La retorica

Il compito dell'oratore
1. Compito dell'oratore, qualora sia stata proposta una questione civile, è prima di tutto quello di capire almeno la questione stessa, se è generale o particolare, semplice o composta di più parti, assoluta o che implica una comparazione. Poi, una volta che lo ha capito, trovare al suo interno i luoghi adatti per la suddivisione e adeguarvi le idee morali e naturali; quindi, giudicare le idee trovate, rinunciare a quelle poco appropriate che gli sono venute in mente ed infine conferire un ordine determinato a quelle che ha preso in considerazione in vista dell'azione giudiziaria. Infatti, anche se si sono trovate molte idee pertinenti, tuttavia, se non sono state collocate in posti ben determinati e, per così dire, legittimi per la loro qualità e importanza, saranno di ostacolo o non riusciranno di grande giovamento. Successivamente, il retore dovrà adeguare alla disposizione stabilita il dispiegarsi delle argomentazioni, che consta di due parti: della qualità della disposizione e del numero delle parole. Si farà carico di tutto ciò la memoria che sia la maggior parte dei Greci sia il maestro Marco Tullio affermano essere particolarmente necessaria all'oratore, se non erro, con queste parole: " Vengo ora al magazzino di tutte le cose, la memoria, che, se non è adibita a custode delle cose trovate e ordinate, comprendiamo che tutti i pensieri, anche se l'oratore ne disponesse di magnifici, sarebbero destinati a morire ". Alla memoria segue l'esposizione che, come sembra a Demostene, è il primo o l'unico tra i compiti dell'oratore; essa si fonda su due elementi: il movimento del corpo e il suono della voce. A proposito dei compiti dell'oratore, sebbene abbia toccato la questione solo superficialmente, per ora quanto ho detto è sufficiente; resta invece da vedere in che cosa consista il fine.
Il fine
2. In tutte le cose ritengo che il fine sia quello a cui tutte si riferiscono e a causa del quale avviene tutto il resto. I Greci lo denominano τ?λος ed è anche ciò che si ricerca in quasi tutte le dispute dei filosofi: quale sia il fine del vivere bene, se la virtù o il piacere, ecc. Di conseguenza, relativamente al fine proprio del compito dell'oratore, alcuni ne hanno individuato uno, altri un altro: ad alcuni è sembrato che il culmine del compito dell'oratore dovesse consistere nel parlar bene, ad altri nel parlare in modo corretto, ad altri ancora nel parlare in modo veritiero, ad altri nel persuadere. Ma, persino quelli che hanno individuato il fine del compito dell'oratore nel parlare bene o nel parlare in modo veritiero, riconoscono tuttavia che il fine di queste cose è il persuadere, di modo che il fine del compito dell'oratore è parlare bene e il fine del parlare bene è persuadere. Quindi, quasi per unanime consenso, il fine del compito dell'oratore è persuadere. Tuttavia sembrava che questa conclusione potesse incorrere in qualche critica (non sempre infatti l'oratore persuade e, se talora non riesce a persuadere, non perde la capacità e il nome di oratore); ebbene, per sfuggire a questo rischio, Ermagora introdusse un'aggiunta e così lasciò scritto che il fine del compito dell'oratore è persuadere, laddove la condizione delle cose e delle persone lo consenta.
3. Successivamente, a partire ancora dal verbo " persuadere " è sorta un'altra critica, di certo trovata da Platone che ne ha trattato ampiamente nel Gorgia, ma in seguito adoperata in modo molto più impudente da alcuni specialisti di retorica, detrattori di Ermagora. Costoro escludono che persuadere sia il fine proprio del compito dell'oratore e dicono che sia un fine comune pressoché a tutti, poiché anche i matematici persuadono intorno a quelle cose di cui sono venuti a conoscenza, anche i medici persuadono intorno a quelle cose che rientrano nella loro arte, anche gli operai e gli artigiani delle botteghe e quanti altri ve ne sono di questo genere, che siano capaci con qualche probabilità di persuadere qualcuno intorno alle loro attività, lo fanno, per così dire, a ragione. Dicono quindi che, siccome non è un fine esclusivo quello che ha un'unica comunanza e che è privo di un carattere suo proprio, l'atto di persuadere è comune a molti e pertanto persuadere non è il fine proprio del compito dell'oratore. Ma anche a questa critica Ermagora si è opposto in modo ben appropriato: sostiene infatti che compito dell'oratore è persuadere, per quanto la condizione delle cose e delle persone lo consenta, soltanto nelle questioni civili. Le questioni dei medici e dei filosofi e tutte le altre di questo genere infatti non rientrano nell'ambito civile, che i Greci chiamano πολιτικ?.
Le questioni civili
4. Sono questioni civili quelle la cui cognizione completa può rientrare nella comprensione comune della mente, cioè in ciò che i Greci chiamano κοιν? ?ννοια. Comunque, perché si capisca più facilmente in che consista questa condizione, che vogliamo che sia dimostrata, sono di questo genere tutte le cose che si ha vergogna di non sapere. E le cose che, anche ignorandole, tuttavia le esponiamo come se le sapessimo, ogniqualvolta che sono messe in dubbio, danno luogo ad una questione civile. È di questo genere ciò di cui intendo dire. Se ci si interroga sul peso di qualche cosa, non c'è da vergognarsi se sembra che tu non sappia di quante libbre sia; come pure non c'è da vergognarsi se, a proposito della sua lunghezza, sembra che tu non sappia di quanti piedi sia; lo stesso vale anche a proposito di tutte le altre cose di questo genere, che sarebbe lungo descrivere. Perciò, tutte le volte che tali cose sono messe in dubbio, ancorché diano luogo ad una questione, tuttavia non possono dar luogo ad una questione civile. Ma quando si chiede se qualcosa è giusto o ingiusto, onesto o disonesto, da lodare o da biasimare, da premiare o non premiare, utile o inutile, e altre cose di questo genere, se ce ne sono, a nessuno, anche se è posto al di fuori di ogni arte e scienza, è consentito di non arrossire, se sembra che ignori queste cose. Di conseguenza, è ciò di cui tutti sono persuasi o di cui certamente non esitano a persuadere gli altri, che permette loro di concepire nella mente la differenza tra giusto e ingiusto, tra onesto e disonesto, e tra tutte le altre cose di cui abbiamo detto sopra. E per questo i dubbi che insorgono relativamente alle cose di questo genere sono chiamate questioni civili, come a dire che non sono proprie di pochi, ma comuni a tutti quanti. Stando così le cose, a ragione le questioni che possono essere percepite dalla comprensione comune della mente, che possono essere afferrate dalla κοιν? ?ννοια, sono chiamate civili; e tali sono quelle delle quali l'oratore dovrà occuparsi e nelle quali dovrà distinguersi.
I generi di questioni civili
5. Due sono le maniere principali e, per così dire, generali di darsi delle questioni civili, l'una delle quali è chiamata dai Greci tesi e l'altra ipotesi. Alla prima non possiamo che dare il nome greco; però neppure alla seconda diamo un nome latino, per quanto possa sembrare il contrario: di certo la chiamiamo " controversia ", ma questo nome si applica tanto alla tesi quanto all'ipotesi, poiché in entrambe si dà una questione, cioè una controversia. D'altra parte, lo stesso nome composto rende manifesto che il significato di ipotesi è qualcosa che è ?π? τ?ν θ?σιν, cioè come una specie sotto quel genere.
La differenza tra tesi e ipotesi
La tesi è una questione che ammette una considerazione razionale senza la definizione della persona; l'ipotesi o controversia, per servirci di un nome improprio, è la questione che ammette una discussione razionale con la definizione della persona. Ma la loro natura sarà meglio chiarita con un esempio: la tesi è una questione di questo genere: " Si deve navigare? Si deve filosofare? ", l'ipotesi è una questione di questo genere: " Si deve assegnare un premio a Duilio? " Non mancano coloro che accusano Ermagora anche di questo e Apollodoro è tra i primi; mentre sembra che Ermagora abbia distinto questi due generi di questione, egli invece esclude che l'ipotesi sia qualcosa di diverso dalla tesi e che il discrimine delle persone abbia qualche importanza. Per lui infatti la questione dell'ipotesi non sarebbe meno indefinita e indeterminata di quella della tesi: nel caso in cui ci si chieda se si debba punire o no Oreste, non è la persona che provoca la questione, ma il fatto, e non c'è nessuna differenza rispetto al caso in cui ci si chiede se si debba o no punire un matricida. Ebbene, se le cose stanno così, non c'è nulla che distingua la tesi dall'ipotesi.
6. Ma così replicano i nostri : prima di tutto la qualità delle persone apporta una differenza nelle questioni e spesso capita che anche nelle stesse ipotesi, cioè nelle controversie, sembra che si debbano lasciare puniti o impuniti, onorati o disonorati alcuni fatti non tanto per la loro qualità, quanto per il rango della persona; in secondo luogo, questi due generi di questioni differiscono anche perché nella tesi si indaga su qualche cosa per sapere di che natura sia, mentre nell'ipotesi si discute, e tra la tesi e l'ipotesi c'è una differenza tanto grande quanto quella che c'è tra l'indagine e la discussione. Infine, nella tesi si cerca che cosa sia opportuno che tutti facciano, nell'ipotesi invece che cosa sia opportuno che faccia l'uno o l'altro o pochi di più e, in ogni caso, un numero definito di uomini. Si aggiunge anche la differenza che nella tesi cerchiamo che cosa sia meglio fare come se non lo conoscessimo, nell'ipotesi invece lo difendiamo come se lo conoscessimo. C'è poi il fatto che ogni tesi è relativa al futuro, l'ipotesi raramente: che anzi non si fa mai questione se non del passato o di ciò che si sta ancora facendo. Nessuno infatti può diventare un imputato, se non ha fatto o non è accusato di aver fatto qualcosa, e nessuno può richiedere un premio o qualcosa di simile, se non lo ha già meritato o assicura fermamente di averlo meritato. Su questo punto i nostri avversari oppongono i rei di tirannide, di tradimento, di avvelenamento e di parricidio non eseguito e di tutto ciò che si può immaginare di simile. Ma essi falliscono in questo intento di accusare; infatti, anche a proposito di colui che è reo di tradimento, non si indaga su un evento futuro, cioè sul tradimento stesso, ma su ciò che in ogni caso è avvenuto prima, ossia se egli ha preso la decisione di tradire. Allo stesso modo si indaga sulla tirannide, cioè se ha premeditato la tirannide, e così pure sul parricidio non compiuto e sull'avvelenamento. Quindi, nell'ipotesi la questione nasce sempre riguardo al passato o riguardo al presente, mentre nella tesi sempre riguardo al futuro. Se le cose stanno così, si è mostrata in modo sufficiente la diversità dell'una dall'altra.
La differenza tra le circostanze
7. Ora, poiché di certo si è detto abbastanza sulla differenza tra le questioni generali e quelle particolari e la tesi è stata distinta dall'ipotesi in modo da essere diversa sia per l'oggetto che per il nome, sembra conseguente parlare di ciò che produce l'ipotesi, ossia la controversia. Si tratta cioè della circostanza degli eventi, che Ermagora chiama περ?στασις, in assenza della quale non si può dare assolutamente nessuna controversia. Ma che cosa sia la peristasi, si può afferrare più facilmente dalla enumerazione delle sue parti che non dalla sua definizione. Sono dunque sette le parti della circostanza, cioè della peristasi, che Ermagora chiama μ?ρια περιστ?σεως, mentre Teodoro le chiama στοιχε?α το? πρ?γματος, cioè elementi, perché le questioni nascono dalla loro combinazione, così come anche i nomi e i verbi nascono dalla combinazione delle lettere. Ma che se si devono dire più correttamente στοιχε?α o μ?ρια, per ora lasciamo da parte la controversia circa il nome e diciamo piuttosto che cosa essi siano di per se stessi. Sono dunque questi: chi, che cosa, quando, dove, perché, come, con quali mezzi, che i Greci chiamano ?φορμα?. Un'aggregazione razionale di tutti o di parecchi di questi elementi dà luogo ad una questione. Ma naturalmente bisogna spiegare la natura propria di ciascuno.
8. " Chi " significa la persona considerata da due diverse angolazioni: secondo il nome e secondo la qualità. È riguardata secondo il nome così: " Chi? Camillo, C. Mario, L. Silla "; è riguardata secondo la qualità in quest'altro modo: " Chi? Un ricco e un povero, un generale ". L'indagine, per quel che concerne i nomi, è definita; invece, è senza fine riguardo alla qualità delle persone, poiché, mentre nella denominazione non vi rientra che il nome, nella qualità invece vi rientrano la sorte, l'età, la condizione sociale, l'educazione e tutte le altre cose, che sono di numero indefinito. " Che cosa? " significa la cosa che qualcuno sembra aver fatto o detto o pensato oppure che stia facendo o dicendo o pensando oppure che farà o dirà o penserà, buona o cattiva, onesta o disonesta, giusta o ingiusta, utile o di ostacolo, necessaria o poco necessaria, grande o piccola, abituale o nuova. " Quando? " significa il tempo, come nel caso di " di giorno o di notte, in un giorno sacro o non sacro ". Si usa anche a proposito di eventi che talora conferiscono al tempo una sua qualità, come: " In tempo di guerra o in tempo di pace, durante una sommossa o in un periodo di concordia, in libertà o sotto un dominio " e quanto altro può rientrare in questo genere. " Dove? " significa il luogo, come " in città o fuori, in un luogo sacro o in un luogo profano, in mare o in terra ". " Perché? " significa la causa del fare o del dire o del pensare, cosa, secondo la mia opinione, particolarmente necessaria per costituire una questione. " Come? " significa la modalità secondo cui qualcosa si è fatto o si sta facendo o si farà, come " di nascosto, palesemente, con violenza, con dolo " e quanto di simile rientra nel medesimo genere. Le ?φορμα?, che noi chiamiamo mezzi, indicano le cose mediante le quali si dice che qualcosa è stato fatto, come lo sono un laccio, una spada, il veleno, uno scritto, un messaggero, i comandi, un servo, un complice, un sicario. Come ho detto sopra, il confluire in modo razionale di queste componenti, di tutte o della maggior parte, produce una questione civile.
Le questioni razionali
9. Le questioni razionali sono quelle che Ermagora chiama logiche. Ritiene infatti che sia meglio denominarle così, anziché verbali, perché i maestri della disciplina le hanno chiamate logiche non in base al significato di verbum, ma di ragione, sebbene λ?γος significhi talora verbum e talora ragione. Dunque, le questioni razionali o logiche si danno in quattro modi, poiché in esse si cercano queste cose: se un fatto sia, in cosa consista, di che natura sia, se debba essere portato in tribunale. Laddove ci si chiede se sia, Ermagora chiama stocasmovn questo genere di questione e noi lo possiamo denominare " congettura ". Teodoro invece lo chiama περ? τ?ς ο?σ?ας, cioè intorno alla sostanza : niente infatti può avere le sembianze di un fatto se non ha una sostanza o se non l'avrà o se non è sul punto di averla. Alcuni chiamano questo genere di questioni " se sia ", per il motivo che riguarda ciò in vista di cui si cerca. La seconda questione razionale è quella che Ermagora chiama " il fine ", Teodoro περ? τ?ς ?δι?τητος, cioè intorno alla proprietà; alcuni la chiamano " che cosa sia ", altri ancora περ? το? α?το? κα? θατ?ρου, cioè intorno all'identico e al diverso. La terza questione è chiamata da tutti con un solo nome, " qualità ".
10. Intorno alla quarta, che sopra abbiamo denominato " del portare in tribunale ", c'è grande discussione. Molti, infatti, escludono che sia una questione, poiché consiste nel tentativo di evitare che il fatto sia sottoposto a processo; su tutti però primeggia l'autorità di Ermagora, il quale non solo la reputa una questione, ma anche particolarmente necessaria e molto discussa negli affari pubblici e tale che, se la condizione della causa lo consente, deve essere sollevata anche negli altri generi di questioni subito, sin dalla prima udienza. Ritengo infatti che niente interessi tanto coloro contro i quali è intentato un processo, quanto l'evitarlo. D'altra parte, il fatto stesso di evitare il processo ha una qualche parvenza di processo. Infatti, se la cosa si svolgesse in modo tale che, tutte le volte che qualcuno non vuole che la sua causa sia portata in tribunale, egli avesse il potere di ottenerlo, non vi sarebbe nessuna questione. Ora, poiché ci sono sempre quelli che vi si oppongono, ebbene lo stesso contrasto per cui l'uno chiama in giudizio, mentre l'altro rifugge dall'aderirvi produce la questione. Ermagora chiama μετ?ληψις questo genere di controversia; pochi dei nostri l'hanno chiamata " confutazione ", i più invece " traslazione ", di certo seguendo entrambi la ragione. Coloro che l'hanno chiamata
" confutazione ", lo hanno fatto sicuramente perché, soprattutto quando la causa è portata in tribunale, è confutata e come respinta; coloro invece che l'hanno chiamata " traslazione ", lo hanno fatto perché l'imputato non annulla affatto l'azione del processo, ma, per sottrarsi al suo immediato svolgimento, la trasferisce in un altro genere di processo, o già tenuto o da tenersi.
Le questioni legali
11. Parimenti, ci sono altre quattro questioni denominate νομικα? da coloro che le hanno individuate e che noi chiamiamo " legali ". I nomi di tali questioni sono: " la lettera e lo spirito ", che essi chiamano ?ετ?ν κα? δι?νοια; l'?ντινομ?α, che noi chiamiamo " conflitto delle leggi contrarie "; l'ambiguità che essi chiamano ?μφιβολ?α; la ricapitolazione, che essi chiamano σιλογισμ?ς. Ma tratteremo queste cose con più accuratezza un po' più avanti, in modo che il significato di ciascuna sia espresso in modo assai più chiaro ed ai generi si aggiungano le specie.
Nel frattempo mi sembra che si debba parlare di quegli elementi mediante i quali ogni questione raggiunge la sua specie compiuta, come se fosse ripetutamente legata con nodi. Si tratta di qualcosa che è detto e che i Greci denominano φ?σις; questo si scinde in due parti, di cui l'una è la κατ?φασις l'altra l'?π?φασις. La κατ?φασις (non basta infatti formulare l'affermazione) possiamo chiamarla l'accusa fatta con la parola, ovvero la parola con cui si muove un'accusa, come: " Hai picchiato, hai tradito, hai ucciso ". Ciò che invece essi chiamano ?π?φασι ς, noi la chiamiamo negazione dell'accusa mossa dall'accusatore, come: " Non ho picchiato, non ho ucciso, non ho tradito ". Da queste due, cioè dall'affermazione e dalla replica, o dall'accusa e dalla negazione, nasce una questione intermedia, del tipo: l'accusa è " hai ucciso ", la negazione è " non ho ucciso ", la questione è " se ha ucciso ". Ma, per discostarci ormai dalla modalità della congettura, l'accusa è: " Hai ucciso ingiustamente ", la negazione è: " Non ho ucciso ingiustamente ", la questione è " se ha ucciso secondo la legge "; o, secondo una impostazione di tipo legale, l'accusa è: " Non ti era consentito farlo per legge ", la negazione è: " Mi era consentito farlo per legge "; la questione è: " Se era consentito farlo per legge ".
12. Come abbiamo detto finora, da alcuni questa è stata chiamata questione, da altri status, evidentemente perché vi trovano luogo sia l'esordio sia la conclusione della questione. All'inizio infatti, quando da una parte si dice che è stato commesso qualcosa e dall'altra invece si nega che sia stato commesso, è come se fossero a distanza, per cui non c'è nessuno scontro, ma è come se ci si preparasse al futuro scontro; poi, quando ci si avvicina e si viene quasi alle mani, emerge la questione, in una forma intermedia tra l'alterco e la reciproca accusa, se sia stato o no commesso. Ci rientra l'una e l'altra ipotesi, dal momento che è stato accantonato ciò che ciascuno prima diceva. Per questo, a tale questione è stato dato il nome di status. Teodoro la chiama κφ?λαιος, facendo uso evidentemente di un traslato preso dalla parte principale del corpo, perché anche in questa congiunzione di due elementi, rappresentati dalle cose dette dall'una e dall'altra parte, si forma in qualche modo un capo dell'intera controversia.
13. A questa segue la parte, altrettanto o anche più necessaria, con la quale si dimostra che cosa sia la causa, in che cosa consista il punto principale della difesa e che cosa sia ciò intorno a cui si contende. Ermagora chiama α?τιον la causa, συν?χον il punto principale della difesa, κριν?μενον ciò intorno a cui si contende. La causa è dunque quella di cui, se non viene prima, non può esserci la controversia. Quanto dico sta in questi termini: " Un figlio è diseredato dal padre ", perciò non è una controversia, poiché prima non c'è stata nessuna causa perché fosse diseredato dal padre. Quindi aggiungiamo la causa e abbiamo subito la controversia: " Ha giurato di non sposarsi ed è diseredato ". Il fatto che ha giurato è diventato l'α?τιον, cioè la causa per cui ha meritato di essere diseredato. Il συν?χον, cioè il punto principale della difesa, è ciò che sembra essere addotto per respingere l'α?τιον, cioè per confutare la causa, come avviene in questa argomentazione: " Un generale uccise un soldato che aveva giurato di disertare e fu accusato di omicidio ". Qui l'α?τιον, cioè la causa del processo, è che ha ucciso: infatti non sarebbe diventato un imputato se non avesse ucciso; il συν?χον, cioè il punto essenziale della difesa, è il motivo per cui ha detto di aver ucciso e naturalmente il giuramento con cui il soldato aveva giurato che avrebbe disertato. Questo, Ermagora alcune volte lo chiama συν?χον, cioè il punto principale della difesa, perché vi è contenuta ogni difesa dell'imputato, altre volte invece lo chiama α?τιον α?τ?ου, come se fosse la causa della causa: infatti, come la causa del reato è che il generale ha ucciso il soldato, così la causa dell'uccidere è che il soldato ha giurato che avrebbe disertato.
14. Ora, dato che sappiamo che cosa è la causa, che cosa è il punto principale della difesa, vediamo anche che cosa è ciò intorno a cui si contende, cioè che cosa è τ? κριν?μενον. Invero il τ? κριν?μενον non è altro che l'esame del συν?χον, cioè del punto essenziale della difesa. Questo è quanto voglio dire; in realtà però penso che dobbiamo perseverare nella medesima controversia affinché risultino più chiari gli elementi che presentiamo. L'α?τιον è data dal fatto che questo generale ha ucciso un soldato; il συν?χον è dato da ciò su cui l'imputato fa affidamento, cioè dalla ragione per cui dice di aver ucciso, la quale appunto è costituita dal fatto che il soldato ha giurato che avrebbe disertato. Il κριν?μενον è l'esame del motivo stesso che l'imputato ha portato a sua difesa. In questo esame si ricerca quanto segue: se c'è stata un'altra causa per il generale per uccidere il soldato e se questa causa è nascosta da un pretesto, di modo che appaia che è stato ucciso non perché ha giurato, ma per una qualunque altra causa, o di rivalità o di invidia. Siffatto elemento si potrebbe trattare anche in questo modo e cioè se, nonostante abbia giurato, tuttavia questa giusta causa non sia sufficiente perché egli debba essere ucciso. E l'indagine completa dell'intero συν?χον, che si adduce per l'α?τιον, è chiamata κριν?μενον. Talora tuttavia accade che in una controversia l'α?τιον, il συν?χον e il κριν?μενον siano esposti non una sola ma più volte, cambiati tutti di posto, come in questa controversia: " Reo è Ulisse di oltraggio nei confronti dello Stato, perché ha ucciso i Proci ". Qui infatti l'α?τιον è che ha ucciso, α?τιον α?τ?ου o il συν?χον è che ha ucciso coloro che lo depredavano dei suoi beni e insidiavano l'onore della moglie; il κριν?μενον è se, nonostante che queste cose vengano prima, tuttavia egli abbia ucciso per un'altra causa, che è nascosta da un pretesto, oppure se non avrebbe dovuto ucciderli senza una condanna formale, benché essi si fossero comportati assai male nei suoi confronti. Poi a questo κριν?μενον Ulisse aggiunge un altro συν?χον con il quale dice di avere ucciso per comando di Minerva; quindi è lo stesso συν?χον che diventa un κριν?μενον, perché si cerca se abbia ucciso non a causa del comando di Minerva e se, in una situazione di tal genere, non avrebbe dovuto obbedire neppure a Minerva. L'?ιτιον comunque è cosa propria dell'accusatore, il συν?χον del difensore, il κριν?μενον è comune ad entrambi.
Le controversie asystatae
15. Poi credo che si debba dire come e in quanti modi si dia una controversia asystata, instabile, sebbene non sia affatto opportuno chiamare controversie quelle che non hanno uno status, ma che sono combinazioni di parole assurde, vale a dire prive di ragione. Ora si danno quattro generi di controversie instabili. Un primo genere si ha quando manca qualcosa relativamente alla circostanza (e quale sia il valore della circostanza lo abbiamo detto sopra), cioè quando alla questione manca o la causa o la persona o il luogo o uno di quegli elementi di cui abbiamo detto che è costituita la circostanza. Questo genere di controversia instabile non può far parte della materia d'insegnamento per il motivo che, in mancanza della circostanza, non è possibile neppure inventarsi un tema. Tuttavia, talora, nella pratica dell'attività giudiziaria accade che manchi qualcuno di questi elementi e che, per sconsideratezza dell'accusatore, sia portata davanti al giudice una causa pressoché risolta. Il secondo genere di controversia instabile è quello che chiamano κατ??σ?τητα. Anche se non possiamo dargli un nome latino, tuttavia dobbiamo capirne la natura. Infatti, quando l'una e l'altra parte dicono le medesime cose e queste non si differenziano per nessun particolare, ancorché piccolo, allora una combinazione di parole di questo genere mette scompiglio nello status a causa dell'eguaglianza delle due parti, come nel caso di: " Dei giovani vicini, che avevano delle belle mogli, nottetempo si sono incontrati: si accusano a vicenda di adulterio ". Qualunque cosa infatti dica una parte, è inevitabile che l'altra dica così:
" È verosimile che tu abbia voluto commettere un adulterio, poiché sei giovane ". " Anche per te è verosimile che lo abbia voluto, perché sei giovane ". " È verosimile perché ho una bella moglie ". " Anche per te è verosimile, perché anch'io ho una bella moglie ". " La vicinanza ti ha fornito l'opportunità ". " Anche a te la medesima vicinanza ti ha fornito l'opportunità ". " Perché di notte ti sei imbattuto in me? " " Perché tu invece ti sei imbattuto in me? " Non c'è niente che dia luogo ad una distinzione e pertanto ciascuno di essi, se accusa l'altro, incolpa se stesso; se giustifica se stesso, difende colui che sembra dover essere incolpato.
16. Il terzo genere di controversie instabili è quello che i Greci chiamano κατ??τερομεν?αν. Si ha quando l'imputato non ha nessuna difesa, o perché nel fatto non si trova il motivo, o perché quello che vi si trova appare poco probabile. Per questo anche il mio precettore Democrate era solito dire che sono prive di status anche quelle controversie nelle quali il motivo richiede una lunga ricerca. Ed egli in modo piuttosto risoluto diceva: se viene addotto in difesa qualcosa di poco probabile, noi lo accettiamo; ma se la causa è palesemente piena di lacune, la respingiamo, come si deve fare, in base all'eteromeria. Talora, soprattutto nella pratica dell'attività, capitano alcune questioni che accordano tutte le possibilità all'accusatore e nessuna all'imputato; ma queste in verità non le chiamiamo controversie, bensì luoghi comuni, poiché di certo in esse non si dà la prova di un atto criminoso, ma qualcosa di simile all'esposizione di un misfatto chiaro e palese. Il quarto genere di controversia instabile è anche il più oscuro, al punto che talora suole trarre in inganno perfino gli uomini dotti, poiché ha una qualche parvenza di materia probabile e consistente. È di questo genere quella a proposito della quale il giudice non è in grado di trovare la motivazione per emettere una sentenza. I Greci chiamano questa controversia ?πορος; noi la presentiamo con questo esempio: " Uno chiedeva ad un altro l'interesse come per un credito di denaro; l'altro riconosceva di aver ricevuto il denaro, ma in deposito, e perciò di voler restituire il capitale senza interesse. Frattanto, mentre il processo non era ancora concluso, fu approvata una legge che annullava i debiti pregressi: l'uno reclama il pagamento del denaro come se si fosse trattato di un deposito, l'altro non lo rende come se si fosse trattato di un credito ". In questo caso non vedo quale via il giudice possa seguire nel pronunciare la sentenza, dal momento che il querelante prima dice di aver dato in credito la stessa cosa che poi dice di aver dato in deposito, e l'altro prima dice di aver ricevuto il denaro in deposito, poi di averlo ricevuto in credito, e nessuno dei due impiega la sua prima affermazione, ma entrambi impiegano ciascuno l'affermazione precedente dell'altro.
Le figure delle controversie
17. In una certa misura, sembra che abbia una qualche pertinenza con l'argomento anche la conoscenza delle figure delle controversie e degli aspetti per i quali esse differiscono. Tutto ciò sarà tanto più chiaro a seconda del modo in cui tratteremo ciascuna. Si danno quattro schemi, cioè quattro figure di controversie: l'?νδοξος, che possiamo dire di alta credibilità; l'?μφ?δοξος, che possiamo dire di credibilità media, cioè alta e bassa insieme; il παρ?δοξος, che possiamo dire di bassa credibilità, anche se alcuni che parlano il greco con poca esattezza con questo termine intendono le controversie di alta credibilità. Per questo comunemente chiamano παρ?δοξος anche i campioni olimpici e gli altri vincitori delle gare sacre greche, indotti a ciò più dalla consuetudine che dalla ragione, perché, se non erro, παρ?δοξος equivale a παρ? τ?ν δ?ξαν, contro l'alta credibilità. Ebbene, altrove abbiamo preferito riconoscere come idoneo il significato comune di questo nome, tuttavia in questa sede dobbiamo prenderlo non già secondo l'impiego abituale della consuetudine ma, piuttosto, secondo quello che prevede la regola, anche se molte cose sono denominate in modo nuovo tanto dai maestri di retorica quanto dai filosofi. La quarta specie di controversia, che in greco si dice ?δοξος, è quella che non possiamo dire di bassa credibilità come si dice comunemente, ma di nessuna credibilità; cioè è una controversia senza importanza e senza significato. Ma tutto ciò sarà mostrato in modo evidente mediante esempi.
18. L'?νδοξος è un genere di controversia in cui tanto la persona quanto il fatto sono onesti, come: " Scipione, dopo aver vinto i Cartaginesi, chiese in premio di assistere ai giochi incoronato d'alloro ". Appunto onesta è la persona di Scipione e ciò che viene richiesto non è riprovevole. L'?μφ?δοξος è un genere di controversia in cui o la turpitudine del fatto macchia l'onestà della persona, come nel caso in cui Scipione chiedesse, a titolo di premio, la morte di Tiberio Asello: onesta, infatti, è la persona di colui che chiede, non onesta invece è la cosa richiesta; oppure, al contrario, la turpitudine della persona macchia l'onestà del fatto, come nel caso in cui una persona diseredata si sia comportata in modo coraggioso e chieda, a titolo di premio, di tornare alla casa paterna: la persona che chiede, infatti, poiché è la persona di un diseredato, non è onesta, mentre la cosa che chiede, cioè di fare ritorno alla casa paterna, è onesta. Il παρ?δοξο& sigmaf; è un genere di controversia, come l'ho definito sopra, in cui tutte e due le cose sono disoneste, tanto il fatto quanto la persona, come in questo caso: " L'imputato di atti osceni si è comportato in modo coraggioso: chiede, a titolo di premio, la morte del suo accusatore ". Infatti, dal momento che è stata imputata di atti osceni e nonostante che abbia diminuito la propria turpitudine per essersi comportato in modo coraggioso, sia è disonesta la persona di colui che chiede, sia è riprovevole la cosa che chiede. L'?δοξος è il genere di controversia priva di qualsiasi credibilità, senza importanza e senza significato. " Un povero vendeva vestiti: si presentò un altro povero che li rivendicava, dicendo che gli erano stati rubati. Il venditore dice di aver preso quei vestiti a un adultero colto in flagrante. Si accusano a vicenda: quello di adulterio, questo di furto ". In questo caso, infatti, sono prive di importanza sia le persone dei poveri sia la causa che ha generato la questione, vale a dire la rivendicazione e il riconoscimento dei vestiti. E, per quanto vi intervenga un'accusa di adulterio, che non è affatto insignificante, tuttavia, poiché la maggior parte delle cose che ricorrono nella circostanza (?ν τ? περιστ?σει) sono prive di importanza e di significato, esse contraddistinguono per sé la specie dell'intera controversia. Ma, saper riconoscere queste figure delle controversie è conveniente per molte altre cose. Lo è soprattutto per questo scopo, per poter trovare una modalità di inizio, cioè un tipo di introduzione appropriata alla natura della materia. L'introduzione, d'altra parte, non deve essere della medesima specie nell'éndoxo, nell'anfìdoxo, nel paràdoxo e nell'àdoxo, ma piuttosto deve assumere per ciascuno la sua forma appropriata.
19. Ora, innanzitutto Ermagora esclude che si debba fare un'introduzione nel genere éndoxo. Dice infatti che, se siamo soliti fare un'introduzione per accattivarci la benevolenza, dal momento che in un tema di alta credibilità come è quello di Scipione sono già benevoli quelli ai quali stiamo per parlare, non è affatto necessario preparare ciò che è già pronto. A me però sembra che le cose stiano in un modo assai diverso, e lo dirò con buona pace di un così grande uomo: non sempre infatti l'autorità deve essere rispettata, specialmente quando è vinta dalla ragione. Penso dunque che nulla vieti che almeno si faccia un'introduzione nel genere éndoxo; ritengo infatti che non ci sia niente di male a rendere i giudici benevoli ancora più benevoli con un'introduzione, di modo che, vedendoli mal disposti verso i nostri avversari, con il parlare cerchiamo di aumentare questa loro cattiva disposizione. Del resto, anche i flautisti, i suonatori di cetra e altri artisti di questo genere fanno un'introduzione, per quanto non offrano al pubblico un discorso. Ora, è indubbiamente mozzo e privo di un capo un discorso che, prima dell'azione giudiziaria, incominci, senza l'introduzione, dall'argomento stesso che è in discussione. Perciò utilizziamo i prologhi anche nelle controversie dalla materia di alta credibilità, rendendoli più brevi però, più diretti, franchi e pieni di dignità, ma senza alcuna iattanza, affinché la cosa non generi malevolenza, come invece avviene nel prologo di Marco Tullio contro il discorso di Metello, ove sembra comportarsi in modo insolente nei confronti del tribuno della plebe quando dice: " Su che cosa si basa la forza, se non su se stessa? E così, credo, inseguirò un fuggitivo perché non mi è consentito di combattere con uno che oppone resistenza " 1. Di certo, non avrebbe mai cominciato a parlare così enfaticamente sin da subito in un esordio, se la persona dell'accusatore non fosse stata onesta e se l'argomento di cui stava per parlare non fosse stato non riprovevole.
Allo stesso modo, si è comportato in un altro passaggio, mentre parlava della punizione dei congiunti: " Vi vedo tutti, senatori, rivolti con il viso e con gli occhi verso di me " 2. Anche gli esordi successivi hanno tutti questa caratteristica: che colui che parla sembra a buon diritto confidare sia nella propria eccellenza sia nelle cose di cui sta per parlare, come se fossero di grande onorabilità. In Caio Gracco (quanto più nobile fu costui!) la maggior parte degli esordi di questo genere sono di spirito più nobile: nessuno di certo sopporterebbe M. Erucio o qualcuno della banda dei Cannensi se dicesse queste cose.
20. Nel genere amphìdoxo si dovrà usare una certa moderazione quando proponiamo gli esordi per diminuire, stemperandola, la turpitudine che vi è sotto, oppure per aumentare, mettendola in luce, la dignità insita nel fatto o nella persona. Così mescoleremo l'una e l'altra in maniera varia, di modo che la rispettabilità dell'una parte copra la turpitudine dell'altra, ma non con la stessa ostentazione che si riscontra nel genere precedente, bensì, per così dire, con un certo audace pudore. Se la turpitudine è nella cosa, per quanto si potrà fare, richiameremo l'attenzione del giudice sulla dignità della persona; se è nella persona, ripiegheremo sulla dignità della cosa,come per rifugiarci da un luogo pericoloso in uno più sicuro, restando tuttavia alla superficie del problema e procedendo con mano leggera, così da sembrare che disdegniamo il sospetto della paura piuttosto che la paura stessa. Una volta mescolate insieme la dignità della cosa e quella della persona, ci sforzeremo anche di sembrare più fiduciosi nell'onestà piuttosto che nella paura della turpitudine. Ma affinché si afferri più chiaramente questo modo di incominciare, porterò l'esempio del comportamento tenuto da Marco Tullio quando parlava a favore di M. Scauro: si trattava infatti di una controversia di genere amphìdoxo, poiché faceva leva sulla dignità della persona di M. Scauro, che tuttavia era gravata dalla turpitudine dell'accusa di estorsione. Nell'introduzione l'oratore mescolò subito entrambe, in modo da coprire la turpitudine dell'accusa con la dignità della persona, e fece questo in maniera né troppo ampia né eccessivamente smisurata, ma tale che lasciasse emergere anche un certo sospetto di paura: " Non c'era cosa, giudici, che Marco Scauro avrebbe potuto desiderare più vivamente, senza provocare l'odio, l'antipatia e il malcontento di nessuno, che ecc. " 3.
21. Nel genere paràdoxo, cioè nel genere dalla materia di bassa credibilità, dove saranno in difficoltà in egual misura tanto la dignità della persona quanto quella del fatto, bisognerà servirsi di prologhi più lunghi e ci si dovrà adoperare per liberarsi dei sospetti: si dovrà parlare in tono dimesso tanto per le idee quanto per le parole, anche nei limiti dell'adulazione e del grido di dolore, come se contro di noi, per invidia, fosse stata scagliata una falsa accusa e fosse stato ordito un falso discredito, e con tutto il corpo in atto di sottomissione: conformati alla verecondia, con il volto basso, gli occhi rivolti a terra, senza tuttavia guardare neppure quest'ultima in modo malevolo, ma, se possibile, anche facendo finta di sospirare.
Nel genere àdoxo, cioè nel genere dalla materia senza importanza, i prologhi devono essere prossimi al discorso, senza idee che mirano in alto, senza parole eccessivamente ricercate e senza una costruzione troppo solenne, ma, in qualche modo, sciolta e semplice. Peraltro, la forza di tutte le idee che impieghiamo in questi prologhi dovrà essere tale da far passare il fatto dalla particolarità all'universalità e da indurre a considerare interesse di tutti che quel fatto sia sottoposto a giudizio, perché quanto più piccoli sono i fatti di cui si tratta, tanto più frequentemente e, in maggior quantità, essi possono capitare a molti. E, più che all'importanza dei fatti e delle persone, è al principio del giusto e dell'ingiusto, del vero e del falso che si deve guardare, dal momento che la loro forza è la medesima nelle cose più piccole come in quelle più grandi. Un gran numero di prologhi di questo genere si trovano in Demostene, nei libri intitolati Orazioni private, e ancora di più in Lisia e in altri dei nostri antichi. Lo stesso M. Tullio, nella sua difesa di Archia, non cominciò di certo in un altro modo.
1 - Cic., C. contion. Metelli frg. 1.
2 - Cic., Catil. 4, 1.
3 - Cic., Pro Scaur. frg. 1.