(1) Dopo aver passato qualche giorno di privazione, al più qualche ombra ed a lampo, ma però tutte le mie potenze me le sentivo tutte addormentate, in modo che io stessa non capii ciò che succedeva nel mio interno. In questo assonnamento una sola pena si destava nel mio interno, ed era che mi pareva di essermi accaduto come a colui che mentre dorme perde la vista, ovvero viene spogliato di tutte le sue ricchezze, onde il misero non può né dolersi, né difendersi, né usare qualche mezzo per liberarsi dai suoi infortuni. Poveretto, in che stato compassionevole si trova! Ma qual è la causa? Il sonno, perché se fosse desto, certo che si saprebbe ben difendere dalle sue sventure. Tale è il mio misero stato; non mi viene dato neppure di mandare un gemito, un sospiro, di versare una lacrima, perché ho perduto di vista colui che è tutto il mio amore, tutto il mio bene e che forma tutto il mio contento. Pare che per non farmi dolere della sua privazione, mi ha assonnato e mi ha lasciato. Ah! Signore, destatemi Voi, acciocché possa vedere le mie miserie e conoscere almeno di che sono priva.
(2) Ora, mentre mi trovavo in questo stato, da dentro il mio interno ho inteso il benedetto Gesù, che si lamentava continuamente. Quei lamenti hanno ferito il mio udito ed un po’ destandomi ho detto: “Mio solo ed unico bene, dai vostri lamenti avverto lo stato troppo sofferente in cui vi trovate. Ciò avviene che volete soffrire da solo e non volete farmi parte delle vostre pene, anzi, per non avermi in vostra compagnia mi avete assonnato e mi avete lasciato senza farmi capire più nulla. Capisco il tutto donde ciò viene, che per essere più libero nel castigare, ma deh! abbiate compassione di me, che senza di Voi sono cieca, e di Voi, che è sempre buono in tutte le circostanze avere uno che vi faccia compagnia, che vi sollevi e che in qualche modo spezzi il tuo furore. Perché per ora state saldo e mandate flagelli, ma quando vedrete le vostre immagini perire per la miseria, manderete più lamenti che ora e forse mi direte: “Ah! se tu ti avessi più impegnato a placarmi, se avessi preso su di te le pene delle creature, non vedrei tanto straziate le mie stesse membra!” Non è vero mio pazientissimo Gesù? Deh! sollevatevi un poco e lasciatemi soffrire in vece vostra!”
(3) Mentre ciò dicevo, Lui continuamente si lamentava, quasi in atto di voler essere compatito e sollevato, ma lo voleva essere strappato quasi per forza questo stesso sollievo, onde dietro le mie importunità, ha disteso nel mio interno le sue mani e piedi inchiodati e mi ha partecipato un poco le sue pene. Dopo ciò, dando un po’ di tregua ai suoi lamenti, mi ha detto:
(4) “Figlia mia, sono i tristi tempi che a ciò mi costringono, perché gli uomini si sono tanto ingagliarditi ed insuperbiti, che ognuno crede di essere dio a sé stesso, e se Io non metto mano ai flagelli, farei un danno alle loro anime, perché la sola croce è l’alimento dell’umiltà. Onde, se ciò non facessi, verrei Io stesso a far mancare il mezzo come farli umiliare ed arrenderli dalla loro strana pazzia, sebbene la maggior parte più mi offendono, ma Io faccio come un padre che spezza a tutti il pane come alimentarsi; che alcuni figli non lo vogliono prendere, anzi se ne servono per gettarlo in faccia al padre, che colpa ne ha il povero padre? Tale sono Io. Perciò, compatiscimi nelle mie afflizioni”.
(5) Detto ciò è scomparso, lasciandomi mezzo desta e mezzo addormentata, non sapendo io stessa né se devo perfettamente destarmi, né se devo un’altra volta assonnarmi.