I 18 anni di Chiara Luce Badano

OCCHI CHE HANNO UN PERCHÉ
Va bene, Giovanni Paolo II ha beatificato un'insolita quantità di
uomini e donne, molto più dei predecessori. Va bene, dall'ultimo
concilio il concetto stesso di santità si è fatto più accessibile, come
testimonia il numero non indifferente di nuovi beati laici, madri e
padri di famiglia. Va bene, casi come quello recente di Padre Pio
dimostrano che la gente non è refrattaria ai modelli di perfezione
cristiana, come si tenderebbe a credere.
Va bene tutto; ma perché
una ragazza apparentemente normale è riuscita a «scardinare le porte del
cielo» in pochi mesi? Come ha potuto rifiutare la morfina che i medici
volevano somministrarle per lenire i dolori atroci delle metastasi?
Voleva avere ancora «qualche cosa da offrire»... Dove trovava la forza?
Un'esistenza - altrimenti archiviata con qualche lacrima, un trafiletto
sul giornale locale e un coro di «povera ragazza, così giovane» -
continua a essere ricordata e imitata. Insomma, c'è la curiosità di
capire come una ragazza abbia raggiunto in un niente, in pochi anni,
vette di alta spiritualità.
Scrivo queste righe dinanzi a una delle
sue ultime fotografie, un primissimo piano ripreso mentre giaceva ormai
paralizzata nel letto della sua stanzetta di Sassello: Una federa a
trama scozzese, azzurra, gialla, rosa e bianca, e lei, che guarda verso
il suo interlocutore, col braccio reclinato dietro il capo. Una peluria
scura le ricopre il cuoio capelluto; non certo un taglio di capelli
all'ultima moda, ma la testimonianza spudorata di una recente
chemioterapia. Eppure i tratti del volto non sono quelli di un'ammalata
in punto di morte, quanto di una ragazzina maturata in poco tempo.
Sorride. Proprio così, sorride di un sorriso che tanti avevano amato.
Con lei nella stanza, in quel momento, c'erano tre amici di Genova;
avevano scambiato quattro chiacchiere con l'ammalata, avevano vissuto un
altro di quei momenti di vangelo "in atto" che la ragazza prediligeva.
«Momenti di unità», li chiamava.
Il cielo era sceso tra loro: quel
sorriso lo testimonia. Ma soprattutto lo testimoniano quei due occhi
grandi che non posso non fissare. Hanno un perché, sono sereni, sinceri.
Sanno che «la medicina ha deposto le sue armi», ma anche che «tutto
vince l'amore».
Ecco Chiara Badano, diciottenne. Anzi, Chiara Luce.
Come scrive l'Abbè Pierre: «I santi non si limitano a un catalogo, e noi
ne incrociamo certamente tutti i giorni». La giovane Badano era
probabilmente una di questi.
Tra i gen partiti per il cielo
Ogni gruppo sociale ha i suoi modelli, talvolta i suoi santi, nei
quali personifica speranze e aspirazioni. Il Movimento gen, i giovani
dei Focolari, sin dagli anni Sessanta aveva accompagnato i suoi primi
membri «partíti per il cielo», come sono soliti dire. C'era Franceschino
Chiarati, un giovanissimo bresciano dal sorriso limpido; non mancava un
giovane martire, Charles Moates, "Charles dei ghetti neri", di cui il
gruppo del Gen Rosso racconta la drammatica storia in un musical;
c'erano poi le gen di Pelotas, brasiliane, morte in un incidente
stradale mentre si recavano a un congresso... Ogni stagione aveva i suoi
piccoli miti, quelli che lasciano un esempio alle generazioni
successive. Eppure questi giovani "passati nell'aldilà" non erano
lontani o idealizzati; non erano, come si dice oggi, trasformati in
icona. Erano come un pezzo di quel movimento che si trasferiva altrove,
prima del ricongiungimento.
La Chiesa da sempre parla di "comunione
dei santi", un termine forse un po' oscuro, che viene spesso
interpretato come qualcosa di lontano, di riservato alle sfere celesti.
Tra i gen, la comunione dei santi era invece una realtà, che avvicinava
la terra al cielo.
Così può essere interpretato l'interesse che ha
accompagnato le vicende di Chiara Luce ancor prima che lasciasse questa
terra. Come per gli altri amici ammalati - ma forse un po' di più -, i
gen seguivano le notizie sulla sua salute, ritrasmesse dal tamtam
spontaneo e mille volte reinventato dei giovani. Si pregava anche, e
molto. 1n lei avevano avvertito una sorta di predilezione di Dio.
Poi la morte. La notizia circolò, qualche suo scritto cominciò a essere
fotocopiato. Si racconta ancor oggi di un funerale definito da tanti
«una festa di nozze». Quindi un articolo sul giornale dei gen, e un
altro sulla rivista «Città nuova». Negli anni seguenti, senza un preciso
disegno, la sua storia è tornata regolarmente sotto i riflettori,
grazie agli amici, ai gen, al vescovo, grazie a una raccolta di scritti,
a una biografia, a un video...
La piccola provincia
Da Savona si costeggia il golfo di Genova fino ad Albisola, e poi si
sale nell'entroterra per una ventina di chilometri tutti curve e brevi
rettilinei. Non ci si eleva di molto, visto che la meta del viaggio è
situata ad appena 400 metri d'altezza. Sassello, nemmeno duemila
abitanti, sessanta chilometri da Genova e altrettanti da Acqui Terme,
della cui diocesi fa parte, pur essendo quest'ultima città già in
territorio piemontese.
Il paese si spopola durante l'anno e si
ripopola nei fine settimana e soprattutto d'estate, quando decuplica i
suoi abitanti. I venti del nord e del sud s'incrociano proprio sopra le
sue montagne, cosicché le precipitazioni piovose o nevose sono frequenti
e abbondanti.
Il paesello è grazioso, con una storia antica. Il
territorio comunale s'inerpíca fino ai 1.287 metri del monte Beigua:
mille metri di dislivello, o quasi, che mostrano quanto il comune sia
per sua natura montagnoso. Era rinomata per i suoi castagni, Sassello.
Ma tra le due guerre un inarrestabile cancro del legno ha distrutto
interi boschi, ora ricresciuti ma non innestati. E poi crescono molti
funghi, vera delizia dei declivi attorno al paese, porcini e finferli. E
ovoli, buonissimi. Ma la notorietà del paese è dovuta in primo luogo
agli amaretti, quelli morbidi, prodotti da sei fabbriche situate sul
territorio comunale, in cui si tramandano di padre in figlio le ricette e
i segreti del mestiere.
Insomma, se volete un luogo da "piccola
provincia", prendete Sassello. Qui è nata, cresciuta e morta Chiara
Badano. Amava questo piccolo mondo; anche nel periodo in cui abitò a
Savona, vi tornava con malcelata gioia, quasi come se il soggiorno nella
città fosse un piccolo esilio.
Una famiglia unita
A Sassello metà paese si fregia del medesimo cognome, Badano. E sulla
strada che sale dal mare verso il borgo, l'ultima frazione si chiama,
guarda caso, Badani. Ruggero è un Badano che abita in via Badano. Prima
ragazzo di bottega nel negozio di tessuti di famiglia, quindi
camionista; «ma sempre in proprio», come tiene a precisare, quasi per
riaffermare il suo desiderio di libertà. Dapprima trasportò carbone dal
porto di Savona verso tutta l'Alta Italia. Quindi per vent'anni lavorò
al servizio della Ferrania: due volte a settimana trasportava le
pellicole da Savona a Roma, per lo sviluppo (a quel tempo non c'erano
autostrade e superstrade, e l'Aurelia fino a La Spezia non era certo
priva di insidie, specie d'inverno...).
Maria Teresa Caviglia,
invece, veniva da una famiglia numerosa, rallegrata da otto figli, con
un padre poliedrico e dalle mani d'oro. Erano poveri, e lo furono ancora
di più dopo che la casa nella quale abitavano s'incendiò per un camino
mal ripulito dalla fuliggine, fuoco alimentato dalla legna che papà
aveva stipato in soffitta in previsione del rigido inverno. Fu la carità
dei vicini a permettere loro di sopravvivere alla stagione inclemente.
Avevano frequentato l'asilo assieme, Maria Teresa e Ruggero. Poi le
loro strade per un certo periodo avanzarono parallele, senza troppi
incontri, salvo quelli in chiesa alle feste comandate. «A lei piaceva
ballare - spiega Ruggero -, ma a me no; così scelsi una compagnia
diversa dalla sua». Lei si fidanzò con un bravo ragazzo del paese, e
sembrava che la cosa finisse lì. Ma ciò significava non fare i conti con
Ruggero: «Maria Teresa - racconta - è stata la prima ragazza del mio
cuore. E lo è rimasta. Ma a quel tempo non riuscivo a manifestarle il
mio affetto. Finché l'evidenza convinse anche lei...».
Insomma, lui
era di poche parole, ma con una fede solida. Era certamente severo, ma
con un che di dolce nello sguardo che lo rendeva amico di tutti. Lei,
invece, era affabile ed estroversa, dolce ma risoluta.
Una comunità solidamente tradizionale
In un piccolo paese la parrocchia ha un ruolo fondamentale nella
formazione e nell'orientamento della gente. Quella di Sassello la si può
certamente definire come "solidamente tradizionale". Ancor oggi la
pratica religiosa è abbastanza elevata. Naturalmente tutto il paese, o
quasi, interviene alle grandi feste tradizionali. In occasione del
Corpus Domini, a Sassello si è soliti organizzare una gigantesca
infiorata per le vie del paese, dopo un approfondito studio dei tappeti
floreali, soprattutto a opera dei locali gruppi di giovani. Come a
Genzano o a Spello. Nell'occasione, i muri delle case che si affacciano
sul percorso della processione vengono rivestiti per due-tre metri di
altezza da frasche di castagni. Suggestivo.
Il Venerdì santo,
invece, si svolge una solenne processione che attraversa tutto il paese
di un grande e antico crocifisso ligneo, accompagnata, in ginocchio
nella "salita al calvario", dalle antiche confraternite del paese
(esclusivamente maschili), e accompagnata dal canto delle lamentazioni
in latino. La solida tradizione cristiana è poi sottolineata dalla
presenza sul territorio comunale di numerose cappelle votive, ognuna
delle quali ha la propria festa. Naturalmente i villeggianti partecipano
a tali festeggiamenti, spesso attratti dagli aspetti marginali o
folcloristici, come le cantorie e le rappresentazioni teatrali, le
frittelle o il castagnaccio. Ma qualcosa "passa" lo stesso. Un ricordo
infantile di Maria Teresa sottolinea l'importanza anche sociale della
parrocchia e la sua influenza sulla gente. «Nella nostra chiesa c'era
l'usanza - racconta - di distinguere i primi banchi, riservati ad alcune
famiglie di benefattori, dalle panche. Per la mia prima comunione mi
ero seduta, come sempre, dietro. Ma il parroco scese dall'altare, mi
prese per mano e mi portò in un banco, e mi fece per giunta sorreggere
lo stendardo della processione».
La nascita, dieci anni dopo
Erano sposati da dieci anni, Maria Teresa e Ruggero, senza riuscire ad
avere figli. «Tutto quello che mi accadeva lo consideravo volontà di Dio
- sostiene lei -. Lui mi amava, e quindi anche questa mancanza di
bambini era amore». Ruggero svela invece l'altra faccia della medaglia:
«Quando salivo al bar con gli amici coetanei, vedevo che loro avevano
tanti figli. E noi niente. Sentivo proprio che mi mancava qualcosa».
La svolta decisiva giunse quando Ruggero si recò al Santuario delle
Rocche. La sua preghiera per la grazia di un figlio fu veramente
sincera, e un mese dopo... Maria Teresa aveva ormai 37 anni: «Non ci
volevo proprio credere. Non dicevo a nessuno che ero rimasta incinta, e
cercavo di strapazzarmi il meno possibile, perché il medico mi aveva
spiegato che dovevo attendere una ventina di giorni prima del responso
definitivo. Quel giorno Ruggero non si conteneva dalla gioia. E cominciò
a parlare della "nostra gravidanza"».
Il quasi-papà non voleva
assolutamente mettere a rischio quel frutto tanto atteso del loro amore,
e si prodigava in mille modi per alleviare le fatiche di Maria Teresa,
al punto da portarla in braccio su per le scale. «L'amore verso mia
moglie - spiega - fece in quei nove mesi un gran passo in avanti. Ma
anche l'amore per il Signore». Era il 29 ottobre 1971. La bimba, Chiara,
nacque col forcipe. Per questo motivo, a lungo le rimase tra gli occhi
una macchia che andava e veniva, rifiorendo fino all'adolescenza. «Dalla
felicità ebbi uno choc - racconta Maria Teresa -. A dire il vero per 24
ore vissi come in un sogno, chiedendomi se la mia bambina era veramente
nata, perché non me la mostravano... Poi vidi quel batuffolo di bimba e
mi si strinse il cuore dalla gioia». Ma «pur nella gioia immensa,
comprendemmo subito entrambi - racconta la madre, mentre il padre
annuisce - che quella bimba innanzitutto era figlia di Dio».
Esperienze d'infanzia
L'infanzia
scorre spensierata e serena. Chiara era quella che si dice "una bambina
d'oro", quella che ogni mamma vorrebbe avere: faceva pochi capricci,
dormiva senza problemi e, se si svegliava, giocava da sola con i suoi
primi giocattoli.
Maria Teresa si ammalò proprio in quei primi
giorni di una presunta flebite che la costrinse a letto per tre mesi;
ma, pur aiutata dalla sorella, non delegò a nessuno il compito delicato
della primissima educazione della figlia. Per accudire la piccola aveva
lasciato il proprio impiego: «Da sempre lavoravo nelle fabbriche di
amaretti - dice - e temevo di patire la noia della casalinga, attiva
com'ero. Ma ben presto dovetti ricredermi: capii l'importanza di restare
costantemente accanto ai propri figli, non tanto parlando, ma "essendo"
madre, cioè amando. Questa era la sola eredità che avrei potuto
lasciarle: insegnarle ad amare».
Non esitò a portarla in chiesa,
«perché si abituasse»; e, anche se ancora non era nella cosiddetta età
della ragione, Maria Teresa le sussurrava all'orecchio la storia sacra
di Gesù e Maria. E la bimba ascoltava senza disturbare gli astanti,
avvolta nella sua tutina rosa, perché era inverno e la neve era alta più
del solito. Chiara manifestò sin dai primi anni un carattere generoso:
in un compito di prima elementare, scrivendo a Gesù Bambino, non
chiedeva giocattoli, ma semplicemente di «far guarire nonna Gilda e
tutte le persone che non stanno bene». Si dimostrava conciliante, anche
se sapeva bene il fatto suo. E quando capitava che si incrinasse
l'accordo coi genitori, lo screzio non durava che lo spazio di pochi
istanti.
Si raccontano di lei cose significative. Un giorno, ad esempio, la mamma le propose di aiutarla a sparecchiare la tavola. «No, non mi va»,
rispose Chiara incrociando le braccia. E si diresse verso la sua
cameretta. Ma non vi giunse nemmeno, perché nel giro di pochi secondi
tornò sui suoi passi e disse: «Com'è
quella storia del vangelo, di quel padre che aveva detto ai figli di
recarsi nella vigna, e uno aveva detto di sì e non c'era andato, mentre
l'altro aveva detto di no e poi ci era andato? Mamma, mettimi il
grembiulino». E si mise a sparecchiare.
Un altro episodio. Un
giorno la mamma, vedendo come nella stanzetta della bambina ci fossero
troppi giocattoli, la invitò a darne qualcuno per i bambini poveri. Lei
rispose di no, che erano suoi. La mamma allora si allontanò. Poi udì un
brusio. Si avvicinò alla porta della stanzetta e scorse Chiara che
separava i giocattoli: «Questo sì, questo no ... ». Poi le spiegò i criteri di quella divisione: «Non posso mica dare i giocattoli rotti ai bambini che non ne hanno».
Un'educazione di buon senso (ma non solo)
Dialogo
e affetto sono all'ordine del giorno; ma a casa Badano ci sono anche
dei no. La bambina potrebbe crescere viziata, perché troppo al centro
dell'attenzione di genitori e parenti: «Eravamo coscienti del rischio -
dice la madre -; perciò sin dai primi anni abbiamo voluto mettere le
cose in chiaro: non perdevamo occasione per ricordarle che in cielo
aveva un papà più grande di noi due». Curioso modo di impedirle di fare i
capricci...
Il "modello educativo" scelto da Ruggero e Maria
Teresa non era stato appreso sui libri, ma mutuato da famiglie sane e
unite, oltre che da un ambiente parrocchiale, come si diceva,
tradizionalmente solido. Era soprattutto un'educazione costruita
sull'amore tra i due sposi. Così erano andati istituendosi dei principi
importanti, come traspare ad esempio da un episodio raccontatomi dai
genitori. Aveva quattro anni, Chiara, quando la madre le propose di
recitare una preghiera. Lei rispose che aveva altro da fare. Maria
Teresa in quel momento avrebbe potuto imporgliela, ma si ricordò che
prima di tutto quella creatura era figlia di Dio, che le aveva trasmesso
il bene fondamentale della libertà. Doveva perciò rispettarla. Così le
disse che avrebbe pregato anche al posto suo. Cominciò a recitare
l`Angelo di Dio", e pochi istanti dopo udì dietro di lei la bimba che
ripeteva le sue parole. «Fu una lezione forte - spiega la madre -, di
quelle che non si dimenticano facilmente. Dovevo educarla, ma prima
ancora farle "passare" l'amore».
Il papà era presente
nell'educazione della piccola, ritagliandosi un ruolo più "forte": «Ero
un po' severo di natura - racconta Ruggero -, tanto che mi sembrava che
per una sua corretta educazione dovessi esigere qualcosa da lei; ma lo
facevo sempre, e dico sempre, per amore, mai per ripicca o per
stanchezza o chissà cos'altro. Così lei crebbe con un carattere molto
simile al mio... ». «Però l'obbedienza richiesta - interviene la madre -
non era mai "cieca". Aveva il diritto di dire la sua; ma il rapporto
doveva essere nella verità. Le bugie non le lasciavamo passare tanto
facilmente».
A questo proposito, tra i tanti piccoli-grandi eventi
della sua educazione, un episodio lo racconta ancora Maria Teresa: «Un
pomeriggio giunge a casa con una bella mela rossa. Le chiedo da dove
provenga. Chiara mi risponde che l'ha presa dalla signora Gianna,
proprietaria del vecchio e suggestivo mulino sotto casa. Non le ha
chiesto il permesso. Le spiego allora che bisogna domandare le cose
prima di prenderle, e che perciò deve immediatamente riportarla
indietro, chiedendo scusa alla vicina. Ma lei non vuole, si vergogna. Le
spiego allora che è più importante dire la verità che mangiare una
buona mela. Dopo un istante di esitazione, Chiara (seguita da me con lo
sguardo rassicurante), torna da Gianna e le spiega tutto. Poco dopo la
nostra amica suona alla porta recando una cesta di mele in regalo per
Chiara, "perché oggi ha imparato qualcosa di molto importante"».
Episodi come questi attestano come, su una natura fortemente generosa,
avesse ricevuto una solida educazione cristiana. Grazie ai genitori,
certo, ma anche alla comunità paesana, al parroco che impartiva
affascinanti lezioni di catechismo e alle solide amicizie che Chiara
aveva costruito sin da piccola.
COME IN UN SOGNO
Chiara
non ha ancora nove anni quando avviene un incontro che da subito si
rivela fondamentale per lei: quello con i Focolari. Da alcune amichette
viene a sapere di un grande ideale che trasformerebbe la vita di chi lo
sceglie, di un gruppo di persone che vorrebbe il mondo unito.
Immediatamente vuole saperne di più. L'incontro vero e proprio avviene a
un raduno delle giovanissime dei Focolari, nel settembre del 1980.
Scopre un modo di vivere e pensare per lei nuovo, quasi un coronamento
alla sua sete di Dio: lì il suo amore trabocca su chi lo sceglie come
ideale della propria vita e porta l'unità, cioè la presenza promessa da
Gesù a coloro che sono uniti nel suo nome. Da quel momento in poi,
Chiara non sarà più la stessa.
La cosa non può lasciare indifferenti
i genitori che, con sorpresa di Chiara (ma non troppo), confermano
questa sua adesione. Ciò avviene a un grande raduno di famiglie, il
Familyfest 1981, al Palaeur di Roma. Sentiamo il racconto che ne fa
Ruggero: «Non volevo scendere a Roma, ma accettai per far visitare la
capitale a mia figlia. Per tre giorni girammo la città; poi, arrivati al
giorno del Familyfest, mi misi a trascinare i piedi. Così arrivammo in
ritardo, e la gente dovette farci spazio nella sala dell'Eur stipata in
ogni ordine di posti. Udii qualche parola dal palco: parlavano di un
amore diverso da quello che potevo provare per Maria Teresa e Chiara:
forte, naturale e soprannaturale. Piano piano intuii che esisteva un
Gesù vicino, a cui potevo dare del tu, a cui potevo dire ogni cosa.
"Capitolai" quando la bambina disse che aveva fame: subito i vicini le
proposero un panino, un frutto o una bibita. E a pranzo, pur avendo un
nostro picnic, mangiammo solo quel che ci venne offerto».
Racconta
Maria Teresa: «Tornati a casa, se ci avessero chiesto quando ci eravamo
sposati, avremmo risposto: "Quando abbiamo incontrato quest'ideale"». E
continua Ruggero: «Avevo finalmente
capito che questo Gesù mi era vicino; sentivo la sua forte presenza.
Quando poi trovavo qualche difficoltà, magari perché mi comportavo
sgarbatamente, provavo la sensazione di respirare a metà. C'era qualcosa
che non andava, ma non riuscivo a capire cosa. Poi capii: se rompevo,
veniva meno l'altra parte del rapporto, l'altro polmone per poter
respirare bene».
Da quel momento i Badano saranno più di
prima un esempio di rispetto, calore e unità, in questo nuovo impegno
che rivoluziona ben presto le tradizioni e gli orari della famiglia. Ma
soprattutto tale testimonianza di unità emergerà nel momento della
malattia di Chiara, qualche anno più tardi.
Dove Chiara lasciò il cuore
Gen 3. Un universo, come lo è il cuore di ogni bambina che si apre
alla vita, che scopre il mondo. E quello che c'è oltre il mondo. Chiara
si lega al gruppo delle gen 3 di Albisola, e poi a quelle di Genova.
Giocano e si divertono, quelle ragazzine, ma non solo. Scrivono insieme
il 29 settembre 1980, in occasione del primo incontro gen 3 cui Chiara
partecipa: «Abbiamo cominciato subito
la nostra avventura: fare la volontà di Dio nell'attimo presente. Col
vangelo sotto braccio faremo grandi cose». Lucia, un'amichetta di
allora, racconta di quel periodo: «Giocavamo e inventavamo un'infinità
di scherzi; Chiara era una bambina piena di vita, una compagna di giochi
un po' mattacchiona e molto simpatica. Comunicava a tutti la sua
allegria, e aveva sempre il sorriso, la purezza negli occhi. Il suo
maggior pregio era la vitalità». Il 29 agosto di quell'anno, Chiara
scrive la sua prima letterina a Chiara Lubich, il leader delle gen 3, su
una carta da lettera decorata da un disegnino dai colori pastello.
Eccola per intero: «Carissima Chiara
Lubich, per prima cosa mi presento. Sono una bambina di quasi dieci
anni, mi chiamo Chiara come te, abito in un piccolo paese di nome
Sassello in provincia di Savona. Io ti conosco, perché il 3 maggio sono
andata coi miei genitori a Roma, al congresso delle famiglie, e in mezzo
a tutta quella gente con un binocolo sono riuscita a vederti.
Quest'anno ho avuto la fortuna di partecipare alla mia prima Mariapoli
(incontri estivi dei Focolari, ndr). Non sono andata coi miei genitori,
ma ho scelto di andare con le gen 3 in un bel santuario chiamato la
Madonna del Pozzo. Quando la mamma mi ha lasciata era un po' preoccupata
e mi ha detto: "Chiara, adesso sei sola, cerca di comportarti bene". Ma
io le ho risposto: "Mamma, non sono sola, c'è Gesù". Le bambine che ho
incontrato erano buone, gentili, diverse da quelle di scuola, e insieme
abbiamo cercato di vivere per Gesù. Ho fatto anche una piccola
esperienza, prestando le mie scarpe a una bambina che doveva andare sul
palco a raccontare anche lei la sua esperienza alla Mariapoli degli
adulti. Ti abbraccio forte forte, Chiara».
Da questa
letterina di Chiara Badano emergono alcuni elementi che in seguito
matureranno con forza, soprattutto nei due anni della malattia: la
scelta di Dio e quella dell'unità, la priorità data al vangelo vissuto.
La distanza che la bambina prende dai genitori, con quella frase: «Mamma, non sono sola, c'è Gesù», sembra riecheggiare la reazione del Gesù Bambino ritrovato dai genitori mentre ammaestra i dottori nel tempio. Poi quel: «Insieme abbiamo cercato di vivere per Gesù»,
che dimostra come sin dai primi approcci avesse centrato il cuore della
spiritualità dell'unità. E infine l'esperienza raccontata in
conclusione: Chiara capisce subito che il vangelo o viene vissuto o è
lettera morta.
La prima scelta
La
giovanissima Chiara diventata gen 3 - non ha ancora 12 anni - continua a
essere innamorata del vangelo. La sera, prima di dormire, scrive alcuni
semplicissimi fatti di vita, dei fioretti. Eccone uno: «Una compagna ha
la scarlattina, e tutti hanno paura di visitarla. D'accordo con i miei
genitori penso di portarle i compiti, perché non si senta sola. Credo
che più del timore, sia importante amare».
Nel 1983 Chiara per due
volte si reca a Rocca di Papa, vicino a Roma, dove si svolgono i
congressi internazionali delle gen 3. Come al solito in famiglia c'è un
po' di trambusto, perché i nonni e gli zii rimproverano a Ruggero e
Maria Teresa di lasciar partire la bambina per così lontano. Ma è
proprio in queste occasioni che Chiara compie una scelta che non metterà
più in discussione.
Sentiamo cosa scrive a Chiara Lubich il 17
giugno: «Questo per me è stato il primo congresso, e devo dire che è
stata un'esperienza meravigliosa, ho riscoperto Gesù abbandonato in modo
speciale, l'ho sperimentato in ogni prossimo che mi passava accanto.
Quest'anno mi sono riproposta di vedere Gesù abbandonato come mio sposo e
accoglierlo con gioia e, soprattutto, con tutto l'amore possibile».
E qualche mese dopo, il 27 novembre, appena compiuti i 12 anni: «La
realtà per me più importante durante questo congresso è stata la
riscoperta di Gesù abbandonato. Prima lo vivevo piuttosto
superficialmente, e lo accettavo per poi aspettarmi la gioia. In questo
congresso ho capito che stavo sbagliando tutto. Non dovevo
strumentalizzarlo, ma amarlo e basta. Ho scoperto che Gesù abbandonato è
la chiave dell'unità con Dio e voglio sceglierlo come mio primo sposo e
prepararmi per quando viene. Preferirlo! Ho capito che posso trovarlo
nei lontani, negli atei, e che devo amarli in modo specialissimo, senza
interesse». Gesù abbandonato, uno dei cardini della spiritualità
dell'unità, il desiderio di rivivere il momento in cui Gesù più aveva
sofferto, quando gridò sulla croce: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai
abbandonato?». Lì c'è la chiave dell'unità tra gli uomini sulla terra, e
anche tra la terra e il cielo. Lì c'è il compendio della passione e
della morte di Gesù, e la chiave della sua resurrezione. E Chiara, 12
anni, centra il mistero del cristianesimo.
Le due Chiara, un legame ininterrotto
Chiara,
cioè Chiara Lubich, con la quale intratterrà una corrispondenza
regolare. Con lei stringerà un rapporto vitale, intensissimo, fino
all'ultimo, quando dirà: «Debbo tutto a Dio e a Chiara».
Già nel suo primo congresso gen 3 scriveva: «Non trovo parole per
ringraziarti, ma so che devo tutto a te e a Dio». Aveva appena 11 anni.
Dalle lettere riportate in queste pagine emerge chiaramente quanto la
figliolanza spirituale di Chiara Badano nei confronti della fondatrice
dei Focolari sia piena, coltivata, matura. Nelle sue lettere c'è
confidenza e rispetto, confessione e impegno. Come in questa del
novembre del 1985, scritta appena cominciate le superiori, dal congresso
romano delle gen 3: «Carissima mamma, durante questo congresso ho
riscoperto il vangelo sotto una nuova luce. Ho capito che non ero una
cristiana autentica perché non lo vivevo sino in fondo. Ora voglio fare
di questo magnifico libro il mio unico scopo della vita. Non voglio e
non posso rimanere analfabeta di un così straordinario messaggio. Come
per me è facile imparare l'alfabeto, così deve esserlo anche vivere il
vangelo. Ho riscoperto quella frase che dice: "Date e vi sarà dato":
devo imparare ad avere più fiducia in Gesù, a credere nel suo immenso
amore. Grazie per il grande dono che ogni giorno riscopro sempre nuovo».
Nei Focolari c'è un'abitudine, ripresa dalle prime comunità cristiane:
quella di prendere un "nome nuovo" una volta intrapresa la strada verso
un cristianesimo autentico. E di scegliere nello stesso tempo una frase
del vangelo, la propria "parola di vita", per meglio seguire Dio nella
sua volontà. Tra le gen 3 c'è l'uso di chiedere sia il "nome nuovo" che
la "parola di vita" a Chiara Lubich stessa. Chissà perché, per tre volte
Chiara Badano le chiese questi due sigilli al suo essere gen 3, ma non
ottenne risposta. Dice Maria Teresa: «Chiara soffriva molto di non
ricevere risposta alle sue lettere. Le altre gen 3 ricevevano il loro
"nome nuovo", ma lei nulla. Mi disse un giorno, avendo constatato che la
buca delle lettere era ancora vuota: "Chiara non mi ha risposto ancora.
Fa niente, lei ha tanto da fare... E poi io ho già tutto quello che mi
serve". Credo fermamente che fosse tutto un piano di Dio: doveva
prepararsi».
Verso l'adolescenza: sport, amicizie e vangelo
Sant'Agostino ripete spesso che l'amore rende belli: Chiara appare
rivestita della bellezza evangelica, è molto carina, una bella
ragazzina. Le foto ce la presentano sin dall'infanzia come volitiva, con
un carattere ben definito. Ma in quel volto delicato, ciò che attira è
il suo sguardo, non remissivo né aggressivo. Limpido e basta.
All'adolescenza arriva semplicemente; non ha perso le buone abitudini
acquisite negli anni. Come quella di andare a rendere visita alle
vecchiette dell'ospizio che si trova subito sopra la casa dei Badano,
dopo la grande curva. In particolare ce n'è una, Speranza, piccolissima,
riservata, candida in tutti i sensi. Un giorno la trova un po' triste, e
riesce infine a capirne il motivo: le rubano la biancheria. Così, da
quel giorno, verrà lavata a casa Badano. In un'altra occasione, Speranza
desidera lavarsi i piedi, ma non ammette che sia quella bambina a
farlo: così è Maria Teresa ad assumersi il compito.
Un altro
episodio di quegli anni riguarda l'amichetta Roberta. La sua mamma è in
ospedale per un tumore, e Chiara l'ha per così dire adottata. Più tardi
anche la nonna di Roberta deve sottoporsi a una visita medica, che
rivela una grave malattia. Le invita a casa, nonna e nipote, chiedendo
alla mamma di mettere sulla tavola la tovaglia più bella, «perché oggi
Gesù viene a trovarci».
Ancora. I nonni, che abitano sopra la curva,
hanno bisogno di qualcuno che li assista durante la notte. Maria Teresa
e Ruggero sono stanchi per le tante nottate trascorse fuori casa. Così
Chiara si offre lei di fare il turno dai nonni. Insiste tanto finché
ottiene il permesso. Si avvia così verso casa loro, portando con sé
anche lo zainetto con i libri di scuola per il giorno seguente. Si
addormenta, ma si risveglia subito. E rassicurata, perché i nonni
dormono e stanno bene; ma, per non rischiare di riaddormentarsi, fino
alla mattina si infligge in continuazione dei pizzicotti sulle gambe... E
il giorno dopo, a scuola, nessuno si accorge che non ha dormito.
Chiara è una ragazza che cresce, che scopre il mondo, a cui piace la
musica leggera, e che non disdegna di accennare a due passi di ballo. Le
piace cantare, ha una bellissima voce, cristallina. Spesso intona una
canzone dei gen o una di moda. Sa farsi apprezzare: è una ragazza sempre
circondata di amici e amiche. Dice una di loro: «Le piaceva anche
vestirsi con proprietà, pettinarsi con cura e qualche volta truccarsi un
poco, però mai con lusso».
Non sa stare ferma, da grande vorrebbe
fare la hostess. È lo sport in particolare ad attrarla. Ogni occasione è
buona. Oltre alle lunghe passeggiate in montagna con papà per cogliere
funghi, le piace giocare a tennis e nuotare. La mamma la ricorda
lanciarsi in mezzo ai cavalloni, una, dieci, cento volte. Ancor oggi,
nella casa di Sassello, si scorgono un paio di foto della giovane Badano
mentre si tuffa in mare con un buon stile carpiato.
Da Sassello a Savona, l'adolescenza
I
Badano si trasferiscono a Savona nel 1985, a motivo degli studi di
Chiara al liceo classico. «Viaggiano tutti da Sassello in città; perché
proprio noi dobbiamo andarci ad abitare?»: così Chiara si chiede se il
trasloco a Savona sia proprio necessario. Ma sul piatto della bilancia
c'è anche il desiderio di Ruggero di non percorrere più in camion la
strada verso il mare, visto che ora lavora ad Albisola. Comunque dal
venerdì sera al lunedì mattina ritornano all'amata Sassello.
Gli
studi non vanno troppo bene, nonostante Chiara si applichi a fondo: «Non
usciva quasi mai di casa - spiega la mamma - e studiava veramente
tanto». Purtroppo non trova il feeling giusto con una professoressa, che
la rimanda regolarmente. Eppure i professori da cui d'estate va a
ripetizione per gli esami di riparazione si meravigliano per la sua
buona preparazione, e i compagni protestano vivacemente per una
bocciatura, quella in IV ginnasio, veramente immeritata.
Nonostante
tutto, però, non smette di riconoscere anche in queste difficoltà
scolastiche il volto del suo sposo. Scrive a Marita, un'amica gen: «Sono
rimasta bocciata, e per me è stato un dolore grandissimo. Subito non
riuscivo proprio a dare questo dolore a Gesù. C'è voluto tanto tempo per
riprendermi un pochino e ancora oggi a volte quando ci penso mi viene
un po' da piangere. È Gesù abbandonato».
Malgrado questi incidenti
di percorso negli studi, a scuola lascia negli insegnanti e nei compagni
una traccia luminosa. Ad esempio, dice di lei il professor Amoretti:
«Si abbandonava fiduciosa all'insegnante. Ricordo il suo sorriso quieto,
la luce serena dei suoi occhi mentre seguiva le mie spiegazioni e
quelle dei miei colleghi. Naturalmente tutti noi avevamo notato i tratti
di delicatezza e gentilezza spirituale che l'accompagnavano».
Coi
genitori qualche piccolo "aggiustamento" qua e là è necessario, anche se
l'affetto è più forte, e ogni volta si giunge a "compromessi"
soddisfacenti, come ad esempio per la questione sugli orari di rientro
serali. In effetti, soprattutto nei weekend a Sassello, a Chiara piace
trattenersi fuori. Dicono i genitori: «Ci preoccupavamo un po', perché
coi ragazzi si intratteneva anche sino a ora tarda davanti al caffè.
Così ci siamo messi d'accordo e le abbiamo dato un orario. Non fu
facile: loro erano lì che parlavano e si godevano un gelato, e lei
friggeva a casa. Un giorno ci disse: "Mi sembra di essere Cenerentola che quando scatta la mezzanotte è dovuta scappare e ha perso la scarpetta". Non avevamo capito che soffriva per il divieto. Ci interrogava di solito: "Ma voi, vi fidate di me?".
E noi rispondevamo: "Chiara, di te sì, un po' meno degli altri". Poi ci
siamo messi d'accordo: "Allora ti gestisci tu. Una sera, quando magari
avete iniziato un discorso serio, ti fermi. La volta seguente, invece,
tu rientri alle 22". Ci ha pensato: "Mi sta bene". Così abbiamo ritrovato l'equilibrio, e lei ne è rimasta felice».
Da gen 3 a gen 2
Chiara ha qualcosa che la distingue dalle sue coetanee; sa "tagliare", sa ritirarsi. Ha un colloquio aperto col Signore.
Nell'estate 1988, un passaggio clou. Appena saputo di essere stata
rimandata in matematica, accompagna a Roma delle bambine, le gen 4, per
il loro primo congresso internazionale. Ha il cuore pesante per essere
stata rimandata, ma non si tira indietro. Scrive ai genitori da
quell'incontro: «È giunto un momento molto importante: quello
dell'incontro con Gesù abbandonato. Abbracciarlo non è stato facile; ma
Chiara Lubich questa mattina ha spiegato alle gen 4 che egli deve essere
il loro sposo». Forse Gesù la stava preparando al «grande incontro» con
«piccole punture di spillo», come dirà più tardi.
Trova qualche
difficoltà anche nel passaggio dalle gen 3 alle gen 2 (le prime arrivano
fino ai 16-17 anni circa, le seconde vanno da quell'età in su). In
effetti, questo è un cambiamento che talvolta può creare qualche
problema: ci sono i piccoli "drammi" dell'adolescenza, si modificano i
gruppi, l'adulto che li segue cambia pure... Ma è soprattutto il tempo
di una nuova scelta.
Maria Teresa mi racconta un momento decisivo
per la figlia, quando decide di non partecipare ad un incontro gen 2,
poi a un secondo. Non spiega molto i motivi, e forse non ce n'è nemmeno
bisogno: deve scegliere lei, personalmente, il vangelo e Gesù, di nuovo.
In seguito le viene chiesto (cosa normale tra le gen) se vuole seguire
un gruppetto di ragazze tra Imperia e Ventimiglia che hanno conosciuto
il loro ideale di vita e che vogliono seguirlo a loro volta... Si
ritrova così spinta a non rimuginare sui suoi piccoli-grandi problemi di
adolescente, e a mettersi a pensare agli altri con più lena. Così
riprende il cammino con le gen 2 - in realtà mai interrotto -,
dedicandosi a loro anima e corpo, scrivendo o telefonando regolarmente a
ognuna, trovando il modo di farle felici con piccoli doni...
È proprio in quei mesi che emergono i primi sintomi della malattia. Confiderà più tardi a due gen: «La
malattia è arrivata al momento giusto, perché stavo per "perdermi": non
cose grosse, ma comunque il nostro ideale stava passando in secondo
piano... Voi però oggi non potete nemmeno immaginare qual è il mio
rapporto con Dio».
Un festival di fantasia
Chiara
si circonda, non appena possibile, di gente, di amici. Non che non
riesca a star sola. Questo no. Ma nel suo essere c'è qualcosa che la
spinge verso gli altri, verso coloro che in poco tempo sa trasformare in
amici.
Amici e amiche per lei sono in primo luogo i gen e le gen,
con i quali ha un rapporto di confidenza molto semplice e nel contempo
approfondito. Tra le altre Clara "Chicca" Coriasco, di un paio d'anni
più grande di lei (ma sono come coetanee, e spesso amano spacciarsi per
gemelle...). Più di ogni altra persona, Chicca stringe con lei un
rapporto intenso, nel periodo dell'adolescenza e della prima giovinezza.
Si telefonano a lungo e si scrivono, soprattutto nel periodo in cui
Chicca si trasferisce a Torino per gli studi, mentre Chiara si trova
"confinata" a Savona. Bigliettini normalissimi e spiritosi, in cui
Chiara racconta di un regalo, di una gioia intensa provata ad un
incontro con le gen, di una festa di compleanno. Il rapporto e la
corrispondenza continuano e si intensificano negli anni brevi della
malattia. Sarà spesso Chicca a raccoglierne i pensieri più intimi.
Ma con le gen non c'è solo amicizia personale, pur importante. La sua
"unità gen", il gruppetto nel quale è inserita, è un vero festival di
fantasia e generosità: non perdono occasione per «cementare la loro
unità» (come dicono loro) negli incontri in cui si raccontano
reciprocamente esperienze di vangelo vissuto; ma anche con lettere,
telefonate, feste, gite, regali, messaggi, sorprese. Tra loro la
comunione dei beni è una realtà: Chiara conserva fino alla morte nella
sua stanzetta un elenco delle sue cose, che non considera di sua
proprietà; ne ha fatto l'elenco proprio per metterle a disposizione di
chi ne ha bisogno, a cominciare dalle amiche della sua unità gen.
Dalle numerose lettere di Chiara alle gen traspare il desiderio
pressante di essere una persona integra, che comunica con la propria
vita agli altri la sua scoperta di Dio amore, dell'unità come ideale di
vita. Emerge anche la sua predilezione, una vera "passione", per chi non
crede in Dio. Chiara è attivissima nelle attività del Movimento, in
particolare del neonato Movimento Gioventù Nuova, per il quale darà
tutta se stessa.
A posteriori emerge la certezza che senza questa
comunione costante e sempre nuova con le altre gen non si potrebbe
capire quanto le succede negli ultimi due anni di vita. Non per niente,
pochi giorni prima di morire, dirà che partendo per il cielo passerà «la
fiaccola dell'unità ai gen che restano». E così è puntualmente
avvenuto. Chiara è per loro ancor oggi un modello. «Perché mostra una
realizzazione dell'ideale che hanno scelto - risponde Eletta Fornaro,
responsabile mondiale delle gen -: vogliono l'unione con Dio, e lei l'ha
raggiunta; vogliono un mondo unito, e lei ci credeva così tanto che,
mentre lo realizzava attorno a sé, offriva per esso le sue sofferenze;
vogliono le cose concrete, e lei persino dal suo letto continuava a
raccogliere i suoi risparmi per l'Africa... ».
Con gli amici di Sassello
Giuliano
Robbiano è forse l'amico più sincero che Chiara abbia al paese. È
figlio dei proprietari del locale dove lei ama trascorrere pomeriggi e
serate con gli amici, il Bar Gina.
Lo incontro proprio lì. Alle
pareti pendono foto del borgo di una volta. Lo sguardo è franco, il
parlare semplice. Racconta qualcosa di Chiara tra un cappuccino da
servire e un pacchetto di amaretti da confezionare: «Posso dire che con
lei - e non mi sembra di mancarle di rispetto - ho passato i momenti più
belli della mia vita. Soprattutto nella malattia, era lei che mi
sosteneva, che sapeva trovare le parole e i gesti giusti per
incoraggiarmi. Però debbo dire che era sì una ragazza ben educata, che
piaceva a tutti e sapeva farsi apprezzare; ma mai e poi mai avremmo
pensato che avesse una vita così ricca. Ci ha lasciato una scia luminosa
che mi aiuta un sacco, ancora adesso».
In effetti, con gli amici
del paese non vuole mai essere al centro dell'attenzione. Non racconta a
parole quello che vive con le gen, non si mette in mostra, non fa un
"apostolato" di routine. Lei ama, sa avere le attenzioni giuste.
Racconta Maria Teresa: «Un giorno le chiedo: "Con gli amici al bar, ti
capita di parlare di Gesù, cerchi di far passare qualcosa di Dio?". E
lei con naturalezza mi risponde: "No, non parlo di Dio". La guardo e dico: "Ma come, ti fai sfuggire le occasioni?". E lei: "Non conta tanto parlare di Dio. Io lo devo dare ».
Tanti ragazzi le vanno dietro. Ma niente di più: «E' molto equilibrata
nei sentimenti, ci va piano», conferma Chicca. Con L., un ragazzo del
paese, c'è una simpatia molto forte. «Ma senza compromessi», precisa
l'amica. Il rapporto dura lo spazio di qualche settimana, non di più,
perché Chiara lo lascia, avendo colto in quel loro rapporto qualcosa di
incompleto. «Tronca in modo maturo, molto diretto - spiega Chicca -.
Quando me lo racconta, sento una persona retta, che non cede alle mezze
misure...». Alla mamma dirà invece più tardi: «Cominciavo
a voler bene a L., ma mi sono accorta che forse per lui era diverso:
magari a lui piaceva solo stare con me. Allora ho troncato».
LA SPOSA
Poi, l'imprevedibile. L'estate del 1988 volge al termine, la scuola
si avvicina. Le lunghe passeggiate con gli amici, le serate a discutere,
i tempi rilassati delle vacanze volgono al termine. Chiara sta giocando
a tennis quando avverte un forte dolore alla spalla. Non ci fa caso, e
non lascia trasparire nulla con i genitori, né con gli amici. Ma la
fitta si ripete, più acuta, tanto che nel corso di un'altra partita non
riesce più nemmeno a reggere la racchetta in mano. Dapprima i medici
parlano di una costola rotta e le prescrivono delle infiltrazioni,
peraltro dolorose. Ma le ricadute spingono i sanitari ad approfondire le
ricerche.
Chiara è un po' turbata, ma continua la sua vita
normalmente. Così un pomeriggio vorrebbe partecipare a un incontro gen a
Genova, ma febbre e dolori non l'abbandonano. Racconterà più tardi: «Il
treno era alle 14.12 e, avendo un po' di tempo, mi addormento. Mi
sveglia il campanello. Nessuno alla porta. Nemmeno al citofono, da
basso. Guardo l'orologio e capisco: "Gesù, sei tu che mi chiami, vuoi che venga da te. Devo prendere il treno". Corro tanto, perché ho solo sette minuti. Soffro da morire ma ho le ali: "Devo farcela, Gesù mi chiama". Sudata arrivo a sedermi sul treno: "Ce l'ho fatta"».
II verdetto dei medici arriva ben presto: sarcoma osteogenico con
metastasi, uno dei tumori più spietati e dolorosi. A Chiara non viene
comunicata immediatamente la grave diagnosi, ma non le viene nascosto
che la malattia è seria. Accoglie la notizia senza abbattersi. Comincia
la trafila infinita di esami, attese, recuperi, ricadute, ricoveri.
Un'occasione costante per vivere nell'istante presente. Racconta papà
Ruggero: «A Pietra Ligure, in ospedale, nonostante dolori e febbre, non
riesce a stare ferma. Si prende cura di una ragazza depressa che occupa
la camera accanto. L'accompagna ovunque, in lunghissime passeggiate nei
corridoi, anche se dovrebbe riposarsi. Di fronte ai nostri inviti alla
prudenza, dice: "Avrò tempo per dormire più tardi"».
Le testimonianze raccolte non lasciano dubbi: Chiara affronta questa
prova con docilità, si potrebbe persino dire "col sorriso sulle labbra".
Si sottopone a lunghe terapie, riprende la scuola per qualche giorno,
scrive qualche lettera, trascorre settimane a letto... Dice Chicca
Coriasco: «Ci scrivevamo spesso. Già da un po' avevo notato tra le righe
un malessere, come una difficoltà. Avvertiva che la vita si faceva più
dura, anche nei rapporti con gli altri. Voleva essere autentica al 100
per cento, voleva darsi tutta... Credo che senza tale premessa non si
capirebbe la sua reazione all'annuncio della malattia».
Lo sposo vicino
Arriva il tempo di un primo intervento, seguito da una lunga
chemioterapia, che non fa pesare a chi le sta intorno. A questo
proposito, Maria Teresa racconta un momento decisivo della vita di
Chiara, un passaggio straordinario: «Da qualche tempo ha capito che le
cose si mettono male, e che ha un cancro vero e proprio. Tuttavia
mantiene la speranza di guarire. Qualche giorno dopo l'intervento,
chiede direttamente al medico la vera diagnosi. Viene così a sapere la
verità, e che resterà calva per la chemioterapia. E’ forse questo
particolare a farle comprendere la gravità del male: ai suoi capelli,
infatti, ci tiene. Siamo a Torino, da amici, perché l'intervento ha
avuto luogo al Regina Margherita. La vedo ancora arrivare nel giardino
avvolta nel suo cappotto verde. Ha lo sguardo fisso, si avvicina, pare
assente, entra in casa. Le chiedo come sia andata. E lei: "Ora no, ora non parlare".
Si butta sul letto, con gli occhi chiusi. Venticinque minuti così. Mi
sento morire, ma l'unico modo di starle accanto è tacere, soffrire con
lei. È una battaglia. Quindi si volta, mi sorride: "Ora puoi parlare",
mi fa. È fatta. Ha ridetto il suo sì. E non torna più indietro». (Una
volta sola aveva chiesto il perché di quel dolore. Dopo il primo
intervento aveva in effetti esclamato: «Perché, Gesù?». Ma pochi istanti dopo aveva continuato: «Se lo vuoi tu, Gesù, lo voglio anch'io»).
Chiara scrive a Chiara Lubich: «Questo male Gesù me lo ha mandato al
momento giusto, me l'ha mandato perché io lo ritrovassi». Quel sorriso
che la caratterizzava da sempre, e che nei primi mesi della malattia non
l'aveva abbandonata, torna più radioso ancora sulle sue labbra. Chiara
sa ormai dove va. Il filosofo agnostico Émile Cioran si chiedeva: «Si è
mai visto un santo gioioso?». Chiara lo era.
Le operazioni, le speranze
Il
decorso della malattia è impietoso, anche se Chiara cerca ostinatamente
di condurre una vita normale e, appunto, gioiosa, perché cresce il
rapporto con il suo sposo. Subisce una seconda operazione,
dolorosissima.
Tra gli innumerevoli episodi di questo periodo, val
la pena di riportare il racconto di quello che sarà il suo ultimo Natale
(lei già lo intuiva). Ha preparato i regali per i familiari e gli
amici; l'importante è fare festa, circondata da coloro che ama. Ma le
piastrine scendono rapidamente, la febbre aumenta. «Per telefono il
medico curante - racconta Maria Teresa - mi fa qualche domanda mirata e
mi chiede quanto tempo ci voglia per giungere all'ospedale, a Torino.
L'ambulanza è sotto casa, ma Chiara non vuole partire: "Io non passo il Natale all'ospedale - dice -; se devo morire, Gesù, vorrei che fosse a casa".
Le sussurro allora all'orecchio che è volontà di Dio partire. Accetta,
ma nel tragitto non pronuncia una parola, soffre tremendamente. Sulla
porta del nosocomio i medici, che le volevano bene un mondo, sono già
pronti con la trasfusione. Abbiamo rischiato di perderla.
La mattina
seguente, vigilia di Natale - continua il racconto della mamma -,
entrando nella sua stanza le dico: "Qui corrono tutti coi pacchi di
regali, ma nessuno si guarda negli occhi, nessuno si saluta. Gesù è lì
accanto e non lo vedono". Nel frattempo ha superato il momento di
difficoltà. Continuo: "Accendiamo il fuoco di Gesù tra noi, che poi
scalderà tutti. Devi accenderlo tu, perché la mia legna fa poco calore".
E lei: "Insieme, mamma"».
Proprio quel pomeriggio il cardinale di Torino Saldarini è in visita nel
reparto. Ha notato il volto particolare di Chiara. Entra nella stanza e
le chiede: «Hai una luce meravigliosa negli occhi. Come fai?». E lei,
dopo un momento di timidezza: «Cerco di amare Gesù».
Quello stesso giorno, una volontaria ospedaliera cade in una profonda
crisi esistenziale: come può esistere un Dio se in quell'ospedale
muoiono di cancro dei bambini? Mentre Maria Teresa scende al bar, la
signora si siede accanto a Chiara. Non si sa quel che si dicono. Ma
quella donna afferma rinfrancata che quello è il più bel Natale della
sua vita. «Anche per noi tutti fu così», ribadisce papà Ruggero.
La vicinanza con i suoi
I suoi, cioè i gen e le gen, che circondano lei e la sua famiglia di
attenzioni, di aiuto, di affetto, sempre pronti ad accorrere se il
bisogno si manifesta. I loro racconti cominciano pressappoco tutti così:
«All'inizio abbiamo l'impressione di andarla a trovare per sostenerla -
come dice un gen di Torino, Fernando Garetto -. Ma ben presto ci
accorgiamo che siamo noi a non poter più fare a meno di lei, perché
siamo come attratti da una calamita». E sempre Fernando: «Ogni volta che
entriamo nella sua stanza - dice - sentiamo di doverci "aggiustare
l'anima"; ma poi ecco la gioia, per i brevi momenti con lei. Ci sentiamo
proiettati, senza averne alcun merito, nella splendida avventura
dell'amore di Dio. Eppure Chiara non dice frasi straordinarie, non
scrive pagine e pagine di diario. Semplicemente ama». La ragione di
tutto questo forse viene da quanto afferma uno dei suoi medici, Antonio
Delogu: «Dimostra col suo sorriso, con i suoi grandi occhi luminosi, che
la morte non è. Solo la vita è». Semplicemente ama.
Ama riamata.
Scrive ad alcune gen di Genova: «Sento fortissima la vostra unità, le
vostre offerte, le vostre preghiere che mi permettono di rinnovare il
mio "sì" attimo per attimo».
I suoi, cioè i genitori. Sentiamo
Ruggero: «Nella malattia abbiamo visto la mano di Dio: ho scoperto una
figlia nuova, sconosciuta. Il rapporto che aveva con Gesù ci ha aiutati a
fare i passi interiori necessari. Ci trasmetteva serenità: Chiara era
gravissima, ma non ci siamo mai lasciati prendere dalla disperazione,
perché in lei c'era sempre Gesù. Ricordo, avevamo fatto meditazione
assieme, scambiandoci poi qualche impressione. Chiara Luce disse:
"Quando abbiamo la presenza di Gesù in mezzo a noi, siamo la famiglia
più felice del mondo". E quella notte si mise a cantare qualche canzone
gen, tanto che temevo disturbasse i vicini. Ma non osai interromperla».
Roberto Bertucci, primo biografo di Chiara, sottolinea «il rapporto
fuori del comune che si era creato tra lei e i genitori. Maria Teresa e
Ruggero, forgiati nello stesso spirito dell'unità, avevano intessuto con
lei un rapporto di affiatamento insolito, di profonda unità; la vita di
Chiara è stata accompagnata e favorita da loro due. Frasi come quelle
ripetute da Ruggero subito dopo la sua partenza al cielo - "Dio ce l'ha
data, Dio ce l'ha tolta. Sia benedetto Dio"; "Non so se riusciremo a
fare altro nella vita, ma un capolavoro forse l'abbiamo fatto" - dicono
una fede profonda presente anche nei genitori. E ciò dimostra come una
sana famiglia cristiana porti frutti, anche grandi».
I suoi, cioè
gli amici. A Gianfranco Piccardo, in partenza per una missione
umanitaria in Africa, in Benin, per scavare pozzi d'acqua potabile,
Chiara consegna tutti i risparmi, un milione e trecentomila lire, regalo
per il suo ultimo compleanno. Dice: «A me non servono, io ho tutto».
È già costretta a letto, paralizzata. Lo segue idealmente durante i
suoi viaggi, grazie alle regolari visite della moglie Rosalba; alle
dieci di sera si riuniscono, col pensiero, in preghiera. L'amica così
commenta il loro ultimo incontro: «In quella stretta di mano mi sembra
che passasse l'amore immenso di una creatura ormai totalmente in Dio».
La Bella Signora
Ci resta una registrazione in cui Chiara racconta di una visita in
ospedale, quando le iniettarono un medicinale tra le vertebre, per
attenuare le insopportabili contrazioni alle gambe ormai da tempo
paralizzate. Incide la cassetta per i suoi amici gen: «Per mantenere Gesù in mezzo a noi - dice -,
cosa importantissima in questo periodo, vi volevo raccontare in breve
una mia esperienza che ho fatto a Torino. Mi sono ricoverata per una
visita specialistica. La paura era tanta, perché in quel momento non
capivo cosa mi avrebbero fatto. Ho capito che si trattava di un piccolo
intervento, con anestesia locale. È stata un'esperienza bellissima,
perché, quando i sanitari hanno iniziato a fare questo piccolissimo
intervento, però fastidioso, è arrivata una persona, una signora, con un
sorriso luminosissimo, bellissima: si è avvicinata, mi ha preso la mano
e mi ha fatto coraggio. Io ero convinta che questa persona fosse del
Movimento, perché quella luce era proprio del nostro ideale. Io ero
dell'idea che i miei, che erano rimasti fuori, l'avessero fatta entrare.
A un certo punto, com'è arrivata, è sparita: non l'ho più vista. Ma
sono stata invasa da una gioia grandissima, e m'è scomparsa la paura.
Quando sono uscita ho chiesto ai miei genitori chi fosse, ma loro non la
conoscevano. Ecco, ripensandoci non mi so spiegare cosa fosse accaduto,
ma sentivo forte di ringraziare Dio. Razionalmente pensavo: "È un
caso". Ma poi mi chiedevo: "E perché è arrivata proprio in quel momento,
proprio in quella circostanza? E soprattutto con quella luce così,
direi senza esagerare, soprannaturale?". Mi sembrava un angelo. Un
angelo che la Madonna mi aveva messo vicino. È stato un momento di Dio
profondissimo. Ecco, in quell'occasione ho capito: se fossimo sempre
pronti a tutto, quanti segni Dio ci manderebbe! Ho compreso anche quante
volte Dio ci passa accanto e noi non ce ne rendiamo conto».
Niente morfina
Le cure si rivelano inutili: il male avanza. Dice: «Se
dovessi scegliere tra camminare o andare in paradiso, sceglierei senza
esitazione: andare in paradiso. Ormai mi interessa solo quello... Sto
attenta a dirlo, però, perché magari pensano che voglio andarmene per
non soffrire più. Ma non è così. Io voglio andare da Gesù».
L'ultima TAC non lascia speranza. Cominciano gli ultimi mesi, i più
intensi. Innumerevoli testimonianze dimostrano come, dal suo lettino,
Chiara viva in comunione con tanti. Tanto da suscitare la curiosità dei
medici, che guardano quella ragazza e i suoi genitori con interesse: «Li
studiavamo - confessa un medico del Regina Margherita - perché non
riuscivamo a capire perché non erano disperati. Erano in tre, ma vedevo
una sola persona».
Un altro episodio, raccontato da Maria Teresa:
«Le saltavano le vene, a furia di flebo. Il professore le aveva mandato
l'infermíera migliore. Anche quest'ultima non riusciva nell'intento, ma
non si dava per vinta. Scoprì una vena ancora buona, sul pollice; una
vena piccola, che rischiava di rompersi da un momento all'altro. Disse a
Chiara: "Dovrai collaborare, restare immobile. Se muovi il dito, l'ago
salta e non possiamo fare la terapia". Quell'ago pareva una farfalla.
Chiara per tre giorni rimase immobile. Una di quelle sere disse: "Per
me è una piccola prova, anche se mi fa proprio male e mi viene
l'istinto di muovere il dito. Ma allora, per vincere questa tentazione,
mi dico che quella farfalla è una delle spine che Gesù aveva sul capo"».
Rifiuta persino la morfina: «Toglie
la lucidità, e io posso offrire a Gesù solo il dolore. M'è rimasto solo
questo. Se non sono lucida, che senso ha la mia vita?».
La sua stanzetta
Gli
ultimi mesi Chiara li trascorre quasi esclusivamente nella sua
stanzetta, nella mansarda di Sassello, accudita dai genitori e da zia
Mimma, un vero angelo di serenità e dedizione. Le piace quell'angoletto
dalle travi rustiche. Vi sono due finestre, una all'altezza del
pavimento, che dà sul giardino, e una proprio di fronte al letto, che
invece mostra solo due rettangoli di cielo e, alla base, due vasi di
piante, sempre fiorite. Nella stanza sono distribuiti una ventina di
pupazzi di peluche regalati dalle gen 4 (Chiara Luce ne va matta). Poi
un dipinto di Gesù abbandonato sulla croce, corredato da una frase:
«Gesù, confido in te». Quindi un quadretto, che rappresenta il Piccolo
principe di Sannt-Exupéry, con un'altra scritta: «Non si vede bene che
col cuore, l'essenziale è invisibile agli occhi».
Alla testata è
appeso il telefono con cui la giovane Badano resta in contatto costante
con gli amici. Pur nell'immobilità è infatti attivissima, e segue le
attività dei gen, si fa presente con cartoline, messaggi, regalini. Ha
sempre una trovata per manifestare la sua unità. E poi continua la sua
predilezione per coloro che non credono in Dio. Dice Fabio De Marzi, il
medico curante, agnostico, che tante volte è salito in quella mansarda:
«Da quando ho conosciuto Chiara, il suo comportamento e quello dei
genitori, qualcosa è cambiato dentro di me. Qui c'è coerenza, qui tutto
mi quadra del cristianesimo».
Nella stanzetta non mancano una
minuscola statuetta di Santa Chiara, un paio di scarpette da bambina,
una lampada a olio fatta con una scatola di sardine, una Madonnina di
Fatima e un tramonto rosso. Su un portapenne è incisa una frase di
Chiara Lubich: «Amare, amare sempre, amare tutti. Alla fine di ogni
giornata poter dire: "Ho sempre amato"».
E poi i libri, tanti:
L'idiota di Dostoevskij, L'Inferno dantesco, La storia infinita di
Michael Ende, Cuore di De Amicis, Uno di Richard Bach, Lettera a un
bambino mai nato di Oriana Fallaci, Pavese, Sciascia, Dumas, Kipling,
Hemingway (Il vecchio e il mare), Agatha Christie, Rigoni Stern,
Varillon, Calvino, I dolori del giovane Werther di Goethe, Guareschi,
Hesse, La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth. E poi i suoi libri
prediletti, soprattutto negli ultimi mesi di vita: Meditazioni,
Colloqui con i gen e La parola che si fa vita di Chiara Lubich.
Infine, una scritta a caratteri cubitali, stampata da computer: «Ciao
Chiara, 1». I gen sono così sempre presenti accanto a lei, anche quando i
dolori non le lasciano tregua.
La prova
Giunge anche un forte momento di prova. Un giorno la madre la ode urlare. Accorre e la trova ansimante, coperta di sudore: «Mamma, è venuto il diavolo»,
le dice. La madre cerca di calmarla, spiegandole di non essere sorpresa
di quella visita, «perché il demonio vuole prendere con sé le anime più
belle». E l'invita a stare tranquilla, «perché Gesù è con te». Chiara
continua per la sua strada.
L’adulta, ormai, nonostante i diciott'anni non ancora compiuti. Le scrive il medico curante, ancora lui: «Non
sono abituato a vedere dei giovani come te. Ho sempre pensato alla tua
età come al tempo delle grandi emozioni, delle intense gioie, degli ampi
entusiasmi. Tu mi hai insegnato che è anche l'età d'una maturità
assoluta». Il 19 luglio 1989 viene colpita da un'emorragia,
terribile. Viene salvata in extremis. Dirà: «Non versate lacrime per me.
Io vado da Gesù, a cominciare un'altra vita. Al mio funerale non voglio
gente che pianga, ma che canti forte. Ieri sono stata lì sulla porta,
ma la porta non s'è ancora aperta».
Altre cure, con una fleboclisi forzata e rumorosa: «Ogni goccia può assomigliare almeno un po' ai colpi di martello sui chiodi usati per crocifiggere Gesù». E accompagna ogni battito della flebo con un: «Per te».
Accade persino che chieda ai genitori di non far entrare Giuliano e gli
altri amici. Un giorno si spiega con lui: «Quello non era un segno di
minor affetto o di tristezza. Anzi. Era che faticavo a scendere dal
punto meraviglioso in cui abitava l'anima e poi risalirvi. Sto in
un'altra dimensione, in un'aria di paradiso che mi ha rapito, e avverto
come zavorra tutto ciò che mi allontana da lì».
E "aria di paradiso"
è quella che sperimentano coloro che le sono accanto. È il momento
dell'impennata finale, qualche mese appena di maturazione estrema nel
rapporto con Dio, con Gesù suo sposo. Le testimonianze concordano
nell'attribuirle una pace costante, pur nelle sofferenze indicibili.
Parla ormai a fatica, non scrive quasi più, vive nella sua cameretta
rivestita di legno d'abete immersa nella volontà di Dio del momento
presente.
Intimità spirituale
È
in questi ultimi mesi di vita che il rapporto con Chiara Lubich
raggiunge indiscutibilmente il suo apice. Seguiamolo attraverso
l'ultimo, intenso scambio di lettere. Scrive Chiara il 20 dicembre 1989:
«Da due giorni sono ritornata
dall'ospedale di Torino dove, da circa dieci mesi, per l'ennesima volta
mi sono recata a sottopormi ad un ciclo chemioterapico. Il mio stato di
salute attuale non è dei migliori, perché il mio fisico è ormai
duramente provato a causa delle terapie. L'ultimo ricovero coincideva
con il congresso gen 2 a Castelgandolfo. Una mattina stavo
particolarmente male; sapevo che proprio quel giorno le gen avrebbero
fatto una preghiera per me: anch'io ho sentito il desiderio di unirmi a
loro e con la mamma l'abbiamo fatta anche noi. Siccome questo è l'anno
dello Spirito Santo (in quel periodo, nel Movimento si approfondiva quel tema, ndr),
oltre alla mia guarigione ho chiesto all'Eterno Padre di illuminare con
il suo Spirito i responsabili del raduno e, per tutte le gen, la
sapienza e la luce. È stato proprio un momento di Dio: soffrivo molto
fisicamente, ma l'anima cantava. Abbiamo continuato a pregare a lungo,
perché quel momento non passasse. Ora ti chiedo un regalo per Natale:
una Parola di vita per me, una per papà e una per la mamma. Chiedo
troppo?».
Chiara le risponde a stretto giro di posta: «Avrai
saputo che il congresso gen è stato una vera manifestazione dello
Spirito Santo, grazie anche a te. Ti sento tutta impegnata e protesa a
corrispondere all'amore di Dio e a dirgli il tuo continuo "sì" per il
Movimento. Io ti seguo costantemente con la mia preghiera e con tutto il
mio amore. Ho scelto le Parole di vita che desideravi. Ecco fa tua:
"Chi rimane in me ed io in lui, questi porta molto frutto" (Gv 15, 5).
Alla tua mamma propongo questa: "Siate lieti nella speranza, forti nella
tribolazione, perseveranti nella preghiera" (Rm 12, 12). E al tuo papà:
"Ti amo, Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore" (Sal 17,
2-3). Chiedo allo Spirito Santo per te il dono della fortezza, perché la
tua anima, per l'amore a Gesù abbandonato, possa sempre "cantare"».
Nell'aprile del 1990, mentre continua il suo calvario, legge la Parola
di vita del mese, scritta da Chiara Lubich. Ne sottolinea un passaggio:
«La prima condizione per superare la prova è la vigilanza. Si tratta di
rendersi conto che sono prove permesse da Dio non già perché ci
scoraggiamo, ma perché, superandole, maturiamo spiritualmente».
Il 19 luglio del 1990, Chiara scrive di nuovo: «Per
prima cosa ti aggiorno un po' sul mio stato di salute: ho sospeso il
ciclo chemioterapico a cui mi ero sottoposta, perché è risultato inutile
continuarlo: nessun risultato, nessun miglioramento. La medicina ha
così deposto le armi! Solo Dio può. Interrompendo le cure, i dolori alla
schiena dovuti ai due interventi e all'immobilità a letto sono
aumentati e non riesco quasi più a girarmi sui fianchi.
Stasera ho il cuore colmo di gioia, e sai perché? Ho ricevuto la visita
della mamma di Carlo Grisolia di Genova (un gen morto qualche tempo
prima, ndr). È stato un momento di forte Gesù in mezzo. L'emozione era
tanto grande che quasi non riuscivo a parlare. Clara mi ha portato le
foto di Carlo, così ho potuto sceglierne una che ora ho qui davanti a
me. Durante l'incontro con la sua mamma, Carlo era con noi. Sai che la
sua presenza era così forte che ad un certo punto mi sono ritrovata a
guardare sulla sedia per vedere se era proprio lì. Sì, c'era!
O mammina, riuscirò anch'io a essere fedele a Gesù abbandonato e a
vivere per incontrarlo come ha fatto Carlo? Mi sento così piccola e la
strada da compiere è così ardua; spesso mi sento sopraffatta dal dolore.
Ma è lo sposo che viene a trovarmi, vero? Sì, anch'io ripeto insieme a
te: "Se lo vuoi tu, Gesù, lo voglio anch'io". Ancora una cosa volevo
dirti: qui tutti chiedono il miracolo (e tu sai quanto io lo
desideri...), ma io non riesco a chiederlo. Forse questa mia difficoltà
nel domandarglielo sta nel fatto che sento che non rientra nella sua
volontà. Sarà così? Cosa ne pensi?
Sarei felice - conclude - se mi potessi scegliere il nome nuovo (se pensi sia opportuno)».
Ed ecco la risposta di Chiara Lubich, una settimana più tardi: «Grazie
della letterina in cui mi dai notizie della tua salute e mi dici che hai
avuto la visita della mamma di Carlo. Il Gesù in mezzo che hai
stabilito con lei è stato così grande da farti sperimentare la presenza
di Carlo. Ne sono felice. Grazie anche della tua foto. Il tuo viso così
luminoso dice il tuo amore per Gesù. Non temere, Chiara, di dirgli il
tuo sì momento per momento. Egli te ne darà la forza, siine certa!
Anch'io prego per questo e sono sempre lì con te. Dio ti ama
immensamente e vuole penetrare nell'intimo della tua anima e farti
sperimentare gocce di cielo.
"Chiara Luce" è il nome che ho pensato
per te; ti piace? È la luce dell'ideale che vince il mondo. Te lo mando
con tutto il mio affetto. Il giorno di Santa Chiara sarai spiritualmente
presente anche tu».
Data al 9 agosto di quell'anno l'ultima
affettuosa lettera di Chiara Luce, firmata col "nome nuovo". Sono
proprio gli auguri per la festa di Santa Chiara: «Avrei voluto donarti
un cestino ricolmo di funghi di Sassello, ma nonostante le ricerche,
come avrai notato, ne abbiamo trovato uno soltanto (vero): sembra sia
nato proprio per te. Sono con te ed offro tutto, i miei fallimenti, i
dolori e le gioie a lui, ricominciando ogniqualvolta la croce fa sentire
tutto il suo peso. Non potendo infilarmi nel cestino per farti gli
auguri personalmente, te li rinnovo per iscritto».
«Perché mai Gesù non viene ancora?»
Così chiede uno degli ultimi giorni. «Non vedo l'ora di andare in paradiso... Ma non sarà anche questo un attaccamento sbagliato, da perdere?». Teme persino che qualcuno la «innalzi su un piedistallo». Scrive allora: «Gesù ha permesso questa prova, ma è merito suo se riesco ad accettarla... di mio c'è proprio poco».
Ormai
sicura della sua sorte, che d'altronde non vuole cambiare, prepara con
la mamma e le gen la "festa di nozze", cioè il suo funerale, sin nei
minimi dettagli. Lei stessa indica come confezionare l'abito bianco con
una cintura rosa - che chiede a Chicca di provare al suo posto -,
sceglie le musiche, i canti e le letture. Si può dire che gli ultimi
giorni della sua vita, paralizzata e bisognosa continuamente di
ossigeno, siano stati realmente gli ultimi suoi momenti da fidanzata,
«prima delle nozze», come lei amava ripetere.
La storia della
mistica, soprattutto femminile, è costellata di donne che usano
espressioni di profondo rapporto sponsale con Gesù; Chiara Luce
probabilmente fa parte di questa schiera.
Senza esaltazioni. È
rimasta lucidissima sino all'ultimo, rifiutando persino quei farmaci
che, sollevandola dai dolori più acuti, le avrebbero fatalmente
attenuato la vigilanza e la lucidità.
In quegli ultimi giorni è
stata prodiga di consigli anche per i genitori. «Mentre mi preparerai
sul letto di morte, mamma, dovrai sempre ripetere: "Ora Chiara Luce vede
Gesù"».
E’ nell'amore, come testimonia una delle ultime "fantasie"
dettatele dall'attenzione al prossimo. Dopo la sua morte, in effetti è
stato ritrovato un biglietto vergato da una scrittura appena
riconoscibile: «Santo Natale 1990. Grazie di tutto! Auguri di Buon
Anno». Lo aveva nascosto nella cassettina dei biglietti d'auguri, certa
che la mamma l'avrebbe letto quel prossimo Natale, in cui sentiva che
non ci sarebbe più stata.
Il papà le chiede se sia sempre disposta a
donare le cornee, gli unici organi ancora trapiantabili, perché non
intaccati dal cancro o dalla chemioterapia. Gli risponde con un sorriso
luminosissimo.
Scrive a fatica una specie di testamento ai gen: «Sono
uscita dalla vostra vita in un attimo. Oh, come avrei voluto fermare
quel treno in corsa che m'allontanava sempre più! Ma ancora non capivo.
Ero ancora troppo assorbita da tante ambizioni, progetti e chissà cosa
(che ora mi sembrano così insignificanti, futili e passeggeri). Un altro
mondo m'attendeva, e non mi restava altro che abbandonarmi. Ma ora mi
sento avvolta in uno splendido disegno che a poco a poco mi si svela». «Io devo tutto a Dio e a Chiara», è una delle sue ultimissime frasi.
Lo sposalizio
Chiara Luce si aggrava, sopraggiungono crisi respiratorie e segni di soffocamento. Confida alla mamma una mattina: «Ieri sera ero felice perché ho potuto offrire ancora qualcosa». E in un altro momento: «Pensi che sia un falso allarme? Partirò?».
Le risponde Maria Teresa: «Per partire ci vuole il tempo di Dio. Ma
stai tranquilla: hai la valigia pronta, piena di atti d'amore». E Chiara
Luce: «Pensi che mi verrà incontro la nonna?». La mamma: «Prima ci sarà Maria, che t'accoglierà a braccia aperte». E la giovane Badano: «Zitta, non dirmi niente che mi togli la sorpresa».
Due notti prima di morire chiede alla madre di leggerle una delle
meditazioni di Chiara Lubich, le uniche pagine oltre al vangelo che
ancora la soddisfano, placando la sua sete d'infinito. Maria Teresa
comincia, ma Chiara Luce l'interrompe: «Con più entusiasmo, per favore».
E poi pronuncia una frase, semplice e forte, memore della "visita"
ricevuta qualche settimana prima: «Quando arriva il diavolo lo mando
via, perché sono più forte, perché io ho Gesù».
La vigilia vuol
salutare gli amici che sono in casa. Non ha un filo di forze residue, ma
riesce comunque a riservare un sorriso a ognuno, o un cenno con la
mano. Giuliano è tra questi: «Bisogna avere il coraggio di mettere da
parte ambizioni e progetti che distruggono il vero significato della
vita, che è credere nell'amore di Dio e basta», riesce a dirgli. Arriva
un mazzo di roselline dalle gen: «Che belle, proprio adatte per un
matrimonio», commenta.
Sin dalla mattina le viene da ripetere una frase ripresa da Chiara Lubich: «Vieni Signore Gesù», perché desidera ricevere l'Eucaristia. E inatteso arriva un sacerdote, che le dà la comunione. È felicissima.
La notte si annuncia difficile. I medici si danno da fare, ma Chiara
Luce chiede di restare sola con i suoi. Accanto a lei il padre e la
madre. Fuori dalla porta, gen e amici. C'è pace, quasi naturalezza. Le
sue ultime parole sono per la mamma: «Ciao. Sii felice, perché io lo sono».
A papà, che le chiede se quella frase valga anche per lui, stringe la
mano. È domenica 7 ottobre 1990, sono le quattro del mattino. È
arrivata, Chiara Luce.
Scrive Chiara Lubich in un telegramma a Ruggero e Maria Teresa: «Ringraziamo Dio per questo suo luminoso capolavoro».
Poi l'ultimo dono: le sue cornee vengono espiantate. Ora due giovani vedono grazie a lei.
FESTA CONTINUA
La notizia della morte di Chiara Luce si spande nell'abitato di
Sassello ancor prima che l'alba faccia capolino. Il lutto non è stato
proclamato, ma alla fiera della Madonna del Rosario di gente ce n'è
proprio poca, mentre casa Badano non ha mai ospitato tanta gente, quasi
una processione. E la gente non viene solo da Sassello, ma da Savona,
Genova, Torino e da più lontano ancora.
«Ce l'ha fatta», ci si dice
aspettando di entrare nella sua stanzetta, dove Chiara Luce è adornata
nel suo vestito da sposa. Non c'è tristezza, anche se le lacrime
scendono copiose. Si recitano rosari uno dopo l'altro, con la
partecipazione di tutti, dagli amici di Sassello ai parenti, ai gen, ai
focolarini, ai parrocchiani, a chi non mette mai piede in chiesa, ai
mangiapreti... Chiara Luce era di tutti loro, nessuno escluso. È festa,
tanto che un bambino chiede alla mamma quando arrivano i pasticcini.
Martedì 9 ottobre i negozi restano chiusi, per volere del sindaco
Costa. Al funerale, nella parrocchiale dedicata alla Santissima Trinità,
assistono più di duemila persone, tanto che una buona metà dei presenti
è obbligata a rimanere nella piazza antistante la chiesa, quella della
meridiana, ricordata da Chiara Luce in uno dei suoi ultimi lavori
scolastici: «Spesso l'uomo non vive la sua vita, perché immerso in tempi
che non esistono: o nel ricordo o nel rimpianto. L'uomo potrebbe dare
un significato a ogni cosa uscendo dal suo egoismo e valorizzando ogni
sua azione in favore degli altri».
Anche l'addetto alle pompe
funebri vive il funerale in maniera diversa. Sua madre non vuole vedere
la salma di Chiara Luce, per ricordarsela da viva. Ma lui la convince ad
andarci, «perché vedrai il corpo di una santa».
Persino chi non
crede vuole esserci alla «festa nuziale», come Chiara Luce l'aveva
battezzata. La calca è tanta, tanto che un'amica sviene, senza però
riuscire a crollare a terra, sostenuta com'è dalla folla. Maria Teresa e
Ruggero riescono persino a cantare, nonostante l'emozione, come aveva
suggerito loro (o ingiunto?) Chiara Luce prima di morire: «Voi
canterete, perché io canterò con voi». E ripetono a più riprese, come
aveva loro raccomandato la figlia: «Ora Chiara Luce vede Gesù». I
commenti parlano di aria di paradiso, di gioia, di scelta di Dio indotta
da quella di Chiara Luce. Dice un amico: «Per la prima volta sono
riuscito a essere sicuro dell'amore di Dio». Un'amica: «Tu che hai avuto
come me sogni, speranze e illusioni, aiutami a far anche della mia vita
un capolavoro». E una gen: «Molte cose ci uniscono: congressi,
giornate, canzoni, esperienze, danze, scherzi fatti insieme... Ma c'è
ancora una cosa che voglio fare in unità con Chiara Luce: farmi santa».
Avvengono vere e proprie "svolte" nella vita di tanti presenti.
Dice
il vescovo Maritano, commosso anche lui, nell'omelia: «Ecco il frutto
della famiglia cristiana, d'una comunità di cristiani, il risultato di
un Movimento che vive l'amore scambievole e ha Gesù in mezzo». Riconosce
la grandezza della testimonianza di Chiara Luce, «testimonianza di fede
che ha trasformato questi due anni di dolore, e di atroci dolori sul
piano fisico; ma quello che trasforma, che fa il miracolo, è l'amore».
Viene letta un'intenzione: «Perché tutti noi incontriamo Dio così come Chiara lo ha conosciuto e testimoniato: come amore».
Una generazione di santi
Di recente Chiara Lubich ha parlato della giovane Badano in un
collegamento telefonico mondiale: «In una delle sue ultime lettere - ha
detto -, Chiara Luce mi confida la sua decisione di voler amare Gesù
abbandonato per sé, e non strumentalizzarlo a proprio beneficio. Quindi
amare il dolore per lui, per Gesù abbandonato, e non tanto perché la
divina alchimia, che conosciamo, lo tramuta in amore. E di dolori Chiara
Luce ne ha conosciuti molti, specie nell'ultimo tratto della sua vita
terrena. Ma aveva capito che erano le perle preziose che andavano colte
con predilezione lungo le sue giornate. Era in particolare nella
sofferenza richiesta dalla fortezza, dalla pazienza, dalla perseveranza,
dalla costanza... (tutte virtù necessarie per potersi dire cristiani in
quei frangenti) che sentiva di poter amare. Era nelle "sorprese", così
chiamava i ripetuti allarmi del suo fisico, che poteva incontrarsi con
lui, veder apparire il suo volto, sfigurato e amante, ed abbracciarlo,
come autentica giovanetta "sposa avvinta ad un Dio abbandonato". Per cui
con lui ha vissuto, con lui ha trasformato la sua passione in un canto
nuziale, se ha voluto, una volta passata di là con la sua anima santa,
vestire da sposa il suo corpo di qua, curando in anticipo ogni
particolare, perché lei, in quel momento, sarebbe stata, così ha detto,
"felice con Gesù"».
Dice il cardinale Martini: «La santità viene a
grappoli, non è soltanto un acino ma il loro insieme che diventa
lievito, sale della terra, luce del mondo». Chiara Lubich sin dalla
nascita dei gen ha voluto proporre ai giovani del Movimento un progetto
alto: «Siate una generazione di santi». Chiara Luce non è sola.