Verso la fine di aprile del 1937 ebbi una grande crisi [fisica] che mi portò sull'orlo della tomba: vomiti da non finire; non trattenevo nulla nello stomaco. I primi giorni rimasi in una profonda prostrazione. Non riconoscevo le persone. Non avevo né fame né sete. Il parroco mi lesse tre volte le preghiere degli agonizzanti, ma ricordo ben poco. Udivo che si piangeva, ma non pensavo alla morte. Da un anno ricevevo giornalmente la Comunione, mentre prima, con mio grande dispiacere, la ricevevo poche volte al mese. Non so perché, ma forse fu il Signore che ispirò il parroco a portarmi Gesù tutti i giorni. Io chiedevo questa grazia che fu la mia più grande gioia. In questo periodo di vomiti, un giorno vidi entrare il parroco in camera mia. Riconosciutolo, gli dissi: - Vorrei ricevere Gesù. - Mi rispose: - Sì, mia cara, vado a prendere una particola da consacrare: se non la rigetterai, ti porterò Gesù. - Così fece. Ma appena inghiottita, la vomitai. Il parroco era del parere di non darmi la Comunione, ma qualcuno gli disse: - Signor parroco, un'ostia da consacrare non è Gesù! - Allora si decise a darmi la Comunione e la ritenni. Non tralasciai mai più di riceverla. Quante volte entrò il parroco ed io ero in crisi di vomito! Ma, appena ricevuto Gesù, cessava la nausea e non ritornava se non dopo una mezz'ora dalla Comunione. Fu il motivo che indusse il parroco a non temere di darmi Gesù.
La crisi durò parecchio tempo e per 17 giorni non potei inghiottire nulla: la mia medicina fu Gesù. Io dicevo: - Muoio di fame e di sete - perché dopo i primi giorni sentivo una sete bruciante e un grande bisogno di alimentarmi. Quando migliorai, la mia maggior pena mi veniva dal pensare che, se fossi morta durante quella crisi, non avrei avuto perfetta coscienza della morte. Infelice chi è paralitico!
Durante le funzioni del mese di maggio in parrocchia rimanevo sola in casa. Per fare le mie orazioni accendevo alcune candeline con una canna. Un giorno cadde un moccolo che produsse tosto una fiamma la quale poteva appiccarsi alle tovagliette della mensola o fare spaccare la campana di vetro. Volevo spegnerla con la canna stessa, ma non ci riuscivo; quando stavo per far cadere a terra il candeliere, tutto si spense.
Che afflizione nel non potermi muovere ed impedire che quella piccola fiamma causasse la distruzione della nostra casa! Un altro giorno in cui dovetti restare sola per un po' di tempo presi un grande spavento. Entrò una vicina per chiedermi se abbisognavo di qualcosa. Quando se ne andò lasciò aperta la porta della veranda e poco dopo la nostra capretta ne approfittò per entrare. Si incamminò verso la sala dove avevamo i vasi dei fiori e dei sempreverdi con cui adornavamo gli altari della chiesa in occasione di feste. La chiamai: mi guardò ma non venne. Le buttai un pezzo di mela ma non la mangiò, gliene mostrai un altro boccone e continuai a chiamarla finché mi si avvicinò; la afferrai, le diedi la mela e me la tenni stretta quasi due ore, un po' con carezze e un po' con qualche schiaffetto. Quando giunse mia sorella si meravigliò che io avessi potuto fare quello sforzo. Ringraziai Gesù per aver potuto evitare, benché paralizzata, il dispiacere di vedere i nostri fiori distrutti. Poco tempo dopo ebbi una prova più dolorosa.
Mia sorella era fuori paese e mia mamma al mercato. Io rimasi con la ragazza incaricata da mia madre di prestarmi i servizi fino al suo ritorno. Nonostante i suoi vent'anni preferì andarsene anzitempo. Mentre usciva le dissi: - Se vuoi proprio andartene, fallo pure. Al loro ritorno mi troveranno qui, viva o morta. - Appena uscita la ragazza, si avvicinarono alcuni gattini che, dopo vari tentativi, riuscirono a saltare sul mio letto. Siccome non li volevo, li obbligai a scendere. Alcuni minuti dopo udii che uno cadde in una bacinella d'acqua e morì affogato dopo aver miagolato molto, lottando con la morte; anche la madre miagolava. Non riuscii a dominarmi e incominciai a piangere dicendo: - O Mamma celeste, fa' che arrivi qualcuno a salvarlo. - E invocai vari santi.
Tra me pensavo: - Infelice chi è paralitico! - Entrarono per caso due persone che nel vedermi singhiozzare si impressionarono. Non piangevo per impazienza ma per la pena delle bestioline. Il comportamento della ragazza dispiacque alla mamma e alla sorella; ma la perdonarono come la perdonai io. Siccome amavo la solitudine, specie di domenica, quando in chiesa si faceva l'adorazione al Santissimo, pregavo i miei di andarvi per lasciarmi sola con Gesù. Una volta, appena usciti, messami a pregare, udii qualcuno che, aperto il portone verso strada, saliva la scala dicendo ad alta voce: - Aprimi la porta. - Dalla voce riconobbi chi era: mi spaventai. Che sarebbe avvenuto mai se fosse entrato? Piena di fiducia strinsi nelle mani il mio Rosario mentre quel tizio continuava a spingere con forza la porta. Quantunque non fosse chiusa a chiave, non riuscì ad aprirla. Preoccupata di cosa avrei detto e molto spaurita, non riuscivo neppure a respirare. Siccome non ottenne di aprire, se ne andò e mi lasciò in pace. Attribuii questa grazia a Gesù e a Mammina che mi liberarono da quel pericoloso incontro. Preferirei i demoni dell'inferno. Dopo questo fatto non rimasi più sola in casa se non chiusa a chiave.