CAPITOLO XVII. - DELLA DIVINA ACCONDISCENDENZA

Un giorno, dopo d'essermi lavata le mani per andare in refettorio,
stavo nel porticato del convento e consideravo lo splendore del sole
che rifulgeva in tutta la sua magnificenza. Pensai fra me: « Se il
Creatore di questo fulgidissimo astro, di cui è scritto: « il sole e la
luna ammirano la bellezza - Cujus pulchritudinem sol et luna mirantur »
(Pont. Romano), se il Signore, dico, che è un fuoco divoratore, fosse
veramente in me, come spesso mi pare che sia, potrebbe il mio cuore
rimanere così freddo e farmi agire con tanta asprezza ne' miei rapporti
col prossimo? ».
Ma ecco che Tu, la cui parola sempre soave, si fa ancora più dolce
quando si tratta di calmare le agitazioni del mio povero cuore, mi
rispondesti tosto: « In che cosa rifulgerebbe la mia onnipotenza se non
avessi la facoltà di contenermi in modo, dovunque io sia, da non essere
sentito, o di non apparire più di quello che conviene al luogo, al
tempo, alla persona? Sappi che, fin da principio della creazione del
cielo e della terra e in tutta l'opera della redenzione, ho manifestato
più la sapienza del mio amore che la maestà della mia potenza: la bontà
di tale sapienza brilla di una luce tutta speciale, quando tollera gli
imperfetti per attrarli amorosamente nelle vie della perfezione, senza
mai violare il loro libero arbitrio ».