato oltre il suo merito, non deve già addurre la grandezza dell’onore a discolpa dei suoi falli, ma invece valersi della sollecitudine di Dio a suo riguardo come d’uno stimolo a maggior perfezione. Chi crede a sé lecito peccare per aver toccato in sorte un onore più grande, altro non fa se non additare la benignità di Dio come cagione delle proprie colpe, come hanno costume di dire sempre gli empi e quelli che sogliono governare trascuratamente la propria vita. Noi non dobbiamo comportarci così, né dobbiamo cadere nella loro pazzia, ma dobbiamo in tutto aggiungere l’opera nostra secondo le nostre forze, e retta serbare la lingua e il pensiero. Neppure Eli (per venire ora al nostro argomento, cioè al sacerdozio, lasciando da parte il principato) si adoperò per acquistare il potere, ma che gli giovò questo, quand’ebbe prevaricato? Che dico acquistare? per la necessità della legge, non avrebbe nemmeno potuto sfuggirlo se avesse voluto; poiché egli apparteneva alla tribù di Levi e gli era gioco forza assumere la potestà che gli veniva dall’alto per via degli antenati; eppure anch’egli subì non piccola pena per le crapule dei suoi figli. Ma che? quegli stesso che fu il primo sacerdote degli Ebrei e del quale tante cose disse il Signore a Mosè, poiché non fu capace di resistere da solo contro la stoltezza di tanta moltitudine, non andò forse vicino alla rovina, se la protezione del fratello non avesse rimosso lo sdegno di Dio? E dacché ho ricordato Mosè, é opportuno mostrare la verità del mio assetto anche dalle vicende a quello occorse. Quello stesso beato Mosè era tanto lungi dall’usurpare il dominio sugli Ebrei, che lo ricusò anche quando gli fu conferito; e imponendogli Dio di accettarlo, si oppose a tal segno da muovere all’ira chi ne lo investiva; né solo allora, ma anche in seguito mentre esercitava il potere, sarebbe morto volentieri per esserne esonerato: "Fammi morire, dice infatti, se vuoi fare a me in tal guisa" (Nm. 11,15). Ebbene? Quando egli ebbe peccato all’acqua, valsero forse questi reiterati rifiuti a difenderlo e a muovere Dio a perdonargli? e per qual altro motivo fu privato della terra promessa? per nessun altro motivo, come tutti sappiamo, che per questo peccato, per il quale quel mirabile uomo non poté ottenere ciò che ottennero i suoi sudditi, ma dopo le molte fatiche e angustie, dopo quell’indicibile errare, le guerre e i trofei, morì fuori dalla terra per la quale aveva durato tutti quei travagli; e dopo aver sostenuto i pericoli del pelago, non godette i vantaggi del porto. Vedi come non solo a quelli che usurpano questo potere, ma anche a quanti vi giungono per opera altrui, non. rimane alcuna difesa dei falli in cui sono caduti? E per vero, mentre costoro, che sebbene investiti da Dio della dignità vi si rifiutarono ripetutamente, nondimeno subirono sì grave pena, e nulla valse a sottrarre da tale pericolo né Aronne, né Eli, né quell’uomo beato, quel santo, quel profeta, quel mirabile e mansueto fra tutti gli uomini della terra e che parlava a Dio come a un amico; difficilmente a me che tanto sono lungi dalla virtù di quello, potrà servire di difesa la consapevolezza di non aver per nulla sollecitato questa carica; tanto più quando molte di queste ordinazioni avvengono non per impulso della grazia di Dio, ma per l’opera di uomini. Dio aveva pur scelto Giuda, l’aveva collocato in quella santa schiera e gli aveva conferita insieme cogli altri la dignità apostolica, anzi, a lui aveva dato qualcosa di più che agli altri, cioè l’amministrazione del denaro. Ebbene? poi ch’ebbe usato di queste due prerogative contrariamente allo scopo, tradendo Colui ch’era stato incaricato di predicare e rovinando malamente i beni di cui gli s’era affidata l’amministrazione, forse che sfuggi alla pena? anzi, per ciò appunto si procurò un castigo maggiore; e ben a ragione. Ché non si deve usare degli onori che Dio conferisce, per offenderlo, sebbene per maggiormente compiacerlo. Che se altri, per essere stato maggiormente onorato, stimasse giusto per questo di sfuggire la pena quando gli fosse dovuta, farebbe lo stesso di qualcuno degl’infedeli Giudei, il quale udendo Cristo che dice: Se non fossi venuto né avessi parlato loro, non sarebbero colpevoli, e: "Se non avessi operato fra loro tali prodigi quali nessun altro operò, non sarebbero colpevoli" (Gv. 12,6), rimproverasse il Salvatore e Benefattore dicendo: "E perché sei tu venuto e hai parlato? perché compiesti quei prodigi, per aver poi a punirci più fortemente?". Queste sarebbero certamente parole da pazzo e da delirante furioso; ché il medico non venne già per condannarti ma piuttosto per curarti e liberarti completamente dalla tua infermità: tu invece spontaneamente ti sottraesti alle sue mani; or dunque abbiti più aspra la pena. A quel modo che cedendo alla cura ti saresti liberato anche dai malanni anteriori, così se tu fuggi il medico quando ti s’avvicina, non potrai più detergerti da questi, e non potendolo subirai la pena di essi e dell’aver resa vana la sua cura, per quanto dipendeva da te. Onde non sosteniamo eguale giudizio da Dio prima di essere onorati e dopo aver ricevuto gli onori, ma molto più severo dopo, ché colui che non diventò migliore in seguito ai benefici ricevuti, é giusto che sia più duramente punito. Or dunque, poi che a me appare insufficiente questa difesa e tale non solo da non salvare coloro che vi cercano rifugio, ma da esporli a maggior pericolo, fa d’uopo che tu mi mostri un altro scampo.

Se uno sa di essere inetto al ministero, deve sottrarsene, senza badare a riguardi personali

III. "E quale mai? poiché io non sono ormai in grado di governare me stesso, tanto m’hai reso trepidante e atterrito con queste tue parole".

"No, dissi io, te ne prego e te ne scongiuro, non voler tanto abbatterti; c’è senza dubbio lo scampo sicuro: per me debole esso consiste nel non mettermivi affatto; per te che sei forte invece, nel riporre la speranza in null’altro che, dopo la grazia di Dio, nel non fare nulla che sia indegno di questo dono né di Dio che lo largisce. Ché per certo sono meritevoli della massima punizione coloro che dopo aver raggiunta questa potestà dopo di averla sollecitata, ne fanno poi cattivo uso o per negligenza, o per malignità, o anche per inesperienza; ma non per questo é riservato alcun perdono a coloro che non trafficarono per conseguirla, ma anch’essi restano privi di qualsiasi difesa. Poiché fa d’uopo, mi pare, quand’anche moltissimi chiamino e sforzino d’accedervi, non badare a loro, ma saggiando anzitutto l’anima propria e ogni cosa diligentemente indagando, così poi acconsentire a quelli che spingono. Nessuno oserebbe assumersi l’amministrazione di una casa senz’essere amministratore; né alcuno s’accingerebbe a trattare i corpi malati essendo ignaro dell’arte medica; ma se pur fossero molti che lo spingessero a forza, vi s’opporrebbe, né arrossirebbe di palesare la propria incapacità; e chi ha da essere incaricato della cura di tante anime, non esaminerà prima se stesso, ma se pur sia il più inetto di tutti, accetterà il ministero, perché il tale glielo impone, o il tale ve lo sforza, o per non offendere il tale altro? E come non precipiterà se stesso insieme con quelli in un danno palese? potendo egli salvarsi da se stesso, rovina gli altri insieme con lui; donde potrà dunque sperare salvezza? donde ricevere perdono? chi intercederà allora per noi? forse quelli che ora vi ci sforzano e a forza ci trascinano? ma costoro stessi chi li salverà in quell’ora? anch’essi hanno bisogno d’altri per poter sfuggire al fuoco. E per persuaderti che ora dico ciò non per incuterti spavento ma al tutto secondo verità, ascolta ciò che dice il beato Paolo a Timoteo suo figlio adottivo e diletto: "Non ti fare fretta d’imporre le mani ad alcuno e non prendere parte ai peccati degli altri" (1Tim. 5,22); vedi da qual biasimo non solo, ma anche da qual castigo ho liberato, per quanto stava da me, quelli che volevano spingermi a questa carica? Però che, come agli eletti non servirà di sufficiente difesa il dire: non venni di mio arbitrio, ho accettato senza prevedere la mia mala riuscita; così neppure agli elettori può giovare qualche cosa, se dicano di non aver conosciuto l’eletto; ma appunto per questo diviene maggiore l’accusa, perché promossero chi non conoscevano, onde quello che si stimava servire di difesa, viene ad aggravare l’imputazione. Come non sarebbe strano infatti, che quelli che vogliono comperare uno schiavo, lo mostrino ai medici e richiedano persone garanti della compera, e interroghino i vicini, né si assicurino dopo tutto ciò, ma esigano un lungo tempo per farne la prova; mentre coloro che hanno da iscrivere alcuno a tanto ministero, senza fare alcun altro esame, ve lo aggiudichino agevolmente e senza badare, purché a taluno sembri bene designarvelo in grazia del favore o del disfavore altrui, tralasciando ogni altra ricerca? Chi intercederà allora per noi, quando gli stessi che dovrebbero perorare la nostra causa avranno essi pure bisogno d’intercessori?

Tanto l’elettore quanto il candidato devono ponderare con molta cura prima di scegliere o di lasciarsi eleggere. Il giudizio di Dio sarà severo per gli uni e per gli altri se avranno agito con leggerezza.

IV. Bisogna dunque che anche chi ha da imporre le mani, premetta accurata indagine, e ancor più deve farlo il consacrando; ché se egli avrà gli elettori partecipi del castigo, per le colpe in cui sarà caduto; non vi sfuggirà per altro egli stesso, bensì ne subirà uno maggiore: a meno che coloro che lo promossero abbiano così agito per qualche motivo personale, contrariamente a quanto sembrava loro retto. Perché se saranno colti in fallo per questo lato, e conoscendo un candidato come indegno, lo promossero per qualche pretesto, le proporzioni della pena saranno eguali anche per loro, e anzi, maggiori saranno a quelli che investirono del potere un indegno; ché se uno conferisce la potestà a chi s’accinge a rovinare la Chiesa, sarà egli colpevole dei danni da quello perpetrati. Se poi egli non avrà da rendere conto ad alcuno per queste colpe, ma dica d’essere stato ingannato dall’opinione del volgo, neppure in tal caso resta impunito, tuttavia subirà una pena alquanto minore di quella dell’eletto; e Perché? Perché é bensì probabile che gli elettori siano indotti a ciò ingannati dalla falsa opinione pubblica, ma l’eletto non potrebbe già dire: "Io non conoscevo me stesso" come altri potrebbero dire di non aver conosciuto lui; pertanto, siccome egli va incontro a più aspra punizione che quelli i quali ve lo promossero, così deve far l’esame di se stesso con maggior cura di loro, e quand’anche essi per ignoranza ve lo trascinassero, facendosi avanti deve esporre diligentemente le ragioni con le quali dissipi il loro inganno, e così, dimostrando se stesso indegno della promozione, sfuggirà l’incarico di sì gravi incombenze. Per qual motivo infatti, trattandosi di strategia o di navigazione o d’agricoltura o di altre professioni, il contadino non sceglierebbe di navigare, né il soldato di lavorare la terra, né il pilota di esercitare la milizia, quando pure si minacciassero di mille morti? certamente perché ciascun d’essi prevede il pericolo derivante dalla propria inesperienza; e frattanto useremo tanta previdenza là ove il danno versa intorno a interessi piccoli, né cederemo all’imposizione di chi ci sforza, e dove invece a quelli che mancando di capacità assumono il sacerdozio é serbata la pena eterna, trascuratamente e a casaccio ci sobbarcheremo al rischio, adducendo poi a scusa la violenza altrui? Per certo non lo sopporterà Colui che allora ci avrà da giudicare: giacché bisognava mostrare maggior fermezza riguardo alle cose spirituali che a quelle materiali; or invece saremo trovati a non aver nemmeno mostrata l’eguale. Dimmi infatti: se prendendo noi un tale per architetto mentre non lo fosse, lo chiamassimo all’opera, e quegli venendo e ponendo mano al materiale radunato per la fabbrica, mandasse in malora e legname e pietre, e costruisse l’edificio in guisa tale che presto rovini, basterà forse a sua difesa l’esservisi accinto per comando d’altri e non essersi proposto spontaneamente? Non basterà affatto, e ben a ragione e giustamente; ché ben doveva egli ricusare, non ostante che altri lo chiamassero. Or dunque, mentre niuna speranza di sfuggire la pena rimane a chi mandò in malora il legname e le pietre, colui che rovina le anime e governa malamente, crederà giovargli per essere assolto, l’esservi stato obbligato da altri? E come non sarebbe ciò molto ingenuo? e lascio che nessuno potrebbe venire obbligato, qualora non volesse. Ma soggiaccia pure egli a quanta violenza si voglia e a molteplici raggiri per esser fatto cadere; forse ciò lo libererà da pena? no, te ne prego, non inganniamoci fino a tal segno, né simuliamo di ignorare ciò che é palese persino ai piccoli fanciulli; ché non ci potrà giovare questa simulazione d’ignoranza, quando saremo chiamati a giudizio. Tu non brigasti per ottenere questa carica, conscio com’eri di tua debolezza: benissimo, ma bisognava che con la stessa intenzione t’opponessi a coloro che vi ti chiamavano; o forse tu eri debole e inetto solo fintantoché niuno ti chiamava, e come si trovò chi era disposto a conferirti l’onore, d’un tratto diventasti forte? ciò é ridicolo e insulso, e degno di gravissimo castigo. Per questo appunto il Signore esorta "colui che vuole edificare una torre, a non porre il fondamento prima d’aver computato le proprie sostanze, per non offrire ai presenti infiniti pretesti di scherno contro di lui" (Lc. 14,28). Per quello il danno si riduce alla derisione, qui invece la pena é il "fuoco inestinguibile, il verme imperituro, lo stridore dei denti, la tenebra esteriore e l’essere separato e collocato insieme con gli ipocriti" (Mt. 25,30).

La Chiesa é il corpo mistico di Cristo.

Ma i miei accusatori non vogliono saper nulla di tutto questo, ché diversamente avrebbero senza dubbio cessato di biasimare chi non vuol porsi inutilmente a rovina. Non ci é proposto l’esame circa l’amministrazione di frumento, né di biade, né di bovi e pecore, né di alcun’altra simile cosa, ma circa lo stesso corpo di Gesù. Poiché la Chiesa di Cristo, secondo il beato Paolo, é il corpo di Cristo; onde bisogna che quegli a cui esso é affidato, lo serbi in sanità e bellezza grandissima, d’ogni parte badando che né macchia né ruga né altra deformità abbia mai a distruggere quella bellezza e maestà: e che altro é ciò, se non far si che quel corpo appaia, per quanto può conseguirlo l’umana virtù, degno del purissimo e beato capo che vi sta sopra? Ché se quelli che bramano acquistare il vigore atletico hanno bisogno di medici e di maestri di ginnastica, di dieta accurata, di continuo esercizio e d’altre infinite cautele, potendo l’omissione, anche di piccole attenzioni, frustrare e rovinare ogni altra cura: quelli che sono sortiti a servire questo corpo, il quale deve scendere in giostra non contro altri corpi, ma con le potenze invisibili, come potranno serbarlo intatto e sano, se non superano di molto l’umana virtù e non conoscono perfettamente la cura adatta per l’anima?

Fine dell’intermezzo. II. Ripresa dell’argomento intorno alle virtù sacerdotali. Eloquenza e magistero della parola. Necessità della parola per confondere gli eretici (nemici esterni) e le vane superstizioni (nemici interni).

V. O forse ignori che questo corpo soggiace a più malattie e insidie che la nostra carne, e che più presto di essa va in rovina e più difficilmente viene risanato? A quelli che curano gli altri corpi si offre varietà di medicine, diversi apparecchi meccanici e nutrimenti adattati agli infermi; spesso anche la natura del clima bastò da sola a ricondurre i malati a sanità; altra volta il sonno intervenendo a tempo debito, liberò il medico da ogni fatica. Qui invece non c’è da contare su alcuna di queste cose; una sola via e un sol mezzo di cura si offre, oltre le opere, quello cioè che é fornito dal magistero della parola. Questo é lo strumento, il cibo, la temperatura di clima più perfetta; questo fa le veci di medicina, di cauterio, di ferro; se occorra bruciacchiare o tagliare, di questo bisogna valersi, e ove esso manchi, farà pur difetto ogni altro rimedio. Con esso risvegliamo anche l’anima assopita e la ricomponiamo se diviene tumescente, tagliamo via il superfluo, riempiamo le lacune e compiamo ogni altra operazione opportuna per il benessere dell’anima. Per conseguire la miglior direzione della vita, giova la vita d’un altro che stimoli a emularla; ma qualora l’anima sia offesa per opera di falsi dogmi, v’è gran bisogno della parola, non solo per la sicurezza di quei di casa, ma anche per le guerre provenienti dal di fuori. Poiché se alcuno avesse la spada dello spirito e lo scudo della fede, tanto da poter compiere prodigi, e mediante i portenti chiudere la bocca agli sfrontati, forse non avrebbe alcun bisogno dell’aiuto della parola; o piuttosto, nemmeno allora tornerebbe inutile la virtù di essa, ma anzi molto necessaria; e per vero il beato Paolo se ne valse, sebbene dappertutto egli fosse ammirato per i suoi miracoli. E anche un altro dei membri di quel coro, raccomanda di adoperarsi a conseguire questa facoltà, dicendo: "Pronti sempre a dar soddisfazione a chiunque vi domandi ragione della speranza che avete dentro di voi" (1Pt. 3,15); tutti poi essi affidarono il governo delle vedove a Stefano ed a’ suoi compagni per nessuno altro motivo che per attendere al "ministero della parola" (At. 6,2). Certamente non con la stessa sollecitudine andremmo in cerca della parola se avessimo la potenza che deriva dai miracoli; ma se di quella potenza non rimane neppure la traccia, mentre da ogni parte insorgono molti e assidui nemici, non ci rimane che armarci di quella, sia per non esser colpiti dagli strali degli avversari, sia per colpirli alla nostra volta.

La Chiesa è come città mistica oppugnata da molti nemici

VI. Bisogna pertanto usare molta diligenza affinché la parola di Gesù Cristo abiti in noi abbondantemente; non dobbiamo star preparati per una sola specie di battaglia, ma questa guerra é molteplice e combattuta da differenti nemici; essi non usano tutti le stesse armi, né a uno stesso modo fanno forza contro di noi. Onde chi s’accinge a sostenere la guerra contro di tutti, deve conoscere le arti di tutti: essere al tempo stesso arciere e fromboliere, generale e capitano, soldato e comandante, pedone e cavaliere, combattente di flotta e di fortezza. Nelle guerre gli eserciti, attendendo ciascuno a una data operazione, respinge con questa gli assalitori; qui invece non accade così, ma se chi vuol vincere non conosce tutte le specie dell’arte, il diavolo é capace, anche per una parte sola che rimanga a caso trascurata, d’introdurre i suoi predoni e far strage delle pecore; ma non vi riesce, qualora sappia esservi un pastore fornito di ogni conoscenza e pienamente istruito delle sue insidie; bisogna pertanto ben munirsi da ogni parte. Fino a che una città si trova ben fortificata tutt’intorno, può ridersi dei suoi assedianti, rimanendosi in grande sicurezza, ma se si riesca ad aprire nel muro una breccia anche soltanto come una porticina, non le sarà più d’altro giovamento la sua cinta, sebbene in tutto il resto ancor intatta e forte. Così é della città di Dio: fin che la ricinge da ogni parte invece di muro la sagacia e la prudenza del pastore, ogni artificio dei nemici ridonderà a loro scorno e derisione, mentre gli abitanti se ne staranno dentro al sicuro; ma se alcuno riesca a farla cessare in qualche parte, pur non distruggendola interamente, rovina per così dire tutto il resto per causa di quella parte. E che sarà, se mentre [il pastore] sa destramente combattere contro i Gentili, facciano strazio di essa i Giudei? o se vinti questi due nemici, la saccheggino i Manichei; o se dopo aver superato anche costoro, i partigiani del fato uccidano le pecore dentro raccolte? Occorre forse numerare tutte le eresie del diavolo, alle quali se non sappia resistere accortamente il pastore, potrà il lupo anche con una sola di esse divorare la maggior parte delle pecore? Inoltre, i soldati d’un esercito debbono sempre attendersi la vittoria o la sconfitta da parte di oppositori e combattenti; qui invece succede molto diversamente; spesso infatti la battaglia rivolta contro altri, diede la vittoria a tali che non vennero a pugna al primo scontro, né durarono fatica alcuna, ma se ne stavano inerti e seduti. Accade anche talora, che uno non molto addestrato a simile gioco, trafitto dalla sua stessa spada, divenga ridicolo agli amici ed ai nemici. Per esempio cercherò di renderti palese anche con un caso particolare ciò che dico coloro che accolgono la follia, di Valentino e Marcione e quanti sono affetti dalla stessa infermità di quelli, rigettano la legge data da Dio a Mosè dal catalogo delle divine Scritture; i Giudei all’opposto la venerano a tal segno da ostinarsi a osservarla interamente, anche se l’età più non lo comporta e contrariamente all’insegnamento divino; la Chiesa di Dio invece, evitando l’eccesso degli uni e degli altri, s’attiene al giusto mezzo e non permette di soggiacere al giogo di essa, né soffre che sia disprezzata, ma ancorché abrogata la approva, per aver essa giovato a suo tempo. Or chi ha da opporsi agli uni e agli altri deve conoscere questa giusta misura; ché se volendo ammaestrare i Giudei mostrando loro che s’attengono intempestivamente alla legge antica, comincerà ad attaccarla smodatamente, porge non piccola presa a quegli eretici che vorrebbero lacerarla; se poi volendo chiudere la bocca a questi, prenda ad esaltarla oltre misura, ammirandola come se fosse necessaria anche al presente, eccoti che apre la bocca ai Giudei. Così pure quelli che sono presi dalla pazzia di Sabellio e quelli che partecipano la furia di Ario, per eccesso tanto gli uni che gli altri si dipartirono dalla sana fede; essi tutti sono detti Cristiani, ma chi ricerchi i loro dogmi troverà gli uni per nulla migliori dei Giudei, se non in quanto hanno diverso nome; gli altri molto somiglianti all’eresia di Paolo di Samosata, e lontani tutti dalla verità. Anche qui v’è gran pericolo, e la via é stretta e intricata, isolata d’ambo i lati da precipizi; e v’è non piccolo timore che mentre [il pastore] vuol sottomettere l’uno, non resti offeso dall’altro. Ché se uno proclama una sola divinità, tosto Sabellio trae la parola al suo perverso concetto; se poi la separa, dicendo il Padre distinto dal Figlio e dallo Spirito Santo, si fa innanzi Ario per ridurre a una diversità di sostanza la distinzione delle persone; bisogna invece evitare e fuggire tanto l’ampia confusione di quello, come la pazzesca separazione di costui, proclamando un’unica sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e facendo rilevare le tre ipostasi distinte: così potremo bloccare le uscite agli uni e agli altri. Potrei dirti di molte altre difficoltà, contro le quali se uno non lotta con vigore e sagacia, se n’andrà coperto d’innumerevoli ferite.

Insidie provenienti dai membri stessi della comunità. Superstizioni e malignità

VII. Chi potrebbe poi enumerare i pettegolezzi di questi, di casa? essi non sono minori degli assalti di quei di fuori anzi danno maggior briga a chi ha l’incarico d’ammaestrare. Gli uni spinti da zelo indiscreto, si occupano senza criterio e inutilmente di ciò che non reca alcun vantaggio a chi l’apprende, né é d’altra parte possibile apprenderlo; altri chiedono ragione a Dio dei suoi giudizi, sforzandosi come di scandagliare un grande abisso; però che "i tuoi giudizi, dice, sono un abisso grande" (Sl. 36,6). Pochi poi troveresti che siano solleciti della fede e del retto vivere, la maggior parte invece occupati nel fare e ricercare quello che non si può trovare e trovato muove Dio a sdegno. Ché quando ci sforziamo d’apprendere ciò che Egli non ha voluto che noi conoscessimo, non riusciremo a saperlo (e come potremmo se Dio non lo vuole?) e ci sovrasterà unicamente il pericolo derivante dall’essere andati investigandolo. Ma pur stando così le cose, quando uno riesca con l’autorità a chiudere la bocca a quelli che cercano tali arcani impossibili a conoscersi, si buscherà la taccia d’arrogante e ignorante; onde anche qui bisogna andar molto cauti, sì che il reggitore si sottragga a questioni fuor di luogo, e nello stesso tempo sfugga alle sopraddette accuse. Per tutte queste difficoltà non c’è offerto altro aiuto che quello che viene dalla parola; se taluno é privo di questa forza, le anime degli uomini a lui soggetti saranno in condizioni non migliori di navicelle continuamente sbattute da tempesta, dico degli uomini più infermi e più curiosi; onde il sacerdote ha da porre in opera ogni mezzo per acquistarsi tale potenza.

Elogio di S. Paolo

VIII. "Or dunque, disse Basilio, perché Paolo non si curò di eccellere in questa virtù? egli non si vergogna della povertà di parola, ma confessa apertamente di essere idiota, e ciò scrivendo ai Corinzi, che erano ammirati per abilità di eloquio e ne andavano molto superbi".

"Questo, risposi, questo é ciò che rovinò molti e li rese più inerti nel magistero di verità; ché incapaci di indagare accuratamente la profondità dei concetti dell’Apostolo, e di penetrare il senso delle parole, consumarono tutto il loro tempo in letargo e fra sbadigli, coltivando questa idiozia: non già quella per cui Paolo chiama se stesso idiota, bensì un’altra da cui egli era tanto lontano quanto nessuno altro uomo che é sotto il cielo. Ma questo discorso ci aspetti al momento opportuno; frattanto io dico questo: poniamo pure ch’egli fosse per questo riguardo idiota, com’esci vogliono; orbene, che cosa importerebbe ciò per noi? Egli invero possedeva una forza molto più possente della parola e capace di operare molto maggior bene; ché al solo suo apparire, senza pur che parlasse, era tremendo per demoni; quelli d’adesso già non varrebbero a effettuare ciò che altra volta fecero i "semicinzi" (At. 19,12) di Paolo, quand’anche s’unissero insieme con infinite preci e lacrime. Col pregare, Paolo risuscitò i morti e operava tali altri portenti da essere creduto dai pagani una divinità; inoltre prima di uscire da questa vita fu fatto degno d’essere rapito fino al terzo cielo e intendere parole che alla natura umana non è permesso di udire. Quelli d’adesso invece (non posso dir nulla di disgustoso e offensivo, ché non parlo per inveire contro di loro, bensì per esprimere la mia ammirazione) come non rabbrividiscono paragonando se stessi ad un tale uomo? E se lasciando da parte i prodigi veniamo a considerare la vita di quel beato, e investighiamo la sua condotta angelica, in questa più ancora che nei miracoli, vedrai l’atleta di Cristo riportare la palma. Chi può degnamente dire del suo zelo e della sua moderazione, dei continui pericoli, delle cure costanti, degli incessanti affanni per le Chiese, del partecipare le infermità altrui, delle molte premure, delle straordinarie persecuzioni, e del morire ogni giorno? Qual parte del mondo, qual continente, qual mare non conobbe le fatiche di quel giusto? persino le lande disabitate lo conobbero e l’accolsero frequentemente in pericolo. Egli sofferse ogni sorte di insidie e riportò ogni genere di vittoria, né mai cessò di combattere e di riportare corone. Ma non so come m’indussi a vituperare quell’uomo: poiché i suoi pregi superano ogni parola, la mia poi di tanto, quanto i valenti parlatori mi vincono in eloquenza. Tuttavia anche così, ché quel beato non mi giudicherà dal risultato ma dall’intenzione, non mi tratterrò dal dire anche quello che supera di tanto il già detto, quanto egli supera tutti gli altri uomini. Che è ciò? dopo tante virtù dopo le innumerevoli corone, egli pregava di poter andare nella geenna e d’essere condannato alla pena eterna, perché si salvassero e si unissero con Cristo quei Giudei, che lo lapidarono e lo avrebbero anche ucciso se avessero potuto; chi amò Cristo fino a tal segno? seppure deve questo chiamarsi amore, o non forse qualcosa d’altro più grande che l’amore. E noi ci paragoneremo ancora a lui, dopo tanta grazia ch’egli ricevette dall’alto, dopo sì gran virtù da lui manifestata in se stesso? e qual maggiore audacia di questa?"

Eloquenza di S. Paolo

IX. E ora mi studierò anche di dimostrare che egli non era così idiota come quelli pensano. Essi invero chiamano idiota non solo chi non possiede la forbitezza dell’eloquenza pagana, ma chi neppure sa combattere per i dogmi della verità, e stimano rettamente: ma Paolo non disse già d’essere idiota sotto tutti e due questi aspetti, bensì sotto uno soltanto, e per confermarlo stabilisce chiaramente la distinzione, dicendo d’essere idiota nella parola, ma non nella conoscenza. Se io cercassi la levigatezza di Socrate, la maestà di Demostene, la gravità di Tucidide o la sublimità di Platone, in tal caso s’avrebbe da addurre quella testimonianza di Paolo; ma ora lascio da parte tutte quelle doti e tutto il superfluo adornamento dei pagani, né m’importa nulla della dicitura né dello stile: sia pur concesso d’aver povertà di frase e una combinazione di parole semplice e senza ricercatezza; soltanto nessuno sia idiota quanto a dottrina e a precisione di dogmi; né per palliare la propria indolenza sottragga a quel beato la maggiore fra le sue doti e quello che gli merita maggior lode.

S. Paolo cominciò il suo apostolato predicando e per mezzo della eloquenza ottenne i primi risultati

Con qual mezzo infatti, dimmi, confuse egli i Giudei che abitavano in Damasco, mentre non aveva ancora incominciato a operare prodigi? con quale vinse gli Ellenisti? Perché fu mandato a Tarso? Non forse perché egli fu vittorioso con la parola e tanto gl’incalzava da provocarli persino a toglierlo di vita, non potendo sopportare in pace la sconfitta? eppure colà non aveva ancor cominciato a compiere miracoli; né alcuno potrebbe dire che la maggior parte lo ammirassero per la fama dei suoi portenti e che quelli che lo prendevano di mira fossero sgominati dalla riputazione ch’egli godeva, ché fino a quel punto egli vinceva unicamente con la forza della sua parola. Con qual mezzo combatté e venne a discussione in Antiochia contro i giudaizzanti? e quell’Areopagita originario di quella superstiziosissima città, non divenne forse suo seguace egli e sua moglie attratto unicamente dal suo discorso? ed Eutico, come cadde dalla finestra? non forse per aver egli atteso a udire fino a notte inoltrata l’insegnamento della parola di lui? E a Tessalonica e a Corinto? e a Efeso e nella stessa Roma? non passava interi giorni e notti continuamente inteso a esporre le Scritture? chi potrebbe ripetere i suoi discorsi agli Epicurei e agli Stoici? Andrei ben per le lunghe, se volessi ricordare ogni cosa! Se dunque e prima dei miracoli e contemporaneamente a questi, appare aver egli fatto grande uso della parola, come oseranno ancora dire idiota colui che fu da tutti massimamente ammirato per la valentia nel discutere e nel concionare? Per qual motivo infatti i Licaoni lo credettero Ermes? l’essere essi ritenuti come dei deriva dai miracoli; ma che lui fosse preso per Ermes non fu già per i miracoli, bensì per la sua parola. Ed in che cosa quel beato sorpassò gli altri Apostoli e per qual ragione egli è molto celebrato da tutti nel mondo? come mai è ammirato sopra tutti non solo da noi, ma altresì dai Giudei e dagli Elleni? non è forse per l’efficacia delle sue epistole, colla quale edificò non solo i fedeli di quel tempo, ma ancora quelli che furono d’allora fino al presente e che saranno fino al giorno della parusia di Cristo, né cesserà di farlo finché duri l’umana stirpe? Queste sue scritture sono di baluardo come muro d’acciaio per tutte le Chiese del mondo, di guisa che [l’Apostolo] come un valorosissimo campione è tuttora fra noi "conducendo in servaggio ogni intelletto all’ubbidienza di Cristo, distruggendo le macchi nazioni e qualunque altura che si innalza contro la scienza di Dio" (1Cor. 10,5). Tutto ciò egli compie per mezzo di quelle epistole che ci ha lasciate, meravigliose e piene di sapienza divina. Le sue scritture poi non valgono soltanto a distruggere i dogmi fallaci e confermare i veri, ma anche per ben vivere ci sono di non piccolo aiuto. Valendosi di esse infatti i capi delle Chiese, governano, edificano e innalzano a spirituale bellezza quella pura vergine che egli impalmò a Cristo, allontanano le infermità che cadono su di lei e le conservano la sanità acquistata. Tali medicine e di tanta efficacia ci ha lasciato quell’idiota, e le conoscono per prova coloro che incessantemente se ne valgono. Da ciò adunque appare manifesto che egli dedicò grande cura all’acquisto di questa dote.

X. Odi anche quello che dice scrivendo al suo discepolo: "Attendi alla lettura, all’esortare e all’insegnare" (1Tim. 4,13); indi aggiunge il frutto che ne deriva, dicendo: "Così facendo salverai te stesso e quelli che ti ascoltano" (1Tim. 4,16b). E ancora: "Al servo del Signore non si conviene di litigare: ma di essere mansueto con tutti, pronto a istruire, paziente" (1Tim. 4,13); e proseguendo soggiunge: "Ma tu attendi a quello che hai imparato e a quello che ti é stato affidato, sapendo da chi l’hai appreso, e che dalla fanciullezza conoscesti le sacre lettere le quali possono istruirti" (2Tim. 3,14); e inoltre: "Tutta la Scrittura é divinamente ispirata, dice, e utile a insegnare, a redarguire, a correggere, a formare alla giustizia, affinché l’uomo di Dio sia perfetto" (2Tim. 3,16-17). Ascolta ancora ciò che egli prescrive a Tito parlando dell’elezione dei vescovi: "Però che il vescovo dev’essere dedito a quella parola fedele che é secondo la dottrina, affinché sia capace di convincere i contraddittori" (Tt. 1,9). Come mai uno essendo idiota, com’essi dicono, potrà convincere i contraddittori e ridurli al silenzio? e qual bisogno c’è di attendere alla lettura e alle Scritture, se s’ha da far buon viso a questa idiozia? ma queste cose sono pretesti e scuse, e nient’altro che un tentativo per dissimulare l’inerzia e la pigrizia. "Ma, essi dicono, tali precetti sono dati ai sacerdoti"; certo dei sacerdoti appunto noi ora parliamo; ma per convincerti che sono rivolti anche ai sudditi, odi ancora ciò ch’egli con altre parole in altra epistola raccomanda: "La parola di Cristo abiti in voi con pienezza in ogni sapienza" Col. 3,16); e ancora: "Il vostro discorso sia sempre con grazia asperso di sale, in guisa da distinguere come abbiate a rispondere a ciascheduno" (Col. 4,11); ora questa esortazione, d’esser pronti alla difesa, è rivolta a tutti; scrivendo poi ai Tessalonicesi: "siate, dice, di edificazione l’uno all’altro, come pur fate" (Tess. 5,11). E quando discorre dei sacerdoti: "I presbiteri che governano bene sian riputati meritevoli di doppio onore; massimamente quelli che si affaticano nel parlare e nell’insegnare" (1Tim. 5,17). Poiché il termine più perfetto dell’insegnamento si raggiunge quando [i maestri] riescano a trarre i discepoli alla santa vita ordinata da Cristo, sia con le loro parole, sia con le loro opere; ché il fare non basta da solo per esercitare il magistero; né la sentenza è mia, bensì del Salvatore stesso: "Chi avrà e operato e insegnato, questi sarà chiamato grande" (Mt. 5,19). Or se l’operare equivalesse all’insegnare, la seconda parte era superflua, e sarebbe bastato dire: "Chi avrà operato"; ma col distinguere l’una cosa dall’altra, dimostra che una parte [del magistero] consiste nelle opere, un’altra nella parola, e che hanno bisogno reciproco l’una dell’altra per la perfetta edificazione. O non odi ciò che dice quel vaso eletto di Cristo ai presbiteri degli Efesini: "Per la qual cosa siate vigilanti, rammentandovi come per tre anni non cessai giorno e notte d’ammonire con lacrime ciascuno di voi?" (At. 20,31). Che bisogno c’era allora di lacrime o d’ammonizione di parole, mentre la sua vita apostolica splendeva di tanta luce?

L’esempio apostolico non basta da solo. Bisogna che vi si unisca, come dimostra lo stesso S. Paolo, l’efficacia della parola

XI. Questa [sua vita] può bensì essere in gran parte d’impulso per l’adempimento dei precetti, né direi che anche per quello scopo basti da sola a esercitare ogni efficacia, ma quando ci si muove guerra intorno ai dogmi e tutti ci combattono appoggiandosi sulle Scritture stesse, quale forza potrà mostrare in tal caso l’esempio della vita di lui? Qual frutto si ricaverà dall’esempio dei tanti sudori di lui, se non ostante quelle fatiche taluno per la sua grande incapacità cadendo nell’eresia venga scisso dal corpo della Chiesa, cosa ch’io ho pur visto accadere a molti? Qual vantaggio verrà a lui dalla fortezza (dell’Apostolo)? nessuno, come nessun vantaggio verrebbe dal serbare retta la fede, qualora la vita diventi corrotta. Per questi motivi appunto bisogna che chi deve ammaestrare gli altri abbia grande perizia di queste battaglie; ché se anche egli rimanga al sicuro senza subire danno da’ suoi contraddittori, tuttavia la moltitudine dei meno istruiti che è a lui soggetta, vedendo il capo ridotto al silenzio senz’aver di che rispondere agli avversari, attribuirà la sconfitta non alla debolezza di lui, ma all’essere egli intaccato nel dogma; onde per l’incapacità d’uno solo, gran parte del popolo viene tratta a rovina. Ché se pure non si schierino interamente dalla parte degli avversari, tuttavia sono condotti per forza a dubitare di ciò che dovrebbero credere con sicurezza, né possono più aderire con la medesima fermezza a quanto per l’innanzi accoglievano con fede incrollabile; ma per la sconfitta del maestro, sorge nelle loro anime tale tempesta, da finire anche con un funesto naufragio; or qual rovina e qual fuoco s’accumuli sul capo di quel misero per ciascuno di questi perduti, non c’è bisogno che tu l’apprenda da me, sapendolo tu pure perfettamente. E dunque dovrà chiamarsi arroganza e vanagloria il non voler esser cagione della rovina di tanti, né procurare a me stesso un maggior castigo di quello che ora mi è serbato colà? chi potrebbe dir ciò? nessuno per certo, tranne chi voglia inutilmente biasimare o sfoggiare senno sui casi altrui.

Libro quinto



Il vescovo come maestro e oratore. Contegno e esigenze dell’uditorio
I. Ho dimostrato a sufficienza di quanta abilità dev’essere fornito il maestro per potere far fronte agli assalti contro la verità; debbo ora parlare di un’altra incombenza oltre quelle accennate, che è causa di infiniti pericoli; o piuttosto, direi che non essa lo sia, ma coloro che non sanno adempierla come si conviene; poiché l’opera per se stessa può essere strumento di salvezza e pegno di molti beni, quando trovi per ministri uomini diligenti e virtuosi. Qual è quest’incombenza? la gran fatica consacrata ai discorsi che si tengono pubblicamente al popolo. Anzitutto la maggior parte dei sudditi non vogliono comportarsi di fronte agli oratori come dinanzi a maestri, ma trapassando il livello di discepoli, assumono l’atteggiamento degli spettatori che assistono agli spettacoli profani; e come il popolo là si divide, e gli uni si dichiarano per questo, gli altri per l’altro, così anche qui, fra loro divisi, parte sostengono un tale, parte un tal altro, e ascoltano le cose predicate solo per applaudire o per biasimare. Né questo è il solo male, ma ve n’è un altro non minore: se accade che un oratore inserisca nel suo discorso qualche brano di fattura altrui, è fatto segno a dileggio più che un ladro volgare; spesso anche senza che plagio vi sia, ma solo per un sospetto, lo trattano come chi è colto con le mani nel sacco. Ma che dico brani di fattura altrui? Non è neppure lecito a uno di valersi più volte delle sue stesse opere; poiché non per trarne vantaggio, ma unicamente per diletto sogliono ascoltare la maggior parte, sedendo come fossero giudici di citarèdi e di tragèdi così la facoltà dell’eloquenza che poco fa sottoposi a censura, diventa qui tanto desiderabile quanto nemmeno lo è ai sofisti obbligati a discutere fra di loro. Anche in queste circostanze pertanto c’è bisogno di un’anima generosa e molto al disopra della mia piccolezza, per reprimere la disordinata e perniciosa voluttà della moltitudine e indirizzare l’uditorio verso una meta. più vantaggiosa, di modo che il popolo gli vada dietro docilmente e non sia egli trascinato dalle loro velleità. Ciò non è dato ottenere se non con questo duplice mezzo: disprezzo delle lodi e efficacia di parola.

Non bisogna dar troppo peso alle approvazioni e ai biasimi dell’uditorio

II. Ove l’uno manchi, l’altro torna inutile, per la separazione dal primo; se uno pur nutrendo disprezzo per la lode, non esponga un insegnamento con grazia e asperso di sale, diviene facilmente oggetto di scherno per la maggior parte, nulla guadagnando da quella sua superiorità d’animo; se poi si diporti bene per questo lato e si lasci soggiogare dall’opinione che s’esprime con applausi fragorosi, ne verrà eguale danno a lui e alla moltitudine, poiché egli, preso dal desiderio della lode, si dedicherà al ministero della parola più per acquistare favore che per recare vantaggio. Onde, come colui che non avendo brama di gloria né sapendo parlare affatto, non cede alla voluttà del popolo, ma nemmeno può recargli qualche notevole giovamento, così pure chi è trascinato dal desiderio di elogi, mentre avrebbe da dire quello che può rendere migliore il popolo, invece di ciò espone quello che meglio serve a dilettarlo, traendone in compenso lo strepito degli applausi.

L’ottimo capo ha da esser quindi ben munito da ambe le parti, onde non rovinare l’una per mezzo dell’altra. Quando egli sorgendo in mezzo dice cose adatte a scuotere gli inerti, ma poi incespica, s’interrompe ed è costretto a vergognarsi per incapacità, tosto si disperde il frutto delle cose dette; ché quelli che furono ripresi, rattristati per le parole loro indirizzate e non potendo altrimenti resistergli, lo colpiscono schernendo la sua ignoranza, e credono così di nascondere i rimproveri da lui ricevuti. Conviene pertanto che come un ottimo auriga, spinga se stesso alla perfezione di questi due pregi in guisa da poterne far uso secondo il bisogno: quando sarà irreprensibile di fronte a tutti, allora potrà con quanta autorità gli piaccia punire o perdonare secondo il caso tutti i suoi sudditi: ma prima d’aver raggiunto questo termine non gli sarà facile agire in tal guisa. Si deve poi estendere la magnanimità non solo fino al disprezzo delle lodi, ma più oltre, affinché il frutto non rimanga incompleto.

Mentre si sprezza il capriccio mutevole della folla, bisogna però troncare i maligni sospetti e le insinuazioni calunniose

III. Qual altra cosa pertanto bisogna disprezzare? La gelosia e l’invidia: non è bene temere e paventare oltre misura le intempestive calunnie (poiché il capo necessariamente deve sopportare biasimi irragionevoli) né il passarvi sopra con troppa bonarietà; ma anche se sono false e scagliate da gente volgare, bisogna studiarsi di soffocarle repentinamente. Nulla infatti contribuisce più della folla a creare una fama buona o cattiva; avvezza ad ascoltare e parlare senza criterio, ripete a casaccio tutto quanto le viene all’orecchio, senza preoccuparsi affatto se sia vero o falso. Non bisogna quindi stare noncuranti della folla, ma troncare al più presto i maligni sospetti, sforzandosi di convincere i maldicenti quand’anche fossero dei più irragionevoli, né lasciare alcun mezzo intentato per distruggere la cattiva opinione. Se poi, pur avendo noi posto in opera ogni mezzo, i calunniatori non vogliano persuadersi, allora conviene disprezzarli; ché se taluno si lascerà abbattere per simili vicende, non potrà mai far nulla di nobile e degno d’ammirazione; l’abbattimento e le continue ansie hanno funesta efficacia per spegnere l’energia dello spirito e piombarlo in estrema sfinitezza. Il vescovo ha da comportarsi coi suoi sudditi come un padre coi figli ancor molto piccini; come non ci conturbiamo qualora questi ci insultino o ci percuotano, o se piangano, né molto diamo loro retta quando ridono e ci fanno festa, così non bisogna lasciarci soggiogare dalle lodi della folla né essere oppressi per i suoi biasimi, quando sono mossi senza motivo. Ma ciò è difficile, o caro, e forse anche, credo, impossibile; non so se ad alcun uomo riesca di non gioire delle lodi; or chi ne gioisce è naturale che nutrisca desiderio di riceverne, e chi desidera di riceverne è giocoforza che sia rattristato, sfiduciato, agitato e afflitto quando gli venga negata la lode. Come quelli che godono della ricchezza, qualora cadano in miseria restano oppressi, e assuefatti com’erano alle mollezze non possono adattarsi a vivere grossolanamente, così anche i bramosi di elogi, non solo se vengano ingiustamente biasimati, ma anche se non sono costantemente acclamati, si sentono l’anima sfinita come per farne, specialmente quando per avventura ne fossero stati [prima] lautamente pasciuti, o quando per soprappiù sentono che altri riscuote applausi. Quali brighe e quali affanni credi tu non abbia pertanto a incontrare chi si espone al cimento del magistero con lo stimolo di questa bramosia? L’anima sua non sarà mai libera da ansie e tormenti, come non può essere il mare libero da marosi.

L’eloquenza esige un costante esercizio per conservare la sua efficacia

IV. Ma non potrà sottrarsi a un assiduo travaglio neppure quando possieda gran potenza di parola, cosa che non è facile trovare se non in pochi; poiché, essendo l’eloquenza frutto di studio anziché dono di natura, quando pure alcuno ne abbia raggiunto il culmine, ne perde affatto l’esercizio se non alimenta questa sua facoltà con costante diligenza e fatica; onde il travaglio diviene maggiore per i più istruiti che per i più idioti; non è infatti eguale a questi e a quelli il danno della trascuratezza, ma è di tanto maggiore, di quanto diverso è il corredo di cultura degli uni e degli altri. A questi ultimi nessuno muoverebbe rimprovero se parlando espongono solo inezie; quelli invece se non mettono in mostra cose sempre superiori alla fama in che tutti li tengono, subito sono fatti segno a critiche; inoltre agli altri si prodigano grandi elogi anche per piccolo merito, ma se i pregi di quelli non sono molto meravigliosi e abbaglianti, non soltanto si nega loro la lode, ma anche si scagliano loro contro numerosi vituperi; già, gli uditori siedono giudici non tanto delle cose dette, quanto del dicitore, onde quanto più uno supera tutti gli altri nell’eloquenza, tanto più gli è d’uopo di laboriosa cura. A lui invero non è lecito soggiacere nemmeno a ciò che è comune alla natura umana, cioè al non fare perfettamente ogni cosa, ma se i suoi discorsi non sono proporzionati all’altezza della sua rinomanza, ne esce carico degli scherni e delle critiche innumerevoli di tutti. Nessuno considera che un abbattimento sopravvenuto, le lotte e le preoccupazioni, spesso anche l’irritazione, possono oscurare la limpidezza del pensiero e impedire che i concetti vengano espressi con chiarezza, né che essendo egli in tutto uomo, non gli è possibile mantenersi sempre dello stesso umore e sempre col vento in poppa, ma naturalmente deve talvolta venire meno e mostrarsi al disotto del proprio livello; nulla, come dico, di tutto questo vogliono considerare, ma gli fan colpa di tutto come se giudicassero d’un angelo. È poi particolarmente proprio dell’uomo il far poco caso di grandi e numerosi pregi che si trovino in persona vicina; se invece in essa appaia una colpa, per quanto piccola e d’antica data, ognuno se ne accorge tosto, se ne fa severo censore e a ogni occasione vi ritorna sopra; onde spesso un difetto piccolo e comune sminuì la fama di molti e grandi uomini.

V. Vedi, o ottimo, che v’è bisogno di operosità sopra tutto per chi è fornito d’eloquenza; e oltre all’operosità gli occorre anche tanta tolleranza quanta non ne occorre a tutti quelli di cui ti ho parlato sopra. Molti infatti gli si oppongono di continuo senza ragionare, nulla avendo da rinfacciargli, ma solo eccitati dall’essere egli in fama presso tutti: bisogna ch’egli sappia sopportare la fastidiosa gelosia di costoro. Non riuscendo essi a celare quest’odio loro maledetto, che ingiustamente nutrono, vengono a ingiurie, a maligne critiche, calunniando di nascosto e imperversando a faccia aperta; onde un’anima che cominciasse ad affliggersi e irritarsi per ciascuno di questi incontri, morrebbe anzi tempo di crepacuore. Non solo da se stessi gli fanno guerra, ma s’adoperano anche per avere l’aiuto di altri; e spesso scelto qualcuno che non sa affatto ben parlare, cominciano a levarlo a cielo con lodi, e vanno magnificandolo oltre il suo merito, gli uni facendo ciò per ignoranza, gli. altri per ignoranza ed invidia al tempo stesso, più per togliere la fama a quell’altro, che per far apparire mirabile chi in realtà non è tale. Ma quel generoso non ha da combattere soltanto contro costoro, bensì spesso anche contro la rozzezza di tutto il popolo. Poiché il pubblico non è composto tutto di uomini eccellenti, ma la maggior parte dell’assemblea sono gente volgare, mentre gli altri poi, pur essendo più istruiti dei primi, tuttavia sono lontani dal poter apprezzare l’eloquenza molto più di quanto il volgo sia al disotto di loro; sicché rimangono a stento uno o due che possiedano tale capacità. Quindi accade necessariamente che chi meglio parla, spesso raccoglie minori applausi e talvolta persino ne rimane privo affatto. Anche di fronte a questi ingiusti apprezzamenti deve comportarsi con fortezza e perdonare a quelli che ciò fanno per ignoranza, e quelli che invece vi sono spinti da invidia, compiangerli come miserabili e degni di pietà; né deve stimare che il suo valore venga menomato per i giudizi sì degli uni che degli altri. Ché anche un eccellente pittore e superiore nell’arte a tutti gli altri, qualora vedesse un quadro dipinto da lui con ogni cura censurato da profani, non avrebbe per certo da avvilirsi e riputare cattiva l’opera sua in forza del giudizio di quelli; come nemmeno dovrebbe giudicare meravigliosa e affascinante un’opera in sé cattiva, sol perché desta l’ammirazione degli idioti. L’artefice ottimo dev’essere anche giudice lui solo delle opere sue, e queste s’hanno a ritenere buone o cattive quando l’intelletto che le ha prodotte avrà dato questi suffragi, senza neppur badare all’opinione degli estranei, soggetta a errore e incompetente. Ora chi affronta il cimento del magistero non deve badare agli elogi degli estranei, né l’anima sua deve essere abbattuta qualora gli siano negati, ma componendo i suoi discorsi in guisa da piacere a Dio (questo dev’essere per lui il criterio supremo per giudicare dell’ottima fattura d’essi, non gli applausi, né gli elogi), se verrà lodato anche dagli uomini, non rifiuti i loro encomi, ma se gli uditori non glie ne concedono, non ne vada in cerca né se ne affligga. Sufficiente sollievo delle fatiche, e maggiore di ogni altro sarà per lui la coscienza del suo sforzo di indirizzare e disporre il suo insegnamento in modo da incontrare l’approvazione divina.

L’oratore sacro ha bisogno di grande fede e fortezza d’animo

VI. Se egli invece viene ad essere soggiogato dal desiderio di lodi irragionevoli, nessuno vantaggio ricaverà dalle sue molte fatiche né dalla sua bravura nel parlare, perché l’anima non potendo poi sopportare i biasimi inconsiderati del volgo, rallenta nell’ardore e cessa di applicarsi con cura al magistero della parola; bisogna perciò esercitarsi soprattutto nel disprezzo delle lodi., ché se non si unisce questo, non basta il saper ben parlare per serbare in vigore questa facoltà. Ma se alcuno consideri bene anche la condizione di chi non è riccamente fornito di questa dote, troverà che anch’egli non ha minor bisogno di sprezzare l’applauso; egli infatti sarà nella necessità di commettere molti falli, trovandosi al disotto dell’opinione comune; incapace di rivaleggiare coi predicatori famosi, non si periterà di tendere loro insidie, nutrire invidia contro di essi, di biasimarli ingiustamente e di macchiarsi di molte simili colpe, tutto osando quand’anche avesse da perderci l’anima, pur di riuscire ad abbassare la fama di quelli fino al livello della propria nullità. Inoltre rifuggirà dai sudori necessari per l’opera sua, come se l’anima gli fosse gravata da torpore; e invero il molto travagliarsi per ottenere una scarsa messe di applausi, basta per abbattere e avvolgere in profondo letargo colui che non sa sprezzare la lode; anche l’agricoltore quando lavora un terreno poco produttivo e deve coltivare la ghiaia, presto abbandona la fatica, se non sia sostenuto da grande tenacia nel continuare la sua impresa, o se non tema il sovrastare della carestia. Se coloro che pur sanno parlare con molta autorità hanno bisogno di tanta cura per conservarsi questa loro dote, colui che non ha messo nulla in serbo, ma deve tuttavia porsi in grado di potersi presentare al pubblico, a quali difficoltà, turbamenti e angustie non dovrà sottostare, per raccogliere da grande fatica qualche piccolo frutto? Che se poi uno di quelli che stanno più in basso di lui e occupano una carica inferiore, riesca ad acquistarsi per questo lato una maggior rinomanza, allora ci vuol proprio un’anima quasi celeste, per non cadere in preda all’invidia né lasciarsi abbattere dallo scoramento; perché l’essere egli superato nel successo per opera d’un suo subalterno, mentre egli è posto in maggior dignità di grado, e sopportare ciò generosamente, non è virtù comune, ma propria di un’anima d’acciaio. Quando il più favorito sia persona affabile e moderata assai, allora il rammarico diventa in qualche modo sopportabile; ma se è un tipo arrogante, borioso e avido di gloria, sarebbe a quell’altro più desiderabile la morte ogni giorno, tanto questi gli renderà amara l’esistenza, censurandolo apertamente, schernendolo di nascosto, sottraendogli gran parte dell’autorità, bramoso di tutta usurparsela. E in tutto ciò ha come appoggio sicuro l’audacia nel parlare e il favore della plebe a suo riguardo e l’essere nelle grazie di tutti i sudditi. E non vedi tu quanta brama di discorsi si è ora infiltrata nelle anime dei Cristiani e come quelli che vi danno opera sono in onore non solo presso i pagani, ma anche tra i fedeli? E chi sopporterebbe questa confusione, che mentre egli predica, tutti se ne stiano zitti e stimino di essere importunati, sospirando la fine del discorso come liberazione da un tormento; mentre invece l’altro anche se parla a lungo, l’ascoltano con entusiasmo, e accennando egli a finire si conturbano, e se fa di tacere, si adontano? Sono cose che se anche ora ti sembrano piccole e disprezzabili, per non averle tu ancora provate, bastano però a spegnere l’entusiasmo e paralizzare le energie dello spirito, se uno levandosi al disopra di ogni umano affetto non si studi di comportarsi come le potenze incorporee, le quali non soggiacciono né a invidia né a vanagloria, né ad altra simile infermità. Se dunque v’ha un uomo di tale tempra che sappia mettere sotto i piedi questa belva inafferrabile, invincibile e selvaggia che è la pubblica opinione e troncarne le numerose teste, anzi da non lasciarle né anche da principio spuntare, quegli potrà agevolmente respingere i frequenti assalti e godere come di un porto tranquillo; ma finché non ne sarà liberato, egli imporrà all’anima sua una guerra molteplice, continuo affanno, e il peso dello scoramento e d’ogni altra angustia. E a che enumerare le rimanenti difficoltà? Nessuno può né dirle né comprenderle, se non si sia trovato egli stesso in mezzo a queste brighe.

Libro sesto



Riepilogo. Difficoltà del ministero e virtù necessarie. Conclusione della difesa. Il pensiero di dover rendere conto al Giudice supremo della salute spirituale dei sudditi, incute grande timore.

I. Così stanno le cose quaggiù, come hai udito; quelle poi che riguardano l’altra vita, come potremo sopportarle, essendo noi costretti a rendere ragione di ciascuno di coloro che ci furono affidati? Il danno non si limiterà allora alla vergogna, ma trarrà seco una punizione eterna. Se già l’ho ricordato, non tralascerò ora di ripetere il detto: "Siate ubbidienti ai vostri prelati e siate ad essi soggetti, poiché essi vegliano come dovendo rendere conto delle anime vostre" (Eb. 18,17); ché il timore di questa minaccia mi agita continuamente lo spirito. Se per chi scandalizza minimamente uno solo "conviene che gli sia sospesa al collo una pietra da mulino e venga precipitato nel mare" (Mt. 18,6) e se "quanti offendono la coscienza dei fratelli, peccano contro lo stesso Cristo" (1Cor. 8,12), chi infligge tanta rovina non a uno, o due, o tre, ma a un popolo intero, che cosa non dovrà soffrire in pena e quale castigo non avrà da riceverne? Né si può incolpare l’inesperienza, né rifugiarsi nella scusa dell’ignoranza, né addurre come pretesto la violenza e la costrizione subita: tale pretesto potrebbe farlo valere chiunque fra i sudditi, qualora fosse il caso, riguardo alle proprie colpe, più facilmente di quello che un capo possa addurlo a scusa delle colpe altrui. E perché mai? perché chi é incaricato di correggere l’ignoranza degli altri e porre in guardia contro la guerra diabolica quando s’avvicina, non potrà certo pretessere l’ignoranza propria, né dire: "Non ho udito la tromba, né ho potuto prevedere la battaglia". Poiché, per questo, come dice Ezechiele, t’ha fatto sedere, per suonare la tromba anche per gli altri e preannunziare le calamità future. Onde la pena sarà inesorabile, anche se uno solo andasse perduto. Ché "se all’avvicinarsi della spada, dice, la sentinella non suoni la tromba al popolo, per annunziarla, e la spada venendo prenda un uomo, questi veramente per colpa sua é rapito, ma del sangue di lui domanderò conto alla sentinella" (Ez. 33,6).

Custodia dei sensi e purezza angelica necessaria al sacerdote

Cessa pertanto di spingermi verso una pena tanto inesorabile: non si tratta né di comando militare né di dignità regia, ma di un’istituzione tale che richiede una virtù angelica. L’anima del Sacerdote dev’essere più pura dei raggi del sole, affinché lo Spirito Santo non lo abbandoni e affinché possa dire: "Vivo non già io, ma vive in me Cristo" (Gal. 2,20). Ché se gli anacoreti del deserto, lontani, dalla città e dai pubblici ritrovi e da ogni strepito proprio di quei luoghi, godendo interamente il porto e la bonaccia, non s’inducono a confidare nella sicurezza di quella loro vita, ma aggiungono infinite altre attenzioni, munendosi da ogni parte e studiandosi di fare o dire ogni cosa con grande diligenza, per potersi presentare al cospetto di Dio con fiducia e intatta purezza, per quanto é possibile alle umane facoltà; qual forza e violenza ti pare che farà d’uopo al vescovo, per sottrarre l’anima sua da ogni macchia e serbarne intatta la spirituale beltà? A lui occorre per certo maggior purezza che a quelli, e frattanto, proprio lui che ne ha maggior bisogno è esposto a maggiori occasioni necessarie, nelle quali può essere contaminato, se con assidua sobrietà e vigilanza non renda l’anima sua inaccessibile a quelle insidie. La grazia della persona, le movenze affettate, il camminare ricercato, l’esilità della voce, gli occhi imbellettati, la tintura delle gote, la disposizione delle trecce, le chiome impatinate, lo sfarzo delle vesti e la varietà dei monili, la bellezza delle gemme, il profumo degli unguenti e tutte le attrattive di cui va in cerca il sesso femminile, bastano a turbare l’anima qualora non sia bene inaridita con rigorosa temperanza. Del resto nulla di strano che uno sia inquietato da simili cose, ma ciò che riempie di stupore e di sgomento é che il diavolo può percuotere e trafiggere le anime degli uomini mediante oggetti affatto contrari a quelli.

II. Taluni infatti essendo sfuggiti a quelle trappole, caddero in altre assai diverse. Lo sguardo trascurato, la capigliatura ispida, il vestito sudicio, l’aspetto dimesso, i modi semplici, il parlar naturale, l’incesso comune, la voce piana, il vivere in povertà, l’essere oggetto di disprezzo senza appoggio e in abbandono, dopo aver mosso a compassione l’osservatore, finirono per trascinarlo a estrema rovina: onde molti, scampando dalle prime reti tese dai monili, unguenti, abiti sfarzosi, e tutto il resto sopra ricordato, caddero con tutta facilità in queste altre così diverse da quelle, e vi soccombettero. Se dunque mediante la povertà e la ricchezza l’ornamento e l’aspetto dimesso, i modi affettati e quelli trascurati, in una parola mediante tutti gli oggetti sopra enumerati si accende la guerra contro l’anima dello spettatore, e d’ogni intorno gli tendono insidie, come potrà egli respirare, stretto nel cerchio di tanti scogli? quale scampo potrà trovare, non dico per non soccombere alla violenza, ché ciò non é molto difficile, ma per serbare l’anima sua tranquilla e libera da immondi pensieri? Lascio da parte gli onori che sono cagione di mali infiniti; quelli che provengono dalle donne sbolliscono bensì con l’assiduità della modestia, ma possono anche far cadere chi non sa mantenersi sempre vigilante contro tali insidie; quanto poi a quelli offerti dagli uomini, se uno non li accoglie con molta superiorità di spirito, soggiace a due affezioni contrarie, quali la servile adulazione e la stolta iattanza, costretto a inchinarsi a quelli che dovrebbero stare a’ suoi cenni, reso aspro contro i minori dal favore accordatogli e spinto così nel baratro della presunzione. Queste cose dico io; ma il danno che da ciò proviene nessuno potrebbe pienamente comprenderlo, senz’averne fatto esperienza, ché a chi si trova all’atto pratico é giocoforza che ne accadano di peggiori e più rovinose.

Il ministero dedicato al popolo é più difficile che il governo di comunità monastiche

Colui che preferisce la quiete si trova libero da ogni peso: onde se talora un pensiero vano gli suggerisce qualcosa di simile, la fantasia é debole e facile a spegnersi, non somministrandosi dall’esterno per mezzo della visione, materia all’incendio. Inoltre il monaco teme solo per se stesso; se mai é costretto a stare in angustia anche per altri, si tratta d’un numero piccolissimo; e se fossero più numerosi, lo sono sempre meno di quelli che sono nelle chiese, e procurano al prelato cure assai più lievi, non solo per il piccolo numero, ma anche perché tutti sono liberi dalle faccende mondane e non hanno da preoccuparsi né per i figli né per la moglie né per null’altro di simile. Questo li fa più docili ai superiori, ed anche l’aver essi in comune l’abitazione, in guisa che le loro mancanze si possono diligentemente avvertire e correggere, il che é di non piccola importanza per il progresso nella virtù.

Invece la maggior parte di quelli che sono soggetti al vescovo é occupata nelle cure materiali, il che li rende più indolenti per quanto si riferisce alle opere spirituali, onde il maestro deve, per così dire, seminare quotidianamente, affinché la parola del magistero possa con l’assiduità essere finalmente afferrata dagli uditori. La sfondata ricchezza, la posizione elevata, la pigrizia derivante dal lusso, e molte altre cause oltre a queste, soffocano i semi deposti; spesso poi la fitta delle spine non lascia neppur cadere la sementa fino a poter germogliare; anche l’eccesso della tribolazione e le strette dell’indigenza, i soprusi continui e altre cause contrarie alle prime, possono ritrarre dalla sollecitudine per le cose di Dio. Delle loro colpe poi non può venire in chiaro al vescovo neppur la minima parte; e come potrebbe essere diversamente se non conosce nemmeno di vista il maggior numero de’ sudditi?

La responsabilità dinanzi a Dio. Grandezza del rito eucaristico

III. Tali difficoltà offrono al vescovo i suoi rapporti col popolo; ma se alcuno investiga i suoi rapporti con Dio, troverà che le altre sono al confronto un nulla, tanto maggiore e più complessa é la cura che questi richiedono. Colui il quale é mallevadore di tutta una città, ma che dico città? di tutto il mondo, e che deve propiziare Iddio per le colpe di tutti, non solo de’ vivi ma anche de’ trapassati, di quale virtù non dev’essere egli fornito? Io non stimo possa bastare per tale intercessione né la fiducia di Mosè, né quella di Elia. E per vero [il vescovo], come custode di tutto il mondo e padre di tutti, si presenta a Dio supplicandolo di sedare le guerre e comporre i disordini, implorando pace, prosperità e privatamente e pubblicamente la pronta liberazione di tutte le calamità da cui ciascuno é afflitto; perciò egli deve tanto superare tutti coloro per i quali intercede, quanto é ragionevole che il prelato superi [in dignità] i suoi subalterni. Quando poi invoca lo Spirito Santo e compie il tremendo sacrificio e viene in assiduo contatto col comune Signore di tutte le cose, in qual grado, dimmi, lo porremo noi? e qual purezza e austerità non richiederemo da lui? pensa quali hanno da essere le mani che si gran cose amministrano, quale la lingua che pronunzia quelle parole, e come dev’essere più immacolata e santa che mai l’anima che deve accogliere un tanto Spirito? Allora assistono al sacerdote anche gli angeli, onde il Santuario e lo spazio intorno all’altare si riempie di potenze celesti, in omaggio [al Signore] presente. Ciò si può asseverare anche da quanto é altra volta accaduto; io stesso ho udito da un tale raccontare che un certo vecchio, uomo meraviglioso e favorito da rivelazioni, gli aveva confidato d’essergli stata una volta concessa una simile visione, e che durante quel tempo aveva scorto d’improvviso una moltitudine di angeli, com’egli li poteva vedere, cinti di fulgide vesti, facenti corona all’altare e starsene inchinati, in atto simile a’ guerrieri in presenza del re; e io lo credo. Un altro pure mi raccontò, non riferitogli da chicchessia, ma lui stesso esser stato degnato di vedere e udire che coloro i quali stanno per dipartirsi da questa vita, se abbiano partecipato. ai misteri con intatta coscienza, al loro spirare gli angeli in guardia d’onore ne li conducono, per riverenza al sacramento da loro ricevuto. Tu invece non rabbrividisci nello spingere a sì santa azione un’anima come la mia, e nel sollevare alla dignità de’ sacerdoti uno avvolto in sordide vesti e che Cristo respinse anche dal ceto degli altri convitati!

Il sacerdote é sale della terra e luce del mondo

L’anima del sacerdote deve splendere come luce che illumina tutta la terra, mentre la mia é ravvolta dalla perversa coscienza in si fitta tenebra, che sempre vi sta sommersa né può mai con fiducia volger lo sguardo al suo Signore. I sacerdoti sono il sale della terra, mentre invece la mia insipienza e totale inesperienza, chi le tollererebbe di buon grado, se non voi altri, per la consuetudine d’eccessivo affetto? Ché [il sacerdote] dev’essere non soltanto puro come lo richiede un tanto ministero, ma anche molto prudente e pratico di molte faccende; non deve conoscer gli affari materiali meno di quelli che vi si trovano in mezzo, e tuttavia deve esserne distaccato non meno dei monaci che abitano i monti. Egli deve essere versatile, perché ha da far con uomini che hanno moglie, figli, servitù, sono circondati da grandi ricchezze, trattano la cosa pubblica e occupano alte cariche: versatile, dico, non subdolo, né adulatore né ipocrita, ma pieno di libertà e di franchezza, sapendo però accondiscendere docilmente qualora le circostanze lo richiedano, mostrandosi a un tempo affabile e austero. Non bisogna infatti comportarsi allo stesso modo con tutti i sudditi, come non sarebbe opportuno ai medici procedere con uno stesso criterio con tutti gli ammalati, né al pilota conoscere una sola manovra per combattere contro i marosi. E per vero anche questa nave é premuta da continue tempeste; tempeste che non solo assalgono dall’esterno, ma sorgono anche dall’interno, onde v’è d’uopo di grande accondiscendenza, ma insieme di grande attenzione. Tutte queste cose, sebbene fra loro diverse, cospirano a un fine unico: la gloria di Dio e l’edificazione della Chiesa.

Confronto tra il monaco e il sacerdote

IV. Grande é la professione monastica e costa molta fatica; ma chi paragoni quei travagli al conveniente disimpegno dell’episcopato, troverà tanta differenza quanta ve n’ha fra un uomo del volgo e un re. Sebbene là sia grande la fatica, tuttavia la lotta é sostenuta in comune dal corpo e dall’anima, anzi nella maggior parte essa dipende dalla costituzione del corpo; se questo non é vigoroso la passione rimane assopita, né può effondersi nell’azione; onde anche gli assidui digiuni, il dormire su nuda terra, le veglie protratte, il non lavarsi, la dura fatica e tutti gli altri esercizi che servono a mortificare il corpo, sono messi in disparte, essendo privo di vigore quello che dovrebbe venire represso. Qui invece l’arte è puramente dell’anima, né ha d’uopo del benessere del corpo per dimostrare la sua virtù. Infatti, a che gioverebbe la forza del corpo per evitare l’arroganza, l’irascibilità, la precipitazione, ed essere invece sobri, prudenti, ordinati, e mostrare tutte le altre doti con cui il beato Paolo ci descrive in tutte le sue parti l’immagine del perfetto vescovo? Non si potrebbe dir ciò riguardo alle virtù proprie dei monaci.

Ma come ai prestigiatori occorrono molti ordigni e ruote e corde e coltelli, mentre il filosofo ha l’arte sua riposta tutta nell’anima senza bisogno di strumenti esterni, così anche nel nostro caso, il monaco ha bisogno della buona costituzione corporale e di luoghi adatti al suo esercizio, che non siano troppo lontani dal consorzio degli uomini, che abbiano la quiete propria delle regioni disabitate e che inoltre non difettino di un’ottima temperatura dell’atmosfera; però che nulla riesce più intollerabile delle intemperie per chi é già estenuato dai digiuni; non parlo poi delle brighe che essi hanno necessariamente per prepararsi le vesti e il vitto, dovendo ogni cosa fare da se stessi. Il vescovo invece non dovrà occuparsi di tutto ciò per servire alle proprie necessità, ma esente da tali lavori, egli partecipa a tutte le manifestazioni della vita che non recano danno, custodendo tutta la sua scienza in serbo nel ripostiglio dell’anima. Che se taluno ammira quelli che se ne stanno in disparte, anch’io direi che ciò è segno di fortezza, non però un saggio sufficiente di tutta la virtù che è nell’anima: chi siede al timone standosene chiuso nel porto, non offre adeguata prova dell’arte sua, ma se uno riesca a salvare la nave in mezzo al pelago e alla procella, nessuno oserà negare ch’egli sia un ottimo pilota.

La vita solitaria non porge molte occasioni di provare la virtù.

V. Pertanto non ci dovrebbe destare un’ammirazione esageratamente grande il monaco, che standosene solo non soffre turbamenti né commette grandi e numerose colpe: egli non ha le occasioni che stimolano e risvegliano l’anima. Invece, quando uno dedicandosi a intere moltitudini e costretto a sopportare i disordini di tutti, sa mantenersi diritto e forte, guidando l’anima fra le tempeste come se fosse in bonaccia, questi sarebbe degno d’essere acclamato e ammirato da tutti, ché ha offerto una prova sufficiente della sua fortezza. Non devi pertanto meravigliarti se io, fuggendo i ritrovi e le compagnie numerose, non vado incontro a molti biasimi, come non sarebbe degno di ammirazione che io dormendo evitassi le colpe, o fuggendo la lotta non m’occorresse di cadere, o astenendomi dal combattere non fossi vinto. Ma chi, dimmi, chi può denunziare e smascherare la mia perversità? questo tetto e questa cella? ma essi non sanno articolare parola. O forse mia madre che più d’ogni altro conosce le mie tendenze? ma fra me e lei non c’è nulla di comune né mai siamo venuti a qualche contrasto, e se anche ciò fosse avvenuto, non c’è madre tanto disamorata e ostile verso la sua prole, da accusare e perseguitare in faccia a tutti senza che alcun motivo ne la costringa, quello che essa ha generato, partorito ed allevato. E tu pure, che più di tutti sei solito a levarmi a cielo con lodi presso chiunque, non ignori che se si sottoponesse a rigorosa prova l’anima mia, la si troverebbe in molte parti viziata; se vuoi persuaderti che io non parlo così per modestia, ricordati quante volte, discorrendosi fra noi di tali faccende, ebbi a dirti che se mi si proponesse di significare in quale condizione vorrei ottenere lode, se nel governo della Chiesa oppure nella vita monastica, io avrei dato coi pieni voti la preferenza alla prima. Né mai ho cessato di esaltare [parlando] con te quelli che sapevano egregiamente disimpegnare quel ministero: or dunque nessuno potrebbe negare che io non avrei fuggito quell’[ufficio] che tanto ammiravo, se ne fossi stato all’altezza. Ma che? nulla é più dannoso nel governo della Chiesa, di questa certa inerzia e trascuratezza, che altri stimano una specie d’ascesi, mentre io penso ch’ella non sia altro se non un velarne della mia propria inettitudine, col quale io posso celare la maggior parte delle mie mancanze, impedendo che siano conosciute. Chi é avvezzo a godere di questa inoperosità e vivere in grande quiete, anche se é dotato di grandi qualità viene conturbato e disorientato dall’inerzia, e la mancanza d’esercizio tronca una parte non piccola delle sue energie: che se poi oltre al tenersi lontano da tali cimenti, é anche di carattere indolente, come appunto é il caso mio, qualora abbia assunto questo ministero non farà più di quanto farebbe una statua di marmo. Ecco la ragione per cui anche di quanti vengono da quel genere di palestra a questi cimenti, pochi ottengono buon esito; la maggior parte di loro vanno incontro al comune biasimo, perdono le staffe e soggiacciono a vicende disgustose e tristi; e nulla di straordinario in questo, che quando gli esercizi e le palestre non sono proporzionati allo stesso genere di cimenti, per nulla differisce uno che sia allenato, da un altro che non sia tale. Infatti colui che scende in questo stadio deve spregiare la gloria, dominare l’irascibilità ed essere pieno di grande prudenza; ora chi preferisce la solitudine non ha occasione di esercitarsi in queste virtù, perché non ha molti che lo molestino, onde sia condotto a reprimere l’impeto dell’animo; non ha ammiratori né acclamatori che lo ammaestrino a tenere a vile gli applausi della moltitudine; né d’altra parte possono [i monaci] darsi piena ragione della grande prudenza che si richiede nel ministero ecclesiastico. Pertanto, quando essi vengono al cimento di lotte delle quali non hanno curato l’esercizio, si turbano, danno nelle vertigini, sono ridotti all’impotenza, e accade spesso che molti, oltre che non ne acquistano, vi perdono anche le virtù che prima possedevano.

Il ministero offre molte occasioni pericolose. Difficile cura del ceto femminile

VI. "Allora Basilio: E che? disse, dovremo noi porre allora al governo della Chiesa persone avvolte negli affari mondani, preoccupate da interessi materiali, impigliate in contese e ingiurie e ripiene di innumerevoli perversità?"

"Calmati, risposi, o mio caro; ché quando si tratta della scelta dei sacerdoti non s’ha nemmeno da pensare a tali soggetti; dico che a quei solitari si deve preferire uno che mentre tratta e pratica con tutti, possa conservare intatta e inalterata la purezza, la calma, la santità, la fortezza, la sobrietà e tutte le altre doti che splendono nei monaci; perché colui il quale avendo molti difetti, pure riesce con la solitudine a celarli e renderli innocui, astenendosi dal trattare con alcuno, posto che sia nel mezzo della bisogna, altro non otterrà se non di rendersi ridicolo, con rischio di peggio.

Ciò appunto sarebbe per poco capitato a me, se la misericordia di Dio non avesse in fretta ritirato il fuoco dal mio capo; chi ha sortito un’indole tale, non può celarla quando venga messo in vista, ma allora tutto viene smascherato; e come il fuoco prova i metalli, così la prova del ministero esamina le anime degli uomini; onde se uno é iracondo, o pusillanime, o vanaglorioso, o millantatore, o se abbia qualsiasi altra pecca, tosto ne discopre e svela i difetti. Né soltanto li rivela, ma li rende più forti e perniciosi: le piaghe del corpo stropicciate, più difficilmente guariscono, e così pure le passioni dell’anima stimolate e irritate imperversano maggiormente, spingendo a maggiori colpe quelli che ne sono agitati. [L’esercizio del ministero] accende in chi non sta’ in guardia la bramosia di gloria, lo rende presuntuoso e avido di ricchezza; lo trascina al lusso, alla rilassatezza, all’indifferenza e a poco a poco ad altri vizi che da questi derivano. Molte sono là in mezzo le circostanze che possono distruggere il temperamento dell’anima e troncare il retto cammino, e anzitutto le conversazioni con le donne; non lice invero al capo della comunità ecclesiastica e a cui spetta la cura di tutto il gregge, occuparsi soltanto del sesso maschile e trascurare le donne, le quali hanno bisogno di maggiore assistenza essendo esse più facilmente cedevoli alle mancanze; ma chi occupa la carica di vescovo deve prendersi a cuore l’integrità loro, se non in maggiore, almeno in eguale proporzione. Bisogna pertanto visitarle quando sono inferme, consolarle quando sono tribolate, redarguire quelle che si mostrano indolenti e prestare aiuto a quelle che sono oppresse. Ora, nell’esercizio di queste opere, il maligno trova molti accessi, se uno non si munisce con gran cura; lo sguardo colpisce e turba lo spirito, né soltanto quello delle svergognate, ma anche quello delle pudiche; le loro adulazioni soggiogano e i loro favori rendono schiavi, di guisa che la carità ardente, che per se stessa é fonte d’ogni bene, pub divenire fonte d’ogni male per quelli che non l’esercitano con le debite precauzioni. Già di per sé le cure assidue ottundono l’acume del pensiero e da agile lo rendono più pesante del piombo, mentre poi d’altra parte l’irascibile invadendo ravvolge a guisa di fumo tutto l’interno)".

L’insidia della calunnia e la necessità di guardarsene.

VII. Chi potrebbe poi enumerare i danni rimanenti, cioè le ingiurie, le calunnie, le censure mosse dai superiori e dai sudditi, dai saggi e dagli insipienti? Quest’ultima genia specialmente, destituita di retto criterio, é incontentabile e difficilmente ascolta ragioni; ora il buon prelato non deve disinteressarsi neanche di costoro, ma presso tutti deve studiarsi di togliere di mezzo le cagioni delle loro querele, usando molta affabilità e dolcezza, perdonando le accuse ingiustificate anziché adontarsene e montare in ira. Se il beato Paolo temeva di destare sospetto di frode nei suoi discepoli, e perciò si assunse altri nell’amministrazione delle entrate "affinché alcuno non ci abbia da vituperare per questa abbondanza di cui siamo dispensatori" (2Cor. 8,20), come non dovremmo noi adoperarci in ogni maniera per allontanare i cattivi sospetti anche se falsi, privi di qualsiasi fondamento e lontanissimi dalla nostra riputazione? Invero da nessun vizio noi siamo tanto lontani quanto lo era Paolo dal furto: e sebbene egli tanto distasse da questa mala azione, non trascurò tuttavia l’eventuale sospetto della moltitudine, per quanto irragionevole e folle esso fosse; e certo era una follia sospettare qualcosa di simile per quella beata e mirabile anima; ma nondimeno egli molto per tempo toglie di mezzo le cause d’un sospetto tanto stolto e quale niuno poteva concepirlo, tranne che avesse perduto la testa. Non pose in non cale la stoltezza del volgo, né disse: "A chi mai potrebbe venire in animo un tale dubbio a mio riguardo, mentre tutti mi onorano e ammirano sia per i miracoli, sia per l’equità onde la mia vita risplende?" ma tutto al contrario, egli previde e s’aspettò tale maligna supposizione e l’estirpò dalla radice, anzi non permise neppur che cominciasse a formarsi; e per qual motivo? "Perciò, dice, provvediamo al bene non solo dinanzi al Signore, ma anche dinanzi agli uomini" (2Cor. 8,21). Tale cura, anzi maggiore, si deve usare, non solo per togliere di mezzo e impedire le cattive dicerie quando sono sorte, ma per prevedere da lontano da qual parte possano sorgere e togliere i pretesti che possono provocarle, né aspettare che esse prendano corpo e vadano aggirandosi di bocca in bocca, poiché allora non sarà facile soffocarle, ma molto difficile e presso che impossibile; ciò poi non é privo di danno perché non può accadere senza scandalo di molti. Ma fino a quando seguiterò ad andar in traccia dell’introvabile? ché l’enumerare tutte le difficoltà che qui s’incontrano, sarebbe la stessa cosa che misurare l’acqua del mare. Se anche uno si sia purificato da ogni passione, il ché é impossibile, per giungere a correggere i falli altrui deve sopportare infiniti disagi: se poi s’aggiungono le proprie deficienze, pensa quale abisso di angustie e di affanni non deve patire quegli che voglia vincere i vizi suoi e degli altri!

Bisogna far fruttare i talenti

VIII. Ma tu, disse Basilio, non devi sopportare fatiche e non hai forse affanni anche standotene solo?

"Ne ho per certo, risposi, anche così; come é possibile infatti, essendo uomo e vivendo questa tribolata vita, starsene affatto libero da pene e lotte? Ma come non é eguale cosa il cadere in un pelago sterminato e il traghettare un fiume, così pure differiscono le pene di questo stato e

quelle dell’altro. Certamente anch’io desidererei, potendolo, essere di aiuto ad altri e ciò é per me oggetto di molto desiderio; ma se non è possibile recare giovamento ad altri, purché almeno mi riesca di porre in salvo me stesso e sottrarmi al naufragio, me ne starò contento anche solo di. Questo".

"E tu credi, disse, che ciò sia gran cosa? e pensi davvero di poterti salvare senza occuparti del vantaggio di altri?".

"Tu dici bene e giustamente, risposi; poiché neppure io posso credere che abbia a salvarsi chi non sopporta alcuna fatica per procurare la salute altrui; neppure quel miserabile infatti, guadagnò nulla col non sminuire il talento, ma appunto il non averlo aumentato ricavandone il doppio, fu la sua rovina. Tuttavia io stimo che all’accusa di non aver salvato altri, seguirà una punizione più mite che all’altra, d’aver io rovinato e me ed altri, essendomi fatto peggiore dopo conseguita sì gran dignità. Ora io reputo che tale sarà la pena quale richiede la grandezza delle colpe; ma assunta che avessi la carica, non solo doppia e tripla, ma d’assai volte maggiore, per averne scandalizzato un numero più grande, e per aver, dopo un maggior onore, offeso Dio che me l’aveva conferito".

Più si richiede da Dio a chi fu elevato a maggior dignità

Per ciò appunto [Iddio] accusando più fortemente gli Israeliti, dimostra ch’essi sono degni di maggior castigo, per esser caduti in colpa dopo tanto onore loro accordato, dicendo una volta: "Voi soli ho io conosciuti di tutte le famiglie della terra; per questo vi punirò di tutte le vostre iniquità" (Am. 3,2). E altra volta: "E de’ vostri figlioli scelsi i profeti, e dalla vostra gioventù quelli da consacrarsi" (Am. 2,11). E prima de’ profeti, volendo dimostrare che le colpe ricevono molto maggior castigo quando sian commesse da’ sacerdoti che non quando lo sono dai privati, impone di offrire per i sacerdoti un sacrificio corrispondente a quello offerto per tutto il popolo, volendo dimostrare che le piaghe del sacerdote richiedono maggior cura, e tanta quanta se ne richiede per il popolo intero; non vi sarebbe bisogno certo di più grande cura se esse non fossero per se stesse più maligne: e tali esse sono appunto, non già per natura, ma perché rese più gravi dalla dignità rivestita dal sacerdote che le ha contratte. E che dico gli uomini che rivestono la dignità? le figlie stesse dei sacerdoti, benché nessun rapporto diretto abbiano col sacerdozio, soggiacciono a più aspro castigo pe’ loro peccati, a causa della dignità paterna; eppure la colpa era eguale in loro e nelle figlie dei privati, sì le une che le altre essendo ree di fornicazione; ma a queste ultime fa più dura la punizione la superiorità d’onore. Vedi con quanta copia d’esempi Iddio ti dimostra che esige maggior pena dal capo che non dai sudditi; però che [Dio] il quale inflisse più grande punizione alla figlia per causa del padre: da questo, che fu ad essa cagione di aumentarle i tormenti, non richiederà per certo eguale pena che dagli altri, ma assai più grande. E ben a ragione; ché il danno non si arresta in lui, ma rovina anche le anime dei più deboli che a lui tengono volto lo sguardo: ciò volendo insegnare Ezechiele distingue il giudizio degli arieti da quello delle pecore.

La vita ritirata protegge un animo debole

IX. Ti par dunque ch’io tema d’un ragionevole timore? E oltre a quanto ho detto [aggiungi] che ora ho pur d’uopo di fatica per non essere totalmente sopraffatto dalle passioni dell’anima, ma nondimeno riesco a tollerare tale travaglio e non mi ritraggo dal combattimento. E per vero anche al presente sono soggiogato dalla vanagloria, ma spesso m’è pur dato di rialzarmi, e conosco le cause della caduta; talora anche faccio severo rimprovero all’anima per essersene resa schiava. Anche al presente sorgono in me desideri viziosi, ma essi accendono una più languida fiamma, non avendo gli occhi esteriori alcun mezzo di porgere esca al fuoco: non mi occorre punto di parlar male d’alcuno o d’intendere altri a parlarne, non avendo io conversazione con alcuno; né potrebbero invero queste pareti dire anche una sola parola. Non mi riesce però egualmente di sottrarmi all’irascibilità, sebbene non vi sia chi mi vi ecciti; ché spesso assalendomi il ricordo d’uomini perversi e delle loro malvagità, mi sommuove lo spirito; per altro quest’agitazione non va fino agli eccessi, ché ben presto l’anima accesa si ricompone, e la persuado a calmarsi, dicendo esser cosa inutile ed estremamente stolta l’affannarsi de’ fatti altrui trascurando le cose proprie. Ma se io andassi fra la moltitudine e cadessi in preda d’infiniti turbamenti, non potrei certamente rivolgermi simili ammonimenti, né trovare le riflessioni che possano esercitare su di me una tale disciplina. Ma come chi è travolto in un precipizio da una corrente o da altra forza, può bensì prevedere la rovina in cui andrà a finire, ma non è dato a lui di escogitare alcuno scampo, così pure io qualora cadessi in si gran turbine di passioni, potrei scorgere la punizione aumentarmisi di giorno in giorno, ma non mi sarebbe agevole come ora serbare il dominio di me stesso: il reprimere in ogni caso queste turbolente malattie [dello spirito] non mi riuscirebbe così facilmente come prima. Ho un’anima inferma e piccina, facile preda non solo di queste passioni ma d’una di tutte più fiera: l’invidia; essa poi non sa sostenere con moderazione né le contumelie né gli onori, ma in modo eccessivo rimane incitata da quelle, da questi soggiogata. Come le fiere terribili quando sono ben tarchiate e vigorose abbattono quelli che si fanno a pugnare con loro, specialmente se questi sono deboli e inesperti; se invece alcuno le smunga con la fame, addormenta i loro impeti e spegne la maggior parte di loro forza, di guisa che anche chi non è molto valente può cimentarsi con loro in lotta e in caccia, così è anche delle passioni dell’anima: chi le indebolisce riesce a sottoporle a sani ragionamenti; chi invece le nutrisce lautamente rende a se stesso più fiera la lotta contro di esse e se le rende tanto terribili da aver poi a passare tutta la vita in loro schiavitù e sotto il loro incubo. Or qual è il nutrimento di queste fiere? della vanagloria sono gli onori e le lodi; dell’arroganza, la grande autorità e potestà; dell’invidia, i buoni esiti dei propri colleghi; dell’avarizia, l’ambizione di quelli che possono largire denaro; dell’intemperanza, il lusso e i continui trattenimenti colle donne e via dicendo. Tutte queste passioni, se io esco all’aperto, mi assaliranno e strazieranno l’anima spaventose, e impegneranno meco una guerra più feroce. Mentre invece fin che me ne sto qui ritirato, ci vorrà bensì grande sforzo per soggiogarle, ma pur le soggiogherò con la grazia di Dio e non avranno più altra forza che di latrare. Per ciò io sto attaccato a questa stanzetta, senza uscirne, senza conversazioni né compagnie, e sopporterò di udire infinite altre accuse simili, e me ne purgherei di buon grado, pur dolendomi e rammaricandomi di non poter farlo. Io non potrei agevolmente essere uomo di società e nello stesso tempo serbare intatta la sicurezza presente; onde prego di compatire piuttosto che accusare chi ha voluto sottrarsi a tale cimento.

Grande timore di Giovanni al pensiero di recare danno alla Chiesa

X. Ma non ti persuado ancora: è dunque tempo di rivelarti anche quello che unicamente tenevo celato e che forse sembrerà a molti incredibile; ma ciò non ostante io non arrossirò di metterlo in pubblico. Che se le cose dette da me saranno prova di coscienza contaminata e d’innumerevoli colpe, poi che Dio, il quale ha da giudicarmi, conosce esattamente tutto, che cosa potrà venirmene di più dalla ignoranza degli uomini? Or qual è dunque il secreto? Da quel giorno in cui facesti nascere in me questo sospetto [di essere mio malgrado consacrato], più volte il mio corpo corse pericolo d’essere totalmente paralizzato, tanto era il timore e l’abbattimento che s’era impadronito dell’anima mia. Considerando io l’eccellenza, la santità, la spirituale bellezza, l’ordine e il decoro della Sposa di Cristo, e d’altra parte pensando ai miei vizi, non cessavo di rimpiangere e quella e me stesso, e continuamente fra gemiti e sgomento andavo dicendo tra me: "Chi dunque poté dare un simile consiglio? o qual gran peccato ha commesso la Chiesa di Dio? come ha ella mosso siffattamente a sdegno il suo Signore, da essere data in balìa di me vilissimo fra tutti, e subire una tal confusione?". Tali cose rivolgendo fra me medesimo, né potendo sopportare pur il pensiero di un fatto così assurdo, io me ne stavo muto come gli epilettici, impotente a nulla vedere o ascoltare. Cessato poi quello sgomento, ché venne pur il tempo in cui cominciò a dileguarsi, vi succedevano le lacrime e lo scoramento; saziatomi di lacrime sottentrava di nuovo il timore conturbandomi, sconvolgendomi e sovvertendomi l’intelletto. In tal tempesta vissi tutto questo tempo, mentre tu ciò ignoravi e credevi che io godessi tranquillità; ma ora tenterò di scoprirti il turbine dell’anima mia, ché anche in vista di ciò ben presto mi darai venia, cessando di muovermi accuse. Or come farò io a svelarti me stesso? ché se tu volessi averne una chiara conoscenza, ciò non potrebbe altrimenti farsi che mettendo a nudo il mio stesso cuore; ma poiché ciò è impossibile, cercherò almeno, come mi sarà dato, di mostrarti con tenue sembianza la caligine del mio sbigottimento, di modo che tu possa averne anche solo un’idea.

Allegoria finale. La fidanzata mistica

Supponiamo che a un uomo sia promessa sposa la figlia del re di tutta la terra che è sotto il sole, e questa fanciulla sia bella d’ineffabile bellezza, tale da sorpassare anche l’umana natura e superare di gran lunga in bellezza le altre donne tutte quante; che oltre a ciò essa possieda tali doti di spirito da lasciarsi indietro assai la schiatta intera degli uomini che furono e che saranno; che per leggiadria di costumi sorpassi tutti i confini della saggezza e faccia impallidire con lo splendore del proprio aspetto la beltà corporale; supponiamo che il promesso sposo sia acceso per questa vergine non solo a cagione di queste doti, ma oltre a ciò senta verso di lei una particolare tendenza, una passione di tal forza da eclissare al confronto anche gli amatori più deliranti che mai siano stati. Poniamo poi che mentre è bruciato da un tal fuoco, venga a sapere che quella sua meravigliosa amata è in procinto di essere sposata da uomo da nulla, ignobile di stirpe, deforme di corpo e più meschino di ogni altro. Ti ho io così rappresentato qualche piccola parte del mio affanno? ti basta ch’io mi limiti a questa immagine? certo credo che basti per rappresentarti il mio sbigottimento, e appunto per darti un’idea di quello, te l’ho esposta. Ma ora verrò ad un’altra rappresentazione, per dimostrarti la grandezza del mio timore e della mia trepidazione.

L’esercito e l’armata navale affidati a un contadinello

XI. Sia dunque un esercito composto di pedoni, di cavalieri e d’uomini di mare; e copra il mare la moltitudine delle triremi, e coprano le campagne e le vette dei monti le falangi dei fanti e dei cavalieri. E riverberi al sole il suo splendore il rame delle armi, mentre contro i raggi di lassù mandati, vibri il fulgore degli elmi e degli scudi: lo strepito delle aste e il nitrito de’ cavalli si levi fino al cielo, né si veda più mare o terra, ma rame e ferro appaia da ogni parte.

Incontro a questi si schierino i nemici, uomini fieri e spietati e sia imminente ormai il momento della battaglia. Indi alcuno preso ad un tratto un garzoncello di quelli che sono allevati nei campi e nulla sanno all’infuori del zufolo e del bastone da pastore, lo rivesta delle armi di rame; lo conduca quindi a torno tutto quanto l’esercito e gli mostri le varie compagnie con i loro comandanti, gli arcieri, i frombolieri, i capitani, i generali, i fanti di grave armatura, i cavalieri, i lanciatori, le triremi e i trierarchi, gli armati che sopra quelle stanno, la moltitudine delle macchine poste sulle navi; gli mostri poi anche tutte quante le schiere dei nemici e certe facce spaventevoli, la strana foggia delle armi, l’infinita loro moltitudine; i precipizi, i profondi burroni e i dirupi dei monti. Poi gli mostri ancora dalla parte dei nemici e cavalli volanti per via d’incantesimi, e fanti portati per l’aria e ogni opera e specie di magia. Gli venga poi anche enumerando i casi della guerra: nubi di saette, nembi di dardi, quell’immensa caligine, oscurità e tenebrosissima notte prodotta dal nembo degli strali, sì da impedire con la sua densità i raggi del sole, la polvere che non meno della tenebra acceca gli occhi, i torrenti di sangue, i gemiti dei cadenti, le urla di chi sta ancor in piedi, i cumuli dei distesi a terra, le ruote asperse di sangue, i cavalli con i loro cavalieri stramazzati bocconi per la moltitudine dei cadaveri giacenti, la terra di tutto ciò confusamente coperta, e sangue e dardi e frecce e zoccoli di cavalli e teste d’uomini insieme, e braccia e ruote e schinieri e petti trapassati, cervella cosparse sul filo delle spade, punte di saette infrante, e, nelle punte, occhi infilzati. Gli enumeri anche i casi dell’armata navale: delle triremi, quali incendiate in mezzo alle acque, quali affondate in un con i soldati; il mugolio dell’onde, il tumulto dei marinai, il grido delle ciurme, la spuma dei flutti mescolata col sangue che piove su tutte le navi; e cadaveri, altri sui tavolati, altri sommersi, altri galleggianti, altri sbalzati sul lido, altri avvolti dall’onde sì da chiudere alle navi la strada. Indi, mostrati a lui diligentemente tutti questi luttuosi casi di guerra, vi aggiunga ancora i mali della prigionia e la schiavitù peggiore d’ogni morte; e ciò detto gli imponga senz’altro di salire subito a cavallo e assumere il comando di tutto l’esercito. Or credi tu forse che a quel comando potrà bastare quel garzoncello, o piuttosto al primo aspetto non rimarrà egli subito senza respiro.

Le forze infernali schierate contro la Chiesa di Cristo e i suoi sacerdoti. Le ferite dell’anima. Confronto fra la pugna materiale e la lotta spirituale

XII. Né credere che io esageri la cosa con le mie parole, né reputarle [troppo] grandi, perché noi chiusi nel corpo come in una prigione nulla possiamo vedere di ciò che è invisibile; poiché se tu potessi mai scorgere con questi occhi [materiali] la tenebrosissima oste e la furibonda accozzaglia del diavolo, vedresti un apparato di guerra molto maggiore e terribile di questo. Là non v’è rame né ferro, né vi sono cavalli o carri o ruote; non fuoco né strali né alcun ordigno bellico di quelli visibili, ma altre molto più spaventose macchine. A quei nemici non occorre né corazza, né scudo, né spada, né asta; e tuttavia la sola vista di quell’infinito esercito basta a tramortire l’anima che non sia molto ardita e oltre la propria forza non sia favorita copiosamente dalla provvidenza di Dio. E se fosse possibile, sciogliendosi da questo corpo, poter osservare liberamente e senza timore tutta l’oste schierata di quello, e scorgere visibilmente la guerra apprestata contro di noi, potresti vedere non già rivi di sangue, né cadaveri, ma tale strage di anime e tanto aspre ferite, che la descrizione guerresca fatta da me più sopra, sarebbe stimata da chiunque in paragone nient’altro che un giochetto da fanciulli, un trastullo anziché una guerra, tanti sono quelli che ogni giorno vengono colpiti. Le ferite poi non infliggono una eguale morte, ma quella [morte] differisce tanto da questa quanto l’anima differisce dal corpo; poiché quando l’anima tocca una ferita e cade, non giace insensibile come il corpo [morto] ma viene quindi tormentata immediatamente dallo struggimento della mala coscienza; e dopo il trapasso da questa vita, nell’ora del giudizio viene consegnata alla pena eterna. Che se taluno poi rimanesse insensibile alle ferite del diavolo, il danno per lui si accresce appunto per quell’insensibilità; infatti, chi dopo una prima ferita non prova rimorso, facilmente ne toccherà una seconda e dopo questa un’altra; ché quell’immondo, qualora incontri un’anima intorpidita e noncurante delle prime ferite, non cessa di colpirla fino all’ultimo respiro. E se volessi esaminare il genere di battaglia, la troveresti molto più violenta e svariata; ché nessuno conosce tanta specie di frode e d’inganno quante colui; quel maledetto infatti trae da esse la sua maggior potenza; né alcuno potrebbe nutrire sì implacabile inimicizia contro i suoi più feroci avversari, quale il maligno nutre contro l’umana natura. Se poi alcuno esamini l’accanimento con cui quegli combatte, troverà cosa ridicola il paragonarvi [quello consueto] fra uomini; e se scegliendo le più rabbiose e feroci belve, vorrà contrapporle alla furia di quello, le troverà al confronto mansuetissime e docilissime, tanto furore quegli esala nell’assalire le nostre anime. La durata poi della battaglia qui [fra noi] è breve, e pur nella sua brevità occorrono frequenti intervalli: il sopravvenire della notte, la stanchezza della strage, il tempo di prendere cibo e molte altre circostanze permettono al soldato di riposare, di svestire l’armatura e respirare alcun poco, rifocillarsi con cibo e bevanda e con molti altri mezzi riacquistare il pristino vigore. Ma col maligno, non è dato mai deporre le armi né prendere sonno a chi voglia serbarsi affatto incolume; è forza che l’una o l’altra accada di queste due cose: o cadere e soccombere se si spoglia [delle armi], o rimanere continuamente in piedi armato e vigilante. Ché quegli senza tregua insiste con tutto il suo campo, spiando le nostre disattenzioni, adoperando egli maggior diligenza alla nostra rovina, che noi stessi alla nostra salvezza. Inoltre il non esser egli da noi veduto e il sopraggiungerci di sorpresa, cose che più d’ogni altra sono causa di infiniti danni per chi non è in continua vigilanza, presentano questa lotta come assai più scabrosa di quella.

Commiato, augurio finale e promessa di amichevole assistenza e di conforto reciproco

XIII. Qui adunque tu volevi che io assumessi il comando dei soldati di Cristo? ma ciò sarebbe stato un guidare l’esercito in pro del diavolo: quando colui che deve porre in ordine e tenere in disciplina gli altri, è privo d’ogni esperienza e debolissimo, tradendo con la sua incapacità quelli che gli furono affidati, farà da capitano per il diavolo più che per Cristo.

Ma perché gemi? perché versi lacrime? non è degna di compianto la mia sorte, ma di letizia e giubilo.

"Non però la mia, disse, ch’è invece degna d’infinito rammarico! ora soltanto ho potuto comprendere in quale [abisso] di mali mi hai condotto lo sono venuto da te per sapere che cosa potessi rispondere in difesa ai nostri accusatori; tu mi rimandi dopo aver aggiunto affanno ad affanno; già non mi preoccupo più ormai di ciò che risponderò a quelli in difesa, ma piuttosto di ciò che risponderò a Dio riguardo a me stesso e alle mie colpe. Ma ti prego e scongiuro, se alcuna sollecitudine hai delle mie vicende, se alcuna consolazione in Cristo, se alcun conforto della carità, se viscere di compassione; ben sai che tu più di tutti m’hai spinto a questo cimento: porgimi la mano, e non cessare un istante di dire e operare quanto giovi a indirizzarmi, ma più ancora che pee il passato intratteniamo la nostra intima conversazione".

"E io sorridendo: e che potrò io darti, quale aiuto ti potrò fornire per sopportare il peso di tanto ufficio? ma pur se ciò ti è caro, fa’ animo, o diletto; nel tempo in cui ti sarà dato respirare da quelle cure, io ti sarò vicino per confortarti, né alcuna cosa tralascerò di quanto è in mio potere.

A questo punto quegli più dirottamente piangendo si alzò; io abbracciatolo e baciatolo in fronte, lo rimandai confortandolo a sopportare fortemente la sua sorte. Credo, dissi, fidando in Cristo che ti ha chiamato e t’ha preposto alle sue pecorelle, che da questo ministero ti verrà tanta fiducia, che in quel giorno accoglierai pur me pericolante nell’eterno tuo tabernacolo.


PARTE TERZA (2)

Il diario - Beata Elisabetta Canori Mora

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62 – RIPARARE IL DANNO ETERNO DI TANTE ANIME

Il giorno 8 dicembre 1821, festa dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima sempre Vergine, nella santa Comunione, dopo aver ricevuto questo divino sacramento eucaristico, questo celeste pane di vita eterna, con profonda umiltà e con sincero affetto mi riconoscevo indegnissima di sì alto favore. Ero profondata nel proprio mio nulla, tutta intenta a piangere le gravi mie colpe e le enormi mie ingratitudini.

Io dicevo: tanto ingrata verso Dio e Dio tanto liberale e benefico verso di me. A confronto così dissonante si struggeva il mio cuore in lacrime d’amore, di gratitudine e di dolore per averlo tante volte offeso. Con fermo proposito promettevo al mio Dio di amarlo e servirlo con ogni fedeltà e con tutta l’ampiezza del mio povero cuore e con tutta l’estensione dell’anima mia.

Nel tempo che stavo così concentrata e che l’anima mia si deliziava con il suo Dio sacramentato, tenendolo nel mio petto lo stringevo al cuore con sommo affetto e mi compiacevo di offrirgli tutta me stessa senza intervallo, senza riserva. Nel tempo dunque che mi trattenevo in santi colloqui con il mio Dio, tutti diretti alla mia eterna salute, mi sento dire nell’intimo dell’anima: «Mira, o figlia, quanto è disprezzato il mio amore da questi uomini ingrati!». Volgo lo sguardo e vedo ad un tratto tutta le iniquità che inondano la terra, tutte le indignazioni che si commettono contro l’infinita maestà di Dio. Oh come restò la povera anima mia addolorata ed afflitta, che si annientò nel proprio suo nulla confondendosi altamente per vedere tanto offeso ed oltraggiato Dio. Tutte queste indignazioni io le vedevo molto da lontano, ma bene distinguevo un immenso popolo che, dato in preda alla dissolutezza e ad ogni sorta di iniquità, correvano tutti dietro alle loro passioni pervertendo le massime del santo Evangelo, mettendosi sotto i piedi la santa legge di Dio e i suoi santi comandamenti, calcandoli con sommo disprezzo e con orgoglio ben grande.

Vedevo Dio sdegnato per questo che, a mano armata, voleva punire la loro baldanza e la loro temerarietà e sfrontatezza. Mosso Dio dal suo giustissimo furore, con colpo di spada tagliente voleva nel mondo scaricare il funesto colpo dell’irritato suo sdegno col far piombare sopra questi temerari un severo castigo.

Aveva già misurato il colpo, quando la povera anima mia, spettatrice di questo funesto fatto, accesa di carità verso il mio prossimo, mossa dalla compassione, per non vedere una simile strage, piena di spavento e di terrore insieme, per vedere Dio sdegnato, ciò nonostante la fraterna carità vinse il grave mio timore. Spiccai quasi un rapido volo e mi presentai avanti al mio Dio, e con umilissima preghiera e profondissimo rispetto mi presentai genuflessa al suo augustissimo trono, il quale mi abbagliava la vista per la sua immensità, e così lo pregai: «Mio Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, abbiate pietà di noi, miseri peccatori. Protector noster, aspice, Deus, respice in faciem Christi tui. Mio Dio, Padre delle divine misericordie, non ci abbandonate al furore della vostra inesorabile giustizia, noi meritiamo il flagello, è vero, per la nostra iniquità, ma vi prego di ricordarvi che Gesù Cristo è morto in croce per noi».

62.1. Placai lo sdegno di Dio


Con queste ed altre simili parole terminavo la mia preghiera. Sopraffatta dalla fiducia negli infiniti meriti di Gesù Cristo, con santo ardire mi approssimavo a Dio, e ritenni il colpo già vibrato dalla mano onnipotente di Dio. Sospeso che ebbi il funesto colpo, mi prostrai ai suoi santissimi piedi. «Eccomi», gli dissi, «o mio Dio, Padre del mio Signore Gesù Cristo, eccomi prostrata avanti a voi, disponete di me come più vi aggrada, prendete sopra di me qualunque soddisfazione, ma placate il vostro giustissimo sdegno. Non castigate, non condannate questi uomini miserabili all’eterna morte, ma usategli misericordia. Vi prego di ricordarvi la preghiera che vi fece il vostro santissimo figliolo sopra la croce, che vi disse: Padre, perdona questi miserabili, che non sanno quello che fanno. Anche io, da miserabile peccatrice come sono, unita agli infiniti meriti di Gesù Cristo, vi dico: Pater dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt».

Con questi ed altri termini ed amorose espressioni placai lo sdegno di Dio, che si degnò sospendere un colpo così fatale e lacrimevole, mentre questo castigo che aveva vibrato Dio nel mondo, per molti abitanti di esso, non sarebbe stato solo temporale, ma sarebbe stato eterno. Motivo per cui il povero mio spirito ne ebbe tanta compassione, che in quel momento, per impedirlo, mi sarei fatta straziare dai più crudeli tormenti, senza più avere alcun riguardo di me stessa né al mio proprio interesse spirituale, per riparare il danno eterno di tante povere anime, che a migliaia sarebbero piombate all’inferno.

Quando tornai nei propri sensi, ricordai che il mio padre spirituale mi aveva comandato di non fare più offerte di patire senza il suo permesso. Mi trovai molto afflitta, dubitando di aver mancato alla santa obbedienza. Mi portai subito dal lodato mio padre spirituale, e piangendo gli feci il suddetto racconto, e gli dissi che in quel momento non ricordai l’obbedienza che mi aveva imposto, mentre il mio spirito era restato tanto sopraffatto dalla carità, e per non vedere tante anime eternamente perdute, io mi ero offerta di patire, per placare la divina giustizia, unendo la mia povera offerta a quella che fece Gesù Cristo Signore nostro sopra l’albero della croce.

A suo esempio il mio spirito è stato portato dalla sua carità a farmi fare questo sacrificio. In quel funestissimo momento non potei fare a meno di offrirmi, perciò le domando perdono, scusa se non l’ho obbedito.

«Figlia», mi rispose il suddetto padre, «non vi affliggete per questo, Dio come padrone vi ha fatto una sorpresa. State quieta che non avete disobbedito, perché conosco bene che vi deve essere in quel momento mancato il tempo alla riflessione. Dio vede il mio cuore, sa perché vi ho fatto questo comando. Io altro non desidero che voi facciate in tutto e per tutto la sua santissima volontà. Questi sono i miei sentimenti, state quieta e contenta».

Le sue parole molto mi consolarono e restò quieto e contento il mio spirito, ma la povera mia umanità di questa offerta ne sentiva tutto il peso, tutto l’aggravio, rappresentandomisi alla mente gli acerbi patimenti sofferti nelle altre due forti sanguinose battaglie, già sostenute con la potestà delle tenebre, e i molteplici supplizi che mi avevano fatto patire con tanta crudeltà e strazio, che mi credevo certamente di finire la vita.

62.2. Scusatemi, mio Dio!


Tutte queste riflessioni mi recavano un timore ben grande; dubitando della mia debolezza, dicevo fra me stessa: chissà se reggo la diabolica malizia, chissà che io non tradisca il mio Dio con l’arrendermi alle loro diaboliche suggestioni, o come farò mai? Piena di mestizia e di timore mi rivolsi al mio Dio e gli dissi: «Mio caro Padre, degnatevi di non abbandonare una povera vostra figlia, che in voi confida, in voi spera. Mi sono offerta a voi, è vero, per amore dei miei fratelli, che voi mi avete comandato di amare come me stessa. Se mi sono ardita levarvi il flagello dalla mano, spero di non essermi opposta al vostro divino volere, mentre io con le mie deboli forze non avrei al certo potuto fare la minima resistenza al vostro onnipotente braccio. E come potevo io fare a voi, mio onnipotente Signore, una simile resistenza? Io che sono un nulla? E che per i miei gravissimi peccati merito ogni momento di essere sepolta viva nell’inferno! Credo certamente che la vostra infinita bontà e misericordia abbia voluto trionfare sopra la mia viltà e debolezza; dunque, mio amorosissimo Dio, non vi sdegnate contro di me per la resistenza fattavi, mentre mi protesto che altro non voglio, altro non bramo che l’adempimento perfetto della vostra santissima volontà, unicamente a voi voglio piacere, in tutti i momenti della mia vita. Ah, Gesù mio amabilissimo, io mi rivolgo a voi, proteggetemi, difendetemi, ditemi se io sono in grazia vostra, se voi mi soccorrerete in tutti i miei bisogni. Ah, non mi abbandonate, per carità, al furore della divina giustizia, che vuole da me soddisfazione, quale soddisfazione le potrò dare io, che sono tanto scellerata e tanto peccatrice? Io, verme della terra, ho disarmato il suo braccio onnipotente. Ah Gesù mio, io mi confondo! Mi sono offerta a sostenere il suo sdegno, come farò io a sostenerlo? Dove mi nasconderò per non essere perseguitata dal suo giusto furore? Aiutatemi Gesù mio, aiutatemi per carità. Nascondetemi nella piaga amorosa del vostro sacratissimo costato. Intra vulnera tua absconde me, et ne permittas me separari a te. Ab oste maligno defende me».

62.3. Tu sei per me spada, scettro e corona


Fatta la suddetta preghiera, dette queste ultime parole, con viva fede, speranza e amore ardente, con profluvio di lacrime che a larga copia dagli occhi versavo, parte per il grave timore di vedermi perseguitata dalla divina giustizia, parte per il grande amore che sentivo verso Dio, compiacendomi di essere ancora da lui perseguitata, per dargli piacere, e così soddisfare pienamente la sua santissima volontà.

Piangevo ancora per vedermi assicurata nel cuore amorosissimo di Gesù Cristo, in questa piaga santissima l’anima mia si abbandonò, godendo una perfetta calma si sopì tutta in Dio, e dolcemente riposò nella speranza, nella fiducia che le comunicava il medesimo Dio.

Dopo essermi così dolcemente riposata ed insieme ricreata nell’amor santo di Dio, se ne stava il mio spirito in una perfetta tranquillità, godendo un intimo raccoglimento di tutte e tre le potenze dell’anima le quali stavano in perfetto silenzio tutte riposate ed intimamente unite in Dio; mentre stavo in questo perfetto e dolce riposo, così mi parlò Dio, a mia confusione ben grande, ecco le sue parole che per obbedienza le scrivo, profondata nel proprio mio nulla. «Figlia», mi disse, «diletta mia, amica mia, sposa mia, riposa in pace, non temere il furor dei tuoi nemici, chi ti potrà nuocere, chi ti potrà sovrastare, se io sono con te? Tu sei spada al mio fianco, sei scettro nella mia mano, sei corona nel mio capo...» A queste misteriose parole, si destò il mio spirito, senza però alterare la pace e la tranquillità che godeva, più col sentimento del cuore e con l’affetto dell’anima andavo nella mia mente considerando e contemplando le suddette misteriose parole.

«Mio Dio», diceva, «verità infallibile, come? io spada al vostro fianco, io scettro nella vostra mano, io corona nel vostro santissimo capo?». E con lacrime abbondantissime, mi umiliavo profondamente: «Mio Dio, io che sono la più indegna peccatrice che abita la terra e non merito che dal vostro augusto trono gettiate neppure un’occhiata sopra di me?». E piangendo dirottamente, mi trovai molto umiliata e mortificata, perché non distinguevo il senso delle suddette misteriose parole; ma un raggio di eterna luce rischiarò la mia mente e mi fece bene intendere il significato delle misteriose parole; e così tutta mi consolai ed ecco il sentimento che ne ebbi: «Le parole che udisti non tendono che alla mia gloria, mia diletta figlia, non ti rammaricare in te stessa, tu dubiti di troppo inoltrarti, hai ragione, l’umile tuo sentimento mi dà piacere, ma il tuo soverchio timore nasce perché non sai interpretare il giusto senso delle mie parole, ma riflettile bene, perché per mezzo della mia grazia, nel giusto senso le comprenderai».

E difatti così fu. Conobbi chiaramente che la spada a nulla vale per se stessa, se non quando è impugnata da una mano guerriera, che la sappia adoperare; uno scettro a cosa serve? solo si stima in mano di un potente sovrano; cos’è per se stessa una corona, nobilitata viene allor quando il sovrano lascia che cinga il suo capo regio o imperiale; sicché vengono questi ornamenti medesimi a nobilitarsi, ad ingrandirsi, per la nobiltà del personaggio che si degna di usarli.

Persuasa di questa verità, mi compiacqui altamente in Dio e nella medesima sua grandezza, compiacendomi e sprofondandomi nella mia bassezza, confessando con straordinario giubilo di essere un nulla dinanzi al cospetto di Dio, come ancora al cospetto del cielo e della terra, e di tutti gli uomini. Qual consolazione rechi alla povera anima mia la cognizione di questa verità, non mi è certo possibile poterlo spiegare, perché l’anima allora si trova nella vera sua proprietà e vera cognizione quando con giustizia conosce e confessa essere un vero nulla, e così viene a rendere tutto l’onore e la gloria all’immenso, all’incomprensibile Dio, per il quale la povera anima mia si strugge d’amore in lacrime per la compiacenza di conoscere il bene sommo che è Dio e in Dio.

Dal giorno 8 dicembre 1821 fino al giorno 23 del medesimo mese, il mio povero spirito l’ha passati in gravi patimenti ed affannose pene; ma queste medesime pene erano alleggerite dai conforti che mi venivano, di tratto in tratto, somministrati dalla grazia del Signore, specialmente nella quotidiana santa Comunione, assicurandomi Dio della sua speciale protezione e del suo aiuto, in tutti i miei travagli ad afflizioni di spirito di cui ne andava ricolmo. Così restava consolato e fortificato il mio spirito in tante e sì acerbe pene.

62.4. Dio mi si fece vedere sotto forma di Bambino


Il dì 25 dicembre 1821, vigilia del santo Natale, Dio si degnò di ricreare il mio spirito, ad un tratto sollevarlo da tutte le pene che aveva sofferto negli scorsi giorni, riempiendolo di gaudio celeste, facendomi godere un bene di paradiso, mi si fece vedere sotto la forma di Bambinello, tutto raggiante di splendida luce.

A vista così mirabile e divina, quanto mai restasse la povera anima mia sopraffatta da tanto splendore divino, io non so spiegarlo, quali fossero i miei accenti, quali fossero le mie parole non saprei dirlo, quali fossero gli affetti del povero mio cuore non so di certo rintracciarli, quali e quanti fossero i devoti miei sentimenti verso Dio, non so di certo manifestarlo. Mi umiliai, mi sprofondai nel proprio mio nulla, mi prostrai genuflessa ai suoi piedi, e in spirito e verità tutta al divino infante mi consacrai, tutta a Gesù Bambino mi donai, godendo di una vista sì amabile e cara, mi scordai affatto di tutte le miserie di questo basso mondo e di tutti gli abitanti di esso.

Godevo un vero paradiso di contento, che comunicato mi veniva da quella luce inaccessibile e divina. Quando godevo di questo grande bene inarrabile ed incomprensibile, fui sopraffatta da un santo timore di perderlo, ricordandomi di essere ancora viatrice su questa misera terra ed in pericolo di perdere questo gran bene, e perderlo ancora per sempre.

A questa riflessione qual fosse la pena mia a Dio solo è nota, mentre io non la so esprimere; una dirotta pioggia di lacrime dagli occhi versai, dalla pena che con affannosi sospiri, mi rivolsi al mio Bambinello Signore e gli dissi: «O Gesù mio, chi mi assicura di possedermi per sempre? Voi solo potete darmi questa sicurezza! Ah non tardate più di assicurare il mio povero cuore, voi ben conoscete quanto grande è la pena mia, ah, Gesù caro, vi prego, per l’amore che mi dimostrate nel vostro santo Natale, di darmi la sicurezza che io per sempre vi amerò, sì che vi voglio amare e amare per sempre, e per tutta l’interminabile eternità. Questa grazia la voglio, Gesù mio, non me la negate per carità, perché voi mi vedrete morire ai vostri santissimi piedi, per il grande desiderio che io sento di amarvi».

Con queste ed altre simili espressioni il mio povero cuore era tutto infiammato di santa carità, e così acceso del santo amore di Dio, che più non poteva contenerlo. Ero fuori di me stessa, ed in questa situazione andavo ripetendo: «Gesù mio, datemi la sicurezza di amarvi e di amarvi in eterno. E se per mia somma disgrazia non vi avessi ad amare per l’eternità, vi prego, vi supplico di levarmi la vita in questo momento che per pura vostra misericordia la povera anima mia vi ama e vi ama di cuore. Voi lo vedete, voi lo sapete se in questo momento vi amo! Vi prego di aver pietà del mio cuore, che già per il passato feriste del vostro santo amore».

Fatte queste espressioni, non potendo più reggere, né contenere l’amore e la santa carità che faceva dolce strazio del mio povero cuore, mi abbandonai in braccio del medesimo amore, acciocché facesse dolce scempio di me.

62.5. Ho scolpito nel tuo cuore il mio nome


In questo tempo fui rapita da dolcissimo sonno, e l’anima mia godeva una perfetta quiete di soavità ripiena; in questo tempo che dolcemente riposavo, tornai a vedere il divino infante, il mio caro Gesù, che nelle sue mani divine teneva il mio cuore. Scolpito in esso cuore vedevo a caratteri d’oro ed indelebili il nome santissimo di Gesù e sentivo dirmi: «Vivi sicura che, mi amerai, e mi amerai per sempre, ho scolpito nel tuo cuore il mio nome, non potrai dimenticarlo giammai».

Queste amorose parole furono per me di tanta consolazione, che restai pienamente contenta, rendendo infinite grazie al Signore, che si fosse per sua infinita bontà compiaciuto di appagare le ardenti mie brame, umiliandomi profondamente per la grazia ricevuta riconoscendomi affatto indegna, resi le dovute grazie al Signore.

Il giorno 27 dicembre 1821, avevo passato questi tre giorni in una perfetta quiete e in una pace di paradiso, godendo nell’anima una dolcezza tutta spirituale, mi sentivo tutta trasportata dal santo amore di Dio, non avendo altro pensiero che perfezionare la mia povera anima, per renderla così grata al suo amorosissimo Dio.

63 – ALLA SOMMITÀ DELLA GLORIA DI DIO


63.1. Comunioni sacrileghe

Mi portai in questa medesima giornata del 27 dal mio padre spirituale, il quale mi domandò come avevo passato la notte del santo Natale, e mi obbligò di manifestargli quanto mi era accaduto nello spirito. Io, per obbedienza, gli comunicai il surriferito fatto, il medesimo mi domandò se mi ero ricordata di raccomandare i poveri peccatori, io gli risposi: «Padre mio, mi sono dimenticata, in quei momenti, affatto di tutti; ho perfino dimenticato che gli uomini, che vivono in questo mondo, fossero capaci di offendere Dio, mentre in quei momenti altro non conoscevo che amore».

Il suddetto padre mi gridò e mi disse: «Così voi amate il vostro prossimo, che ve ne siete dimenticata? Io», mi disse, «vi comando di fare per i peccatori una forte preghiera al Signore, acciocché li illumini».

Con umile sommissione gli risposi che avrei fatto quanto mi comandava, e che da miserabile peccatrice, avrei fatto subito, per questi, la preghiera. Difatti, all’istante, mi portai in una chiesa, dove si celebrava la messa cantata, e pregai il Signore per i poveri peccatori, come mi aveva comandato il mio padre spirituale. Fatta la preghiera, così sento dirmi: «Mira, o figlia, come viene oltraggiato il mio amore da questi uomini ingrati, che sacrilegamente hanno la temerarietà di ricevermi, non per ossequiarmi, ma per dileggiarmi».

E difatti, fisso l’interno sguardo, e vedo, con somma mia pena ed orrore, tanti uomini con la bocca aperta e molto spalancata, con un palmo di lingua fuori della bocca, con i capelli dritti, con gli occhi stravolti e spaventati, a guisa di spiritati, sopra la loro lingua avevano l’impressione della sacrosanta particola, il loro aspetto era tanto spaventevole e brutto che faceva orrore; a questa vista così funesta, io ebbi proprio a morire dalla pena e dallo spavento, che mi cagionò un male tanto grande nell’anima e nel corpo, che credevo di morire in chiesa; ma, per misericordia di Dio, dopo qualche poco di tempo, potei tornare alla mia casa, accompagnata da una delle mie figlie, che si credeva di non potermici condurre, perché parevo un cadavere, per il gran male che avevo sofferto.

Il resto della giornata lo passai un poco in piedi, e un poco sopra il letto, non potendo reggere la grave afflizione e travaglio di spirito, al riflesso delle tante e gravi offese che riceve il Signore da tanti uomini ingrati.

Tre giorni restò afflitto il mio spirito e cagionevole ancora il mio corpo per questo fatto, ma poi il Signore, per sua infinita bontà, tornò a dare la calma e la pace al mio spirito, col dissipare questa funesta vista, così cessò la grave mia afflizione. E così potei iniziare il nuovo anno 1822 in somma tranquillità di spirito, non avendo altro pensiero che di perfezionare la povera anima mia con l’acquisto delle sante virtù, non avendo altro desiderio che di prepararmi alla morte. Bramando di lasciare questa spoglia mortale, il mio spirito altro non cerca che di tornare al suo principio e al suo fine, che è Dio: questo desiderio mi fa perdere ogni altro pensiero, e ogni altro qualunque desiderio. Mi pare propriamente di vivere in questo mondo in un duro esilio, mi pare di essere fuori del mio centro, altro non desidero che di terminare i miei giorni nella pace del Signore, per potermene tornare donde ne ebbi origine.

Ah, sì, al mio Dio, per poterlo amare e incessantemente ringraziare e benedire per tutta l’interminabile eternità, affidata alla sua divina grazia e nei suoi infiniti meriti.

63.2. Sentimenti dopo la comunione

Il dì 6 gennaio 1822, dopo la santa Comunione, si raccolse e tutto si concentrò il mio spirito, alla considerazione di aver ricevuto un Dio d’infinita maestà, tutta in se stessa si annientava la povera anima mia, e sprofondata nel proprio suo nulla, si umiliava profondamente davanti al suo Signore sacramentato, stringendolo amorosamente nel mio petto, versando grande copia di lacrime d’amore e di tenerezza, alla riflessione che un Dio d’infinita maestà non avesse orrore di trattenersi con un’anima tanto miserabile e peccatrice come è la mia.

63.3. Il tempio della mia anima

Nel tempo che ero sopraffatta dallo stupore, alla considerazione dell’infinita bontà di Dio, che mi arrossiva e confondeva per la mia grande viltà e scelleratezza, sentivo ancora grandissima pena che un Dio d’infinita maestà si trattenesse in luogo tanto vile ed abbietto, quanto è la povera anima mia.

Il mio Dio, per sua infinita bontà, si degnò di sollevarmi da questo profondo annientamento, che mi recava tanta pena e tanta afflizione. Così si degnò Dio di parlare alla povera anima mia, che stava gemendo fra mille affanni e pene: «Figlia», mi disse Dio, «figlia amata, figlia, solleva la tua mente, rallegrati con l’infinita mia bontà. Dà uno sguardo all’anima tua: io l’ho formata mio tempio, mia abitazione, osserva, quale edificio io la formai». A queste parole, fisso lo sguardo della mente e vedo un tempio, un edificio così bello, che io non ho termini per poterlo spiegare, non so se tempio o edificio possa chiamarsi cosa così bella, che con parole non si può spiegare, io la chiamerò opera grande della mano onnipotente di Dio, procurerò, per mezzo della grazia del Signore, di fare di questo edificio che io vidi, la descrizione, alla meglio che potrò, ma conosco bene che mi mancano i giusti termini per poterlo indiziare.

Questo era un fabbricato quadrato ed insieme rotondo, dentro il quale vi erano innalzate e stabilite preziose colonne, di una pietra tanto bella che io non saprei a qual pietra assomigliarla. Erano queste colonne nel numero di dodici, erano così ben disposte in simmetria, che io restai incantata nel rimirarle; il cornicione di questo fabbricato era tanto bello che non so descriverlo. La sommità di questo non aveva soffitto, ma era tutto aperto che si vedeva il cielo in molta vicinanza. Ma il più bello, il più nobile, il più vago ed amabile che vi era in questo luogo era Dio medesimo che, con grande magnificenza, si tratteneva nel mezzo del suddetto tempio, nella cui sommità se ne stava assiso sopra la sua gloria, sostenendosi senza alcun punto di appoggio.

Qual meraviglia, quale stupore, quale contento arrecò al mio cuore, vedere il mio Dio assiso sopra la sua gloria, nel mezzo del tempio, sostenendosi da se stesso, con la sua onnipotenza. Ben si avvide Dio dello stupore che ne aveva concepito il mio spirito restato estatico nel vedere tanta magnificenza: «Non ti stupire, o figlia», mi disse Dio io non ho bisogno di un sostegno, né di punto di appoggio; ma io sono il sostegno stesso!».

A queste parole, illuminato il mio spirito da questa verità, mi umiliai profondamente e, con grande copia di lacrime, confessai la mia grande ignoranza.

Una moltitudine si santi angeli si trattenevano ai piedi di quelle colonne, stavano tutti genuflessi, con sommo rispetto e riverenza, lodando e benedicendo Dio, mostrando insieme la loro ammirazione nel vedere l’opera del Signore. Il mio spirito, non meno di questi spiriti celesti, si annientava e umiliava profondamente, sopraffatto da tanta magnificenza, sentivo un amore grande verso il mio Dio e insieme di dolore, per averlo offeso.

Nel tempo che mi struggevo in lacrime, per i santi affetti che uniti insieme facevano prova di levarmi la vita in ossequio al mio Dio, io non so come fosse, né saprei certamente ridirlo, stando in questi umili ossequi e profondo abbassamento di tutta me stessa, mi trovai alla sommità della gloria di Dio, ai suoi piedi santissimi, sotto la forma di tenera agnelletta. Da qual timore fui sopraffatta nel vedermi tanto vicina al mio Dio, che piena di santo timore mi nascondevo fra gli splendori della sua medesima gloria, per non essere da Dio, né dai santi angeli, osservata, tanto era il mio abbassamento, annientamento e propria cognizione, che in mezzo a tanta magnificenza altamente mi confondevo e profondamente mi umiliavo; ma come questo favore non bastasse a dimostrarmi l’amore che mi porta Dio, benché io ne sia tanto indegna ed immeritevole, volle per eccesso della sua infinita bontà, volle farmi un altro favore, ed è che, presa nelle sue santissime braccia la piccola agnelletta, la strinse amorosamente al castissimo suo seno, dopo averla così teneramente abbracciata, la bendò con le sue mani e la condusse con lui, portandola nelle sue santissime braccia, le fece trapassare i cieli, io niente vedevo, per essere così bendata nell’intelletto, ma godevo un bene nell’anima tutto proprio di paradiso, una profonda umiltà, una semplicità di spirito, una purità di mente, un’ardente carità verso il mio Dio, che non ho termini per poterlo spiegare.

Si degnò Dio di attingere l’agnelletta in certe preziose acque e di propria mano lavarla, e poi condurmi in altro soggiorno, così mi disse: «Figlia, ringrazia l’infinito mio amore che gratuitamente in questo giorno ti fa degna di sì alto favore, sappi che ti degno di passare ad un alto grado di perfezione».

63.4. Così per nove giorni, poi…

Si trattenne la povera anima mia in questo felice soggiorno nove giornate, godendo un bene tutto spirituale e santo, benché dell’amenità di questo bellissimo luogo io non ne godevo che i soli buoni effetti, per essere stata da Dio bendata nell’intelletto, perciò mi mancava la vista e la cognizione di vedere e speculare l’amenità di questo amenissimo luogo, ma questo non privava l’anima mia di goderne in se stessa i buoni effetti di un puro e santo amore, tutta mi struggevo in santi affetti verso l’amoroso mio Signore, riconoscendomi indegnissima di questi eccelsi favori, passati i suddetti nove giorni, essendo il giorno 26 gennaio 1822. Mancarono alla povera anima i buoni effetti che fino ad allora aveva goduto, e fui sopraffatta da una penosissima desolazione di spirito, il mio intelletto fu oscurato da tenebre densissime, che più non sapevo dove fossi, né dove mi trovassi; mi pareva di aver perduto il mio Dio, piangevo, mi affliggevo, facevo al mio Dio umile ricorso, ma questo non bastava, perché non si faceva da me ritrovare, andava ogni giorno più crescendo a dismisura la mia pena, aggiungendosi a questa pena un grande timore di perdere il mio Dio, e perderlo per sempre. Questo timore era la mia pena maggiore, che mi portava quasi ad agonizzare, e rendeva l’anima all’ultima desolazione. In questo stato di grave afflizione, si giungeva un altro timore, mi pareva che il demonio mi avesse tramato una forte insidia, per la quale dubitavo di essere vittima di questo nemico con l’acconsentire alle sue perverse suggestioni, in questa maniera mi andavo struggendo e consumandomi nell’afflizione, dubitando ogni momento di fare qualche grave offesa al mio Dio, in questo stato di cose altro non facevo che ricorrere umilmente a Dio, trattenendomi lungamente in orazioni, sebbene queste orazioni erano ripiene di affanni e di amarezze; perché, se mi trattenevo a considerare l’infinita bontà di Dio, vieppiù mi affliggevo al riflesso della mia grande ingratitudine; se meditavo la passione di Gesù Cristo, questa mi rimproverava la mia cattiva corrispondenza, sicché mi pareva sempre di essere perseguitata giustamente dalla divina giustizia.

Oltre a ciò altri affanni e pene che mi facevano propriamente agonizzare, si aggiungeva a queste pene un grandissimo desiderio di possedere Dio e possederlo per sempre. Io lo speravo negli infiniti meriti di Gesù Cristo, ma dicevo a me stessa: «Anima mia, e chi ti assicura di corrispondere alla grazia, senza la quale corrispondenza non puoi certamente salvarti? Osserva quanto già ne abusasti, a quante grazie tu non hai corrisposto! E potrà Dio più soffrire tanto eccesso di tua ingratitudine? Sarà obbligato di certo a condannarti all’inferno per tutta l’eternità».

A tutti questi riflessi, qual funesto quadro mi si presentava alla mente, non è spiegabile, tutte le ingratitudini usate verso il mio Dio facevano prova di levarmi la vita. Per l’eccessivo dolore piangevo dirottamente le mie ingratitudini, le detestavo di vero cuore e con proposito fermo e stabile promettevo di non dare a Dio mai più il minimo disgusto; ma tutto questo non giovava a rendere contento il mio cuore, mesto e dolente, che, sopraffatto da una profonda mestizia, dubitava ogni momento di fare qualche grave offesa a Dio.

Esaminavo rigorosamente la mia coscienza, e non trovavo alcuna cosa che mi gravava, mentre dei peccati, dopo averli confessati nella sacramentale confessione, trovavo di averli sempre pianti e detestati di vero cuore con vero proposito di morire mille volte, che tornare ad offendere Dio; cercavo ancora quali fossero i miei desideri, e trovavo che non sono che di piacere al mio Dio e di adempire, in tutti i momenti della mia vita, la sua santissima volontà, vivendo tutta abbandonata al suo divino beneplacito, questi erano nelle mie orazioni i sentimenti più frequenti e venivano da me ratificati nella giornata con molta frequenza.

Eppure, chi lo crederebbe? il mio povero spirito non ne trovava alcun sollievo, trovava solo pene, afflizioni, travagli e angustie.

63.5. Così Dio parlò alla sua «agnella»

Cosicché dal dì 16 gennaio 1822 fino al primo febbraio del medesimo anno, vale a dire 15 giorni, stette in questa desolazione il mio spirito; il giorno 2, festa della purificazione di Maria Vergine santissima, Dio si degnò di sollevarmi da questa gravissima angustia, col compartirmi un favore celeste che tranquillizzò in un momento il mio povero spirito, afflitto e desolato.

Dopo la santa Comunione, si concentrò il mio spirito, e fu ad un tratto tutto assorto in Dio, in questo tempo, mi trovai in un luogo quanto mai bello e delizioso, che io non so descrivere la sua bellezza, in questo luogo vedevo Dio che si compiaceva e deliziava con la povera anima mia, che sotto la forma di agnelletta tornai a rivedere.

Questa la vedevo tutta risplendente e bella, al collo teneva legata una leggera catena d’oro intarsiata di gemme preziose d’infinito valore. Dio si degnava di tenerla presso di sé, per mezzo di questo nobile e prezioso legame, a sé l’univa, appresso di sé la conduceva, compiacendosi di vederla tanto vicina a lui. Così Dio prese a parlare con la sua agnella: «Rallegrati, o mia diletta, allontana da te il soverchio timore, non vedi che con vincolo indissolubile sei unita a me, non potranno giammai i tuoi nemici separarti da me; vivi sicura. amami con fedeltà: ché il tuo amore saprò abbondantemente premiare nel tempo e nell’eternità».

A queste amorose parole la povera anima mia si annientò in se stessa, e con lacrime abbondantissime, proruppe in accenti di amore ardentissimo verso il suo buon Dio e di umiltà profondissima, confessando la propria miseria e la propria viltà. Attribuendo questo speciale favore all’infinita bontà di Dio, riconoscendomi affatto indegna delle sue divine misericordie.

Per tre giorni restò impresso nella mia mente questo favore ricevuto da Dio, e nell’anima ne godetti i buoni effetti. In questi tre giorni, nella santa Comunione, tornavo a vedere la stessa cosa, che Dio, per sua bontà, teneva l’anima mia al suo fianco sotto la forma di agnella, la quale vedevo che in quel luogo vagava di qua e di là, per godere l’amenità del delizioso luogo in cui si trovava. La vedevo sempre fissa, rimirando il suo divino pastore, per timore di perderlo di vista e per non privarsi del piacere che sentiva nell’anima di godere la sua amabile presenza, che nel cuore mi destava un amore puro e santo che allontanava ogni desiderio, ogni pensiero mondano e sensibile; questi tre giorni li passai tutta assorta in Dio.

63.6. Persi di vista il mio Dio

Passati i tre giorni, perdetti la vista del mio Dio, niente più vidi, niente più capivo della situazione dell’anima mia. Oh Dio, qual pena! Non è esprimibile! Ecco, tutto ad un tratto, si trovò il mio spirito in folte tenebre, in questa penosa sottrazione, con somma premura andavo cercando il divino mio pastore, fra gemiti e pianti, affannosi sospiri. Andavo fra selve, monti e boschi, raminga cercando il mio amato pastore; ma, per quante diligenze facessi, non lo potevo rintracciare, mi affliggevo, amaramente piangevo, per avere così rapidamente perduto il mio amato tesoro. Dubitavo di aver dato a lui qualche disgusto, piangevo dirottamente, rimproverando me stessa per averlo perduto di vista, ne incolpavo la mia negligenza, la mia cattiva corrispondenza. Ah sì, a questa ne davo la colpa: «Avete ragione», dicevo, «avete ragione, o mio Dio, di abbandonarmi! Confesso umiliata la mia ingratitudine. Deh, Gesù mio, perdonatemi per carità, prendetevi qualunque soddisfazione, castigatemi come volete, ma fatevi dalla povera anima mia trovare. Io non reggo senza vedervi. Io ho perduto l’intima vostra presenza, per carità scopritevi al mio intelletto. Ditemi dove siete nascosto. Dove siete andato tanto lontano da me».

Con una canzoncina amorosa, sfogavo il mio dolore, ne pongo qui varie strofette:

Piango, né può giammai finire il pianto mio, finché il mio caro Dio, non giungo a ritrovar. Dove, mio ben, tu sei?Ove da me ne andaste lontano, e mi lasciasti misera senza te. Dove mi porto, o guardo, orrore io vedo e sento, tutto mi fa spavento, tutto mi è pene e dolore, mi strazia e non mi uccide, spietata ognor la morte e chiuse ohimè le porte, scampo non trovo più. E se per me non mai,vi fosse, o Dio, perdono, sappi che tua pur sono e sempre tua sarò. Ti amo, sebben mi vedo nemica agli occhi tuoi, fuggimi quanto vuoi, sempre ti seguirò.

63.7. Breve riposo per il mio spirito

Fatte queste ed altre simili esclamazioni, mi davo in preda al dolore, acciò facesse crudo scempio di me; in questa afflittissima situazione, si trovò il mio spirito per lo spazio di nove giornate, cioè dal giorno 6 febbraio 1822 fino al dì 15 del suddetto mese. Furono per me, questi nove giorni, molto dolorosi, che non ho termini di poterlo spiegare. Ma vostra paternità reverendissima, molto bene sa e m’insegna, cosa mai sia questa sorta di patimenti spirituali, che si può dire per verità che a Dio solo sono noti, potendoli accrescere e diminuire a suo piacimento. Questi portano l’anima ad un patire sopra le proprie forze, essendo questo un patire fuori dai propri limiti, che non si può manifestare, e senza una grazia speciale e soprannaturale del Signore non si potrebbe reggere, ma si andrebbe a soccombere se non nell’anima almeno nel corpo. Passato il giorno nono di questi gravi patimenti, essendo propriamente derelitta del tutto, il Signore si degnò per la sua infinita bontà sollevarmi da queste pene.

Ero in orazioni nella mia cappella, circa le ore cinque della notte, vale a dire un’ora e mezza prima della mezzanotte, tutto d’un tratto Dio si degnò di sollevare il mio spirito, e per via di intelligenza mi diede a vedere il cammino che aveva fatto il mio spirito in quelle nove giornate di patimenti. Mi consolò col farmi vedere che era già terminato per me questo scabrosissimo cammino, e che era ormai giunta l’ora di dare al mio spirito, affaticato e stanco, un breve riposo. Come difatti seguì. Adesso, alla meglio che potrò, darò ragguaglio di quanto seguì nel mio spirito, e dei buoni effetti che sperimentai nell’anima. Mi accingo dunque a raccontare il fatto, alla maggior gloria di Dio, e per obbedire alla vostra paternità reverendissima, che mi ha comandato di scrivere, invoco l’aiuto dello Spirito Santo per potermi spiegare.

63.8. Un tesoro di immenso valore

Il dì 15 febbraio 1822, mi trattenevo in cappella ad orare, come già dissi, si sollevò ad un tratto il mio spirito e da perfetta quiete fui sopraffatta. In questo tempo vidi il mio spirito che stava in un’orrida foresta, tutta intralciata di montuosi boschi e solitarie selve, che il solo vedere luogo così deserto e afflittivo intimoriva il mio cuore. La maggior pena era sentirsi in quel solitario luogo, lo strepitio ed il ruggito di molti animali feroci le cui grida facevano terrore; questi animali feroci, io ben conoscevo, erano i miei spietati nemici, che tutti congiurati contro di me, cercavano a tutti i costi di spaventarmi, perché avessi retrocesso il cammino, e non mi fossi più inoltrata. In questo solitario luogo vedevo il mio spirito tremare, ramingo, negletto, vestito di bianca e rozza tonaca, nelle mani portava un tesoro di grande valore, che cercava con ogni diligenza di custodire e mettere in salvo, mentre i miei nemici cercavano di involarlo dalle mie mani: lo vedevo dunque tutta sollecitudine affrettarsi per il dritto sentiero, per rendere sicuro questo tesoro dalle mani dei nemici. Obbligato era il mio spirito di portarlo allo scoperto e nelle proprie mani, a vista dei propri nemici, senza poter loro occultare un tesoro di s’immenso valore. Questo mi pare che voglia significare, al mio sciocco parere, che 1’anima non può occultare ai suoi nemici di amare il suo tesoro che è Dio, deve dunque portarlo allo scoperto, che come nelle mani, a fronte dei suoi nemici, e dalle loro insidie, dove l’anima, in questo penoso cammino, fidarsi puramente di Dio e con frequente ricorso pregarlo di abbreviare questo penoso cammino, che se fosse più lungo, di certo, l’anima non potrebbe reggere e andrebbe a pericolo di morire, per i gravi patimenti che, senza una grazia speciale di Dio, non si può a questa sorta di patimenti sopravvivere. Vedevo dunque il mio spirito affaticato e stanco, per il laborioso viaggio che aveva già fatto. Era ancora tutto grondante di gelido sudore, per le pene sofferte, ciò nonostante, non curando la propria fatica, affrettava il passo, camminando con molta celerità teneva sempre fisso lo sguardo nel suo amato tesoro, dubitando ad ogni passo, che dai suoi nemici non gli venisse rapito.

63.9. La maggiore consolazione: vedere Dio

Ma buono fu per me, che Dio per sua bontà, mosso a compassione, dall’alto di un monte, poco distante, mi si fece vedere, applaudendo con somma gioia, il mio spirito, che tanto si fosse affaticato, per amor suo, mi diede a vedere che era già in salvo. Il resto del video che mi restava da fare era breve, e lo vedevo tutto scortato dagli angeli santi, i quali mi facevano coraggio a non aver timore dei miei nemici, mentre loro vigilavano alla custodia dell’anima mia. Erano in quel luogo per difendermi dalle insidie dei miei nemici. La cortese esibizione di queste milizie angeliche, l’impegno che mostrarono questi celesti personaggi di difendermi, e custodirmi dai miei nemici, questo fu per me di molta consolazione. Ma la maggiore mia consolazione fu di vedere Dio medesimo, tutto cinto di luce, che da quel monte scendeva con sommo giubilo, il quale si fece incontro alla povera anima mia per abbracciarla. A vista così esuberante di amore, a eccesso di sì straordinaria carità di un Dio di infinita maestà, la povera anima mia, sopraffatta da questo eccesso di bontà, cento e mille affetti insieme vennero ad assalire il mio cuore. L’amore, il rispetto, la riverenza, l’umiltà profondissima, l’annientamento di tutta me stessa. Alla sua divina presenza si prostrò la povera anima mia, genuflessa ai suoi santissimi piedi tutta dolente e compunta, altro non cercava dal suo Dio che il perdono dei suoi gravi peccati e la grazia di amarlo con fedeltà nel tempo e nell’eternità. Ma Dio, dimentico affatto di tutti i miei trascorsi, acceso del suo santo amore, abbracciò il mio spirito e dolcemente lo fece nel suo castissimo seno riposare, mostrando i suoi purissimi affetti verso l’anima mia, non meno, ma assai più che un amoroso padre, che va incontro ad un’amata sua figlia, che abbia fatto, per amor suo, un lungo e penoso viaggio. E chi mai potrà ridire, qual gaudio di paradiso, sperimentò il mio cuore! Oh, come ad un tratto cessarono tutte le mie pene! Un torrente di dolcezza divina, scorreva nel mio spirito, che mi faceva godere un bene inenarrabile. La celeste consolazione fu permanente in me, per molti giorni.

63.10. Ti porterò sulle mie spalle

Il dì 7 marzo 1822, mi trattenevo in orazione molto profonda, quando ad un tratto il mio spirito si trovò alla sponda di un grande lago, le cui acque erano tutte spumacciose e lezze, che facevano orrore al solo mirarle. Io conoscevo bene, che questo grande torrente lo dovevo passare, e non sapevo come dovevo fare. Mi sentivo struggere il cuore, mancandomi la maniera ed il mezzo per fare ciò. Ero per questo tutta mesta e dolente, ricorrevo al mio Dio con fervide preghiere acciò mi aiutasse. Fatta questa preghiera, mi si presentò il grande patriarca san Giuseppe, il quale con voce piacevole, così mi disse: «Figlia, perché tanto ti rattristi? Temi tu di passare quelle acque? Ah, non ti affliggere per questo, perché io sopra le mie spalle ti tragitterò da questa all’altra sponda, altro non devi fare che sostenerti sopra le mie spalle, in questa guisa non patirai naufragio».

Dopo dette queste parole, disparve il grande patriarca, lasciando nel mio cuore un’indicibile consolazione ed una ferma speranza nella sua cordialissima esibizione. Umilmente lo ringraziai, caldamente mi raccomandai alla valevolissima sua protezione, ciò nonostante, sentivo tutto il peso della mia grave tribolazione, trovandomi immersa nelle folte tenebre dell’intelletto, uno smarrimento sentivo nello spirito, che mi rendeva afflitta e mesta, dubitando di annegare in quelle spumacciose acque. Non mi mancava per questo la fiducia nel santo patriarca, ma ne andavo meditando le sue parole. Dicevo fra me stessa: «Mi ha detto «sostieniti sopra le mie spalle che io ti tragitterò da questa all’altra sponda», dunque, io devo da me sostenermi? E come farò mai, io che sono tanto debole e miserabile? E se mi manca la forza di sostenermi, io sarò perduta per colpa mia? Perché sostenersi sopra le altrui spalle, se corri il pericolo di cadere? Dunque io non sono sicura di scampare questo pericolo. E difatti, è così, perché non mi ha detto san Giuseppe che mi avrebbe portato sopra le sue braccia, allora sarei stata sicura, ma mi ha fatto ben intendere che ci vuole la mia cooperazione».

A questa riflessione, piena di timore, mi rivolgevo al mio Dio, e lo pregavo con calde lacrime a darmi aiuto per sostenermi ferma ed immobile sopra le spalle del santo patriarca, per così scampare il grave pericolo che mi sovrastava, di annegare in quel precipitoso torrente. Ogni giorno andava crescendo il mio timore e maggiore si faceva sempre più la mia pena.

63.11. Il timore di perdere il mio Dio

In questo stato di affanni e pene passai dodici giornate, vale a dire dal giorno 7 marzo fino al giorno 19, festa del santo patriarca, nel qual giorno mi trovai con indicibile contento tragittata all’altra sponda di quel funestissimo e pericolosissimo lago. E così mi trovai fuori da questo pericolo, per la quale grazia resi infiniti ringraziamenti al Signore e al mio grande protettore san Giuseppe.Ma non cessarono per questo le pene mie e le mie gravi afflizioni, perché mi trovai sola, raminga, in una solitaria campagna senza veruno che mi additasse il giusto sentiero di quella. Piangevo, pregavo il mio Dio di non abbandonarmi in questa mesta solitudine. «Degnatevi», gli dicevo, «mio amorosissimo Dio, di aver pietà di me, misera peccatrice; mostratemi la strada che mi conduce a voi, io sono del tutto smarrita in questa vostra campagna; mio sommo bene, mio sommo amore, voi lo vedete! Voi lo sapete che io non amo altro che voi, mio Dio. Io vi cerco con tanta ansietà e non vi trovo. Eppur io vi sento in me, nel tempo stesso in cui non vi vedo il cuor mio pur vi possiede, mi pare certo che voi siete con me. Ma questa cognizione era nel mio spirito molto occulta, era momentanea e non durevole, mentre appena l’anima andava per rallegrarsi di stare unita con il suo Dio, più non lo trovava, né lo sentivo in me. In questo tempo mi sentivo proprio struggere d’amore verso di lui, che ben spesso il mio spirito era sopraffatto da un deliquio di santo amore, che mi alienava dai propri sensi, per la passione amorosa e dolorosa insieme, perché ad ogni istante temevo di perdere il mio Dio. Questo è un martirio dell’anima tanto afflittivo che non ci sono termini sufficienti di poterlo spiegare. Nobile è per se stesso questo patire, ma tanto afflittivo che non si può spiegare. L’anima per questo perde ogni impressione sensibile ed umana, perde ogni gusto, ogni sollievo sensibile, ogni premura, ogni umana cura, ma tutto le si rende insipido e senza gusto, tutte le cose del mondo più non conosce, e che più per questa anima mia più non vi fossero, vivendo dimentica affatto di tutto il sensibile, solo le sue premure tutte sono di rintracciare l’amato suo Dio, pensa solo di andare appresso al suo Signore, qual perduto amante.

Mi trattenevo dunque in questa vasta ed amena campagna, ma la sua amenità io non curavo, solo il mio Dio io ricercavo, in questo solo, tutto occupato era il mio cuore, ma il peggio era che in questo soggiorno, ora si faceva notte ed ora giorno; di tratto in tratto era sopraffatto il mio intelletto da folte tenebre e, per conseguenza, perdevo affatto la vista e l’intelligenza di ogni cosa e mi trovavo del tutto smarrita. In questo stato di cose ricorrevo alla fervida preghiera, tramandando dal cuore infuocati sospiri, i quali tutti li inviavo per rintracciare il sommo mio bene, servendomi ancora delle strofe dei salmi del divino ufficio, per così dimostrare a Dio la mia ambascia e la mia grave afflizione. Gemevo, languivo in mezzo a tanta pena, senza però la minima perturbazione, ma cara e grata mi era questa mia pena che non l’avrei cambiata con tutto l’oro del mondo, e né con tutte le sue false consolazioni.

64 – MI INVITÒ ALLE SUE DIVINE NOZZE


64.1. Patire per la vostra gloria


Si trattenne il mio spirito in questa dolorosa situazione dal giorno 19 marzo 1822 fino al giorno 25 del medesimo anno 1822, festa dell’Annunciazione di Maria Vergine Santissima. In questa santa giornata, Dio si degnò trasferire il mio spirito in un ameno giardino di soavità ripieno, dove il mio spirito si ricreò. In questo luogo si degnò Dio di parlare al mio cuore con termini così eloquenti e sublimi, mostrandomi con questi il suo particolare amore. Mi diede ancora a conoscere, per mezzo di scienza infusami, cose molto alte e sublimi, che la mia bassa mente non sa spiegare, né manifestare. Posso solo dire di aver provato un’indicibile consolazione tutta propria di paradiso, che invigorì il mio spirito, abbattuto da tanto patimento sofferto negli anzidetti giorni, come ancora il mio corpo per le pene sofferte. Era sì impallidito e smorto e molto indebolito nelle forze, che alle volte mi pareva restasse estinto. Ancora il mio corpo partecipò di questo divino favore per il quale si rinvigorì nella forza. Ma questo bene fu poco durevole, mentre in questo ameno giardino non si trattenne il mio spirito che per soli tre giorni, nei quali ricevetti dei distinti favori dal mio Dio; ma, per avere trascurato lo scrivere, non posso darne alcuna contezza, né posso farne alcuna dimostrazione.

Passati i tre giorni suddetti, il mio spirito fu chiamato a soffrire altre ambasce, altre afflizioni mentali che non saprei come spiegarle. Queste facevano agonizzare la povera anima e per conseguenza ne pativa anche il corpo, ma questo patimento non era per me gravoso, ma dolce e soave, benché ne sentissi tutto il peso di queste mentali afflizioni. Mio appassionato Gesù, voi sapete per prova cosa sia mortalmente patire, voi ne foste il maestro, io sono la miserabile peccatrice vostra scolara indegnissima, voi insegnatemi a patire questa sorta di pene, ditemi, o mio amore, qual fosse la pena tale che voi soffriste nell’orto di Getsemani, ditemi voi qual fu la vostra pena nelle vostre agonie mortali, quando dall’albero della croce diceste le misteriose parole, da quale afflizione era sopraffatto il vostro santissimo spirito. Mio afflitto Gesù, vi prego, per questi acerbissimi interni patimenti che martirizzavano la vostra mente divina, ad aver compassione di me misera peccatrice, con l’insegnarmi questo per me nuovo modo di patire, ad onore e gloria vostra. Degnatevi, Dio mio, di non abbandonarmi in questo nuovo e doloroso conflitto. Così esclamavo, così pregavo in mezzo a tanti affanni e martiri.

64.2. Non la chiamare nube importuna


Così passai il resto della quaresima, stette il mio spirito in questa afflizione mentale per lo spazio di dieci giorni, vale a dire dal giorno 18, giovedì di passione, fino alla domenica di Resurrezione che fu il 7 di aprile 1822.

In questa giornata di gaudio e di letizia, ricevetti dal mio Dio un distinto favore, che compensò molto bene tutto quello che avevo patito e sofferto negli scorsi giorni. Oh! infinita bontà di Dio, che non si fa vincere di cortesia, ma con soprabbondanza di perfetta carità viene a compensare il mio patire, L’amor suo verso di me viepiù mi innamora e mi obbliga di fare di tutta me stessa un perpetuo sacrificio alla sua maggior gloria, abbandonandomi in tutto e per tutto al suo beneplacito.

Alla meglio che potrò e saprò, descriverò il fatto che mi seguì. Tutto ad un tratto Dio si degnò rapire il mio spirito in una maniera molto particolare e distinta, mi trovai in un istante tutta assorta in Dio. Illustrate furono in un momento le potenze dell’anima mia da un raggio di luce inaccessibile, in un istante mi trovai vicino a Dio. Oh, come si sprofondò il mio spirito nel proprio suo nulla, quanto mai si umiliò davanti al suo Dio. In questo profondo abbassamento, in cui mi ero sprofondata ed annientata per vedermi tanto vicina all’immensità di Dio, mi sentivo rapire il cuore di dolcezza di paradiso, un torrente di gaudio inondava il mio cuore, che mi faceva languire d’amore alla vista dell’oggetto amato. Ma nel tempo in cui godevo di questo grande bene, una candida nube mi privò di questa amabilissima vista. Questa candida nube venne tutta a circondare il mio spirito, in una maniera per la quale mi trovai come dentro questa medesima nube senza più vedere, né sentire cosa alcuna, priva affatto di quella bella vista che pocanzi godevo, più non vedevo quella luce suprema, nella quale io scorgevo il mio amorosissimo Dio, «Oh nube importuna, – dicevo perché dentro di me mi racchiudi? – perché mi privi dell’amabile vista del sommo mio bene?».

Ma intanto, da soave riposo fu sopraffatto il mio spirito e nell’intimo del mio cuore intanto portavo scolpita l’immagine del mio signor Gesù Cristo, al quale consacravo tutta me stessa, riposando nel suo divino beneplacito, e con amore santo e puro tutta a lui mi donavo. Nel tempo in cui stavo in questo dolce riposo, il mio Dio la nobile sua voce mi fece sentir: «Figlia», mi disse, «importuna la nube, non la chiamare, ma chiamala apportatrice dei miei più alti favori. E non ti avvedi che io, quale artefice geloso, dei miei lavori, mi servo di questa per occultare il nobile lavoro che sto facendo in te? questa serve a te da custodia e a me serve per introdurti nei più reconditi luoghi la dove io mi compiaccio di mostrare l’eccesso del mio divino amore».

A queste divine parole, il povero mio spirito si umiliò profondamente. Confessando la mia ignoranza avanti al mio Dio e umilmente gli domandai perdono piangevo ancora di tenerezza e di gratitudine, vedendomi piena di tanti demeriti e nonostante tanto favorita da Dio. A questo riflesso si accese una fiamma di carità tanto grande nel mio cuore, che non la potevo contenere, che mi faceva amare Dio con tanta purità e semplicità e vivo affetto, che non lo posso spiegare, provando nell’anima un bene vero di paradiso, che mi faceva languire di santo amore.

64.3. Un dolce martirio


Passai le tre feste della Santa Pasqua in un continuo rapimento di spirito, mentre Dio, per sua bontà, nella santa Comunione, tornava ad illustrare con i suoi splendidi raggi, la detta nube ed il mio spirito si trovava non solo illuminato, ma ricolmo di santi affetti verso Dio, e Dio si degnava favorirmi dei suoi più teneri e casti abbracciamenti; la povera anima mia intanto si struggeva, si liquefaceva, si stemperava d’amore al dolce calore di quel sole divino, che tutta intera possedeva e penetrava l’anima mia, questo bene fu in me poco durevole, perché passate le tre feste della Santa Pasqua, il giorno 10 di aprile, improvvisamente mancò il bel sole di giustizia di illuminare la detta nube, per conseguenza il mio spirito restò affatto privo di luce, e mi trovai coperta di tante tenebre senza sapere (se) dove ero, se dove mi trovavo.

La pace non mancava al mio cuore, ma tutta rassegnata alla volontà del mio Dio, che avesse permesso di farmi passare dalla luce alle tenebre in questa dolorosa situazione lodavo e benedicevo Dio, ma nel mio cuore provavo un dolce martirio, che tutta mi consumava in santi affetti, desiderando di rintracciare quella luce che avevo perduta, qual pena sia passare dalla luce alle tenebre, ognuno lo può immaginare, ma questa luce da me perduta non era sensibile, ma divina, e per conseguenza, molto maggiore e senza paragone era la mia pena, che io non posso di certo spiegarlo; solo a Dio è noto certa sorta di patimenti, che noi non possiamo spiegare. Nove giorni mi trovai in queste folte tenebre, cioè dal giorno 10 aprile 1822 fino al giorno 19 del detto anno.

64.4. Entra e riposa nel casto mio cuore


Il di 19 aprile 1822, primo giorno della novena del patrocinio del gran patriarca san Giuseppe, dopo la santa Comunione, per mezzo della detta nube, dove ancora dimora il mio spirito, per mezzo di un raggio divino, fu ad un tratto tutta illuminata la candida nube e sollevata al cielo da benefico vento e da una aurea celestiale di paradiso. Venne sospinta e portata fino al cielo empireo, dolcemente era questa nube da questo benefico venticello innalzata, e da luce inaccessibile era invitata e necessitata a viepiù inoltrarsi negli ampi spazi della divinità.

La nube intanto, così chiamata e necessitata, negli ampi spazi si ritrovò, in quell’istante il mio spirito ebrio di santo amore, si ritrovò; che cosa bella io vidi mai! Giammai veduta da me, non posso esprimere, non posso dire le cose magnifiche che io vidi dell’infinita beltà di Dio non posso esprimere, non posso dire non vidi mai cose così belle e mai provai uguale dolcezza, che mi stemperava il cuore di santo amore.

L’anima intanto unita a Dio lasciò il mio corpo del tutto privo di forza e di calore, per la forte impressione della divina comunicazione, che credevo proprio di morire.

L’amore di Dio io non potevo più contenere, la piena intanto dei santi affetti non potevo più comportar. Mi chiama e richiama il diletto Signore, Risponde l’anima: «Mio Dio, mio amore, confusa io sono dall’alta tua bontà». Il dolce invito per umiltà volevo ricusare.

Ma torna a chiamarmi l’amante Signore, Oh Dio, non mi regge in petto il cuore, di ricusar il suo invito: «Mio Dio, dimmi dove vuol che io venga? Ebria d’amore, il tuo invito accetto di tutto cuore». Così mi rispose l’amante Signore, senza parole, ma l’anima intende le sue espressioni, per intelligenza e per amore. Così mi chiamò: «Amata colomba, gradita mia sposa, Vieni al mio talamo. Entra e riposa nel casto mio cuore».

Oh dolce speme, oh dolce unione, oh santi affetti ditelo voi che io non reggo a tanto amore! Oh unione perfetta di due cuori insieme, in quel momento in un solo cuore il santo amore li trasformò.

Io non sapevo più se ero in me stessa, restai sopraffatta dallo stupore lo non sapevo più se il cielo, o la terra, fosse oramai la mia abitazione, Sentivo solo trasportato il mio cuore da puro e santo amore, che per ventiquattro ore, non fui più capace della naturale sensazione, benché facessi tutto il possibile per occultare quanto era passato nel mio spirito. Sono passati più di tre giorni ora che scrivo, e ancora nei propri sensi non posso del tutto rinvenire, ma un dolce sonno mi occupa il cuore.

L’amore, l’amore mi fa dormir ma l’anima intanto non dorme, sta desta, e tutta unita al suo Signor. Altro non cerca, altro non brama che di stare unita alla sua volontà, nauseando ogni desiderio ed ogni pensiero di questo mondo mortale. Lo sguardo in Dio fisso ritiene per esser pronta ad ogni suo cenno di puntualmente sempre obbedir.

Passati già sono non solo i tre giorni, ma altri sei giorni e ancora nei sensi non posso del tutto ritornar, un dolce sonno mi tiene occupata, una pace interna che mi rapisce 1’anima e il cuore. L’amore, l’amore mi fa languire, io più non reggo, mi par di morire, mio Dio, aiutami il tuo santo amore a sostenerlo non reggo a tanto amore mio Dio. Io chi sono? Una vilissima creatura tanto amata da te, oh qual confusione è questa per me! Io mi inabisso davanti la divina tua maestà, solo il tuo onore e la tua gloria mi protesto di solo amar.

Nella santa Comunione si aumentava ogni giorno più questo riposo, godendo un bene molto copioso, tutto amoroso, ma senza vedere, senza sapere, solo sentendo la voce del mio Signore che intimamente mi parlava così, con queste ed altre simili espressioni, che io non so rintracciare: «L’amata sen dorme, deh non la svegliate e non la turbate, quel sonno di amor, giace, e riposa in pace di amore L’amante suo cuore unito con me».

A queste espressioni si umiliava e annientava il mio cuore ebrio d’amore, proseguiva a dormire. Questo riposo, questo raccoglimento così intimo, durò nel mio spirito quindici giorni, cioè dal dì 19 aprile fino al giorno 5 maggio 1822. Il giorno 6 detto, tornai nella naturale sensazione, e mi destai da questo dolce e fruttuoso riposo.

Dal dì 6 maggio fino all’l di giugno 1822 il mio spirito sostenne molte tribolazioni e angustie di spirito, desolazioni, smarrimenti afflittivissimi, aridità, desolazione in maniera che non sapeva fare orazione, sicché passai il mese di maggio in un vero purgatorio, mentre le mie orazioni e operazioni altro non erano che distrazioni e pensieri che mi affliggevamo il cuore.

64.5. Simboli misteriosi


Il dì 1 giugno 1822, giorno della Santissima Trinità, dopo la santa Comunione, si concentrò tutto ad un tratto il mio spirito, in questo tempo mi parve di trovarmi in un luogo quanto mai bello, dove il mio spirito fu rivestito dalle sante virtù morali e teologali, venne purificato da un’ardente carità, si serviva intanto lo spirito di queste sante virtù per sollevarsi verso il suo Dio, con atti di profonda umiltà, di rispetto, di venerazione, di stima, di adorazione ed altri atti interni che somministrati mi venivano dalla stessa grazia di Dio, che così andava disponendo la povera anima mia purificandola da ogni imperfezione. Da questo luogo passò il mio spirito in altro luogo più alto e più sublime, dove all’anima le furono messi tre misteriosi segnali: un manipolo, di grande valore, un ringolo di prezzo inestimabile la cui bellezza non si può descrivere, un velo bianco molto risplendente che dalla testa mi copriva tutta fino ai piedi, il sinistro braccio mi fu armato di forte scudo.

Tralascio per un momento il racconto, e faccio la spiegazione di questi misteriosi segnali, per obbedienza del mio padre spirituale.

Il manipolo significa la virtù della fede, con la quale l’anima viene a fare tutte le sue operazioni; lo scudo significa la virtù della speranza, con la quale l’anima si difende, e si rende forte ed invincibile, tutta affidata nei meriti infiniti del Redentore divino, suo fedelissimo sposo. Il velo significa la virtù della carità, che copre l’anima dal capo fino ai piedi, per così dimostrare che tutto fa in virtù dell’amore il quale la rende bella e gradevole, avanti al divino cospetto. Il cingolo significa la virtù della castità, che le cinge i lombi e la rende pura e casta. I due fiocchi del medesimo cingolo significano la virtù della santa umiltà, queste due virtù sono per se stesse tanto congiunte ed immediate; che l’una sta congiunta all’altra, come il cingolo è unito ai due fiocchi, i quali sono il suo ricco ornamento. I due fiocchi vengono a denotare i due alti pregi di questa santa virtù.

64.6. Una stessa cosa con Dio


Proseguo il racconto. Dopo che Dio, per pura sua bontà, mi aveva così adornata, si degnò compiacersi dell’anima mia, nella sua compiacenza chiamò l’anima a sé e le donò un’agilità prodigiosa che mi rese in quell’istante capace di sollevarmi fino al cielo. Lo spirito penetrava con tanta sottigliezza, e agilità che liberamente andava al suo Dio, che fortemente la chiamava, e intimamente la toccava, con la divina sua grazia, così la sollevava e la rapiva e l’invitava alle sue divine nozze. Cosa mai dirò di questo sublime favore?

Non ho al certo termini di poterlo spiegare, per essere io ignorantissima, non ho maniera di poterlo manifestare. Con molta maggior forza tirava e sollevava Dio l’anima mia, di quello che un gran masso di calamita tiri ed unisca a sé un leggero ferro, ma l’anima mia unita al suo Dio perdeva affatto la sua proprietà, e per mezzo di trasformazione diveniva una stessa cosa con il suo Dio.

Dopo aver goduto di questo bene sommo, inarrabile ed incomprensibile, che non si può a qualunque bene paragonare, l’anima mia si ritrovò tutta raggiante di luce, e in luogo di trovarsi gli anzidetti ornamenti, si trovò che Dio l’aveva rivestita di un abito molto più bello, e gli aveva donati altri tre misteriosi segnali.

Questi erano uno scettro, che mi trovai nella sinistra mano, di una bellezza incomprensibile, nella destra mano mi trovai un bastone di comando, che io non so descrivere né paragonarlo, per essere cosa misteriosa e divina, una risplendente corona che cingeva la mia fronte; mi spiego: questi adornamenti non li vedevo nel mio corpo; ma bensì ne vedevo adorna l’anima mia, che in sembianza di leggiadra giovinetta la vedevo.

Nel vedere l’anima mia così bella e così adorna, piena di stupore mi rivolsi al mio Dio e con profonda umiltà così gli dissi: «Mio amorosissimo Dio, questi adornamenti non convengono ad una peccatrice che sono io. Io sono piena di rossore e di confusione, al riflesso dell’enorme mia ingratitudine ed iniquità; punitemi piuttosto, Dio mio, in luogo di favorirmi con tante grazie, perché queste vostre grazie, altamente mi confondono. Che voi Dio mio non lo vedete? Che voi non lo sapete che io altro non faccio che abusare delle vostre grazie, altro non faccio che oscurare la vostra gloria con tanta mia ingratitudine»? A questa verace riflessione, detti in un dirottissimo pianto, sprofondandomi nel proprio mio nulla. Ma l’infinita bontà di Dio, non volle vedermi così afflitta e addolorata in una giornata così solenne, che si era degnato di favorirmi con grazia così grande e particolare, prese dunque a consolarmi con dolci parole, e mi fece intendere quanto grande sia l’amore che porta all’anima mia, e che l’amor suo oltrepassa la mia viltà e miseria e mi rende degna dei suoi divini favori, mi spiego, ancora, quali fossero quei tre doni che aveva fatti all’anima mia, cioè lo scettro, il bastone, la corona.

Questa spiegazione la passo sotto silenzio, perché mi pare sarà molto più conveniente di farla vostra paternità reverendissima, per così risparmiarmi la confusione di manifestare i tratti amorosi di un Dio amante di me, povera e miserabile sua creatura, che con tutta ingenuità mi confesso per la più vile creatura che abbia la terra essendo io peggiore assai di tutti i demoni dell’infermo per i miei gravissimi trascorsi, come sono ben noti a vostra paternità reverendissima

La prego dunque di non obbligarmi di fare di questi misteriosi segnali la descrizione, e questo lo domando per carità, perché troppo confondono e umiliano il povero mio spirito.

Questa comunicazione mi tenne assorto lo spirito per molti giorni, e il mio corpo restò tanto estenuato nelle forze che, appena potevo reggermi in piedi, mancandomi perfino la voce, e poca o niente cognizione avevo delle cose sensibili, e di tratto in tratto ero alienata dai sensi. In questa situazione stetti per lo spazio di dieci giorni, che mi ridussi pallida e smorta che pareva avessi sofferto una grave malattia.

Tanto era dolcemente chiamato il mio spirito da Dio, che il mio corpo pareva incadaverito per i continui languori d’amore che mi comunicava lo Spirito divino.

65 – LE CHIAVI DEL PURGATORIO


Passati i sopraddetti dieci giorni, vale a dire dal dì 2 giugno 1822 fino all’11 detto, passò il mio spirito a soffrire vari patimenti, particolarmente per essere l’anima chiamata da particolare cognizione dei propri peccati e di basso concetto di se stessa, conoscendo al vivo la mia propria viltà e miseria mi disfacevo in lacrime amarissime di dolore di avere tanto offeso Dio; questa cognizione mi rendeva odiosa a me stessa mi aborriva, mi vilipendiava, mi umiliava, mi confondeva, conoscendo tanto male in me che mi affannava, mi occupava il cuore in guisa che mi pareva di morire; questa cognizione, questo patimento però non mi faceva perdere la santa confidenza in Dio, ciò nonostante provavo un dolore, un’afflizione che mi faceva proprio agonizzare, alle volte avevo bisogno di distrarmi da questo affannoso pensiero, perché mi pareva di morire.

65.1. Insegnamenti di san Giovanni Battista


In questa situazione si trattenne il mio spirito 11 giorni, vale a dire dal giorno 13 fino al dì 24 giugno 1822, festa del grande precursore santo Giovanni Battista, mio grande protettore ed avvocato.

Nella santa Comunione si concentrò tutto ad un tratto il mio spirito, in questo tempo mi parve trovarmi in una vasta e deliziosa campagna, dove vedevo San Giovanni Battista che mi invitava a salire un alto monte e mi diceva che non mi fossi fermata a godere dell’amenità di quella fiorita campagna, ma che mi fossi compiaciuta di salire l’alpestro monte, che lui mi avrebbe in questo cammino scortata e guidata dalle parole del Santo, l’anima mia lasciò l’amena pianura e obbediente intraprese a salire l’altissimo monte alpestro, andando appresso al Santo che si era fatto mio condottiero, in questo arduo cammino.

Non lasciava il Santo in questo faticoso cammino di dare all’anima santi insegnamenti riguardanti le celesti dottrine facendomi conoscere le vane apparenze dei beni transitori di questo basso mondo, e mi faceva comprendere il pregio grande dei beni eterni.

Alle sue parole si infiammava il mio cuore di carità verso Dio, in guisa tale, che mi mancano i termini di poter spiegare i mirabili effetti che provavo in me di grazia sì grande; umili grazie rendevo al Santo per avermi istruita ed insieme riempita di carità. I suoi santi insegnamenti io non so ridire, mentre per via d’intelligenza, io comprendevo il suo misterioso parlare, mi fece conoscere quanto ancora mi devo umiliare per avere ricevuti da Dio tanti favori.

Quando fui alla sommità del monte, mi fece vedere quanto l’anima mia per virtù di Dio, si trova distante dalla massa del mondo e quanto si trova vicina a Dio. «Mira», mi disse il Santo, «deh, mira quanto è grande l’infinita bontà di Dio verso di te. Vedi quanto lungi sei da quel vile e basso mondo che contiene tanti viventi, che altro non cercano che le cose vilissime della terra, Dio fu prodigo verso di te. Approfittati della sua particolare grazia, corrispondi fedele all’infinito suo amore, non vedi a quale alto grado ti sublimò?».

Alle sue parole l’anima mia profondamente si umiliò, e restò come estatica fuori di se stessa. Vedendo il mondo che io abito, tanto lontano da me, lo vedevo migliaia di miglia lontano e come sotto i miei piedi, mentre il monte dove io mi trovavo era altissimo, quasi vicino al cielo. Terminato il santo colloquio, mi additò una celletta che era sopra quel monte, dico celletta perché mi manca il termine proprio, e non saprei a qual cosa paragonarla per essere cosa misteriosa e divina. Questo era un luogo di sicurezza per l’anima, dove i nemici, né le proprie passioni mi potevano molestare, questa era tutta di pietra lavorata in maniera che si rendeva impenetrabile. Vi era una piccola porticella, il Santo prima di farmi entrare in essa, mi fece vedere molti angeli che al di fuori la custodivano, poi mi fece entrare nella suddetta e di propria mano chiuse a chiave la porta, facendomi così intendere che non è in mia libertà il sortire da essa.

Nell’entrare in quella beata solitudine intesi ricrearmi lo spirito da dolcezza, e da soavità celestiale e divina, che mi fece ardere ad un tratto il cuore di puro e santo amore. La celletta per essere al di sopra tutta aperta e senza tetto, l’anima mia godeva i benefici influssi del cielo, mi spiego: godeva in qualche maniera la vicinanza di Dio e dei beni celestiali, i quali beni tenevano assorto il mio spirito, in guisa che, per lo spazio di tre giorni non fui capace di cosa alcuna sensibile, mi regolavo per mezzo della medesima grazia di Dio di operare per abito senza la riflessione sensibile, sebbene in questi casi me la passo chiusa nel mio oratorio privato, sortendo da esso, per la pura necessità, servendomi del mezzo termine di sentirmi incomodata.

65.2. Mi pareva di essere la creatura peggiore


Passati i suddetti tre giorni all’anima mia le fu comunicato un particolar lume di propria cognizione e di basso concetto di se stessa, unito ad una contrizione dei propri peccati, caricandomi ancora dei peccati altrui, forse commessi per colpa mia; trovandomi in questa dolorosa situazione, altro non facevo che piangere amaramente chiedendo perdono al mio Dio, che conoscevo di averlo tanto offeso e oltraggiato. Ammirando l’infinita sua bontà, che si fosse degnato di non precipitarmi all’inferno, come meritano le gravi mie colpe, ma quello che più mi affliggeva e rendeva implacabile il mio dolore era nell’osservare d’essere tanto beneficata dal Signore. Dopo tanta enorme gratitudine, i benefici di Dio, le sue misericordie queste erano quelle che facevano maggiore il dolore mio, queste sì che mi affliggevano e mi contristavano a un segno tale, che mi pareva che non vi fosse creatura più vile di me, peggiore di me, e che la mia ingratitudine fosse peggiore assai di tutti i demoni dell’inferno.

Lascio immaginare a vostra paternità reverendissima a quale eccesso arrivò il mio dolore; questa angustia, questa pena, può chiamarsi un cumulo evidente di pene, che non possono manifestarsi, questa pena però non toglieva all’anima mia la santa fiducia in Dio, solo riempiva di amarezza il mio cuore e così mi struggeva la contrizione, mi confondevo, mi umiliavo, odiavo me stessa, per vedermi tanto ingrata al mio amato Creatore e Redentore. In questa dolorosa situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di tre giorni.

65.3. Voglio che quest’anima vada in paradiso


Il dì 28 giugno 1822, vigilia dei gloriosi apostoli santi Pietro e Paolo, terzo giorno della suddetta mia afflizione, mi portai a fare la santa Comunione in San Carlo alle Quattro Fontane, dove vidi, dopo essermi comunicata, una lapide nuova, poco distante da dove mi ero posta in ginocchio, senza mia volontà, gli occhi in quella lapide mi si fermavano, più volevo ritirarli, viepiù la vista sulla lapide si fermava, fui dunque obbligata a leggere contro la mia volontà, e leggo: qui riposano le ceneri di Carolina Alvarez. Pensai che questa fosse una donna anziana, di vecchia età, che avesse in vita frequentato la suddetta chiesa, e per sua devozione lì stessa sepolta; formato questo pensiero, così sento dirmi con voce mesta e dolente: «Non sono vecchia come tu credi; ma sappi che sono di giovanile età, sovvengati chi io sono pure in vita mi conoscesti! leggi con attenzione che mi rammenterai». Torno a leggere con riflessione la lapide e ben conobbi esser questa la figlia del celebre scultore Alvarez che cinque anni or sono abitava incontro alla mia casa e per conseguenza questa figliola la conoscevo, sapevo ancora che era passata all’altra vita l’anno 1821, nella sua giovanile età di anni 16 o 17. Supponendo che già stesse in paradiso, così io le dissi: «Anima benedetta, che già sei in cielo, prega per me, misera peccatrice». Così mi rispose la suddetta: «Sappi che ancora sono dalla giustizia di Dio ritenuta in purgatorio, da te aspetto il suffragio e la liberazione da questo orrido carcere! La tua preghiera molto mi può giovare, impégnati per me presso l’altissimo Dio, perché io possa andarlo presto a godere per tutta l’interminabile eternità, se mi ottieni questa grazia io ti prometto di ottener grazia da Dio per Anna, tua figlia».

A queste parole intesi tutto commuovermi lo spirito, e piangendo così le risposi: «E che cosa posso farti io, anima benedetta, che sono tanto miserabile e peccatrice, che devo confessare, a mia confusione, che sono la creatura più vile della terra?». Proseguendo a piangere, non sapevo cosa dovevo fare per liberare questa anima, trovandomi tanto sprofondata nel mio proprio nulla; pensai di parlare, quella mattina medesima, al mio padre spirituale, sicché lo feci chiamare e tornai per la seconda volta in confessionario, e gli raccontai quanto mi era accaduto.

Il lodato padre, vedendomi piangere, e sentendo da me che non sapevo come fare per aiutare questa anima con voce grave così mi disse: «Fatevi coraggio che se voi conoscete di essere una peccatrice, non vi dovete smarrire per questo, avete i meriti di Gesù Cristo, in questi dovete avere tutta la fiducia. Presentatevi all’eterno Padre, chiedetegli questa grazia in nome del suo santissimo Figliolo, e per gli infiniti suoi meriti, e non abbiate paura che non solo questa anima potete liberare dal purgatorio, ma anche mille, se vuole, e andate che siete una sciocca. Io» mi disse, «vi comando che preghiate per questa anima che domani voglio che se ne vada in paradiso. Veramente siete una sciocca che non vi sapete approfittare della grazia che vi fa il Signore, ricordatevi che più volte si è degnato di consegnarvi le chiavi del purgatorio, dite dunque a Gesù Cristo che ve le ridia per scarcerare questa anima, ditegli che questo è il comando del vostro confessore, ditegli che, se gli piace vi faccia fare questa obbedienza, chiedetelo a Dio per la sua infinita carità, vedrete che non vi negherà la grazia».

Alle parole del mio padre ad altro non pensai che di puntualmente obbedirlo, col fare quanto mi aveva comandato. In quel giorno mi diedi tutto il carico di suffragare questa anima, visitando la Via Crucis ed altre preghiere e mortificazioni; pregai ancora il principe degli apostoli per essere la sua vigilia. La mattina, festa del suddetto principe san Pietro, nella santa Comunione, la quale feci in suffragio della detta anima, si concentrò il mio spirito tutto in Dio, in questo tempo così mi intesi parlare dalla suddetta, ma senza vederla: «Ti rendo infinite grazie tra poco me ne vado al paradiso, sarò sempre memore della tua carità, torno a prometterti di ottenere da Dio grazia per Anna, tua figlia, non dimenticherò i miei genitori, ai quali spero ottenere la misericordia. Pregherò ancora per il tuo padre spirituale, al quale devo la sollecita mia liberazione dal Purgatorio, per il comando che ti ha imposto».

Circa un’ora e mezza dopo viepiù si concentrò il mio spirito, e mi parve trovarmi in quell’anzidetta celletta, collocata sopra quell’altissimo monte, come già dissi. Da questa altura vidi la bella anima di Carolina Alvarez che se ne volava al cielo in mezzo ad un bello splendore di chiarissima luce; ma quello che osservai con mio stupore fu di vedere che portava un bello scapolare trinitario, tutto risplendente, con la croce rossa e turchina, lunga e larga quanto era lo scapolare. Domandai come le convenisse quel nobile segnale, mi fu risposto per essersi Dio degnato di annoverare questa anima sotto il glorioso stendardo dell’ordine Trinitario per avere il di lei padre consegnato il suo cadavere ai Padri Trinitari con molto affetto di devozione e per altri motivi che per prudenza si tacciono. Fu il mio spirito invitato a ringraziare la Santissima Trinità, per avergli compartito questo favore; finalmente si sollevò al cielo quella benedetta anima così risplendente di gloria, così ne perdetti la vista, restando nel mio cuore un giubilo di Paradiso, che mi durò un’intera giornata. Questa vista sollevò il mio spirito a contemplare l’infinita bontà di Dio e le sue infinite perfezioni, l’infinito suo amore verso di noi, poveri figli di Adamo. Si internò tanto il mio spirito in questi sentimenti, che per tre giorni continui mi tennero fuori dai propri sensi, perché ogni giorno più si accresceva in me la cognizione delle perfezioni di Dio, che l’anima fu tanto penetrata dal santo amore di Dio, che credevo di perdere la vita.

Dio mi dava tanta attività e forza d’amore, che per mezzo della sua divina grazia tanto l’anima si inoltrò, che arrivò a lottare con il santo amore di Dio.

Oh, chi sapesse spiegare questo fatto, potrebbe arrivare in qualche maniera a manifestare quanto mai sia grande l’amore che Dio porta a noi miseri mortali! Ma io sono molto ignorante, e per conseguenza insufficiente affatto di poterlo spiegare, perché mi mancano i giusti termini di poterlo manifestare, ma la povera anima mia ne prova in sé i buoni effetti, di queste divine, scienze che le vengono dettate dalla divina sapienza, per le quali viene l’anima a fare certe operazioni soprannaturali e quasi divine, per la partecipazione che Dio fa di sé all’anima. Queste operazioni sono per me del tutto nuove, per essere digiuna affatto di queste celesti dottrine.

65.4. Sopraffatta dallo Spirito del Signore


Questo divino favore mi tenne assorta per tre giorni, vale a dire dal giorno 30 giugno fino al 3 luglio 1822, volevo occultare i buoni effetti che cagionò nell’anima mia questo favore, lasciando di copiare dal giornale quanto sarò per dire, che a bella posta avevo tralasciato di trascrivere, ma per comando espresso del mio padre spirituale, torno a riprendere il filo del mio racconto e lo termino per obbedire.

Sopraffatta l’anima dallo Spirito del Signore, si lascia guidare dove esso vuole, abbandonandosi tutta al suo divino beneplacito, sicché lo Spirito del Signore la conduce, la guida, l’innalza, la fa penetrare, l’ammaestra, la fa amare, la fa umiliare, la fa inabissare nel proprio suo nulla; così in queste occasioni l’anima mia viene ammaestrata e penetrata dal santo amore, ma in questa divina scuola, prima si pratica il bene, e poi se ne ha la cognizione, in maniera che prima ne godo i buoni effetti e poi ne ho la cognizione.

Queste illustrazioni seguono in me, senza prevenzione, senza meditazione, in guisa tale che io non so mai né come principiano né come finiscono, né come questi favori vadano a terminare; non sono che spettatrice di quanto va seguendo nel mio spirito, godendone i mirabili effetti, in anticipazione della cognizione.

Questi distinti favori sono, in vero, molto disdicevoli in me, che sono piena di miserie e peccati, e non possiedo l’ombra della virtù, io veramente ne resto stupefatta e piena di rossore, nel vedere Dio che tanto mi favorisce, e mi ama, io non so a che attribuirlo, stolta che sono, vado dicendo fra me stessa: questi sono i frutti del merito infinito di Gesù Cristo. Ah Gesù mio, riprendo vigore, e mi rallegro in voi, mio sommo bene, ma torno a guardare me stessa, e mi confondo. Vorrei corrispondere a tanto amore, ma confesso che non lo so fare, questa mia cattiva corrispondenza è il mio continuo martirio, ah Gesù mio nascondetemi nella piaga amorosa del vostro santissimo costato.

Con queste ed altre espressioni l’anima mia si riposava dolcemente in Dio, affidata nei suoi meriti, godevo una pace di paradiso. Terminati i suddetti tre giorni, improvvisamente si cambiò la luce in tenebre, e il povero mio spirito se ne restò pacificamente in mezzo a tanta oscurità, in quelle dense tenebre, volevo sollevare il mio cuore a Dio, e non potevo, perché mi mancava l’intelligenza e la cognizione; cercavo il mio Dio e non lo trovavo, qual pena sia mai questa di passare dalla luce chiarissima alle più folte tenebre, non è in vero possibile il poterlo manifestare, mentre l’anima teme, in questo stato, di offendere il suo Dio.

66 – PADRE AMANTE E DIO DI MAESTÀ INFINITA


In questa afflittiva situazione si trattenne il mio spirito per lo spazio di otto giorni, vale a dire dal 4 fino all’11 del detto mese di luglio 1822. La mattina del dì 13 nella santa Comunione, per mezzo di un raggio di luce, Dio per sua bontà si fece ritrovare dalla povera anima mia, e come potrò io spiegare i santi affetti dell’anima verso il suo Dio? Questa si trattenne qualche tempo con il suo Dio, quale affettuosa fanciulla, che ritrova il caro padre suo, a braccia aperte gli andò incontro, e con molte lacrime di tenerezza e di amore si prostrò genuflessa ai suoi piedi santissimi, ringraziandolo che si era fatto ritrovare, lo adorai quale Dio di maestà, lo venerai qual padre amante, con lui sfogai gli amorosi affetti del mio cuore, mi trattenevo con lui qual tenera figlia che si compiace nel caro padre suo, e il mio Dio con me si tratteneva con tanto trasporto d’amore, che io non lo posso spiegare; passò dunque l’anima mia in santi colloqui con il caro padre suo, questo si faceva con una purità e semplicità di spirito, che io non lo saprei spiegare.

Passai poi tutta la giornata in santo raccoglimento, la sera prima di andare a riposare mi trattenevo nel mio oratorio, in orazioni, secondo il mio solito, intesi ad un tratto intimamente chiamarmi dal mio Dio, in un modo molto particolare, che io non so spiegare, va l’anima rapidamente a questo tocco interno di Dio, che la obbligò, che la necessitò ad andare dove lui la chiamava; restò intanto il mio spirito estatico, e non sapeva il perché, solo sapeva di stare con il suo Dio.

Molto volentieri sarei restata in orazione tutta la notte, ma non avendo il permesso dal mio padre spirituale non volli arbitrarmi di restare tutta la notte, come ancora per avere le forze molto deboli. Dopo essermi un poco trattenuta, andai a riposare, senza però perdere la divina impressione, io non so dire se il mio riposo naturale, sonno potesse chiamarsi, mentre riposava il corpo, ma stava desto il mio cuore e nell’intimo dell’anima godevo un bene molto particolare.

La mattina mi destai, e non sapevo se in questo mondo ancora mi trovavo, tanto era grande il raccoglimento interno e la pace del cuore, che ancora conservavo. L’amore non mi faceva capire dove mi trovavo, se dentro o fuori dal corpo fosse ancora il mio spirito, procuravo di scuotermi e di destarmi, per quanto potevo, ma il mio spirito era tutto occupato nel rendere umili grazie al suo Dio; ma io non sapevo il perché.

In questo tempo intesi una melodia di armoniche voci, che più che mai sopivano il mio cuore, così sentivo cantare da voci dolci e amabili, ma io il giusto senso non sapevo interpretare.

Ecco le loro parole: Os iusti meditabitur sapientiam et lingua eius loquetur iudicium, lex Dei eius in corde ipsius: et non supplantabuntur gressus eius.

Da questi armonici canti mi avvidi di avere, in quella santa notte, ricevuto grazie da Dio, io sapevo di avere goduto un grande bene nell’anima, ma non sapevo qual fosse la grazia che mi aveva compartita il mio Dio.

66.1. Prese particolare possesso dell’anima mia


La mattina, vale a dire il giorno 14 luglio 1822, nella santa Comunione, il Signore mi manifestò la grazia, il favore che mi aveva compartito ed era di avere preso un particolare possesso dell’anima mia. Ma siccome io sono in queste divine scienze ignorantissima, in luogo di consolarmi, non poco mi rattristai, volgendomi piena di lacrime a Gesù Cristo, che stringevo affettuosamente nel mio petto, per averlo ricevuto nella santissima Comunione, così gli dissi: «Ah Gesù mio, io non capisco come va questa cosa, io fino dai primi momenti che mi donai tutta a voi, per mezzo della vostra santa grazia, vi donai tutta me stessa e vi feci assoluto padrone dell’anima mia, vi donai la mia volontà, la mia libertà, il mio arbitrio e tutto quanto sono, nell’anima e nel corpo; e questa offerta, sono ormai più di venti anni che io l’ho fatta di tutto cuore, come dunque mi dite adesso che avete preso particolare possesso dell’anima mia? Gesù mio, che non ne siete stato finora il padrone? Questa cosa veramente mi affligge, ditemi, Gesù mio, per carità, non mi avete voi sempre posseduta? Eppure posso dire che in venti e più anni non è passato giorno che io questa offerta non l’abbia ratificata, mediante la vostra santa grazia».

Piangevo e mi affliggevo non poco, per non distinguere il giusto senso della grazia ricevuta; ma Gesù Cristo non volle vedermi così afflitta, prese a consolarmi e mi fece intendere che sempre mi aveva posseduta, ma che in quella notte si era, per sua bontà, compiaciuto in modo speciale nell’anima mia, per via d’intelligenza mi diede a conoscere cosa significava questo particolare e speciale possesso che si era compiaciuto di prendere nell’anima mia, sicché ricevuta questa cognizione, umilmente confessai la mia ignoranza, e dall’afflizione, il mio Dio mi fece passare ad una consolazione celestiale e divina, che mi fece umilmente ringraziare, lodare, benedire il Signore.

Presento questi fogli a vostra paternità reverendissima, acciò li esamini, la prego di osservare per minuto, se queste cose che seguono nell’intimo dell’anima mia, vi sia illusione o inganno del demonio, la prego per carità di manifestarmelo con ogni libertà, per quiete della povera anima mia, che tutta al suo savio parere e consiglio si affida.

Quando scrive per ubbidienza niente le è permesso di celare per umiltà. Sia lodata la Santissima Trinità, che tanto ama le sue immagini, santificate col prezioso sangue di Gesù Cristo. Sino al 14 luglio 1822 inclusive.

66.2. Dissapori con una figlia


Dal giorno 14 luglio 1822 fino al 31 detto. Ebbi molto a soffrire di pene interne ed esterne: interne per molte oscurità e aridità di spirito, esterne per diversi travagli e disgusti ricevuti da parenti, e da altre persone, che cercavano di sollevarmi una delle mie due figlie, col biasimare la mia condotta, facendole credere che il mio vivere ritirato dal mondo, era l’ostacolo al suo collocamento matrimoniale, dandole a credere ancora, che vi era chi l’aveva richiesta; ma, atteso il mio vivere ritirato, aveva ricusato di apparentarsi con me.

La semplicetta credette quanto le dissero, e molto se ne afflisse, per questo oggetto sentiva dello sdegno contro di me e della mia condotta, e non si avvedeva che questa era una larva del demonio, per mettere in discordia e in confusione la mia casa, e così da un paradiso di pace, divenisse una Babilonia di confusione; ma come piacque a Dio, la figliola mi manifestò quanto le avevano detto, come ancora il dissapore e lo sdegno che sentiva verso di me, per questo racconto che le avevano fatto i parenti, con molte lacrime la figliola mi narrò il tutto, chiedendomi umilmente perdono, mi disse che, per quanta resistenza faceva per discacciare questo pensiero, questo dissapore che sentiva contro di me, viepiù questo dissapore, questo sdegno la molestava contro sua voglia.

Il Signore mi fece la grazia di ascoltare tutto il suo ragionamento con molta tranquillità di spirito e serenità di volto, assicurandola che io sentivo una grande carità verso di lei, e non mi trovavo offesa punto dal suo racconto, mentre chiaramente conoscevo essere questa una forte tentazione del demonio alla quale lei doveva resistere; le dissi ancora molte altre cose che tranquillizzarono il suo spirito. Nonostante le suddette angustie, non mancò il mio Dio, per sua bontà, in questo tempo di consolarmi e compartirmi delle grazie, segnatamente a vantaggio delle anime sante del Purgatorio.

66.3. La vicenda del monaco certosino


Un fatto riporto, per obbedire al mio padre spirituale, che me ne ha fatto un assoluto comando. il racconto lo faccio per extensum, per essere questa l’obbedienza che mi ha imposto.

Il lodato mio padre in Gesù Cristo, nel mese di maggio del 1822 ricevette una lettera dalla Spagna, dove veniva informato da un amico che il suo fratello certosino si trovava malato di un’infermità di petto e che erano quattro mesi che guardava il letto, e per l’estrema debolezza non aveva potuto scrivere di proprio pugno, che il suddetto si era dato ad una profonda malinconia, non permettendogli le indebolite sue forze né di leggere, né di scrivere, né di recitare il divino ufficio, e che si trovava in una grande desolazione di spirito, temendo della sua eterna salute.

Il mio padre spirituale mi fece sentire la lettera, che gli aveva scritto l’amico del suo fratello certosino, mi disse di raccomandarlo al Signore, che se era in piacere della volontà di Dio l’avesse fatto guarire.

Il suddetto mio padre volle celebrare la santa Messa nel mio oratorio privato, per il suo fratello infermo, io unii al suo santo sacrificio la povera mia Comunione, il Signore, per sua bontà, mi fece intendere che il suddetto infermo sarebbe morto. Nel partire dalla mia casa, il mio padre spirituale tornò a dirmi che avessi pregato per il suo fratello, io gli risposi che non facesse speranza sopra la vita del suo fratello, perché il Signore mi pare se lo voglia portare in paradiso.

La notte del 28 maggio, vale a dire 25 giorni prima della morte del suddetto infermo, ecco cosa seguì nel mio spirito: stavo orando nel mio oratorio, poco dopo la mezzanotte, il mio spirito era tutto raccolto in Dio, godendo nell’intimo dell’anima un riposo, una quiete, una pace propria di paradiso, tutto ad un tratto mi parve di vedere da lungi il suddetto infermo, in una situazione molto afflittiva e dolente. Mosso il mio spirito dalla compassione, mi rivolgo al mio Dio, e con umile sentimento di carità lo prego di mandarmi a consolare, a confortare l’infermo.

Questa preghiera la feci con tanto fervore e fiducia, che il Signore, per sua bontà, mi accordò la grazia: «Va’», mi disse il mio Dio, «va’ qual messaggera di pace. A mio nome di’ al mio servo che presto sarà con me in paradiso, per segno di questa verità io gli donerò pace, tranquillità e unione perfetta al mio divino volere, e una certa speranza di godermi per tutta l’interminabile eternità».

Ricevuta l’ambasciata, in senso molto migliore di quello che io ho saputo scrivere, attesa la mia grande ignoranza, ad un tratto mi parve di trovarmi nella camera dell’infermo, si avvicinò il mio spirito al suo piccolo letto e fece l’ambasciata, per la quale lo spirito dell’infermo esultò in Dio, e pieno di gaudio celeste fece i suoi cordiali ringraziamenti all’Altissimo; quanto grandi fossero i suoi ringraziamenti verso il suo Dio, per avergli compartita la suddetta grazia, non mi è possibile poterlo ridire.

Con il mio spirito si mostrò molto grato, per avergli portato questa consolante nuova, mi promise di raccomandarmi alla Santissima Trinità.

Ritornata in me stessa, mi trovai tutta aspersa di lacrime, per la tenerezza di questo fatto, proseguii a lodare, benedire e ringraziare il Signore di tutto l’accaduto. La mattina seguente, riflettendo a quanto era seguito nel mio spirito la notte, disprezzai questo fatto, e non ebbi coraggio di manifestarlo al mio padre spirituale, prendendo questa cosa per una alterazione della mia fantasia; come ancora tacqui il suddetto fatto, per non affliggere il mio padre per la vicina morte del suo santo fratello.

Dissi fra me stessa: «con la lettera che riceverà, lo saprà». E difatti il mio padre mi scrisse un biglietto, dove mi diceva che aveva ricevuto la lettera che il suo fratello il 12 di giugno 1822 era passato all’eternità. La lettera lo notiziava che quindici giorni prima della sua morte aveva acquistato una pace, una tranquillità imperturbabile, ed erano terminate tutte le sue desolazioni ed afflizioni, rendendo il suo spirito a Dio nella pace del Signore, aveva fatto una morte da santo.

Il mio padre spirituale, ricevuta la lettera della morte del suo fratello, all’Ave Maria, mi scrisse un biglietto secco secco, senza accennarmi, né punto né poco, la santa morte che aveva fatto il suo fratello, mi scrisse solo tre righe che tali e quali qui trascrivo:

Il mio fratello certosino il 12 morì, se si trova in purgatorio e non sorte domani alla mia messa, sarete grandemente castigata. Dio vi benedica!

Proseguo il racconto. Letto il biglietto, subito mi ritirai nel mio oratorio, chiedendo lume al Signore, acciò mi avesse fatto conoscere lo stato di questo defunto. Il Signore, per sua bontà, mi fece intendere essere di già gloriosa la sua anima in cielo.

Fu tanto forte questo sentimento, che non potei per questa anima santa fare in quella notte il minimo suffragio, nonostante il mio spirito non restava appagato di questa sola notizia, tornai a pregare il Signore e così gli dissi: «Mio Dio, a me non basta questa sola notizia, per assicurarmi della verità».

Così intesi intimamente rispondermi: «Domani mattina, alla Messa del tuo padre spirituale, ne avrai tutta la sicurezza».

Mi porto dunque la mattina in chiesa, ad ascoltare la santa Messa del suddetto mio padre. Il Signore, per sua bontà, mi diede a vedere la gloria grande che godeva l’anima di questo suo servo, ma perché il grande splendore della sua gloria il mio spirito non poteva contenere, mi diede il mio Dio a vedere il solo albore del suo splendore.

Questo bastò per farmi provare una consolazione di spirito tanto grande, che non ho termini di poterlo esprimere: il suo splendore era assai più bello di quello che sia bello il sole nello spuntar nel bel mattino, assai più, e senza paragone più bello.

Oh come tutta si ricreò la povera anima mia per mezzo di questo bello splendore, la mia mente fu sollevata da celesti pensieri, la dolcezza e la soavità inondava il mio cuore e mi faceva lodare e benedire il mio Dio, ammirando l’infinita sua bontà.

Questo bene fu durevole in me per vari giorni, mentre quando mi ponevo in orazione, ricordevole dell’accaduto fatto, tornavo a godere un bene nell’anima molto grande, che mi univa al mio Dio.

66.4. La contemplazione della passione e morte di Gesù


Nel mese di settembre 1822, come già dissi nei precedenti fogli, il mio spirito fu chiamato da Dio a meditare, a contemplare la passione e morte di Gesù Cristo.

Molto si internò l’anima in questi dolorosi misteri, che più volte credetti di morire, mentre Dio, per sua infinita bontà, mi partecipava in parte le pene sofferte nella sua santissima umanità, come sarebbe l’angustia, l’affanno, la tristezza che provò il suo spirito santissimo nell’orto del Getsemani; il mio spirito nel compassionare le sue pene, per via di compassione ed intima unione, era chiamato da Dio a partecipare, a patire simili ambasce, simili pene, unite a certe cognizioni intellettuali e divine, che la povera anima mia era sollevata sopra se stessa e veniva inebriata di puro e santo amore.

Quanto fosse fruttuosa all’anima mia questa orazione, io non ho termini di poterlo spiegare, ma tanto era buona questa orazione per la salute dell’anima, tanto era pregiudizievole per la salute del corpo, mentre per gli interni ed esterni patimenti il mio corpo s’indebolì tanto nelle forze, che sono ridotta un cadavere in piedi, la continua occupazione che il mio spirito ha con il suo Dio mi fa odiare me stessa e la società, mentre l’occupazione interna mi impossibilita ogni sorta di conversazione e trattenimento sociale, benché lecito ed onesto; ma siccome io non mi ritrovo in un deserto e sono necessitata di conversare con il mio prossimo, questa per me è una grandissima pena, fuggo più che posso la compagnia altrui, altro non amo che la solitudine, per conversare con il mio Dio. La solitudine la chiamo «il mio paradiso in terra»; il mio spirito, quando si trova in compagnia, sta sempre in stato di violenza, a tal segno che ne soffre anche il corpo, che si leva tutto in un gelido sudore per la pena che patisce.

Il povero mio spirito non trova più alcuna soddisfazione terrena, solo trattare con il suo Dio gli piace, e in Dio e con Dio resta pienamente contento e soddisfatto.

Questo non deve recare meraviglia, mentre noi vediamo tutto giorno che gli amanti del secolo vanno perduti dietro ai loro amori e, se sono colpiti dal genio e dalla passione, si fanno servi, schiavi dell’oggetto che amano, dimenticando la loro stima, la loro reputazione, le ricchezze, gli onori, la roba, non trovando più in tutto questo la loro soddisfazione, altra consolazione non trovano che di stare con l’oggetto che amano, e se tanto può l’affetto terreno, qual meraviglia recherà a chi legge che la povera anima mia, colpita dal santo amore, sia perduta amante di un Dio che la creò? e con lo sborso del suo preziosissimo sangue la riscattò?

Ah, sì, tutto poco sarà. Benché potessi per amore del mio Dio milioni di volte sacrificare me stessa con i più acerbi tormenti, questo sarebbe onore per me e non corrispondenza, mentre conosco che, per quanto mai io potessi fare e patire, non potrò giammai corrispondere ai tanti benefici e all’infinito amore che porta Dio, per sua bontà, alla povera anima mia peccatrice.

Tutto questo che ho detto e sono per dire, valga solo per glorificare il mio amorosissimo Dio, e per sempre più confondere l’anima mia nel profondo della santa umiltà e nel basso concetto di me stessa; conoscendomi, per mezzo della grazia di Dio, di essere la creatura più vile, più peccatrice che abita la terra: questa verità è per me tanto certa e sicura, che la confesso con tutta l’ingenuità del mio cuore, avanti a Dio e agli angeli ed i santi del paradiso, avanti a tutti gli uomini che abitano la terra, che io sono la creatura più vile, più miserabile che abita la terra.

Di questa chiara cognizione che mi dona Dio, per sua bontà, io lo ringrazio continuamente e lo prego incessantemente di levarmi prima la vita, se mai per mia grande disgrazia avesse a mancarmi questa chiara cognizione, questo umile sentimento che lo tengo tanto caro quanto tengo cara l’anima mia.

67 – DUE MESI A MARINO


67.1. Un sudore mortale


Proseguo a narrare quanto seguì nel mio spirito il mese di ottobre e novembre del 1822. Fui obbligata di partire da Roma e andare al paese di Marino, per motivo di una malattia sofferta da una delle mie due figlie, il medico mi ordinò che l’avessi portata fuori di Roma, che la mutazione dell’aria l’avrebbe ristabilita in salute. A questo oggetto portai in Marino il giorno 17 di settembre, da dove scrivo questi fogli.

La villeggiatura di quarantasei giorni non alterò il mio metodo di vita, tanto nel vitto quanto nell’orare, come ancora nella solitudine, mentre la chiesa e la casa era tutto il mio diporto; chiusa nella mia camera, me la passavo il più delle volte nell’amata mia solitudine orando, e quando il dovere mi portava di andare a far visite, ovvero riceverle, questo lo facevo a grande stento e con somma mia pena e fatica, per le continue interne chiamate che faceva Dio all’anima mia, non potendo corrispondere agli interni sentimenti che mi comunicava il mio amante Signore, il mio spirito pativa grande pena, ed intanto sudava sudor di morte per la violenza che faceva allo spirito del Signore, per il timore che non si avvedessero quanto seguiva in me.

Ciò nonostante il più delle volte restavo alla presenza degli altri come sbalordita, senza intendere cosa si dicesse; l’interna violenza che io facevo per non far distinguere cosa passava nell’intimo dell’anima mia, questo mi costava veramente grande pena; sicché la villeggiatura in parte, è stata per me un martirio lento, dico in parte, perché per grazia di Dio godevo molta libertà nella casa dove fui alloggiata con le mie due figlie.

67.2. Mi ferì il cuore poi me lo rapì


Riprendo il filo del racconto. Dio, per sua infinita bontà, proseguiva con interne illustrazioni a farmi contemplare la passione e morte del suo divino figliolo, e il frutto che ne riportava l’anima mia era un eccessivo dolore dei propri peccati, piangevo amaramente la mia cattiva corrispondenza ai tanti benefici ricevuti, una chiara cognizione della propria mia viltà, che mi faceva umiliare fino al profondo del mio nulla.

Questi interni lumi mi facevano ardentemente bramare il santo amore di Dio, per così corrispondere con fedeltà; ma, conoscendo che da me niente posso, pregai il Signore, con molte lacrime e ferventi preghiere, acciò si degnasse inviarmi un dardo della sua divina carità, simile a quello che mi donò in principio della mia conversione. Così gli dicevo umilmente: «Mio buon Dio, replicate il colpo alla durezza del mio cuore, non basta un sol colpo di amore. Sì, mio Dio, replicate il colpo con maggior forza e vigore; sono venti anni che mi colpiste il cuore con dardo prodigioso del vostro santo amore; mio Dio, un altro colpo ci vuole all’indurito mio cuore, acciò tutto s’infiammi del vostro santo amore!».

Con queste ed altre simili espressioni, che mi venivano suggerite dal vivo desiderio di corrispondere, fedele al mio Dio, mi stemperavo di amore in lacrime di gratitudine, sperando, dalla sua infinita bontà, di ottenere la grazia. Pregavo ancora Maria santissima ad essere mia mediatrice.

Non furono vane le mie speranze, né andarono a vuoto le povere mie preghiere. La grande Madre di Dio si degnò esaudirmi, e mi ottenne il dardo di amore tanto da me desiderato.

Il giorno che correva la festa del Santissimo Rosario, il dì 8 ottobre 1822 mi ero preparata nei giorni antecedenti a questa festa con ritiro, orazioni, lacrime e altre piccole mortificazioni.

La mattina della festa, nella santa Comunione, mi apparve Maria santissima e mi recò la felice nuova, che in quella mattina stessi preparata che avrei ottenuto la grazia; qual fosse il mio contento a questa felice nuova, ognuno lo può immaginare, quanto grandi fossero ancora i miei umili ringraziamenti, verso questa divina Madre, non posso esprimerlo.

Si raccolse viepiù il mio spirito, e circa due o tre ore dopo questa divina ambasciata, fu il mio spirito come da mano invisibile trasportato in un altissimo luogo di luce ripieno, vedo dall’alto dei cieli scendere Gesù Cristo, corteggiato da una moltitudine di angeli. Il divino Signore con volto piacevole e maestoso, tutto raggiante di luce, alla povera anima mia rivolto, pieno di piacevolezza ed amore, l’anima intanto sorpresa da sì bella vista, fu sopraffatta da santo timore, si sprofondò nell’abisso del suo nulla alla presenza del suo divino Signore, e piena di confusione e di rossore, per vedermi in mezzo a tanta magnificenza, non poteva contenere lo splendore che tramandava il mio divino Signore, mi balzava in petto il cuore per il contento, ma il rispetto, la venerazione, la stima intimorivano il mio cuore.

Ecco che ad un tratto cento e mille affetti insieme assalgono il mio cuore, e in deliquio di amore cadde distesa l’anima mia ai piedi santissimi del suo divino Signore.

Quando caduta mi vide, distesa ai piedi suoi, con dolce strale di amore prima ferì il mio cuore e poi me lo rapì.

Io tutta di amore mi accesi, in mezzo a mille affanni, per il desio di amore. Allora unita mi vidi al nobile suo splendore, l’anima piena di luce unita al suo divino amore, più non si distingueva, neppur si conosceva l’anima dal suo Dio, ma una stessa luce pareva insieme a lui. Di nobili e santi affetti sentivo ripieno il cuore. L’amore, l’amore, l’amore, Dio mi faceva amar! Lo amavo? sì lo amavo, in maniera così perfetta, che, annientata in me stessa, rendevo onore e gloria al mio amante Signore.

Di più non posso dire, mi mancano i termini di potermi spiegare, parla più il silenzio, che ogni eloquente espressione, mentre non si può comprendere da noi l’amore grande che Dio porta a noi miseri mortali.

Questo favore tenne assorto il mio spirito per molti giorni.

67.3. Risoluta di morire crocifissa


Il dì 14 ottobre 1822, dopo la santa Comunione fu il mio spirito favorito dal Signore, con altra grazia, si concentrò il mio spirito tutto ad un tratto in se stesso, umiliandosi profondamente; in questo tempo, per mezzo di interna illustrazione, fu chiamato da Dio a contemplare i divini misteri della nostra redenzione. Ecco una grande luce che sollevò il mio spirito, e con dolce attrazione a sé lo attrasse, e con sé lo condusse in una grande altezza, voglio dire altezza di penetrazione e di intelligenza, benché a me pare in questi casi di trovarmi di persona in luoghi altissimi, non più ricordando il mondo sensibile.

Attratto dunque il mio spirito da questa divina luce, dolcemente mi conduceva, e viepiù mi inoltrava nel suo maggior splendore, e sempre più si accresceva nell’anima l’intelligenza e la cognizione, quando ad un tratto vidi in mezzo allo splendore il mio bene crocifisso. Ebbra di santo amore, l’anima verso il suo amato bene si slanciò e così le parlò:

«Amato mio, soccorrimi, deh, non mi abbandonare, ti prego, Gesù mio, di unirmi alla tua divina umanità, io risoluta sono di morire crocifissa con te, Gesù mio, umilmente ti abbraccio al mio cuore, fortemente ti stringo per non separami giammai da te, mi riconosco indegna di simile favore, ma il nobile tuo cuore son certa che non mi sdegnerà, cosa sono per dire».

Il crocifisso Signore, con trasporto di amore, così mi parlò: «Aperi mihi cor tuum, soror mea, amica mea, columba mea, immaculata mea, veni». E con dolce attrazione, tirò a sé il mio spirito, e così stretta ed unita al lato del crocifisso Signore, l’anima mia si ritrovò, dal sacro suo costato dolcissimo liquore nell’anima tramandò; oh nobile bevanda di soavità ripiena, sì nobile, sì cara, cosa al certo più rara di questa non si dà. Questa riempì il mio cuore di sublime amore e di profondissima umiltà che io non so spiegare. In dolci e santi affetti passò l’anima mia nella divina compagnia del crocifisso suo bene. La divina luce viepiù si faceva maggiore, che il mio Redentore io non lo vidi più. Immersa in quell’inaccessibile luce, io mi ritrovai allora ripiena di vittoria e di sante virtù, di umile sentimento, sopraffatto fu il mio cuore dal dolore e dall’amore, credevo di morire. Altro non posso dire, mi mancano i termini per potermi di più spiegare. Questa comunicazione mi tenne per più giorni assorta in Dio.

67.4. Non ho mai visto cosa più bella


Digressione. Prima dell’anzidetto fatto per vari giorni antecedenti a questo favore, il mio spirito era nella santa orazione chiamato in una solitudine a contemplare di proposito la passione e morte del nostro Signore Gesù Cristo, di maniera che l’anima mia la vedevo in questo solitario luogo sotto la sembianza di vaga e leggiadra giovanetta, come un’ombra tutta risplendente e bella, questa teneva nelle sue mani l’immagine del suo bene crocifisso, teneva il suo sguardo fisso in quello, e con matura riflessione andava ponderando le di lui pene.

Tutta si struggeva di amore in lacrime, stringeva nelle sue mani e al cuore il crocifisso suo bene, compassionava intimamente i suoi dolori, si offriva ad imitare i suoi esempi, facendo molte proteste ed altri atti di virtù, che mi suggeriva la devozione e l’amore.

Passai in questo rapimento di spirito sette giorni, vale a dire dal giorno 14 ottobre 1822 fino al giorno 21 del medesimo mese; nel qual giorno 21 fu il mio spirito nuovamente favorito dal Signore con grazia specialissima, la qual grazia mi sembra molto difficile il poterla in scritto manifestare. Vivo quieta però, per averla di già comunicata a voce a vostra paternità reverendissima, giacché Dio permise che, quando mi seguì questo fatto, vostra paternità si trovasse di persona in Marino, e così io ebbi la consolazione, per mia quiete, di narrargli nello stesso giorno il fatto che mi era accaduto nello spirito nel tempo della santa orazione.

Vostra paternità reverendissima mi fece coraggio e per mia quiete mi assicurò essere questo un favore molto particolare, che mi aveva compartito Dio per sua infinita bontà. Ricordo ancora che mi comandò che avessi scritto il suddetto favore, da Dio ricevuto; ed io le risposi che mi si rendeva impossibile il poterlo scrivere, perché mi mancava la maniera di poterlo esprimere. Ciò nonostante, per non mancare alla santa obbedienza, mi accingo a scrivere, invocando lo Spirito del Signore, acciò mi dia la grazia di poterlo fare a maggior sua gloria. Mio Dio trino ad uno, datemi grazia di manifestare le vostre incomprensibili misericordie, illuminate il mio intelletto, acciò possa ridire quanto sono grandi le vostre grazie, i vostri favori, che vi degnate compartire alla povera anima mia peccatrice, e peccatrice ben grande, per avervi mancato di fedeltà e per la mia cattiva corrispondenza.

Mio Dio, mi umilio avanti a voi e confesso di essere quella che sono, peccatrice ben grande, nonostante i vostri divini favori, ah sì, mio amorosissimo Dio, vi prego di convertirmi una volta da dovero e farmi per mezzo della vostra divina grazia corrispondere con fedeltà, fino all’ultimo respiro della mia morte.

La sola sostanza del fatto scrivo, perché non mi riesce di poter spiegare. Il giorno 11 ottobre 1822. Dio, per sua infinita bontà, sollevò il mio spirito e lo condusse nei suoi divini tabernacoli, cosa più bella non vidi mai, né giammai provai dolcezza uguale. Questa è un’unione tanto perfetta, che non ci sono termini sufficienti di poterlo spiegare, valga il silenzio dove le mie forze non possono arrivare. Io più di tanto non posso, non so manifestare, valga quel poco che ho detto, per obbedire a vostra paternità.

67.5. Un solo cuore


Passo a narrare un altro fatto seguitomi. Il dì primo novembre 1822, festa di tutti i Santi, il mio spirito fu sollevato da Dio con un ratto divino, mi trovai ad un tratto con lo spirito in una grande altezza; mi vidi tutta circondata di luce, il mio spirito lo vedevo sotto forma di leggiadra donzella, ma quasi un’ombra questa appariva, tanto leggiadra e bella, che non posso descriverlo.

La vedevo tutto fervore, che altro non faceva che adorare profondamente il suo Creatore, il suo Redentore, il suo Dio, che riconosceva per mezzo di quella luce inaccessibile. Umilmente lo adorava, l’ossequiava e ardentemente lo amava e con trasporto di amore apprezzativo, a lui tutta si donava, compiacendosi nella sua divina volontà; sentivo nel mio cuore un aborrimento totale a tutti i beni transitori della terra, un odio santo di me stessa, e un desiderio grande di patire per amore di Dio.

Spiegava, intanto, la fortunata donzella i santi suoi desideri al suo Signore, il quale, con piena gratitudine li riceveva, e sovrabbondando l’anima di maggiori illustrazioni, se la stringeva al suo castissimo e amorosissimo cuore. Andavano intanto crescendo a dismisura i santi affetti ad entrambi i cuori, ma quanto dissimili l’uno dall’altro! Oh cuore divino, quanto grandi fossero le tue fiamme, io non posso al certo esprimerlo. Ah sì, questo divino fuoco fece ardere, fece bruciare il povero mio cuore di santa carità e più non si distingueva per la partecipazione, per la perfetta unione di questo sacro fuoco; il mio cuore ardeva in mezzo a quella fiamma viva, di santa carità, in guisa tale che di due cuori un sol cuore si formò, in questo tempo restò la mia volontà unita tanto perfettamente alla divina volontà che l’anima mia perdette ogni suo volere.

Ridotta l’anima in questo stato di perfezione, per mezzo della grazia di Dio, venne a possedere le sante virtù morali e teologali; Dio, per sua bontà, si compiacque di adornarla con i sette suoi doni, e allora questa donzella comparve a dismisura assai più bella di prima, Dio con trasporto di amore, allora, per poterla meglio vagheggiare, la fece salire sopra un trono; ma non so se trono questo possa chiamarsi, ma mi spiegherò alla meglio, invocando il divino aiuto, acciò dia lume alla mia mente, per poter dire cose che io non vidi giammai, e non so come denominarle, né a che paragonarle, né come ridirle. Mentre mi manca la maniera di potermi esprimere, mi mancano le figure dimostrative per potermi spiegare.

68 – IL PURGATORIO SI SPOPOLÒ


68.1. Mi fece arbitra delle sue misericordie


Prendo a raccontare il fatto, lasciando per un momento il mio spirito in quella situazione poc’anzi detta, mentre questo fatto che sono per raccontare seguì immediatamente dopo il surriferito favore.

Quasi come a Dio non bastasse la dimostrazione della sua grande carità verso la povera anima mia, gliene volle dare un’altra prova, per sempre più confonderla ed umiliarla.

Ecco che in mezzo a quella luce inaccessibile vedo un masso d’oro e d’argento, quanto mai bello, tutto lavorato con intagli e lavori finissimi, conoscevo benissimo esser questa opera del divino artefice; una cosa così bella che io non so descrivere, il mio spirito restò estatico e pieno di stupore nel vedere cosa così sorprendente e bella.

Questo bellissimo masso d’oro e d’argento finissimo e lucidissimo, era ancora intarsiato di pietre preziosissime, questo masso d’oro era fatto a forma di altare triangolare, ma non so se altare possa denominarsi, non so spiegarmi altrimenti, non so dire di più. Questo non aveva alcun ornamento né di fiori, né di candelieri, ciò nonostante era in tutto così maestoso e bello che non si può spiegare, rendeva devozione, rispetto, venerazione e stima.

Nel tempo che il mio spirito stava tutto ossequioso, umiliandosi profondamente avanti al suo Dio, ecco, in questo tempo, tre principi della corte celeste, con tre incensieri, che vennero ad incensare con profondo rispetto quel sacro altare.

Il loro incenso tramandò tanto odore soave, che l’anima mia, dalla grande fragranza del celestiale odore, mancò e cadde in amoroso deliquio. Mi sentivo in questo tempo stemperare il cuore di puro e santo amore, mi rivolgevo verso il mio Dio, e con dolci espressioni gli mostravo il mio amore.

Quando rinvenni da questo amoroso e santo deliquio, senza avvedermene senza mia volontà, sopra quell’altare mi trovai, tutta circondata da quel fumo di incenso di soavità ripieno. La povera anima mia, in mezzo a questa magnificenza, sentiva viepiù accrescere in me stessa il lume di propria cognizione, sicché mi umiliavo viepiù, e dolcemente mi lamentavo, con l’amato mio bene, che tanta confusione mi facesse provare col tanto innalzarmi senza alcun merito, quasi come se ne trovasse offesa.

A questi sentimenti dell’anima, Dio corrispondeva con somma compiacenza, e la tirava a sé con tanta forza e violenza, questo seguiva per mezzo di una luce inaccessibile e tanto penetrante che ad un tratto tutta mi assorbiva e intimamente a sé mi univa, e così veniva l’anima mia a perdersi in Dio, perdendo la sua proprietà.

Terminata questa divina unione tornai alquanto in me stessa, senza perdere il grande bene che godevo ancora nell’anima; in quel momento ricordai che si dava principio in quella santa giornata all’ottavario dei fedeli defunti, mi rivolsi con somma premura ed impegno verso il mio Dio e lo pregai con fervente preghiera e con calde lacrime ad usare misericordia con le anime defunte. «Mio Dio», gli dissi, «degnatevi di darmi la chiave di quell’orrido carcere, come altre volte vi siete degnato darmi, perché io sento un desiderio grande di scarcerare dal purgatorio quelle anime sante, vi supplico di questa grazia per gli infiniti meriti della vostra passione e morte».

Questa offerta bastò per ottenere la grazia, per essere di valore infinito. All’istante il mio Dio, per sua infinita bontà, si degnò concedermi quanto bramavo, mi fece arbitra delle sue misericordie; ma l’anima, in luogo di approfittarsi liberamente della grazia, domandava al suo Dio, con umile sentimento, cosa doveva fare, e non ardiva neppure alzare gli occhi della mente, ma mi trattenevo genuflessa avanti al suo divino cospetto, trovandomi ancora sopra del detto altare, il quale altare, se non erro, mi pare che sia denotato il dono dell’orazione.

68.2. Presto saranno con me in paradiso


Riprendo il filo del racconto. Mi trattenevo, dunque, piena di timore, avanti al divino cospetto, non sapendo cosa dovevo fare: «Va’», mi disse Dio, «presentati a quel carcere a mio nome, reca a quelle anime la consolante nuova che presto saranno con me in paradiso».

In quell’istante apparvero tre santi angeli, i quali accompagnarono l’anima mia all’orrido carcere del purgatorio. L’anima mia la vedevo sotto la forma di un’ombra chiarissima, tutta risplendente di luce, si approssimò dunque l’anima a quell’orrido carcere in compagnia dei tre santi angeli, e recai, da parte di Dio, a quelle sante anime la consolante nuova della loro prossima liberazione.

Non mi è possibile il ridire l’esultazione, il gaudio, la consolazione di quelle sante anime, e quanto mai grandi fossero i loro ringraziamenti e le lodi che ne resero all’infinita misericordia di Dio.

Questo fatto mi seguì la mattina. Il giorno dopo il pranzo mi portai alla chiesa e stetti in orazioni più di tre ore, pregando per le anime purganti; in questo tempo il mio Dio si degnò mostrarmi il trionfo della sua misericordia verso le anime purganti.

Vidi dunque quelle sante anime che a schiere, a schiere, accompagnate dai loro santi angeli custodi, gloriose e trionfanti se ne salivano al cielo.

In tutti i giorni dell’ottavario, seguì lo stesso, anzi in nove giorni, perché il duomo di Marino incluse un’altra giornata di esposizione in suffragio dei fedeli defunti, sicché in nove schiere può dirsi che si spopolò il purgatorio!

Vista più bella di questa non vi può essere, che dimostri più al vivo l’infinita misericordia di Dio, e il trionfo grande degli infiniti meriti del sangue preziosissimo di Gesù Cristo.

La vista di questo trionfo rese il mio spirito estatico, di maniera che nei detti giorni era il mio corpo tanto alienato dai sensi, che dalla chiesa mi portavo a grande stento alla casa di mia abitazione, che restava poco distante, strascinando il mio corpo, alla meglio che potevo.

Mi chiudevo subito nella mia camera, e, per quanto potevo, mi rendevo invisibile a tutti, mentre per queste interne comunicazioni il mio corpo pareva un cadavere in piedi, che faceva compassione a chi lo mirava.

Supponevano le padrone di casa dove io abitavo, che mi sentissi molto male di salute, ed io lasciavo che lo credessero, così molto meglio veniva occultata la vera cagione, che mi aveva in quello stato ridotta. Nella mia camera me la passavo in orazioni, più o meno ero alienata dai sensi, il mio spirito tutto rapito ed assorto in Dio, di maniera tale che non conoscevo più di abitare il mondo.

68.3. Lontana dal mondo


All’11 di novembre 1822 terminò la nostra villeggiatura, tornai in Roma con le mie due figlie, essendoci trattenute in Marino 45 giorni.

Dall’11 novembre fino al 7 dicembre 1822, il mio spirito in questo tempo sperimentò i buoni effetti di questi distinti favori, in questi giorni Dio si degnò farmi godere nell’intimo dell’anima un riposo, una quiete, uno straordinario raccoglimento, unito ad una presenza di Dio tanto amabile e cara che non ho termini di poterlo spiegare. Questa presenza di Dio cagionava nell’anima mia una profonda umiltà, un annientamento di me stessa, un bassissimo concetto di tutta me; questa umile cognizione mi faceva trattenere alla presenza di Dio, con santo amore e santo timore. Così passai i detti giorni.

Il dì 8 dicembre 1822, festa dell’Immacolata Concezione di Maria Santissima, mi accostai alla santa Comunione con molto raccoglimento di spirito, ma non fu di più. Passate circa tre ore dopo la santa comunione, tutto ad un tratto Dio si degnò sollevare il mio spirito ad una elevata contemplazione (io non so se questo favore possa chiamarsi contemplazione).

Mi dava dunque il mio Dio a vedere il suo divino splendore, per cui veniva illustrata la mia mente, e il mio intelletto restava tutto occupato in Dio, la mia volontà era tutta unita e medesimata in Dio. Nel trovarmi immersa in questo grande bene, domandai dove si trovasse il mio spirito, che tanto bene godeva, Dio per sua infinita bontà si degnò mostrarmi la situazione del mio spirito, e con parole me lo fece intendere: «Mira», mi disse, «o figlia mia dilettissima, l’amore mio verso di te fin dove giunse! Ti ha separato affatto dalla massa degli uomini, ti ha sollevato sopra questo monte, dove ora si trova l’anima tua, per solo conversare con me!». Altro punto ammirativo.

Tornò con trasporto d’amore a ripetere: «Mira, deh mira, o mia figlia carissima, quanto lontano si trova dal mondo sensibile l’anima tua».

Ed infatti io vedevo il mio spirito in un altissimo monte, molto lontano dal mondo, anzi separato affatto, ma in grande lontananza vedevo il misero mondo con i suoi seguaci immersi nelle crapule e nel libertinaggio, segnatamente li vedevo camminare senza fede, senza religione, conculcando la santa legge di Dio e i santi suoi comandamenti.

Questa cognizione riempiva il mio cuore di pena e di affanno, che mi amareggiava quel bene che io godevo in me stessa, perché ero sollecitata dall’amore del mio prossimo, sicché facevo per questi molte ferventi preghiere; la vista di questi infelici affliggeva grandemente il mio cuore, che in mezzo a tanto bene che godeva in me particolare si convertiva in una grave afflizione di spirito, al giusto riflesso del disonore che questi miseri fanno all’infinita bontà di Dio, e al danno che cagionano a loro stessi.

68.4. Sopra un altissimo monte


Portato il mio spirito da queste riflessioni, venivo a patire un male tanto eccedente, che mi faceva patire l’anima e il corpo, che credevo di finire la vita, per l’interna angustia non potevo più reggermi in piedi, se non a grave stento e fatica; passavo le ore intere nel mio oratorio, semiviva e posso dire quasi morta, avevo fatto il viso cadaverico, che faceva pena a chi mi guardava, conoscevo benissimo che non potevo più reggere; ma, come a Dio piacque, per sua bontà, per non vedermi perire in siffatta angustia, trasportò il mio spirito in un altro monte più eminente e molto più separato da questo mondo sensibile, che il mio spirito trasportato che fu in questo luogo, al momento ne perdette affatto l’idea funesta, questo mi seguì la notte del Santo Natale 25 dicembre 1822.

Questo monte altissimo, dove si trova il povero mio spirito, come già dissi, per averlo condotto Dio di propria mano, questo monte dunque, lontano dai rumori del mondo, e per la sua eminenza l’anima si trova vicina a Dio, si trova spogliata affatto di ogni sua proprietà, unita perfettamente alla volontà divina, che in questa sola volontà del suo Dio trova tutta la sua compiacenza, tutto il suo gaudio, tutta la sua felicità e in questa dolcemente riposa.

In questo santo monte l’anima non soffre né tentazioni, né concepisce alcun desiderio, ma solo tiene il suo sguardo fisso in Dio, pascendosi, deliziandosi nella sua santissima volontà.

In questo santo monte la povera anima mia era illuminata, confortata e favorita da Dio con particolari favori; ma tutto questo grande bene seguiva in me con grave patimento di spirito, e con grande detrimento della mia salute temporale, perché questa sorta di orazione, per essere soprannaturale, l’anima mia tanto si assottiglia per la celeste penetrazione, che Dio le comparte, che lo spirito, portato dalla divina intelligenza, penetra fuori di ogni idea naturale e così viene a patire moralmente e fisicamente l’anima e il corpo; ma questo patire è di tanto gaudio e di tanta consolazione all’anima e al corpo, che altamente me ne compiaccio e ne rendo le dovute grazie al mio Signore.

Pativo con straordinario giubilo, trovandosi così occupato il mio spirito con il suo Dio, non avevo più quella sollecitudine di pregare per i peccatori.

68.5. Vi comando di pregare per i peccatori


Detti ragguaglio al mio padre spirituale di quanto seguiva nel mio spirito, e la nuova situazione in cui aveva Dio, per sua bontà, posto l’anima mia; gli dissi ancora che trovandosi l’anima, in questo alto monte, tanto occupata per se stessa in Dio, non sentiva più quel forte impegno di prima per i peccatori, avendo in questo santo luogo perduto affatto la memoria di tutte le cose sensibili della terra, e di tutte le sue miserie spirituali e temporali.

Il mio padre spirituale, prudentemente, così mi rispose: «Non mi fa meraviglia che in questa situazione non vi ricordiate le miserie della terra, né le cose sensibili di essa, né le offese che si fanno a Dio, questo lo comprendo, e ne conosco la giusta cagione, ciò nonostante io vi comando che preghiate per i poveri peccatori. Ditelo a Gesù Cristo che questa è l’obbedienza che vi impone il vostro padre spirituale, ditegli che vi dia grazia di obbedire».

Io gli risposi: «Padre, questa preghiera porta con sé il sacrificio, perciò io, da miserabile quale sono, mi offrirò a patire per la conversione dei peccatori».

Mi rispose: «Non voglio assolutamente che voi vi offriate a patire volontariamente, la sola preghiera dovete fare, badate bene di non offrirvi a nessun patimento senza il mio permesso; dite a Gesù Cristo che voi non avete licenza di fare nessuna offerta di voi medesima».

Io gli risposi: «Farò quanto mi comanda vostra paternità».

Secondo il solito, mi ritirai nel mio oratorio e mi posi in orazioni. Stando in mezzo ad un interno raccoglimento, era il mio spirito tutto assorto in Dio, quando così presi a parlare con il mio Dio: «Mio Dio, mio Signore, assoluto padrone del cielo e della terra, mio Creatore, mio Redentore, in cui credo fermamente e spero dalla vostra infinita bontà il perdono di tutti i miei gravissimi peccati; ah Signor mio, Dio mio, degnatevi di perdonare ancora tutti i poveri peccatori, fratelli miei, vi raccomando la santa Chiesa».

Con questa, ed altre espressioni pregai per i bisogni di santa Chiesa e per i peccatori. Fatta la preghiera, l’anima mia si sopì in Dio. Stando in questo dolce riposo, mi furono presentati molti travagli, croci e tribolazioni e mi fu fatto intendere che se volevo ottener grazie per la santa madre Chiesa e per i peccatori dovevo assoggettarmi a patire.

L’anima ricordevole di quanto mi aveva detto il mio padre spirituale: «Mio Dio», dissi, «ben volentieri mi assoggetterei a qualunque patimento, ma voi lo sapete che l’obbedienza mi proibisce di offrirmi a patire».

Così intesi rispondermi: «Lo so che il tuo direttore te ne ha fatto il divieto, ma sappi però che questa obbedienza non ti assenta di fare la mia volontà, alla quale tu sei tanto unita e congiunta».

A queste parole l’anima mia si umiliò profondamente, e tutta si rassegnò alla divina volontà.

Riferii al mio padre spirituale quanto mi era accaduto nelle orazioni, il quale così mi rispose: «Non vi è dubbio che quanto io vi ho comandato non toglie che voi dobbiate adempiere la volontà di Dio, Lui sa perché vi ho fatto questo comando, io non mi oppongo, fate dunque la volontà di Dio, che sono contento».

Questa fu la determinazione del mio padre spirituale che prese sopra dell’anima mia di abbandonarla al divino beneplacito. Staremo a vedere cosa Dio determinerà, e a suo tempo ne darà riscontro.

69 – HO PERDUTO IL MIO DIO!


Dal dì 25 fino al dì 31 dicembre 1822, il mio spirito è stato godendo in questi sei giorni un bene molto grande, mentre l’anima, in questo altissimo monte, godeva la vicinanza di Dio, sempre fisso teneva il suo sguardo in Dio, per ogni dove mi volgevo, trovavo il mio amorosissimo Dio, era sempre presente a me in una maniera molto particolare.

Oh cara mia sorte, oh degnazione ammirabile di un Dio amantissimo dell’anima mia! Trattenersi con me? trattenersi dentro di me! fuori di me, e di tutta circondarmi ed unirmi in qualche maniera alla sua immensità, che posso dire, senza alcun dubbio, che in questi sei giorni il mio spirito fu tutto assorto in Dio, senza capire le cose sensibili della terra, tanto era l’anima mia occupata e fissa in Dio, che i sentimenti del corpo erano tutti attratti in maniera che quel poco che agivo non era che per abito, sebbene in questi casi me la passo tutta la giornata e buona parte della notte, nel mio oratorio privato, senza farmi vedere, fuori di un caso di necessità e occorrenza della propria famiglia, secondo l’obbligo del mio stato.

Passati i suddetti sei giorni, tutto ad un tratto mancò questa bella vista e tutto questo grande bene che godeva l’anima mia, e mi trovai in un momento tutta ricoperta di folte tenebre, senza più distinguere dove mai io fossi, dove mai io mi trovassi. Qual pena sentivo in me, più non vedevo il mio carissimo Dio, piangendo dirottamente, lo cercavo e non lo trovavo.

«Oh mio Dio, quale inaspettato avvenimento è questo per me», dicevo, «quando meno me lo aspettavo, voi vi siete partito da me. Oh bel sole di giustizia, parevami al certo di essere tutta inabissata nel vostro divino splendore, e che mai potessi più perdervi di vista, speravo di avervi trovato per non perdervi mai più, mio Dio, e come mai in un tratto sono passata della luce inaccessibile alle più folte tenebre. In questo buio io niente vedo, niente distinguo, sento opprimermi il cuore, mio amorosissimo Dio, deh per pietà, datemi aiuto, soccorso per carità. Ma viepiù la pena a dismisura opprimeva il mio cuore e il santo amore faceva amoroso scempio di me.

Andavo per sollevare la mente verso il mio Dio, e ne ero respinta; piangevo amaramente, riconoscendomi meritevole di questo castigo. Cresceva in me il desiderio di ritrovare il mio Dio, e viepiù si addensavano le folte tenebre, e così sempre più si faceva maggiore la mia pena; in questo stato così afflittivo ricorsi alle sante virtù della fede, della speranza, della carità, con molto fervore dicevo: «Oh sante virtù, voi additatemi il mio Gesù, io ho perduto il mio Dio, per mezzo vostro io lo voglio ritrovare; Gesù mio, voi mi avete meritato queste sante virtù con lo sborso del vostro preziosissimo sangue, dunque comandate a queste sante virtù che favoriscano la povera anima, non vedete in che stato deplorabile io sono ridotta? Gesù mio, spero certo da voi questa grazia».

69.1. Fede, speranza e carità


Non furono vane le mie speranze, né andarono a vuoto le mie suppliche e le mie lacrime, che in molta copia versavo; mercé la misericordia del mio Dio, puntualmente mi favorirono queste sante virtù teologali, ma me le donò in un grado molto eccellente ed elevato, che potei esercitare gli atti più sublimi di fede, di speranza, di carità.

Queste sante virtù mi additarono il mio Dio, l’anima dunque virtualmente ritrovò il suo Dio, e tutta in Dio si riposò, ma senza vederlo, solo in virtù della fede che mi assicurava con ogni certezza, sicché l’anima mia con infallibile sicurezza si abbandonava e si riposava tutta in Dio, in virtù della fede, questo è un atto molto meritorio per l’anima e tanto caro a Dio, che altamente se ne compiace, perché rende a Dio molta gloria e molto onore, ma peraltro dobbiamo confessare che questi atti di virtù, tanto eminenti ed eccellenti, non si possono da noi praticare senza una grazia speciale di Dio, sicché la povera anima mia altamente se ne confonde, dopo di aver praticato sì eccellenti virtù, si umilia profondamente e ne rende la più affettuosa grazia al suo Dio, confessandomi affatto incapace di esercitare questi atti di virtù.

L’anima dunque, per rendere onore e gloria all’amato suo bene, si compiaceva di proseguire a stare in quelle folte tenebre, ed intanto, con la grazia del Signore, si andava esercitando in queste sante virtù teologali, non trascurando ancora l’esercizio delle altre virtù, non desiderando altro che di piacere e compiacere il mio Dio, non curando più me stessa, né il mio grave patire, ma solo abbandonata al beneplacito dell’amato mio bene.

69.2. Il mio Dio si prende gioco di me


Vedendomi il mio Dio tutta anelante ed ebbra del suo santo amore, in mezzo a quelle folte tenebre, altamente se ne compiaceva, e si prendeva gioco di me.

In mezzo a quelle folte tenebre, dall’anima si faceva vedere con tanto splendore e bellezza che l’anima ne restava rapita ed innamorata ad un segno, che non poteva più contenere se stessa, sicché non camminava, ma volava per approssimarsi all’amato suo Dio, che con tanta ansietà fino allora aveva cercato con tanta fatica e stento. Ma che, quando credeva di raggiungerlo, nuovamente si nascondeva, lasciando nell’anima maggior brama di possederlo. Si accendeva viepiù in me la fiamma della divina carità, e questa faceva crudo scempio di me, e l’anima mia, piena di fortezza e costanza, sempre più con sommo ardore, in mezzo a quelle folte tenebre, cercava il mio Dio. Di qual tempra sia questa sorta di patimenti non si può di certo spiegare. Senza la grazia speciale di Dio non si resiste, perché è così crudo e sensibile il patire, che può chiamarsi un forte martirio, che non si può spiegare. Mentre Dio dona all’anima un desiderio veementissimo di congiungersi, di unirsi con lui, di medesimarsi con lui, tanta è l’intelligenza ed il rapimento che le comparte, che necessita l’anima di aspirare a questa perfetta unione; intanto Dio, per compiacenza, suscita nell’anima un amore tanto grande che la strugge e consuma per amore dell’amante e le rende altamente afflitto il cuore.

Ogni giorno si accrescevano a dismisura le pene, le angustie nel desolato mio spirito. Compartendomi Dio per sua bontà tanto lume di propria cognizione, che odiavo me stessa, e mi pareva di essere odiosa a Dio, ai santi, agli angeli, agli uomini.

Oh Dio, qual pena è mai questa, che non si può spiegare, che portava l’anima mia ad un doloroso conflitto; altro non facevo che pascermi di amarissime lacrime e di affannosi sospiri, sopraffatta dalle pene e dal dolore, che mi riduceva quasi ad agonizzare.

Una notte stando in queste orazioni così penose per accrescimento delle mie pene, vidi il mio spirito sopra quel monte anzidetto, che camminava in mezzo a quelle folte tenebre; un piccolo splendore lo scortava e gli additava il cammino dell’erto monte, camminava con molta attenzione appresso al piccolo splendore, per il timore di non perdersi in mezzo a quelle folte tenebre.

Il mio spirito lo vedevo per mezzo di quella piccola luce, ed era tutto vestito di candide vesti, ma quello che mi recò gran pena fu di vederlo vestito goffo e poco attillato, erano questi bei vestimenti tutti risplendenti.

Questa vista mi consolò, ma non restò pago il mio cuore, perché l’importunità delle vesti mi parve che volesse significare la mia negligenza nell’operare, sicché per questo molto mi afflissi, e piangendo dirottamente chiedevo perdono al Signore e lo pregavo incessantemente di darmi la grazia di corrispondere alle tante sue divine misericordie e a tanti suoi favori.

Non sto qui a dire le lunghe preghiere che facevo, le lacrime che versavo, gli affannosi sospiri che il mio cuore inviava verso il suo Dio, mentre in mezzo a quelle folte tenebre non distinguevo se Dio era con me, se io ero in grazia sua; qual pena recasse questa dubbiezza al mio cuore, non posso al certo esprimerlo. Sentivo intanto un amor grande verso Dio, ed una necessità di amarlo.

Questa è un’amorosa prova che Dio fa all’anima, e l’anima mia molto bene lo distingueva, e viepiù si accendeva di santo amore, il quale faceva crudo scempio di me, e così martirizzava l’anima e il corpo. Questo doloroso conflitto durò 33 giorni: dal 31 dicembre 1822 fino al dì 3 febbraio 1823. Sicché il mese di gennaio lo passai in queste gravissime afflizioni.

Tralascio il dire come Dio, per sua infinita bontà, mi sollevò da queste gravi angustie, riservandomi a darne riscontro in altro cartolaro. Intanto prego vostra paternità reverendissima di esaminare questo, che umilio e soggetto al savio suo parere e consiglio, per quiete della povera anima mia, la quale sempre dubita di essere ingannata dal demonio: protestandomi avanti al mio Dio, di aver scritto questi fogli a sua maggior gloria, e per obbedire vostra paternità, che me l’ha comandato.

69.3. Una chiamata improvvisa


Il dì 3 febbraio 1823, la notte stava ragionando con le mie due figliole di cose indifferenti, non lasciavo intanto di soffrire le mie interne pene e le mie gravi angustie di spirito, quando improvvisamente sento un tocco interno della divina grazia, ma tanto forte e violento, che mi trasse in un subito fuori dei propri sensi, per la forte chiamata il mio corpo si levò in gelido sudore.

Io non capivo il significato di questa improvvisa chiamata; in questo tempo mi sopraggiunse un forte svenimento, le figlie, avvedutesi di questo mio male, volevano adagiarmi sopra il letto, ma io le dissi: «Non posso, conducetemi al mio oratorio!». Come di fatto fecero. Una delle figlie stette un poco di tempo a vedere come io mi sentivo, essendomi avviticchiata in terra, perché non mi potevo reggere altrimenti; la suddetta mi mise una sedia, perché mi sostenesse, mi voleva portare dei cuscini, perché mi appoggiassi, ma io la ringraziai e le dissi che fosse andata pure a fare le sue incombenze, che mi avesse lasciata in libertà, che stesse quieta, che io mi sentivo bene.

Obbedì la figliola, mi lasciò in libertà. Chiusa nel mio oratorio, l’anima mia se ne andò al suo Dio, che così fortemente la chiamava: «Mio amorosissimo Dio», diceva l’anima, «cosa volete da me, io non v’intendo!». In questo tempo si sopì in Dio l’anima mia, ed il Signore dolcemente così la chiamò, e la destò da quel soave sonno: «Giovanna Felice del mio cuore», mi disse, «perché tanto ti affliggi? E non vedi che il divino aiuto è nelle tue mani? Di che temi, di che paventi? Se io sono con te, chi sarà contro di te? chi ti potrà nuocere? chi ti potrà sovrastare?».

A queste amabilissime parole, qual mi restassi io non so dirlo, perché in quel momento che il mio Dio si degnò manifestarsi all’anima, ad un tratto passai dalle afflizioni ad una consolazione tanto grande che non posso spiegarlo, passai dalle folte tenebre alla risplendente luce. L’anima intanto, vedendo il suo Dio, ebria di amore, con affettuose parole, così rese a parlare, umiliandosi profondamente con sommo rispetto, così gli dissi: «Mio Dio, mio Signore, padrone assoluto del cielo e della terra, mio Creatore, mio Redentore in cui credo fermamente, da cui spero tutto il mio bene, vi amo, sì, vi amo, mio Dio, mio Signore, vi amo più di me stessa, oh quanto sono contenta! oh quanto è grande la mia consolazione di avervi pur ritrovato una volta! oh quanto è stato crudo il mio esilio! Io lungi da voi? e voi lungi da me? Mio Dio, io più non vi sentivo in me, ciò nonostante mi sentivo viepiù innamorata, appassionata di voi, mio Dio, mio amore, mio tutto, il vostro santo amore ha fatto crudo scempio di me. Ah Gesù mio, non sia più così, non vi nascondete più agli occhi della mia mente, non vedete a che stato mi ha ridotto il vostro amore! Ah, Gesù mio, abbiate pietà di me, adesso che vi siete fatto da me ritrovare, non vi separate più da me: Ne permittas me separari a te». Con queste ed altre simili espressioni, che non mi dà l’animo di poterle manifestare, perché in questi casi cento e mille affetti insieme assalgono il mio cuore, perché prodotti sono dalla grazia del Signore. Lascio per un momento il mio spirito con il suo Dio, sfogando il suo ardente amore, e ricevendo dal suo amato bene i più distinti favori della sua divina carità.

69.4. Appoggiata a un bellissimo bastone


E prendo a raccontare cosa vidi in quello spazio di tempo che sarà stato di circa due ore e più, di dunque in questo tempo il mio spirito in mezzo a quelle folte tenebre, che rischiarate venivano dalla suddetta luce, vedevo il mio spirito che si affrettava a camminare per l’interna chiamata avuta dal suo Dio; lo vedevo vestito nella medesima maniera anzidetta, vestito di candide vesti, ma queste erano mal messe e senza attillatura. Camminava con molta celerità e speditezza, a cagione di un bellissimo bastone che teneva nella mano destra, sul qual bastone lo spirito si appoggiava e si sosteneva, e così si rendeva abile a camminare velocemente.

Io restai molto ammirata nel vedere il mio spirito che camminava così velocemente; in questo tempo così intesi dirmi: «Non ti rechi meraviglia la celerità del suo cammino, non vedi che il divino aiuto è nelle sue mani, sotto il simbolo di quel forte bastone! Giovanna Felice, rallègrati e non ti rattristare, non fissare il tuo sguardo negli abiti più o meno attillati, il camminare è quello che ti giova. Affréttati dunque, e non ti perdere d’animo; dalle tenebre passerai alla luce. Mira, o figlia, fin dove vuol condurti il mio amore».

Dette queste parole, fisso lo sguardo della mente e vedo un sommo splendore che tutta mi circondava e mi medesimava in Dio, per partecipazione godevo un bene essenziale, non so spiegare se fuori di me stessa, o dentro di me stessa, perché il mio spirito io più non lo distinguevo, tanto era in Dio medesimato ed intimamente unito; non so spiegare di più. Ne lascio a vostra paternità reverendissima il decidere, se io con giusti o ingiusti termini, mi sono spiegata, come ancora se queste siano opere dello Spirito del Signore, ovvero larve del tentatore.

69.5. Un monte la cui sommità arriva al cielo


Riprendo il filo del racconto. Dopo essere stata per qualche tempo godendo di questo bene inarrabile, che non so dire qual spazio di tempo fosse, tornai in me stessa ritenendo in me i buoni effetti, mi trovavo ancora tutta assorta in Dio, e quasi come in un nuovo mondo, tanto per il favore ricevuto, come ancora per trovarmi sgombra da quelle folte tenebre. In questo tempo fu nuovamente chiamata l’anima da Dio, il quale si degnò farmi vedere un monte altissimo, la cui sommità arrivava al cielo. Era questo monte ricoperto di languida luce, ma era tanto erto e dritto che sembrava impossibile il poterlo salire. Io lo guardavo con ammirazione, ed intanto riflettevo alla grande difficoltà di poterlo salire, ciò nonostante questi ostacoli, io sentivo in me un santo desiderio di intraprendere quell’arduo cammino, ma bilanciavo le mie deboli forze, e sempre più si sembrava non solo difficile, ma affatto impossibile di intraprendere un sì laborioso viaggio.

Stando io in questo forte contrasto, non sapevo cosa risolvere, ma il mio Dio si degnò di sciogliere tutte le mie difficoltà, così prese a parlare il mio buon Signore: «Figlia carissima, non bilanciare le tue forze; ma, tutta affidata alla mia onnipotenza, potrai con facilità salire l’erto monte, il mio divino aiuto mai ti mancherà. Io sarò sempre con te e tu felicemente arriverai fino alla sommità del monte santo dove io ti aspetto per coronarti d’immortalità, questa sarà un’opera per me di gloria e di onore, e per te di gran merito».

A queste parole la povera anima mia profondamente si umiliò, e con voce flebile e tremante così rispose: «Mio Dio, dove mi volete voi condurre? Che non mi conoscete, che sono la creatura più vile, più ingrata che abita la terra? Come volete che l’anima mia, contaminata da tante miserie e peccati, possa salire questo monte santo, che hanno calcato i vostri fedelissimi servi che ora vi godono in paradiso? Ah, non son degna, mio Dio, di tanto onore. Cosa potete sperare da me, povera e vile vostra serva, voi lo vedete, Dio mio, Signore mio, che io altro non faccio che disonorare la vostra divina maestà, con le mie replicate ingratitudini! Ah Signore, abbiate riguardo al vostro onore, alla vostra gloria, la quale mi è più cara che il proprio mio vantaggio».

Fondata in questi umili e giusti sentimenti, piangevo dirottamente e sospiravo, in luogo di consolarmi stavo tutta mortificata, stetti due giorni in questa situazione.

Ero tutta assorta in Dio conservando nel mio cuore questi umili sentimenti, in santo raccoglimento, lodavo e benedicevo il mio Dio, che si degnava favorirmi con la sua divina grazia, nonostante il mio gran demerito.


13 febbraio 1945

Madre Pierina Micheli

Festa del S. Volto! fino alle 11 non potei entrare in cappella, poi Gesù mi assorbì e... momenti che non si possono tradurre in parole... lasciandomi un forte desiderio di soffrire e consolare il Suo Cuore Divino... Anime... anime!...