In una notte di decessi violenti, il chirurgo Kathryn L. Butler capì che le ragioni umanitarie più nobili del proprio operare non reggevano il dramma della vita: "Perché curare se poi si muore? Perché soffrire?". Ma Dio usò la sua crisi per riportarla a sé, rispondendole con la guarigione di un uomo in stato vegetativo.
Pensava di essere fuori tempo massimo per riparare al suo errore più grande, di cui si era già pentita. Ma qualcosa, o Qualcuno, le ha fatto capire che c’era ancora speranza e lei è stata in grado di corrispondervi con tutta la sua buona volontà. Lisa, il nome è di fantasia, è una venticinquenne americana che nell’autunno del 2015 si era recata in un centro abortivo del Michigan per porre fine alla vita che custodiva nel suo grembo, attraverso l’aborto chimico. Vi era poi ritornata una settimana dopo aver assunto il mifepristone, l’anti-progestinico contenuto nella RU-486 (la pillola abortiva che il grande genetista francese Jerome Lejeune ha definito “pesticida umano”) e il cui scopo è inibire lo sviluppo dell’embrione, e quando aveva già ingerito anche la seconda pillola per indurre il travaglio ed espellere il bimbo senza vita. Vi era tornata perché, in mancanza delle attese contrazioni, aveva capito che qualcosa non aveva “funzionato”.
Nel dopo morte di Marina Ripa di Meana - “dopo morte” sostituisce i termini “funerali civili” o “esequie cristiane”, che non hanno avuto luogo -, al vedere le foto delle corna sulla bara ivi poste per volontà della defunta, ho provato una sensazione fortissima, frutto di contrasto tra due sensazioni contemporanee, proprio come capita nei libretti d’opera (ad es. «Di opposti affetti un vortice / già l’alma mia circonda»: Rossini, La donna del lago): un godimento estetico e un brivido di terrore generato dalla fede.