La Vergine della Rivelazione alle Tre Fontane - Giorno 1
Bruno Cornacchiola

Lontano vedo una luce ….Sono nato a Roma il 9 maggio 1913, in una stalla
che aveva un fontanile in via Cassia Vecchia, in prossimità della quale
oggi sorge la chiesa parrocchiale della Gran Madre di Dio.
Mia madre, che per arrotondare le insufficienti entrate di mio padre,
faceva la lavandaia mi raccontava che mentre stava lavando i panni al
fontanile le vennero le doglie e fu messa su un carretto.
Quante volte, da ragazzo, ho visto la poverina lavare i panni altrui,
spesso cantando, accompagnata da muggiti e nitriti, e dal piccolo coro
di galli e galline... Io aiutavo mamma a lavare i panni più piccoli.
Vivevamo infatti in cascinali e in case rurali all’estrema periferia di
Roma, in zone extraurbane, perché la povertà dei miei non ci permetteva
di più, né ci consentiva di pagare puntualmente l’affitto, rimanendo a
lungo nella stessa abitazione
A tre mesi, il 15 agosto, solennità di Maria Santissima Assunta in
Cielo, fui battezzato nella Chiesa di Sant’Agnese fuori le Mura, alla
via Nomentana sorta sulle catacombe che accoglievano i resti della
giovane Martire.
Mamma mi raccontava non senza sorridere, che mio padre ed il padrino
certo Mario Carnevale, da lui conosciuto nel Carcere di Regina Coeli,
dove era stato rinchiuso per ubriachezza molesta e rissa, si
presentarono al Parroco, col fiasco del vino in mano, malfermi sulle
gambe.
Al Sacerdote esterrefatto, mio padre borbottò che voleva farmi
battezzare col nome di Giordano Bruno: “Quello che voi preti avete
bruciato vivo a Campo de’ Fiori!”; e qualora la cosa non gli fosse
andata bene, avrebbe pensato lui a battezzarmi col fiasco del vino...
Invano, don Federico Fofi, cercò di dissuadere mio padre dal mettermi il
nome di un monaco eretico, che il libero pensiero venera come maestro e
grande annunciatore dell’umanesimo pagano. Rimaneva irremovibile.
Finalmente le preghiere, la pazienza e le buone esortazioni del
Sacerdote la vinsero sulla caparbietà di mio padre, che, invitato a
rinunciare all’intero nome dell’orgoglioso monaco filosofo, accettò di
prenderne soltanto il nome, o meglio, ignorante com’era, scelse il
cognome, che per lui era il nome: Bruno.
Attraverso quel pio Sacerdote ricevetti dalla Chiesa “Madre della nostra
nuova vita ... la fede e la vita nuova in Cristo mediante il Battesimo”
(cfr. C.C.C. Nn 168-169).
Come ho detto la mia famiglia era poverissima.
Mia madre non sapeva leggere né scrivere. Solo mio padre, poverino,
anche egli analfabeta, aveva appreso a scrivere e leggere soltanto i
numeri, lavorava saltuariamente e consumava quasi l’intero e magro
salario nel vizio del bere. Quando poi era ubriaco erano risse,
bestemmie, botte, bicchieri e stoviglie in frantumi... Non mancavano le
coltellate e, di conseguenza, la galera. Quando beveva diventava ombroso
e violento con tutti. Allora erano percosse e maltrattamenti per mamma e
per noi bambini.
La vita dei miei genitori certo non era di buon esempio per noi figli,
che cercavamo di imitarli nelle bestemmie e nelle parole triviali.
Ricordo una dolorosa vigilia di Natale, quando vidi le guardie
ammanettare mio padre e tradurlo in carcere perché, ubriaco, aveva
spaccato la testa ad un suo compagno d’osteria. Rivedo mia madre,
lasciati noi bambini, affamati e disperati, e la pentola a bollire, con
un po’ di verdura raccolta nei campi, scappare in questura nella
speranza di essere utile al marito.
La poverina doveva lavorare senza sosta, sempre di corsa, e senza
lamentarsi: governare la casa, inventarsi qualcosa da mangiare con quei
pochi soldi che aveva, accudire a noi bambini, seguire i miei due
fratelli più grandi ammalati, fare la lavandaia...
Papà si curava poco di noi figli. Anche mamma non ci poteva custodire
suo malgrado, perché sempre assillata com’era da angustie e fatiche che
non finivano mai, non riusciva a fare tutto. Molte volte, per fame,
andavo a pescare nella marrana, dove ora c’è il mercato dell’usato in
via Sannio, che passando sotto la via Appia andava a sbucare vicino a un
mulino ad acqua e alla bottega di un marmista. Per guadagnare qualche
tozzo di pane ballavo e saltavo, lacero e scalzo, nel cortile del casale
della Signora Maria Luzzi in Daneri in Via Tre Madonne o Acqua Mariana,
dove la mia famiglia abitò dal 1916 al 1929. La casa era quasi
attaccata al palazzetto del dottore Buttazzoni, medico condotto della
zona di Porta Metronia. Mi conducevano a fare questo “lavoretto” perché
le persone che bevevano e giocavano a carte all’osteria non senza liti e
bestemmie, si divertivano a sentire il suonatore ambulante di
fisarmonica, e lo ricompensavano con qualche moneta. Egli poi mi dava
qualche spicciolo.
In un’unica stanza, annerita dal fumo di un fornello che funzionava male
piena di mosche l’estate, e sporca di fango l’inverno abitavamo tutti:
mio padre, mia madre, i miei fratelli: Tullio (nato nel 1909) il
maggiore, morto in giovane età, colpito da tbc; Mario (1911) che si
ammalò di malaria che gli procurò una meningite cerebrale; io (1913),
che fui colpito all’età di cinque anni da quell’epidemia, chiamata
spagnola, che fece tante vittime; Augusta (1915) ed Elena (1918).
Abbandonati a noi stessi, circondati dalla più squallida miseria fisica e
morale, noi bambini trascorrevamo una fanciullezza molto triste. Sempre
affamati, spesso mangiavamo soltanto un pò di verdura raccolta da mia
madre nei campi, o quello che riuscivamo a pescare dai rifiuti dei
ristoranti e dell’osterie gettati nei bidoni, i “bigonzi”, come li
chiamavamo noi, per nutrire i maiali.
Sporchi, mal vestiti e mal riparati dal freddo, crescevamo nella totale
ignoranza religiosa morale e civica, in mezzo ai pericoli morali e
materiali della strada. Mancavamo di tutto. Ricordo che delle volte,
all’alba, dopo una notte Fredda, noi ragazzi correvamo a scaldarci sotto
il primo raggio di sole che entrava nella stanza. Quando capitava,
andavamo a gruppi a rubare per farne negli orti. Io sradicavo rape e
verdure, poi fuggivamo, e portavo a mia madre quello che ero riuscito a
portar via. Nel 1920 una folla assalì un negozio sulla via Vetulonia. Il
proprietario, non faccio nomi, per salvare i suoi beni ci sparò con il
fucile dalla finestra di casa. La gente che fuggiva mi trascinò per
terra e mi calpestò! Avevo sette anni e rimasi dolorante per molto
tempo. Portai a mia madre, come bottino, un rocchetto di filo metallico.
La poveretta non sapeva proprio cosa farsene!
Fui spinto ad andare a scuola ma non fui mai seguito. Mi mancavano
libri, quaderni, penne e ogni accessorio scolastico. Nessuno dei miei
andò mai a parlare con gli insegnanti. Frequentai la prima elementare
saltuariamente. All’insegnamento proficuo nelle aule chiuse preferivo
quello all’aperto ma dannoso della strada.
Dopo tre anni, per anzianità, fui promosso alla seconda classe
elementare, che non riuscii a frequentare per l’intero anno perché, dopo
due o tre mesi, lasciai la scuola. A dieci anni ebbi il mio primo
lavoro come ragazzo di bottega di un carbonaio con l’incarico di
consegnare a casa degli acquirenti il carbone. Quando passavo per via La
Spezia; per il desiderio di conoscere almeno qualcosa, mi fermavo sotto
le finestre della mia classe, che stava al primo piano della Scuola
Elementare Giosuè Carducci. Qui, poggiavo in terra il sacchetto di dieci
chili di carbone e ascoltavo, non visto e per poco tempo, la lezione
della maestra. Qualche volta seguivo le operazioni aritmetiche, che
sentivo dalla voce della maestra, scrivendo con il carbone sul
marciapiede.
Ma purtroppo rubavo e fui cacciato. Ero molto attratto dai libri.
Ricordo uno dei miei primi furti, nella casa di una signora alla quale
avevo consegnato un sacchetto di carbone. Vidi all’ingresso un bel
volume e non resistetti alla tentazione. Lo presi, aveva per titolo - Il
catechismo di Pio X - (Ediz 1913); lo conservo ancora. Così finiscono i
miei studi. Ormai ero cresciuto e per i miei genitori era un lusso
mandarmi a scuola. Un lusso che non potevano permettersi.
Volentieri lasciai la scuola. Ormai per me ragazzo, lacero, spesso
scalzo, o con la suola delle scarpe legata alla tomaia da cordicelle o
da fili di ferro, la vergogna di sedere da ripetente, accanto a bambini
ben vestiti ordinati, puliti e nutriti, forniti di libri e quaderni, era
troppo grande.
Facevo anche qualche lavoretto saltuario e precario.
Feci lo strillone di giornali: Il Popolo d’italia, Il Messaggero, il Piccolo.
Ho lavorato anche come corriere al giornale di lingua francese
“L’italie”. Il mio lavoro consisteva nel ritirare alla Camera dei
Deputati gli articoli dei giornalisti e portarli in redazione, in Piazza
di Pietra a Roma.
Un giorno, lavorando al banco dell’edicola dei giornali del Signor
Giuliani, all’angolo di via Gallia, rubai cinque lire, una grossa cifra
per quei tempi, che spesi comperando un pallone e tanti dolciumi, che
spartii anche con i miei piccoli ed ammirati amici. Il padrone “fece la
spia” a mio padre che mi impartì con la cinta una terribile ed
indimenticabile lezione. Fui cacciato anche da lì, e andai a fare il
garzone in un piccolo albergo di Via Veneto.
Mi viene in mente un fatto, accadutomi mentre lavoravo in Via Vittorio
Veneto n. 79 vicino a Porta Pinciana nella pensione Calcagni - Gargiulo
nel 1926. Facevo lo sguattero, lavavo il pavimento e accudivo ai piccoli
mestieri. Terminato il mio lavoro andavo in Via Laurina a portare il
latte alla mamma e alla sorella della signora Calcagni. Passavo per
Trinità dei Monti dove, ai miei tempi, funzionava un ascensore, detto
“del Pincio”. Alla fine di una lunga scalinata a destra, c'era una
specia di arco, da lì proseguivo per Via del Babuino.
Il giorno di Natale, vedo in un angolo di Via Laurina, un Vecchio con la
barba bianca. Mi chiama. C’era un fuoco acceso all’angolo destro, dove
ora hanno costruito una fontana, mi giro e vedo lui, dolce, pieno di
bontà, che mi dice: “Sono Paolo. Oggi è Natale. Voglio spiegarti cosa è
il Natale.”
Io non sapevo cosa fosse o significasse la festa del Natale e chiedevo a
tutti delle spiegazioni. Le ricevevo, sempre un po’ affrettate, ma non
riuscivo a comprenderle, e continuavo a pensare al Natale come a una
festa dei ricchi, che quel giorno mangiano tanti dolci e si fanno tra
loro molti regali. Pensavo pure che come il Bambinello, chiamato Gesù,
c’erano tanti altri bambini, ancora più poveri di lui, perché non
avevano i genitori, e nessuno pensava a loro.
“Sappi - prosegue il Vegliardo - che noi stiamo nelle tenebre. Il
Bambino è nato 1900 anni fa da Maria Semprevergine e senza peccato. Lei
ha dato alla luce un Figlio, un Figlio che è la Luce e ci dà tutti Luce
per illuminare il mondo...”
Chi poteva capire quelle sublimi parole? Io ascoltavo il racconto e pian
piano mi addormentai tra le sue braccia... e mi sembrò di rivivere
tutto quello che il vecchio Paolo mi narrava. Quando mi svegliai mi
disse: “Vai a portare il latte alla madre della tua padrona. Ci
rivediamo domani e ti narrerò altre cose che riguardano la salvezza
dell’umanità “.
Ogni giorno, di pomeriggio, ero li ad ascoltare. Ascoltavo...
ascoltavo.., era bello sentire quei racconti cosi profondi. “Un giorno
vedrai quella Luce, e sarai tu un missionario della Luce... “mi diceva.
Dopo non lo vidi più. Tutte queste cose le ricordai dopo l’Apparizione.
Quando accadevano non sapevo chi fosse quel Vecchio e cosa volesse
dirmi.
Ogni volta che ripenso a quel Natale e ai tanti che ho passato dopo,
nell’abbandono, nella fame, nel freddo, nelle malattie, nelle guerre...
mi rivedo sempre quello che ero: senza famiglia e senza amore.
Soltanto dopo il 12 aprile 1947, ogni Natale, anche nella sofferenza,
furono e sono belli, pieni di luce. Sento il Natale come raggio di luce
celestiale che penetra il cuore, che illumina. “Se un tempo eravate
tenebra ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della
luce, il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità”
(Ef 5, 8-9). Aveva ragione il vecchio Paolo! Proprio vicino al luogo
dove l’Apostolo Paolo fu ucciso, sulla Via Laurentina alle Tre Fontane,
un altro Paolo (è il nome che ho preso da religioso fratello Leone Maria
Paolo), povero e misero, vide quella Luce che penetra, si insedia,
irradia la luce attorno a te per illuminare i cuori “luce per illuminare
le genti / e gloria del tuo popolo Israele” (S. Lc 2,32). Cristo, la
Grazia.
Ora sì che comprendo e posso dire: questo é il Natale, luce che illumina
il retto cammino per la gioia eterna! Avanti per la strada della luce
per la salvezza delle anime!
Se l’umanità comprendesse la luce di Cristo, lascerebbe la vita del mondo per la vita religiosa!
Spesso, alla sera, dopo aver passato l’intera giornata a vagabondare per
strada, non avendo un luogo dove dormire, perché non volevo tornare a
casa dove mi aspettavano botte ed improperi da mio padre, troppe volte
ubriaco, andavo a distendermi sopra dei cartoni che mi procuravo per
difendermi dal freddo, presso la “Scala Santa” in S. Giovanni in
Laterano sotto l’Abside o Triclinio e passavo la notte all’addiaccio.
Altre volte, per ripararmi meglio dal Freddo, dormivo rannicchiato
dentro qualche cappella al cimitero del Verano. Entravo alla sera, poco
prima che il personale chiudesse i cancelli e uscivo al mattino, appena
li riapriva.
Non avevo paura dei morti. Per un ragazzo come me, abbandonato e senza
istruzione, pronto a recepire i pessimi insegnamenti della strada la
compagnia dei vivi era la più pericolosa.
Una mattina del gennaio 1927, di buon’ora, mentre dormivo sotto l’abside
del Triclinio incorporato nella Chiesa della Scala Santa, una signora
mi sveglia e mi invita ad entrare in Chiesa. Era la pia Signora Maria
Farzetti, morta in concetto di santità, che ogni giorno si recava lì, ad
ascoltare la Santa Messa.
Sebbene avessi 14 anni, nell’ignoranza religiosa nella quale ero
cresciuto, non sapevo che cosa fosse la S. Comunione, la Confessione, la
Cresima, né altro Sacramento. Così, quando la signora Farzetti me ne
parlò per la prima volta, pensai che fosse una pietanza speciale che
mangiavano i ricchi...
La pietosa signora, preoccupata del mio stato, mi fece alcune domande:
se avessi mangiato, perché dormissi per la strada, quanti anni avevo,
perché non stavo con i miei genitori. Le mie risposte dovettero
preoccuparla ancora di più.
Infine mi chiese:” Hai fatto la Comunione’?”
Risposi: “Cos’è la Comunione’?”
“Non sai neanche questo?!... E tua madre non fa la Comunione’?”
“Mamma delle volte ce fa la pastasciutta... er minestrone., ma sto
pranzo non ce l’ha cucinato mai” La brava signora comprese la mia
spaventosa ignoranza e l’urgente dovere di aiutarmi, e mi invitò a
seguirla in Chiesa, promettendomi, per dopo, un pezzo di pizza per la
colazione.
Affamato com’ero, non potevo immaginare un regalo più grande! Di tutto il discorso avevo capito solo la pizza.
Per tutta la mia vita ho ricordato questa azione missionaria, della cara Farzetti.
Oh, se ogni Cristiano facesse così, se ognuno di noi ricordasse che
tutta la Chiesa è apostolica (...che) tutti i membri della Chiesa, sia
pure in modi diversi, partecipano a questa missione’ (cfr. C.C.C., 863);
se ognuno di noi mettesse in pratica l’esortazione della Vergine della
Rivelazione: “Siate Missionari della Parola di Verità! “.
La signora, preoccupata per il mio stato, ancor più per quello morale
che per quello fisico, decise con sollecitudine che era ora di
trasformare quel piccolo battezzato, che la misericordia di Dio le aveva
messo sul suo cammino, in un credente responsabile.
Mi consegnò, così com’ero - scalzo, con la maglietta strappata e con la
testa quasi pelata per uno sfogo causato da parassiti - nelle mani di un
buon frate passionista della Scala Santa, Frà Luigi dell’Addolorata
(Marino Angelini), un anziano catechista delle classi umili, che curava
anche la bancarella degli articoli religiosi.
Questi seppe bene unire il ministero della catechesi, (cfr. C. C. C.,
Prefazione,) col mio affidamento; e attraverso il Catechismo di San Pio
X, con grande fatica e buona volontà, perché non sapevo ancora leggere
correttamente, iniziò a farmi comprendere i concetti fondamentali della
nostra santa Fede, e ad apprendere le prime preghiere del Cristiano: il
Padre nostro, l’Ave Maria, il Gloria al Padre, il Credo e l’Atto di
dolore.
Così ogni mattina la cara Signora non mi faceva mancare la colazione e fratel Luigi l’insegnamento cristiano.
Erano i primi di marzo, quando Frà Luigi ritenne che io fossi pronto per
il ritiro spirituale in preparazione alla prima Comunione, mi fece
accompagnare dalla Signora Farzetti a “PonteRotto”, alla Pia Casa dei
Ss. Esercizi Spirituali per gli uomini, detta di Ponte Rotto o Madonna
di Ponterotto, o Madonna “Rifugio dei peccatori”.
Qui fui preparato a ricevere Gesù Eucaristico con un gruppo di Discoli
(così si chiamavano allora i ragazzi dei Riformatori) del vicino Carcere
minorile dell’Istituto San Michele in Piazza di Porta Portese, figli di
carcerati e ragazzi sbandati raccolti per la strada.
Feci la mia prima Confessione dal vecchio e paziente Sacerdote Salvatore
de Angelis, che, capito il mio misero stato, molto mi aiutò per
prendere il Sacramento della Penitenza, con diligenza e pentimento come
vuole santa Madre Chiesa. Avanti la cerimonia della prima Comunione,
egli fece una predica incentrata sull’amore materno della Madonna a cui
dobbiamo corrispondere, cambiando vita e diventando veri figli di Maria.
Terminò dicendo: “Adesso entreremo nella Cappella. Sull’Altare c’è il
quadro della Madonna. E la Madre di Dio, è nostra Madre perché ci ama.
Anche noi diciamole che l’amiamo recitando con sincero amore un”Ave
Maria.” La porta fu aperta ed entrammo nella Cappella tutta illuminata. I
ragazzi, commossi, si inginocchiarono, e guardando il quadro,
incominciarono a recitare l’Ave Maria. Era uno straordinario momento di
grande entusiasmo. Io rimasi in piedi. Guardavo la Vergine Madre e
pensavo al suo amore e lo confrontavo con quello di mia madre. Come
erano diversi! e quanto doveva essere felice un figlio di tale Madre!
Allora, sentendomi grandemente infelice, gridai guardandoLa: “Se sei
veramente Madre... Madre prendimi con te!” Nel coro di preghiere di quei
poveri ragazzi, quella nota non sembrò troppo alta. Il mattino del 7
marzo 1927, nell’identica e pietosa condizione con cui ero stato preso
da Frà Luigi (maglietta strappata, scalzo e croste in testa) feci la
prima Comunione, piangendo per l’assenza dei miei genitori, e pregando
la Vergine Santissima di prendermi con se perché il mio dolore era
troppo grande. Accolsi Gesù Eucaristico devotamente con profonda
commozione e col cuore ricolmo di buoni propositi.
Ministro del Sacramento della Confermazione era il Metropolita di Derna
(Libia) S. Ecc. Monsignore Gisleno Veneri. Il vecchio Vescovo, vedendomi
tutto solo, perché mio padre e il padrino erano assenti, sprovvisto di
tutto, senza neanche il candido nastro, con in mezzo la Croce ricamata,
con fili d’oro, con il quale il padrino cingeva la fronte del Cresimato,
unta del Sacro Crisma, chiamò il suo segretario Dante Ferri e lo invitò
a farmi da padrino.
Un ragazzo mi prestò, per il tempo della cerimonia, il nastro
immacolato, che i giovani Cresimati continuavano a portare sulla fronte,
per tutto il giorno con gioia e fierezza anche dopo l’unzione del sacro
Crisma. Poi, con dispiacere, lo ritornai e rimasi a lungo a guardare
tutti quei ragazzi attorniati da parenti e padrini, i compari come li
chiamavamo.
Ero solo, ancor più solo ed infelice per la presenza dei genitori dei
ragazzi e la solennità della Cerimonia. Anch’io avevo i genitori ma era
come se non li avessi!
Con le lacrime agli occhi, ricevetti il Sacramento della Confermazione,
che “ci unisce più saldamente a Cristo, aumenta in noi i doni dello
Spirito Santo, e rende più perfetto il nostro legame con la Chiesa”
(cfr. C.C.C., 1303).
Al termine ci dettero un libretto con la copertina nera, con sopra
scritto Massime Eterne e la coroncina del Rosario, anch’essa di colore
nero. Tornai a casa deciso a mettere in pratica tutte quelle buone cose
che mi avevano insegnato.
Trovai mamma in capo alle scale, in mezzo a una nuvola di fumo,
affaccendata davanti al fornello, che preparava da mangiare a papà.
Appena mi vide, giustamente, mi rimproverò perché da quando ero scappato
di casa, da giorni, non mi ero fatto vedere. Risposi: “Ho fatto la
Comunione ma attraverso Frà Luigi vi ho fatto sapere che andavo a
Ponterotto. E voi dovevate venire con il compare Gaetano Bonafaccia”.
Questi, per il fatto che faceva il portiere di un palazzotto della
società costruttrice Ostia Florens, era per noi una persona importante.
Mamma continuava a rimproverarmi con male parole.
“Il Confessore mi ha detto, proseguii, che non devo più disubbidire a te
ne a papà e che devo chiedervi perdono. Perciò ti chiedo perdono del
male che ti ho fatto. Dei pugni, degli schiaffi e dei morsi che ti ho
dato. Ti chiedo perdono del dito che ti ho rotto, e ti mandai
all’ospedale..“
“Ancora pensi a queste cose?! - mi gridò mamma che continuava a soffiare
e ad agitare la ventola sotto la brace che non voleva acendersi -.
Ancora pensi a queste cose’?! Ma dammi una mano, piuttosto!” e mi dette
un calcione che mi fece rotolare per le ripide scale.
Mi alzai infuriato e tornai il Bruno di prima. La riempii di parolacce e
le tirai addosso la coroncina del Rosario e il libretto delle Massime
Eterne perché non avevo sassi a portata di mano; e partii per Rieti alla
ricerca di un qualche la lavoro.
Lo trovai come aiuto ortolano in un convento di frati. Vi rimasi per
poco e andai a fare il ragazzo nella bottega di un materassaio. Feci
anche il pastore di pecore, che in periodi stabiliti, portavamo al
mattatoio, all‘Ammazzatora di Testaccio, un quartiere allora alla
periferia di Roma, percorrendo la strada da Rieti alla Capitale a piedi.
Avevo ricevuto Gesù ma non fui un vero testimone di Cristo come vuole la Chiesa (cfr.Lumen gentium, Il).
Fuori, ero tornato alla vita randagia e selvaggia di sempre, senza
educazione né freni. Per maestri ebbi la strada e le cattive compagnie,
che, con la necessità di trovare un qualsiasi lavoro per sopravvivere,
accrebbero in me disonestà e malizia. Mi sentivo deliberatamente
disprezzato e tenuto lontano dalla società ricca, che avvicinava i
poveri solo per sfruttarli.
La squallida miseria nella quale ero costretto a vivere, senza poter
intravedere il benché minimo barlume d’uscita, e la convinzione che la
società “borghese” era l’unica responsabile della mia miseria ed
infelicità, furono il fervido terreno sul quale una campagna atea
clandestina, piena di odio e di volontà di vendetta, abbondantemente
seminò e ancora più abbondantemente raccolse.
E divenni peggiore di quando incontrai la buona signora Maria Farzetti e il pio Frà Luigi...
L’ignoranza, la miseria, il peccato la lontananza dai Sacramenti, tutte
queste cose che avevano reso infelice la mia fanciullezza, tormentarono e
resero molto brutta la mia intera giovinezza.
E venne il giorno di partire soldato.
Testi presi da varie fonti: Biografia di Cornacchiola, S.A.C.R.I.; La
Bella Signora delle Tre Fontane di padre Angelo Tentori; La vita di
Bruno Cornacchiola di Anna Maria Turi; ...