Dice Gesù:
«No. Non ti lamentare e non ti rammaricare come per un cambiamento di amore a tuo riguardo. Questo non è diminuzione; è aumento. Parlo a te e a tutti gli spiriti che si sono votati tutti a Me e che si trovano nel tuo stesso caso. Sono coloro sui quali il mio occhio si riposa e si consola di tutte le infamie che vedo compiere sulla Terra.
Quando uno ha compiuto un lavoro duro, affliggente, ripugnante anche, non trova grande gioia a respirare nell’aria pura ed a guardare un bel prato verde e fiorito? I polmoni si dilatano, l’occhio si riposa, la mente si ricrea. Pare di rinascere.
Lo stesso accade al vostro Gesù. Tanto addolorato, tanto disgustato! E da tanti! Pensate: sono la Bontà e l’Amore e ricevo offese, odio continuo, e devo usare il rigore per punire i colpevoli. Questo mi stanca più del portare la croce. Non che allora ignorassi che morivo inutilmente per molti. Non lo ignoravo, ma Io parlo della fatica materiale e del momento. Questa è fatica continua e dello spirito mio. I colpevoli affaticano lo spirito di Dio. Pensate a questo e comprenderete quanto è grave la colpa se è atta a stancare uno spirito perfetto come il divino. Ebbene voi, miei prediletti, mi riposate.
E senti questa parabola per voi.
Un uomo ama una donna. L’ha vista bella, gli hanno detto che è buona, pura e modesta, ed egli ha sentito un affetto sorgergli in cuore, e con l’affetto la speranza di potere possedere come moglie quella donna e farne la perla della sua casa.
Si fa presentare ai parenti e chiede loro la giovane. Gliela concedono. E lui con mille attenzioni cerca di conquistarne l’affetto, perché il suo è già amore gigante e vuole portare allo stesso la sua amata. Ogni volta che va a lei le porta qualcosa che sa di suo gusto, quando le è lontano pensa cosa le può portare, se è lontano dal paese le scrive per dirle quello che a voce non può dirle, e appena torna nel luogo corre da lei. Non le racconta i crucci propri. Quelli li lascia fuori della porta perché non la vuole addolorare, e per lui è già sollievo vedere il viso sorridente dell’amata.
Così passa il tempo che voi chiamate “fidanzamento” e noi ebrei “sposalizio”, ma che non essendo coniugio consumato era, in fondo, un fidanzamento ufficiale rigorosissimo, tanto che la donna prendeva il nome di “vedova” se lo sposo le moriva avanti il matrimonio consumato, lasciandola vergine.
Ma poi viene il momento in cui la donna lascia la casa paterna ed entra in casa dello sposo per essere “una sola carne con lui” secondo il comando antico [399], e per sempre, secondo il mio nuovo comando che dice: “Ciò che Dio ha congiunto non può essere separato dall’uomo per nessun motivo”. Poiché separare vuol dire spingere all’adulterio, e il peccato di adulterio lo commette non solo chi pecca nella materia ma chi produce le cause del peccato, mettendo una creatura nelle condizioni di peccare.
E questo vada detto non solo ai mariti che abbandonano le mogli ed alle mogli che si separano dai mariti, ma anche ai parenti dell’una e dell’altra parte che per un loro particolare malanimo od egoismo mettono zizzania fra due coniugi, o a quei bugiardi amici di casa che con menzogne, o anche semplicemente con l’aizzare un malumore, che non aizzato cadrebbe, creano fra due sposi dei fantasmi atti a rendere insopportabile la convivenza.
In verità vi dico che, se gli sposi sapessero vivere isolati nel cerchio del loro affetto e dell’amore per la prole, il 90% delle separazioni coniugali cesserebbe d’essere, perché gli stessi motivi di incompatibilità che vengono addotti per ottenere una separazione fra coniugi vi sono in ogni convivenza: fra figli e genitori, fra parenti, tra fratelli, anche tra amici che si siano riuniti, né li rendete così imponenti da giungere ad una scissura. E questo, che è il legame insolubile in ogni modo, lo spezzate con la massima facilità.
Mai dovreste essere infedeli, mai. Ma questo solo potrebbe, non dal mio punto di vista, ma dal vostro, essere l’unico movente di una separazione. Dal punto di vista naturale. Perché il soprannaturale dice: “Se uno dei due ha già mancato, doppio dovere del secondo d’esser fedele per non privare la prole dell’affetto e del rispetto. Affetto dei genitori alla prole, rispetto della stessa ai genitori. E colui o colei che, non sapendo perdonare, allontana il colpevole e rimane solo, difficilmente poi sa rimanere solo, e passa a sua volta ad illeciti amori le cui conseguenze si riversano sull’immediato presente dei figli e sulla loro moralità futura”. Perciò Io dico: “Non è lecito all’uomo, per nessun motivo, non è lecito al cristiano separare ciò che un Sacramento ha congiunto nel Nome di Cristo”.
Ma Io non voglio parlarti di ciò. Voglio parlare a te, anima mia che sei congiunta non a uomo ma a Dio con offerta di carità che Egli ha accolta. Io voglio parlare alle anime tue sorelle nell’amore totale per Me.
Quando la sposa lascia dunque la casa paterna e diviene moglie di colui che l’ama, sale ad un grado di amore più grande. Non sono più due che si amano. Sono uno che si ama nel suo doppio. L’uno ama sé riflesso nell’altro, poiché l’amore li stringe in un nodo così stretto che la gioia annulla la personalità e i due singoli godono di una unica gioia.
Corrispondono ai due primi periodi degli sponsali mistici. Prima siete amate e vi affezionate al Dio che vi ama. Poi penetrate in un più alto amore e gioite delle sue gioie che divengono vostre gioie. Ma non è la perfezione della sposa, questa. Già te l’ho detto [400] e ora te lo ripeto per rispondere al tuo perché. “Perché ora non hai più quelle parole di così sicura pace, di così affermativa promessa che Tu mi avresti risparmiato certi dolori?” hai detto poco fa rileggendo le pagine d’ottobre.
O Maria! Perché! Perché ti ho portata più in alto.
Gli uomini mi fanno accusa di ripetermi nel mio dire. Ma se devo ripetermi con te che sei tutta tesa ad ascoltarmi e mi sembri un uccellino di nido a bocca spalancata per attendere il cibo che il padre gli porge – il tuo cibo che è la mia parola – come non devo ripetermi quando parlo per chi non mi sta attento? Una, due, cento, mille volte devo ridire le stesse verità per ottenere che un minuzzolo di esse penetri nel loro cuore e vi susciti una luce. Ché se poi tale luce si spegne non è mia la colpa, né possono accusarmi della loro cecità.
Ora Io ti dico. Quando è passato il periodo entusiasmante dell’amore, questo si matura in una virilità dignitosa, e dell’uomo e della donna, dianzi nulla più che due abitanti della Terra, e poi divenuti una carne sola, fa un padre ed una madre che si amano su una cuna e si guardano dicendo, dicendo come disse Dio Creatore rimirando l’Uomo – pensate, o genitori, la vostra potenza – : “Abbiamo fatto una creatura che è eterna, che è dei Cieli, di Dio”. Tale è il destino dell’uomo e, se il suo malvolere non lo travia, tale è la sua mèta gloriosa. Ma giunti a questa perfetta unione, non diviene la sposa anche madre, sorella e amica del consorte?
Oh! dolce conforto per l’uomo quella donna che lo sa amare con tale perfezione che egli possa versare in essa tutti i suoi pensieri ed esser sicuro che sono compresi e consolati!
Oh! benedetta quella casa dove la santità del Sacramento vive nel vero senso della parola e produce una inesausta fioritura di atti di amore. Amore non di carne soltanto, ma più di spirito. Amore che dura e anzi cresce quanto più gli anni e gli affanni crescono. Amore che è vero amore. Perché non si limita ad amare per il godimento, ma abbraccia la pena del coniuge e la porta seco lui per sollevarlo del peso.
Si amano meno due che piangono insieme di due che si baciano e sorridono? No, Maria. Si amano di più. L’uomo mostra di stimare molto la sua donna se ad essa confida tutto di se stesso per averne consiglio e conforto. La donna mostra di amare molto il suo uomo se sa comprenderlo nei suoi pensieri e se volonterosa lo aiuta a portare i suoi affanni. Non vi saranno più baci di fuoco e parole di poesia. Ma vi saranno carezze d’anima ad anima e segrete parole che si mormorano gli spiriti, dandosi l’un l’altro la pace del vero amore. Del vero matrimonio.
Ebbene, anima mia. Ora sei in questo stadio. Col tuo amore al mio fuso mi hai partorito dei figli. Sono figli che mi hai dato tutti coloro che hanno conosciuto Me, o conosciuto meglio, attraverso il tuo operante amore. Li conoscerai un giorno e ne gioirai.
Ora che Io ti amo tante volte di più per ogni figlio che mi hai dato, ora che so che tu mi ami sino a volere prendere su te la croce dell’interesse mio, perché la gloria del tuo Signore ti preme più della tua vita, ecco che Io con te agisco da Sposo sicuro della sposa sua. Non ti mostro più unicamente il sorriso, ma anche il mio pianto. Non ti carezzo più con le rose, ma ti stampo rose di sangue sul cuore appoggiandovi contro la mia fronte coronata di spine; non ti bacio più con le labbra intinte di miele e vino, ma con la bocca amara dell’aceto e del fiele che è stato il mio ultimo beveraggio ed al quale si è mescolato l’acre sapore del sangue che saliva dai polmoni spezzati nell’ultimo rantolo. Se così ti tratto è perché ti giudico “donna forte” nel senso biblico [401] della parola.
Oh! che riposo per Me avere di questi cuori! Datelo, voi generosi che sapete amare, all’eterno Mendico che va chiedendo amore e non riceve che indifferenza e offese. Dammelo, Maria. E non temere d’esser discesa. Se avessi ali d’angelo saliresti sempre meno ratta che tu non salga con l’ali dell’amore generoso.»
Per sua norma, la mia frase che ha provocato il conforto di Gesù era scaturita così.
Rileggevo le infuocate pagine dell’ottobre scorso, quando Egli mi prometteva che presto sarebbe venuto a prendere la sua colomba. “[Quando] la primavera è nelle nostre contrade e si ode la voce della tortora, allora verrò” diceva [402]. Ed io lo speravo tanto, ché di morire non ho nessun ribrezzo. Anzi, non desidero che di morire.
“Ma perché” gli dicevo stamane pensando alla sua promessa e sentendomi d’ora in ora fuggire la vita come acqua da vaso spezzato – e fuggire in una desolazione tale, in una tale solitudine che sarebbe meno crudele se fossi in un deserto, fuggire in un con il senno che qui mi si consuma ancor più rapidamente dell’organismo che pure va a rotoli, e solo io so come va a rotoli, in questo clima che mi dissenna per la pressione barometrica deleteria ad un malato dei miei mali, e per la debolezza del corpo sempre più denutrito, dato che non posso assimilare il cibo e perciò lo devo sospendere – “perché” gli dicevo “non mi hai preso prima del… non posso fare a meno di chiamarlo: maledettissimo 10 aprile? [403] Con mille torture, ma prima di quel giorno. Con la carne ròsa da un cancro, come avevo chiesto, ma non così… e non è finita ancora. Possibile che Tu, che mi hai sempre ascoltata per gli altri, per tutti gli altri, grandi e piccini, buoni e malvagi, credenti e atei, non abbia voluto ascoltare me per me? Perché?”
Il “perché” che mi trivella cuore e mente. Il “perché” al quale non è data una risposta che dia così pace al mio io da non farmelo più chiedere questo “perché”. Perché? Perché? È lo stupore sempre rinascente in me per il rifiuto di Dio a questa grazia che gli avevo chiesta, questa sola per me, dopo avergli dato tutto. Una grazia! Una per me!§
Lo stupore. Perché so quanto è buono. L’ho esperimentato per tutti e per me stessa. Per tutti perché mi ha sempre detto “sì” quando gli ho chiesto grazie per gli altri. Per me perché ha tante carezze per l’anima mia. Ma in questo non mi ha voluta ascoltare. Ecco il mio dolente stupore che non muore, che non può morire, che grida più forte che mai più il tempo passa e più io sento su me la morte e penso che dovrò molto probabilmente spirare fuor della mia casa.
Sono nove anni che Gesù mi ha chiesto il mio papà [404], e con che strazio ho detto “sì” solo Lui, che vede le mie quotidiane lacrime e sente i miei gridi che chiamano “papà, papà!” senza tregua, lo può sapere. E qui le lacrime sono ancor più amare. È un anno che mi ha chiesto la mamma. Il 3 giugno 1943. E con che lacrime gliel’ho data, solo Lui lo sa. Gli altri no, perché io piango quando gli altri dormono o mangiano e credono che io faccia altrettanto. Ma là piangevo con pace, qui no. Non ho conforto, no.
No, cari. Se la mia carità di prossimo vi risparmia la vista del mio dolore, sappiate tutti, vicini e lontani, che esso è vivo come quando seppi mamma condannata, ed ho sofferto l’agonia dell’orfana prima ancora, quattro mesi ancor avanti che orfana fossi, ed è sempre fresco e rovente come ferita testé data. Qui più rovente che mai.
Ma volevo morire là, là, là dove essi sono morti e dove, come poterono, mi amarono, e dove li ho amati molto, oh! molto più di me stessa. Volevo morire là dove almeno avevo trovato una guida in lei, Padre, e dove vi era tanto di Gesù. Qui sono una canna che il vento piega e non c’è niente che mi sia sostegno, neppure il ricordo o l’eco di Gesù, perché qui non è come là. Sento le voci, sento anche le carezze (molto raramente, là erano continue) ma li vedo, per me [405] (legga il 7-6, quaderno nero II) una volta sola, né posso tenerne presente l’aspetto. Anzi, tolto Dio, tutto il resto è il vento che piega e spezza la povera canna…
Ma è anche perché sei Tu solo che non mi torturi, che ti dico: “Abbi pietà. Non farmi conoscere il fango. Non me ne far più sentire il nauseante sapore. Io voglio Te, Te solo. Voglio continuamente continuare a dire: Dio è buono. Voglio poterlo continuare a dire, cosa che non potrei più fare se un colpo troppo crudele distruggesse quell’intelligenza che Tu mi hai data e che vuole rimanere integra per intendere Te e ripetere ciò che Tu le dici”.
Oggi è mercoledì. Nella settimana è il giorno dedicato ai disperati [406]. Forse soffro per loro, per levare loro dalla tortura… Se è così… Basta che domani non sia come oggi. È come un serpe che si attorcigli e soffochi nelle spire viscide e fredde.
O speranza, speranza, non ti spegnere mai nel cuore degli uomini! Non fare degli uomini dei bruti levando la tua luce che è intelligenza, fede, pace e via alla casa di Dio, al Regno di Dio.
[399] comando antico, in Genesi 2, 24; nuovo comando, in Matteo 19, 5-6.
[400] te l’ho detto, per esempio nel “dettato” del 13 febbraio, che a sua volta rimanda al “dettato” dell’11 ottobre 1943.
[401] senso biblico, che si può ricavare da Proverbi 31, 10-31, dove si fa l’elogio della donna “forte” (secondo la volgata) oppure “perfetta” (secondo la neo-volgata).
[402] diceva, non proprio testualmente, alla fine del primo “dettato” del 9 ottobre 1943 e alla fine del secondo “dettato” del 13 ottobre 1943.
[403] 10 aprile, quando aveva saputo che sarebbe stato decretato lo sfollamento obbligatorio da Viareggio, come abbiamo ricordato in nota al 24 aprile, giorno d’inizio dello sfollamento della scrittrice. Poco prima erano iniziati i quaranta giorni dell’abbandono divino, più volte ricordato.
[404] il mio papà, Giuseppe Valtorta, nato a Mantova nel 1862, era morto a Viareggio il 30 giugno 1935. La mamma della scrittrice, Iside Fioravanzi, nata a Cremona nel 1861, era morta a Viareggio il 4 ottobre 1943.
[405] per me, come ha spiegato il 7-6, cioè nello scritto del 7 giugno.
[406] giorno dedicato ai disperati, secondo il calendario settimanale delle sofferenze, stabilito nel “dettato” del 29 maggio.